Saluto Introduttivo. Roma, Istituto Nazionale di studi romani

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Scritto da Administrator | 18 Dicembre 2012

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Attilio Mastino
SALUTO INTRODUTTIVO
Roma, Istituto Nazionale di studi romani

Lunedì 17 dicembre 2012 ore 17

La prestigiosa ospitalità dell’Istituto Nazionale di studi romani e dell’amico e mastro Paolo Sommella ci conduce oggi a Roma a presentare gli Atti del XIX Convegno internazionale de L’Africa Romana svoltosi a Sassari nel dicembre di due anni fa, pubblicati dall’Editore Carocci a cura dei nostri giovani allievi Maria Bastiana Cocco, Alberto Gavini e Antonio Ibba. Il volume è compreso nella collana del Centro di studi interdisciplinari sulle province romane diretto da Raimondo Zucca e del Dipartimento di storia scienze dell’uomo e della formazione dell’Università di Sassari e tratta il tema delle Trasformazione dei paesaggi del potere nell’Africa settentrionale fino alla fine del mondo antico.

Sono presenti tra gli altri il Direttore generale dell’INP di Tunis con Samir Aounallah e Mustapha Khanoussi.

Sono trascorsi ventinove anni da quando, il 16 dicembre 1983, nella sede della Camera di Commercio si apriva a Sassari il I Convegno de L’Africa Romana, al quale parteciparono un campione degli Studi Africanisti, quale fu Marcel Le Glay, indimenticabile maestro ed amico, e altri nostri cari colleghi, come Hedi Slim con la Signora Latifa, e poi Ammar Mahjoubi, Naidé Ferchiou, Giancarlo Susini e Angela Donati, Giovanna Sotgiu, la giovane e brillante collega Cinzia Vismara, l’allora Ispettore della Soprintendenza Archeologica di Cagliari Raimondo Zucca.

Lasciatemi tornare indietro commosso a quel momento lontano, ripercorrendo per un attimo tante storie e tanti avvenimenti, un pezzo lungo significativo e felice della vita di tanti di noi, un percorso che è stato di studi, di ricerche, ma anche di curiosità e di passioni vere.

Volgendoci indietro, quella di oggi è anche l’occasione per ripercorrere una storia lunga, intensa, stimolante, che ha prodotto risultati scientifici, numerose novità e significativi progressi nelle nostre conoscenze e nei nostri studi e insieme un ulteriore consolidamento di quella che è diventata negli anni una vera e propria rete di collegamento tra antichisti a cavallo tra le due rive del Mediterraneo, un rapporto di collaborazione paritario e stimolante tra studiosi di formazione e di provenienza tanto differenti.

Diverse generazioni di studiosi si sono susseguite con passione civile, fornendo contributi di grande interesse e presentando un’enorme quantità di materiale inedito.

E' soprattutto grazie ai colleghi provenienti dall'Algeria, dal Marocco, dalla Tunisia e dalla Libia, che i nostri convegni hanno raggiunto nel tempo uno straordinario ampliamento territoriale e geografico, abbracciando la storia del Nord Africa nel suo insieme, al di là della stessa denominazione letterale: l'Africa, intesa non come singola provincia ma vista in alternativa all'Europa ed all'Asia, come una delle tre parti dell'oijkoumevnh romana, con un allargamento di orizzonti e di prospettive che permette di superare - scriveva Azedine Beschaouch – la visione ristretta del Mar Mediterraneo, prevalentemente basata su un asse Nord-Sud e di ricordare quello che fu il bilinguismo ufficiale dell’impero dei Romani. L'Africa può allora diventare una parte essenziale del più ampio bacino mediterraneo, un'area costiera non isolata ma che è in relazione con tutta la profondità del continente, trovando nel Mediterraneo lo spazio di contatto, di cooperazione e se si vuole di integrazione sovrannazionale

Due anni fa eravamo veramente in tanti nell’ Aula Magna della nostra Università Sassarese, ormai alle soglie del suo 450° anniversario, per aprire il XIX Convegno, circondati da uno stuolo di Maestri e Amici del Maghreb innanzitutto, perché l’Africa romana è, in primis, frutto del loro impegno scientifico, inalienabile eredità storica, culturale, morale e di paesaggio.

In quella sede portavamo con noi esperienze e storie differenti, ma insieme convergiamo verso obiettivi alti di collaborazione scientifica ed umana, che intende diventare sintesi di grandi imprese archeologiche condotte a livello internazionale da tante équipes di ricerca europee ed arabe.

Maestri e Amici, inoltre, del Mediterraneo e delle nazioni che rivendicano, anch’esse, nel nome della comune humanitas l’eredità feconda de L’Africa romana. Consentitemi di ricordare alcuni studiosi recentemente scomparsi, come Lidio Gasperini, Géza Alföldy, Antonino Di Vita, Jean-Marie Lassère, Giovanni Lilliu.

L’Africa romana, questo coronimo, nelle parole di Giancarlo Susini, si è poi disvelata in tutta la sua lucente chiarezza come l’Africa-Libye stratificata, dei molti popoli.

L’Africa dei popoli indigeni, gli Afri o Libi, dalle loro parlate arcane conservate, attraverso integrazioni e sovrapposizioni, dalle varie lingue berbere, scritte con il codice scrittorio “libico” su monumenti e stele anche bilingui, libio-puniche o latino-puniche, fin  sull’Atlantico.

Ed ancora l’Africa dei popoli fenici e cartaginesi, interrelati con i popoli indigeni. O l’Africa imperiale come compare in tanti lavori pubblicati negli ultimi anni.

L’Africa romana, dunque, ossia l’Africa in cui Roma assicura una unità linguistica, il latino, che pure fa sopravvivere le parlate indigene e il punico, l’Africa in cui Roma garantisce un sistema amministrativo e un’organizzazione municipale che si struttura sulle salde basi delle città cartaginesi, numidiche, mauritane e non è un caso che questo “paesaggio urbano del potere” rechi l’originaria impronta “libica”, in larga prevalenza, da Utica, ricondotta preferibilmente dagli studi più recenti alla strato toponomastico libico piuttosto che alla tradizionale origine linguistica fenicia, a Lixus, a Thugga, a Tamugadi, alle nostre care città di Uchi Maius e Uchi Minus.

E’ proprio nell’Africa proconsolare, una delle più antiche province repubblicane, che si attua quell’esperienza di coesione interetnica, attraverso lo stanziamento dei veterani, che si inseriscono appieno nel modus vivendi delle genti locali, che è divenuta una delle carte vincenti della politica romana anche in altre aree dell’impero.

Non credo sia esagerato parlare dell’Africa romana come di una palestra politica dove ab initio sono emerse le contraddizioni del potere, tra le tendenze più retrive dell’aristocrazia romana e il progressismo di gruppi come quello che faceva capo a Caio Gracco, che intravedevano nella rinascita di Cartagine e dell’Africa settentrionale un’opportunità di sviluppo, legato a vettori altri che non fossero solo quelli dello sfruttamento latifondistico.

L’Africa romana, ancora, che diviene Africa romano-cristiana, sia nella sua forma politica vandalica, sia nella sua forma bizantina.

E non basta: l’Africa romana come eredità culturale (e come non poteva essere ?) sopravvive nell’Yfrikia, l’Africa islamizzata e arabizzata, che ancora conserva nelle pagine dei suoi cronisti e dei suoi geografi la memoria dell’esperienza classica, le eredità, perfino i nomi delle città antiche, come hanno mostrato gli straordinari studi di Azedine Bechaouch tesi a verificare le trasformazioni fonetiche del poleonimi delle antiche città romano-africane.

Questo volume  ha affrontato una tematica nuova, suggerita nell’ultimo convegno di Olbia dall’unanimità del comitato scientifico: “Trasformazione dei paesaggi del potere nell’Africa settentrionale fino alla fine del mondo antico”.

Dalla ricchissima serie di interventi è possibile cogliere le più ampie declinazioni del tema delle “trasformazioni dei paesaggi del potere”, con riferimenti da un lato alla progettualità di un potere che ha necessità di uno spazio di autorappresentazione, in grado di intercettare il consenso e dall’altro alla concretezza monumentale e al suo legame con il territorio come frutto di scontri, integrazioni, transizioni e dinamiche insediative.

Quattro anni fa ad Olbia eravamo partiti dall’immagine dei costruttori di Cartagine, sulla Byrsa, gli architetti della regina Didone che Virgilio rappresenta affaccendati ed impegnati nella costruzione della colonia fenicia, con le sue mura, con le sue torri, con i suoi templi. Nel fervore degli structores Tyrii della Carthago di Didone Enea vede, con gli occhi di Virgilio, il solco dell’aratro che segna il limite sacro di una colonia, rinnovando il dolore e la speranza che anima coloro i quali costruiscono una nuova città, in contrasto con la visione della sua originaria patria- Ilio- distrutta dalle fiamme. Non c’è dubbio che Virgilio rifletta nel racconto della Cartagine nascente l’esperienza urbanologica della colonia di età augustea, con il theatrum dalle immanes columnae della frons scaenae tratte dalle cave in cui maestranze addestrate lavorano indefessamente a trarre il materiale lapideo della nuova città. O ancora con le portae delle mura e gli strata viarum, le viae urbane silice stratae.

Avevamo allora scelto per introdurre il nostro incontro i versi virgiliani che esaltano l’attività degli uomini di buona volontà, anche se pure gli dei e le dee sono considerati a tutti gli effetti coinvolti in uno studium ed in un’ars che nobilita chi la pratica.

Per la copertina di questo volume abbiamo scelto invece l’immagine del praetorium che si eleva minaccioso sulle rovine di Lambaesis, nel campo della legio III Augusta, vero strumento di occupazione romana nel cuore del territorio africano, al piede del Mons Aurasius nell’attuale Algeria: dunque un altro aspetto che è inserito appieno nell’esperienza politico-militare romana: le opere militari come monito tangibile dell’obbedienza, spesso coatta, al potere centrale.

Non c’è dubbio che gli aspetti immateriali dei paesaggi del potere, quali la diffusione ideologica del culto del sovrano, le voci del consenso al collegio degli shofetìm di Cartagine, al Senato di Cartagine, al Senato e alla Res publica, al Princeps, all’imperatore dominus et deus, agli attori gerarchizzati nella pyramide des responsabilités nelle città, sono da noi percepibili attraverso i testi letterari e soprattutto le epigrafi, ma anche attraverso la “veicolazione” dell’imago del princeps nelle monete e nei ritratti.

Vi è però un aspetto più concreto dei “paesaggi del potere”, costituito dal mosaico dei siti archeologici inseriti nel loro contesto ambientale. Tali siti principalmente urbani, ma anche rurali costituiscono la cifra percepibile de l’Africa Romana, tra strutturazione e destrutturazione dei paesaggi.

Forse oggi è necessario proporre una chiave di lettura ancora più a distanza, legata alla politica dei Ministeri della Cultura dei paesi del Maghreb dopo le primavere arabe, richiamando le responsabilità nuove che tutti debbono assumere di fronte alla tutela del patrimonio e il tema delle trasformazioni, che non riguardano solo processi antichi, ma anche richiamano ritardi e incapacità, insomma le dinamiche dei nostri giorni. Penserei per un attimo in Italia all’attualità dei crolli di Pompei ed all’inerzia incosciente di tanti responsabili, come pure all’erosione che compromette pericolosamente il sito di Nora. Ma tanto c’è da fare in molti luoghi del Maghreb, da Lambaesis a Cuicul, da Volubilis a Gightis.

Voglio ricordare in questa sede sia la Convenzione sulla tutela del patrimonio mondiale, culturale e naturale (Parigi, 16 novembre 1972) sia la Convenzione europea del Paesaggio (Firenze 20 Ottobre 2000).  Quest’ultima riconosce, all’articolo 1, come "Paesaggio” una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni. I paesaggi del potere sono i paesaggi infrastrutturati e i paesaggi naturali, eredi delle sistemazioni agrarie o, in generale, economiche del territorio africano.

Essi sono, innanzitutto un patrimonio culturale, ossia la fusione dei Beni Culturali e dei Beni Paesaggistici, delle comunità nazionali del Maghreb. Ma sono anche Patrimonio dell’Umanità, sia nei numerosi casi africani di questi “paesaggi del potere” antichi nella World Heritage List, dai siti archeologici libici di Cirene, Lepcis Magna, Sabratha e Ghadames a Volubilis in Marocco, passando per la Tunisia (Amphitheatre of El Jem; Archaeological Site of Carthage; Punic Town of Kerkuane and its Necropolis; Dougga / Thugga) e l’Algeria (Djémila; Timgad; Tipasa ed i Tassili), sia nei casi ancora più numerosi per i quali non si abbia ancora l’inserimento nella Lista del Patrimonio dell’umanità.

Questi paesaggi sono patrimonio identitario dei popoli del Maghreb ma appartengono intrinsecamente alla nostra identità mediterranea.

Noi tutti abbiamo creduto che la nostra azione non potesse esaurirsi nell’attività di ricerca e di trasmissione di conoscenza: in questi anni abbiamo tentato di cooperare, con i nostri studenti, fianco a fianco con gli studenti e gli archeologi del Maghreb, in Tunisia e in Marocco. Lasciatemi per un momento ripercorrere con orgoglio il cammino degli studenti e dei ricercatori delle Università di Cagliari e di Sassari negli ultimi tempi: dalla favolosa città atlantica di Lixus, sede mitica di un paesaggio del potere se Plinio vi ricorda la tradizione della regia Anthei, il palazzo regale del gigante stritolato da Herakles, alle città dell’Africa Proconsolare Uchi Maius al di là della Fossa Regia nel regno di Numidia, Utica, Numluli, Zama Regia ed ora Neapolis, sul Capo Bon, dove operiamo, in base ad un accordo con l’INP, per una ricerca su un “paesaggio del potere economico”, il Neapolitanus Portus, documentato dalle ricerche di Archeologia terrestre e subacquea di Mounir Fantar, Ouefa Ben Slimane, Ihmed Ben Gerbania accanto alla nostra équipe della scuola di Specializzazione in Archeologia Subacquea e dei paesaggi costieri della Sede di Oristano del Consorzio UNO.

Molti di noi insomma insieme ai nostri carissimi amici e colleghi del Maghreb hanno tentato di fornire il loro modesto contributo per la conoscenza, ma anche per la conservazione, valorizzazione e fruizione di questi paesaggi africani, che tanto amiamo, al pari di quelli del nostro paese.

Per questo prendiamo  l’impegno di una più profonda proposta di diffusione della conoscenza del paesaggio culturale africano, anche con la elaborazione a fianco dei nostri colleghi dell’INSAP, diretto dal carissimo amico Aomar Akherraz, e dei Musei locali, insieme alle Regioni di Sardegna, Lombardia e Calabria, del portale web dei Beni culturali del Marocco.

Ci proponiamo di far proseguire la nostra collaborazione anche con i colleghi della Tunisia a partire proprio dai paesaggi culturali del Capo Bon.

La strada che si è imboccata, noi insieme, Maghrebini ed Europei, ci porterà a restituire con i mezzi ipermediali i paesaggi ricostruiti delle città e delle campagne dell’Africa antica, ancora una volta i “paesaggi del potere” dei sovrani, della Res publica, dell’homo oeconomicus, degli dèi e del dio unico, che è kyrios, signore, tra urbanistica ed ideologia.

Vorremmo allora restituire, riportare alla luce almeno virtualmente, ad esempio il forum della città di Uchi Maius alla quale abbiamo dedicato Mustapha Khanoussi ed io, insieme ai nostri colleghi ed allievi, energie per quasi un ventennio, ritrovando le scritture antiche di un mondo animato da un’aristocrazia cittadina vivace ed aperta.

E poi riportarvi ai tanti altri luoghi straordinari che in questi decenni sono stati oggetto dell’attenzione di tanti altri archeologi, epigrafisti, studiosi di tanti paesi, tra Libia, Tunisia, Algeria e Marocco, con indagini che hanno spesso prodigiosamente restituito frammenti del paesaggio antico, fortificazioni, santuari, edifici pubblici, edifici di spettacolo, archi, strade tra città e campagna, che in qualche modo conservano il sapore di un tempo lontano che rimane parte di noi uomini d’oggi.

Dal nostro osservatorio, constatiamo che nonostante le preoccupazioni possono moltiplicarsi ora le grandi imprese di collaborazione internazionale.

Questo volume vuole restituire l’ unità della conoscenza, sbriciolata in mille rivoli dalle pratiche accademiche, quasi che s’assaporasse la condanna divina della confusione delle lingue di babelica memoria.

Qui è restituita la lingua delle origini, che parlano all’unisono storici, archeologi, epigrafisti, numismatici, giuristi e scienziati delle scienze esatte che combinano i loro saperi a quelli umanistici, tutti provenienti da tanti paesi.

Da questa polifonia è restituita la lingua delle origini prima di Babele che parlarono gli uomini prima che i fratres in humanitas fossero separati dall’ ignorantia, dall’incapacità di ascolto della parola, unica, di tutti gli uomini.

Osservando la massa di comunicazioni delle quattro sessioni, i 50 posters, le 10 presentazioni di libri, possiamo dirci veramente soddisfatti, per le 174 comunicazioni voglio esprimere la mia ammirazione per le imprese scientifiche internazionali in corso che si sono riflesse nelle relazioni scritte. L’archeologia e cambiata davvero e noi abbiamo assicurato solo una funzione di coordinamento e di servizio e vi siamo grati per la fiducia che avete riposto in noi.

Hanno preso parte ai nostri lavori 256 studiosi, provenienti da  14 paesi, dagli Stati Uniti e dal Canada, dall’Argentina e dal Giappone; dalla Finlandia al Marocco, dalla Algeria, dalla Tunisia; dal Regno Unito, dalla Spagna, dalla Francia, dalla Germania, dalla Svizzera, da Gerusalemme. Sono state rappresentate oltre 60 università, di cui oltre 20 università italiane. E poi i rappresentanti degli Enti di tutela, delle Soprintendenze statali e comunali, degli Istituti per il Patrimonio, del mondo dell’associazionismo e della stampa.

Chiudendo i nostri lavori abbiamo accolto  tre appelli che condividiamo, tre frontiere vecchie e nuove per i nostri studi: la realizzazione di un grande Parco di Tuvixeddu a Cagliari e l’appello per la messa in rete di archivi sulle esplorazioni archeologiche che precedano l’indipendenza dei paesi del Maghreb e non solo, magari che si estendano anche alle grandi imprese internazionali che hanno riguardato il Nord Africa.  Infine un documento sulle linee della riforma delle Università italiane, una riforma che avremmo voluto più generosa e meno punitiva.

Da qui, da Roma, partiremo tra un anno verso la riva Sud del Mediterraneo, a Sousse, un luogo che sarà certamente accogliente ed ospitale, per celebrare con una festa il XX convegno ed anche il trentennale dei nostri incontri, occasione per i vota vicennalia.. L’appuntamento fissato dal Comitato scientifico è all’autunno 2013 per discutere di “Momenti di continuità e rottura: bilancio di 30 anni di convegni de L’Africa Romana”, con sessioni tematiche specifiche.

Cari amici,

domattina a Roma, nella sala della Protomoteca in Campidoglio a ridosso del tabularium, ricorderò l’anniversario del 1800 anni dall’emanazione dell’editto di un imperatore africano, Marco Aurelio Antonino Bassiano Caracalla, con il quale la cittadinanza romana veniva estesa a tutti gli abitanti dell’impero. Grazie a quel lontano provvedimento, scriveva Prudenzio, si va creando una stirpe sola di sangue misto, da popoli che si incrociano, nam sanguine mixto/Texitur alternis ex gentibus una propago.

La Constitutio Antoniniana fu la risposta che uno degli imperatori africani ritenne di dover dare alle istanze dei provinciali, cioè dei gruppi che lo avevano portato al potere, un primo importante passo verso l’eguaglianza nei diritti e nei doveri che costituisce il nucleo di ogni cittadinanza antica e moderna. Un modello insuperato anche per noi uomini d’oggi.

Ultimo aggiornamento Giovedì 23 Maggio 2013 09:25

Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet
multa saeculis tunc futuris,
cum memoria nostra exoleverit, reservantur:
pusilla res mundus est,
nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat.


Seneca, Questioni naturali , VII, 30, 5

Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura;
molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo,
quando di noi anche il ricordo sarà svanito:
il mondo sarebbe una ben piccola cosa,
se l'umanità non vi trovasse materia per fare ricerche.

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