Tirotto e la stanza chiusa

Castelsardo, 23 agosto 2023

Giuseppe Tirotto, La stanza chiusa, Catartica edizioni

Castelsardo, 23 agosto 2023.

La serata di oggi è iniziata con la lettura da parte di Cristina Ricci della celebre poesia di Giuseppe Tirotto da noi premiata ad Ozieri nel 2019 dedicata a Lu spìriddu di lu tempu, con i ricordi evocati dall’ambiente che conosciamo nel profondo,  perché ancora il passato abita dentro di noi,  altru no semmu / che lu passadu chi drentu ci istragna, altro non siamo che il passato da cui siamo abitati.

Il poeta Giuseppe Tirotto è capace in pochi versi di far riemergere  un mondo che amiamo, specie quando cala la sera alla fine dell’estate,  e la pioggia cade leggera come un sogno di bimba, lasciandoci ancora intravvedere un orizzonte marino, presso un ruscello che profuma di erbe e di sale: e il profumo risveglia la memoria, i ricordi, le nostalgie come una musica lontana, fatta di suoni che arrivano fino a sas intragnas, che fa superare le distanze nello spazio e nel tempo, riportandoci istantaneamente a cogliere i profili della costa, gli scogli che vegliano in ghjru in ghjru a la mé rocca,  di fronte all’isola di Eracle che chiude il nostro sguardo, l’Asinara; ma anche i lineamenti delle persone, se è vero che il profumo di luoghi come questi che ci appartengono riesce a stimolare la memoria, a riportarci ad esperienze vissute, a collocarci in una relazione con gli altri che il rumoroso e sguaiato mondo turistico di questi tempi rischia di perdere irrevocabilmente.

Cicerone parlando della Sardegna diceva che si respira nell’isola un non so che particolare, capace di riportare alla mente coste dimenticate, sed habet profecto quiddam Sardinia adpositum ad recordationem praeteritae memoriae. E lo diceva a proposito di Olbia e del tempo, che in Sardegna si misura in altro modo, nel rapporto tra otium di cui si può godere in Sardegna e negotium che invece caratterizzava la vita tumultuosa di Roma.  Cicerone non dimenticava l’Aristotele della Fisica e il sonno che guarisce davanti agli eroi della Sardegna annullando il trascorrere del tempo. Ora che il chiasso del turismo di massa travolge tutto, forse le cose sono cambiate, ma ancora ci illudiamo che la Sardegna sia rimasta sempre uguale a se stessa, immobile nella sua bellezza, capace di conservare una improbabile purezza primitiva e un’ingenuità immutabile dall’età dei giganti.

Dunque i ricordi, il tempo trascorso che ora possiamo osservare sconvolto da  unu ventu attruppugliaddu, perché tutto si mischia, il prima e il poi non si distinguono, i rimpianti gonfiano il cuore dei protagonisti, che si scambiano i ruoli e che portano con se esperienze terribili ma anche passioni senza fine.

Mi piace molto la parola attruppugliare, che indica afflizione violenta, confusione, fretta, ma anche voglia di mischiare gli eventi spinti da un vento incontrollabile, i fatti, le persone, come mescolando le carte: questa nel romanzo La stanza chiusa diventa una tecnica letteraria sofisticata,  grazie ad un  testamento di un amico, poi grazie a questo lungo diario di inizio 900 che consente di ritrovare tante atmosfere perdute e di osservarle oggi, a distanza di un secolo, con sullo sfondo il palazzo immaginario nel paese, Castelsardo, la Castorias di mille altre storie  di altre opere di Giuseppe Tirotto ambientate presso il castello dei Doria, sui bastioni, raccogliendo ora tante tessere di un mosaico attraverso il quale si vorrebbe capire le tragedie di alcune famiglie, ma anche i successi, gli amori, i sentimenti contrastanti.

La scelta del diario non è ingenua, ma consente di fissare sulla carta momenti felici e momenti terribili, con l’intento di capire, di entrare all’interno dei fatti e delle relazioni, di rileggere quanto si è scritto, nella speranza irrazionale che si possa ancora curare e guarire, scavalcando l’abisso del dolore.  E questo finisce per essere un labirinto ma anche una vera e propria matrioska che al suo interno contiene e quasi ingoia altri protagonisti e altre storie che si dipanano via via che il gomitolo si disfa e si scioglie, attorno a questo palazzo padronale Mossa Scalas in piazzetta Brancaleone Doria, con questa misteriosa stanza chiusa per mezzo secolo che contiene tanti segreti nascosti, dove sembra ancora tagliarsi a fette la sofferenza dell’ultima occupante, il tradimento e la fine della felicità, addirittura il riflesso dell’omicidio, dell’uccisione di un antifascista Fabio Ballarini,  sul mare, nella notte.

Se dovessimo fare un confronto – si parva licet – tra questo lungo racconto e altre opere celebri, dovremmo pensare ai romanzi che in Sicilia raccontano di famiglie nobili e decadute, travolte da  un destino implacabile,  con amori dichiarati e altri nascosti come quello del dott. Eleuterio per la bella vedova, la morte del giovane, promettente, brillante Camillo Mazzoni che alla fine rilegge con lucidità impietosa la propria esistenza,  dichiara forse di non aver mai vissuto davvero e di lasciarsi ora travolgere dalla droga; è una vera inadeguatezza a vivere, e ormai i pensieri di morte sono come il lamento del cartellino accecato: <non ho che i miei occhi da cavare, perché la vita è spietata e l’innocente muore col cuore nel fango>> (Orlando Biddau).  Così  alla fine riusciamo a cogliere il suo inspiegabile legame con uno dei protagonisti, il suo coetaneo Paolo Finas, entrambi sconvolti dopo esser riusciti a sciogliere il gomitolo, a penetrare nel passato, a capire fino in fondo il dolore, il tradimento, l’infelicità, le ragioni di una sintonia che va oltre l’amicizia e la inattesa parentela. L’a. parla di una ragnatela e di un ragno malvagio come quello del roseto del suo giardino, solo che il ragno ora ingoia le persone e non più le mosche e gli insetti; lo sguardo – di chi prima di morire scrive sul diario le sue emozioni – finisce per essere allucinato. Eppure qui il punto di vista vero parte dall’oggi e torna indietro, fino ai preziosi mobili dei fratelli Clemente a Sassari a inizio 900, alla Grande Guerra, alla nascita della Brigata Sassari, alla fondazione del Partito Sardo d’Azione, al fascismo o alla prima pubblicazione della Settimana enigmistica dell’ing. Giorgio Sisini. Penso però alla quotidianità anche negli ovili del retroterra, come per la cerimonia della marchiatura dei vitelli descritta in un modo che quasi fa sentire la carne sfrigolare sotto il ferro rovente, quasi si avverte l’odore del bruciato, ma qui ad essere marchiati non sono gli animali ma le persone coi loro incubi, i loro traumi, i loro dubbi.  Soprattutto c’è il sapore amaro di un fascismo di provincia, di una violenza gratuita, di una continua prevaricazione, che offende e nasconde la mano. Del resto, dietro la figura del protagonista Paolo, uno scrittore in crisi, s’intravvede forse Tirotto stesso, con la sua capacità di emozionarsi e di emozionare, con questo saldissimo legame col territorio che lo caratterizza (in ghjru in ghjru a la mé rocca), con un paese che ama e che appartiene ad una Sardegna diversa da quella consueta.

Il diario di Eleonora Scalas è dedicato ai genitori Vincenzo e Tilde Mossa, al suo adorato fratello Agostino, alle dolcissime sorelle Aurelia e Angelica: personaggi che Giuseppe Tirotto ha la capacità di collocare a Castorias durante la vita di tutti i giorni, soprattutto in occasione delle feste, come per sant’Antonio Abate alias  lunissanti, fino a Nostra Signora di Tergu o per la festa della Madonna santissima a Ferragosto nel 1916.

Ma pian piano emerge la storia vera, che non è il caso di raccontare oggi qui: voglio solo dire che sullo sfondo c’è davvero una conoscenza profonda della vita che si svolgeva a Castelsardo, la nascita del porto, la costruzione delle dighe foranee, la campagna della Cudinaccia, il terreno di Funtanalva, il mare di Lu gramnaddu, con tutti gli ingredienti del teatro greco, un omicidio, uno scambio di genitore, un uomo che non sapeva di aver avuto una figlia, un nonno creduto diverso, un ritrovamento sconvolgente che rivela l’omicidio.  Storie che la voragine del tempo, 80 anni, rende ancora più dolorose e tali da obbligare il lettore ad iniziare ad andare alla ricerca di se stesso.

Che questo contatto con il mondo del teatro greco non sia solo una mia immaginazione lo dice anche il riferimento dotto al mito di Piramo e Tisbe di p. 165, i due giovani amanti contrastati: secondo la leggenda raccontata da Ovidio, l’amore dei due giovani era ostacolato in tutti i modi, tanto da far loro progettare una loro fuga d’amore conclusa tragicamente. Tanta fu la pietà degli dei nell’ascoltare le preghiere di Tisbe che trasformarono i frutti del gelso, intriso del sangue dei due amanti, in color vermiglio.

Non saprei indicare un altro luogo come la Sardegna tanto lontano dalla tradizione classica, dal mondo del mito greco e latino: eppure gli studi fatti da Tirotto all’università rappresentano senza dubbio la piattaforma sulla quale anche questo libro –  tanto sardo e in qualche modo identitario – è stato costruito per noi.

Attilio Mastino