Se ne è andato un grande storico della Chiesa sarda: Mons. Antonio Francesco Spada (Sedilo 16 novembre 1929 –14 luglio 2019)

Se ne è andato un grande storico della Chiesa sarda: la morte di Mons. Antonio Francesco Spada (Sedilo 16 novembre 1929 –14 luglio 2019)


Ho visto per l’ultima volta a Sedilo Mons. Antonio Francesco Spada una settimana fa, nella casa di famiglia, a due passi della Parrocchiale di San Giovanni Battista, alla vigilia  della pittoresca Ardia in onore del “suo” San Costantino. Era circondato dall’affetto dei familiari, degli amici, degli infermieri che lo assistevano con amore. Non voleva lasciarmi andar via e voleva continuare a raccontare, a dire quanto era felice per avermi potuto accogliere a casa sua a Sedilo, quanto gli erano cari Bosa e i Bosani, le suore della Sacra Famiglia, la sua Cattedrale. Mi ha detto di farlo sapere a tutti, ma già tutti lo sappiamo attraverso Radio Planargia e le parole di Paolino Fancello, suo amico fedele.

Oggi prevale il dolore per la scomparsa di una persona che mi ha seguito da ragazzo, nella GIAC parrocchiale e diocesana, nel Centro Sportivo Italiano, su “Libertà” e su “Dialogo”, quindicinale che aveva fondato con Mons. Giovanni Pes e Mons. Antonello Mura. Provo una gratitudine immensa per la sua bontà, la sua attenzione, la sua capacità di ascoltare e di perdonare. In questo cerchio dei suoi amici erano entrati col tempo i miei colleghi e i miei allievi, che tanto l’hanno amato.

Coetaneo di Don Rosario Menne, Don Salvatore Bussu, Don Floris della Diocesi di Nuoro. Era stato ordinato sacerdote a Sedilo l’8 agosto 1953, in Seminario aveva seguito con affetto le disavventure di quello che sarebbe divenuto un grande poeta, Orlando Biddau, che l’avrebbe ricordato con nostalgia tra i suoi amici nel terribile romanzo “Predestinazione”.  Cappellano di Sua Santità, Arciprete della Cattedrale di Bosa, Assistente generale prima della Gioventù Italiana di Azione Cattolica della Diocesi di Bosa, poi dell’intera Azione Cattolica.  Direttore dell’Ente Sacra Famiglia di Bosa: in un appartamentino al primo piano proprio della Casa  delle Orsoline della Sacra Famiglia in Via Garibaldi è vissuto per quasi tutta la vita e ci riceveva nel salotto dominato dalla figura di Mons. F. Panzali e di Suora Madre. Era orgoglioso di tutti i miei traguardi, la patente, la laurea, l’insegnamento, le pubblicazioni, i convegni a La Madonnina, la nascita di Paolo.

Ha svolto il suo ministero in varie parrocchie a iniziare da Tresnuraghes e nelle organizzazioni diocesane e regionali, compresa la Coldiretti.  Laureato in Teologia a Cuglieri (tesi su La giustizia sociale nell’insegnamento di Pio XI e Pio XII, Rovigo 1959) e in Lettere a Sassari (tesi in Geografia della Sardegna), era vicario episcopale per la vita consacrata, canonico teologo della Cattedrale di Bosa e preside dell’Istituto Magistrale “Sedes Sapientiae”. Giornalista pubblicista, è stato cofondatore e direttore per 15 anni del periodico della Diocesi Alghero-Bosa Dialogo.

Con me ha lavorato dalla metà degli anni 60 per la tesina sul Concilio vincitrice del concorso Veritas e poi per il volume del 1974 su Il IX centenario della cattedrale di S. Pietro di Bosa, Sassari Gallizzi; in quell’anno aveva pubblicato il primo volumetto su  La sagra di S. Costantino, che sarebbe stato seguito dal fortunatissimo Santu Antine. Il culto di Costantino il Grande da Bisanzio alla Sardegna, Nuoro 1989, ristampato Carlo Delfino Editore nel 2001, riuscendo a inserire la tematica del culto di Costantino imperatore nell’ambito dell’espansione bizantina in occidente e, in Sardegna, sul Tirso al confine con la Barbaria.

E’ stato un assiduo collaboratore della rivista “Diritto e Storia” diretta da Francesco Sini professore ordinario di Diritto Romano ma ha organizzato con Pierangelo Catalano (professore ordinario nell’Università di Roma Sapienza) una serie di convegni sul culto per Costantino imperatore nel Mediterraneo, perfino sul Mar Nero e in Russia.

Ha pubblicato inoltre:  La diocesi di Bosa e i suoi vescovi, Sassari 1974; Storia della Sardegna cristiana e dei suoi Santi, voll. I-II, Oristano 1994; vol. III (1700-2000), Oristano 2001;  Sedilo, Volume I: La Storia, 1998; Volume II: La Gente, 1999;  Il culto dei Santi nella Sardegna tardo-antica e medievale, Cagliari 1999; I luoghi di culto in Sardegna nell’alto medioevo, Cagliari 2000; Le Suore Orsoline dell’Istituto Sacra Famiglia, Cagliari 2000.

Lascia un vuoto grandissimo nella sua famiglia, tra i fratelli e i nipoti amati. Vogli dire un grazie di cuore  alla sorella che l’ha assistito amorevolmente fino agli ultimi giorni. Soprattutto lascia un vuoto nella diocesi di Alghero-Bosa, tra i sacerdoti, i fedeli, i giovani non più giovani della GIAC che sono in debito con lui per tante attenzioni e tanto affetto. Ma anche tra gli studiosi, nell’Università (dove si era costantemente confrontato con l’amico Raimondo Turtas), nella scuola, nelle tante associazioni che l’hanno visto impegnato e attivo.

Il vescovo Mauro Maria Morfino l’ha ricordato oggi con parole delicate e commosse: mi ha fatto ricordare un’osservazione lontana sulla solitudine dei sacerdoti anziani. Beh, Mons. Spada non è mai stato solo.

Sedilo, 14 luglio 2019.

Attilio Mastino




Presentazione del volume Caro professore, Le ho portato un uovo, Chirurghi e chirurgia col cuore nella Sassari dal1967 al 2012.

Presentazione del volume Caro professore, Le ho portato un uovo, Chirurghi e chirurgia col cuore nella Sassari dal 1967 al 2012, di Giuseppe Dettori e Salvatore Gullotta Di Mauro, Carlo Delfino Editore, Sassari 2017

Sassari, 8 giugno 2019

Ho sfogliato con emozione e sorpresa queste pagine delicate, scritte con dolcezza da Pinotto Dettori, nelle quali però si apprezzano i puntualissimi interventi di Salvatore Gullotta di Mauro, che corregge, addolcisce, taglia e cuce, sempre con un tocco di signorilità e distacco. Eppure anche con la capacità di lasciare all’opera uno straordinario sapore di autenticità e di vita vera, impastata con la partecipazione profonda al dolore dei pazienti e con la gioia per le relazioni con la famiglia, gli allievi, gli studenti, gli amici. Un’opera solare e piena di ricordi positivi, di aneddoti, di storie sulle vicende della chirurgia generale sassarese nel momento del suo massimo successo: ne deriva l’ammirazione del lettore per una vita professionale unica e per una inconsueta capacità di narrazione che fa emergere una passione vera, tante qualità e tanti successi.

Anche tanti rimpianti, sempre con ironia, con il sorriso sulle labbra, con la capacità di non prendersi troppo sul serio, con la comprensione per gli errori degli altri, con tanta intelligenza, con umiltà. Io oggi sento molto la responsabilità che mi è stata assegnata, quella di riassumere brevemente una storia lunga, che inizia oltre 50 anni fa a Sassari e che prosegue ben oltre i limiti di questo libro.

All’uno e all’altro autore, così come all’editore Carlo Delfino mi lega una amicizia da vecchia data, l’ammirazione per quanto hanno saputo fare per Sassari e per la Sardegna. Ho conosciuto Salvatore Gullotta, nato a Giardini Naxos in Sicilia ma sardo dal 1966, soprattutto come prefetto di Sassari per quattro anni dal 2003, poi di Cagliari fino al 2009; soprattutto come autore di tanti volumi, alcuni dei quali mi sono davvero cari:

– “Monti di pietra” nel 2001(un prefetto dal cognome siciliano, Basile, viene inviato in Sardegna …);

Terre e genti di Sardegna nella letteratura geografico-politica dell’Ottocento, nel 2005, con riferimento al paesaggio agrario, ai diritti collettivi di pascolo prima dell’editto delle chiudende;

– “Caratteri istituzionali della Sardegna arcaica” nel 2014;

– da ultimo “Il mistero dei primi Sardi (tra mito, storia e scienza)”, dove l’isola eudaimon diviene dimora di dei e di uomini fortunati, collocata nell’estremo occidente, patria di una lontana civiltà perduta, la cultura nuragica, che Gullotta vorrebbe studiata meglio e oggetto di attenzione anche nelle Scuole. Sempre con uno sguardo profondo e originale, con una conoscenza della bibliografia più recente, anche col coraggio di confrontarsi con tanti luoghi comuni.

La mia amicizia con Pinotto Dettori è ancora più antica, ma mi rimane sempre nel cuore con gratitudine l’episodio quasi tragico del Prorettore Giulio Rosati, colpito da un aneurisma aortico che sarebbe potuto essergli fatale nel 2011: Pinotto lo aveva operato d’urgenza e mi aveva colpito il fatto che subito dopo l’operazione aveva voluto informare concitatamente il Rettore del rischio corso e del successo per l’assenza di danni cerebrali da ischemia, quando già disperava di salvarlo. Arrivai in rianimazione poche ore dopo, ma non osai entrare nella stanza di degenza, poi seppi tutti i particolari da Giovanna e da Irma, che mi raccontarono come Giulio dovesse la sua sopravvivenza al tempestivo intervento del chirurgo. Il Prorettore Rosati riprese mesi dopo il suo lavoro con l’impegno di sempre, fino a quel ferragosto 2016, quado subì un attacco cardiaco a Fertilia. Personalmente lo ricordo con gratitudine e affetto, ma lasciatemi citare alcuni altri nomi di comuni amici oggi scomparsi, che hanno contato davvero tanto nella mia vita, e nella vita di tanti sardi, col ricordo e il rimpianto affettuoso per Cesare Canalis, Francesco Ginesu, Maurizio Longinotti, Giommaria Marongiu, che giganteggiano in queste pagine, assieme a tanti altri protagonisti della sanità in Sardegna.

Ma questo libro non è un libro dei morti ma dei vivi, a differenza del disperato Il giorno de giudizio di Salvatore Satta, è un libro capace di ricostruire un mondo colorato che rischiava di inabissarsi nell’oblìo, perché attraverso mille storie, mille dettagli, mille racconti curiosi l’autore riesce nell’impresa di farci condividere il senso positivo dell’esistenza, il valore dell’impegno e del sacrificio personale, la dimensione del tempo libero, la gioia del ritrovarsi. Con una memoria davvero strabiliante e con la capacità di cogliere emozioni, passioni, piccole storie di uomini, che vanno ben al di là della routine della sala operatoria.

C’è un capitolo inconsueto in questo volume ed è quello dedicato ai due mesi trascorsi ad Hanoi in Vietnam nel 1994, a vent’anni dalla fine della guerra, con lo scopo di approfondire il tema della manualità nella chirurgia epatica. Il titolo di chirurgo spettava nel mondo greco a quei medici che utilizzavano le mani per operare, da cheir – cheiròs: del resto manu consilioque è il motto della prestigiosa Academie Royale de Chirurgie di Parigi, fondata nel 1731 alle origini della medicina moderna. Ma è in oriente che l’arte chirurgica è veramente fondata sulla manualità, con una indubbia efficacia, come quella che si praticava al Duc Hospital di Hanoi, tra agopuntura, digitoclasìa e resezioni epatiche ottenute con la sola pressione delle dita secondo il metodo di un maestro come Thon That Tung. Pinotto Dettori si è confrontato con gli allievi del grande maestro in un ospedale stracarico di pazienti e di bisogni. In generale la casistica relativa a patologie gastroenteriche ed epato-biliari-pancreatiche era imponente, legata soprattutto agli effetti della guerra, ai bombardamenti, ai diserbanti. Accompagnato da Ninni Dessanti e dall’anestesista Giampiero Silvietti, Pinotto scopre e riesce ad osservare con uno sguardo davvero profondo un mondo di povertà, di sofferenza, di dolore che emerge lentamente da una lunga guerra che è stata combattuta soprattutto con le bombe americane che hanno causato in migliaia di casi un carcinoma epatico: più in generale rimane sorpreso per l’assenza di benzina, la rigida divisione sociale tra i quartieri della capitale, il senso assillante della proprietà da difendere con saldissimi lucchetti, in un mondo che aveva concepito l’utopia dell’abolizione della proprietà privata; sulle strade il frenetico vagabondare della gente verso una meta sconosciuta, la successione di misere botteghe, le povere case di abitazione, il numero impressionale delle biciclette e delle motociclette Honda costruite con l’acciaio dei carri armati americani. Le tradizioni culinarie, il sapore unico del caffè vietnamita quasi un condensato, gli involtini di erbe e terra, le bellezze struggenti dell’ambiente naturale nella vallata del fiume rosso (Sông Hồng) fino alla foce di Halong con le sue mille isole.

Con una descrizione incredibilmente ricca di dettagli gli autori ci portano lontano: la leggenda vuole che <<la baia di Halong si salvò dall’invasione cinese per l’intervento di un gruppo di draghi inviati dagli Dei. Questi draghi, oltre al proprio fuoco, sputarono in mare migliaia di preziosi gioielli, da ciascuno dei quali nacque un’isola. Unendo fra loro queste isole, si creò d’incanto una barriera invalicabile, che respinse definitivamente i cinesi, e permise agli abitanti di far propria quella loro grande terra, che si sarebbe in seguito chiamata Vietnam>>.

Ci sono perfino pagine che hanno un valore letterario, legate al viaggio: <<ai nostri occhi comparve uno spettacolo da sogno: dalla superficie del mare, calmo e di un colore variabile, a seconda dell’incidenza della luce e l’altezza del sole, dal verde smeraldo al verde petrolio, sbucava, con una bellezza quasi irreale e con un effetto mai visto in precedenza, un numero incalcolabile di isole ed isolotti, di forma e dimensioni variabili, delicatamente poggiate su quel mare piatto da cui emergevano, tutte ricoperte pressoché interamente dalla stessa varia vegetazione della costa. Il quadro, stupendo, dava quasi allo spettatore la fallace impressione che il mare avesse poco prima parzialmente inondato la costa, della quale erano rimaste visibili le alture più sporgenti, nella nuova magnifica veste di miriadi di isole. Oppure che il mare, specialista in erosioni, avesse nel corso dei millenni, man mano staccato dalla costa miriadi di pezzi, trasformandoli in altrettanti isolotti ricoperti del loro vecchio manto vegetale, dalle dimensioni più varie e dalle forme più strane e irregolari, come appunto possono essere quelle disegnate dall’erosione del mare>>.

Se c’è una cosa che mi ha colpito in queste pagine, è la capacità di distinguere tra le eredità del comunismo e quelle del colonialismo francese, tra le tradizioni culturali millenarie, le forme religiose, le relazioni sociali che non rimandano alla storia recente ma che si capiscono solo partendo dalle radici profonde della cultura dell’estremo oriente, in questa stretta lingua di terra, lunga più di mille km, che unisce la vallata del fiume rosso a Nord e quella del Mekong a Sud. Questo è il Vietnam di oggi, che ho visitato qualche anno fa fermandomi ad Hué, per i 40 anni della Facoltà poi Università di Medicina, dove Piero Cappuccinelli e Bruno Masala hanno inaugurato un laboratorio dell’Università di Sassari: dietro la facciata di un’organizzazione di massa voluta dal comunismo trionfante è possibile scorgere la grazia dei balli orientali, la musica, il carattere pacifico delle persone, la bellezza incredibile di ragazzi e ragazze, la cucina tradizionale, il senso di sopportazione per la povertà estrema, ma anche i monumenti, le ferite della guerra, come a My Son nei templi restaurati da un’università Italiana, la delicatezza dell’ambiente naturale violato dalle bombe, i pittoreschi laghetti, i mausolei, le pagode come sul fiume dei profumi, il Song Huong River. Una lontana tradizione imperiale della dinastia Nguen è rimasta vitale anche grazie all’eroismo dei monaci buddisti suicidi col fuoco a Saigon, di cui si conservano religiosamente le reliquie, come l’auto Austin di Hué; siamo a qualche chilometro di distanza dalla baracca dove è vissuto Ho Ci Min. Un Vietnam che progressivamente si sviluppa e si afferma.

Ma il cuore di Pinotto Dettori è tutto in Sardegna, nella clinica di viale San Pietro, poi nella sala operatoria dove ha trascorso gran parte della sua esistenza, con gli oltre trentamila interventi, nella rianimazione, nel suo reparto chirurgico generale nuovo di zecca che ha fortemente voluto al quinto piano del Palazzo Clemente per la riabilitazione dei suoi pazienti, nella sua famiglia. Infine tra i suoi monti di Padria nella vallata del Temo o di Dorgali verso il Cedrino o nel mare orientale; prima ancora alla ricerca di tordi negli oliveti di Sennori.

Gli autori hanno saputo concentrare in queste pagine i ricordi dolci e amari di una vita che è stata e continua ad essere felice: <<ci sono momenti nella vita, ci sono sensazioni, profumi, atmosfere, che si vivono una sola volta. Bisognerebbe poterli chiudere in una bottiglia e stapparla ogni tanto per riviverli>>. Sono parole di Gianfranco Azzena. Salvatore Gullotta descrive Pinotto Dettori come un narratore che assomiglia ad fiume in piena, uno straordinario affabulatore, come se queste pagine fossero la prosecuzione degli appassionati racconti fatti agli amici di sempre, sui temi diversi, non solo quelli della sua professione, ma anche del tempo libero; con lo scopo di fermare delle immagini nel tempo, di condividere tante storie, soprattutto proporre una visione positiva della vita, di diffondere un messaggio di civiltà; alla fine scopriamo un uomo dal cuore d’oro, generoso e attento per chi ha bisogno di assistenza, un uomo cortese, riservato, umile, allo stesso tempo però capace di inalberarsi con chi a suo avviso ha tradito i valori etici della professione, soprattutto con qualche collega. In appendice sono raccolte le parole dei pazienti, alcune preziose testimonianze di un legame che non si spezza, di una gratitudine e di un’ammirazione profondi, come testimonia l’episodio – recente – dell’uovo portato in dono in clinica dalla vecchina di campagna che dà il titolo al libro.

Gullotta racconta le radici di una vera e propria vocazione, capace di far superare l’ansia, l’iniziale paura del sangue, il terrore di non riuscire a rispondere alle attese dei pazienti e dei loro cari; credo abbia effettivamente pesato sulla scelta della professione la vicenda del padre Giacomo, salvato in extremis dopo un infarto intestinale non riconosciuto dai primi soccorritori, ma poi operato d’urgenza in Clinica Chirurgica dal prof. Leonardo Lojacono. Questo tema della tempestività dell’intervento chirurgico resterà una costante dell’azione del prof. Dettori, che oggi – osservando la caduta della vocazione chirurgica tra i giovani medici – ritiene con una qualche dose di pessimismo che la medicina italiana si sia andata progressivamente appesantendo con quegli esami laboratoristici e strumentali (Tac, Ecografia, Risonanza Magnetica, Angiografia, ecc.) che spesso sono ingiustificati ed eccessivi e, se creano uno scudo a difesa del chirurgo contro le implicazioni legali in caso di insuccesso, rallentano comunque i tempi dell’intervento e dunque paradossalmente finiscono per ridurre le possibilità di sopravvivenza del paziente.

Un secondo stimolo verso la chirurgia è legato agli anni dell’internato e in particolare alle tante vicende terribili vissute in clinica, soprattutto per le malattie in età pediatrica, come la commovente vicenda di Roberto, un bellissimo bimbo biondo al quale il giovane Dettori si era davvero affezionato, operato due volte dal primario Luciano Lorenzini perché affetto dalla malattia di Hirschprng, il megacolon congenito; poi improvvisamente crollato di fronte ad una peritonite implacabile. Oppure la vicenda di Mauro, un bimbo di 6 anni, soffocato dalle orribili masse tumorali. Inizia qui una storia lunga, che questo libro descrive con moltissimi dettagli tecnici, con informazioni di prima mano, direi dalla prima linea del fronte di guerra, col tentativo di cogliere il progredire delle conoscenze e delle tecniche operatorie, le delusioni e le nuove speranze di successo. L’allora Istituto di Patologia Speciale Chirurgica in viale San Pietro ormai era diventato il suo mondo, l’unica strada che poteva seguire, la sua seconda casa: in nessun’altra struttura diversa dalla clinica chirurgica – scrive Pinotto – avrei potuto trovare la stessa accoglienza, lo stesso spazio, la stessa disponibilità all’insegnamento, gli stessi colleghi, le stesse amicizie, gli stessi infermieri, lo stesso personale. È questo il nodo, la ragione per la quale tutta la carriera si è svolta a Sassari in chirurgia generale, lasciando cadere le tante offerte ricevute da Brescia, da Milano, da Ancona, da Siena: per usare le parole di Riccardo Rossi <<hai avuto il merito di riuscire in una impresa senza precedenti: quella di diventare, per la prima volta, da sassarese, direttore della clinica chirurgica della tua università, senza averla mai lasciata prima». Un merito fondato soprattutto sul lavoro duro, sulla ricerca, oggi su oltre 400 pubblicazioni scientifiche, sull’aggiornamento in sede internazionale, sulla partecipazione a un centinaio di congressi. Una fatica, un impegno, un risultato che noi oggi vogliamo onorare davvero.

Gli anni dell’internato del giovane Dettori naturalmente si svolgono nel momento trionfale di ascesa della Chirurgia sassarese (cenerentola fino all’Ottocento), con Luciano Lorenzini, Francesco Saverio Rucci, Aldo Campodonico, maestri coi quali si è consolidato un rapporto inizialmente pieno di imbarazzi e di silenzi (e ciò a causa della timidezza congenita, marchio profondo di sardità), ma poi fondato sulla stima e l’affetto.

Come risulta dai nostri registri, in questa Aula Magna Dettori Giuseppe Lorenzo Giovanni Antonio (nato nel 1942) si è laureato il 3 marzo 1967 con una tesi sulla chirurgia della via biliare e della papilla di Vater, ottenendo la dignità di stampa e l’abbraccio accademico, relatore Lorenzini. Seguiva la laurea dell’amico di sempre Michele La Rocca, gli anni della specializzazione, con una deliziosa descrizione della timidezza del giovane Pinotto di fronte ad esempio alla moglie di Lorenzini, una sorta di Principessa sdegnosetta con gli allievi di primo pelo del marito, che mi hanno fatto ricordare tante storie lontane che mi riguardano. Sullo sfondo rimane la pazienza, il senso di sopportazione, la voglia di farsi conoscere per quel che si vale, anche la consapevolezza che alcuni passaggi sgradevoli sono obbligati. Pinotto si leva tanti sassolini dalle scarpe, come a proposito del primario di oculistica gioviale ed espansivo con i colleghi, freddo e supponente con gli allievi più giovani. Più in generale si colgono in queste pagine le mille difficoltà iniziali, le fatiche dello stabulario, il rapporto con gli animali da esperimento, gli orari impossibili, il sacrificio quotidiano.

E però tante soddisfazioni incredibili, il contatto diretto con i Maestri. A buon diritto Dettori rivendica il collegamento suo e dei propri allievi con la grandissima Scuola di Edmondo Malan, torinese, scomparso a Houston nel 1978; a sua volta allievo del Achille Dogliotti (scomparso nel 1966) e sempre a Torino di quel mitico Giuseppe Levi, anatomico, maestro di tre Premi Nobel, che insegnò anche a Sassari dal 1909 al 1913, ebreo, privato della cattedra dalle leggi razziali nel 1938, padre della scrittrice Natalia Ginzburg che nel romanzo Lessico familiare ricorda il soggiorno in Sardegna.

Malan, tra Genova, Parma e Milano, fu il maestro del siciliano Salvatore Occhipinti a Sassari titolare della cattedra di anatomia chirurgica; poi di Giorgio Tiberio arrivato da Milano nel 1973 fino al nostro Paolo Biglioli, che oggi abbiamo l’onore di ritrovare. Credo siamo ai vertici della chirurgia nazionale.

Ci sono tanti nomi di maestri, alcuni scomparsi, che ricorrono in queste pagine, come Giovanni Tota, Raffaele Palomba, Ugo Satta, Ignazio Fresu. La meteora milanese Riccardo Rossi e il suo aiuto Orlando Ferri, ai quali Pinotto sa di dovere comunque la nomina nel 1969 ad Assistente ordinario. E poi Salvatore Occhipinti, Giorgio Tiberio, Paolo Biglioli, con una crescita progressiva della tecniche operatorie e straordinari successi professionali, fondati su conoscenze che sono state generosamente trasmesse dai Maestri, che hanno saputo mettere a parte i colleghi dei segreti di tanti interventi difficili come quelli sulla chirurgia dell’aorta toracica, i tumori pleuro-polmonari, le grosse cisti da echinococco epatiche e polmonari, le grandi resezioni epatiche, le pancreasectomie, i tumori delle vie biliari, le esofagectomie e i tumori digestivi, ambiti spesso affrontati in Sardegna unicamente dalla clinica chirurgica sassarese, fortemente competitiva a livello nazionale. Una storia difficile, irta di difficoltà ma piena di successi. In parallelo si segue una carriera straordinaria, che passa per il concorso nazionale a professore associato nel 1980, la direzione pro tempore dell’istituto di patologia chirurgica dell’Università e la chiamata come professore ordinario nel 1986, a 44 anni di età. Infine, nel 1987, in coincidenza col rientro di Biglioli a Milano, la nomina a direttore della clinica chirurgica universitaria, con delibera unanime della Facoltà.

Un capitolo del libro è dedicato agli sforzi compiuti per la nascita della cardiochirurgia in Sardegna, soprattutto grazie alle esperienze compiute da Paolo Biglioli a Lovanio in Belgio, alla scuola del prof. C.H. Chalant, così come in Olanda: m’immagino che sarà lui stesso a parlarcene oggi, ma vorrei portarvi per un momento a quell’8 giugno 1979, quando Biglioli eseguì con successo il primo intervento cardiochirurgico in Sardegna. La tradizione prosegue oggi con l’Unità operativa complessa dell’AOU di Sassari diretta da Michele Portoghese a Sassari, in parallelo con la Struttura complessa di CardiologiaUTIC-Emodinamica dell’AOU di Cagliari, diretta da Luigi Meloni.

Il ruolo di direttore della clinica svolto da Pinotto Dettori fu caratterizzato da un’impronta personale, da uno stile, da un’attenzione che hanno dato un’impostazione positiva a tutto il suo lungo mandato, durato 27 anni, in una clinica dove doveva essere coordinata l’attività di oltre 130 tra chirurghi, specializzandi, studenti interni, personale tecnico-amministrativo, capo-sala, infermieri e ausiliari, per non parlare delle migliaia e migliaia di pazienti operati. Soprattutto l’attenzione per gli allievi, che qui voglio solo citare di corsa, alcuni collocati in altre cliniche a Sassari o in altre sedi, il compianto Pier Paolo Bacciu, Giuseppe Noya, Angelino Gadeddu, Ninni Dessanti alle origini della chirurgia pediatrica, Franco Badessi, Gianfranco Porcu; conosciamo ora molti retroscena, molti episodi, a cavallo tra sala operatoria e campi di caccia, tra lavoro e tempo libero.

Emergono i due allievi prediletti di sempre Pietro Niolu e Alberto Porcu, che Dettori conosce da quasi quaranta anni e che ritiene <<chirurghi di straordinarie capacità tecniche e morali>>. Niolu nel campo della chirurgia digestiva, epato-bilio-pancreatica, endocrina, vascolare e toracica fino al primariato all’Ospedale SS.ma Annunziata. Porcu con questa forte inclinazione per la chirurgia epato-bilio-pancreatica e i trapianti epatici, un tema maturato a contatto con Mauro Salizzoni a Le Molinette di Torino, ma anche a Miami con Andrea Tzakis, a Parigi con Heny Bismuth.

Il rimpianto è quello di non esser riuscito a radicare a Sassari il Centro per i trapianti epatici, ma l’esperienza internazionale fatta da Porcu a questo scopo non è andata perduta: ordinario dal 2006, ha diretto dopo Noya la struttura di chirurgia d’urgenza e poi ha ereditato la direzione della clinica chirurgica a partire dal I novembre 2012. A Niolu e Porcu, Dettori guarda davvero con affetto e stima, per la statura professionale e umana di entrambi. Del resto, per riprendere una frase di Pietro Valdoni, <<Guai a quel maestro che non è in grado di formare almeno un allievo più bravo di lui>>.

Un largo spazio è dato nel volume agli altri allievi e collaboratori, che posso citare solo velocemente. Ad alcuni di loro mi legano rapporti di stima e gratitudine: Maria Antonietta Lamberti, Antonio Scanu che ho apprezzato in CdA tra il 2006 e il 2008, Giannella Chironi, Pierina Cottu, Pietro Marogna, Laura Cossu, Claudio Feo, Annella Carta, Rosa Ermini, Giorgio Ginesu, Alessandro Fancellu, Giuliana Giuliani, Giannino Rizzo, tutti seguiti con affetto nel corso dei loro studi e poi nella loro successiva carriera accademica o ospedaliera. Le capo sala, dalle suore iniziali alle caposala laiche, tra le quali rimane la simpatia per Pasquangela Piga e le sue colleghe fino a Rosa Spanedda, tutte attente osservatrici e protagoniste di una serie incredibile di episodi divertenti, raccontati perché fissati nella memoria con lo scopo di alleggerire la tensione dell’intervento, superare le preoccupazioni per la vita del paziente, creare una valvola di sfogo per una tensione che in nessun modo doveva esplodere in sala operatoria. Gli infermieri di reparto e degli ambulatori, circa 70 unità, distribuite nel complesso operatorio, forte di tre sale chirurgiche, nel reparto di degenza femminile, forte di 30 letti, più tre riservati al day-surgery; nel reparto di degenza maschile, forte di 28 letti, più due di day-surgery; nel complesso ambulatoriale, con due ambulatori per chirurgia generale, due per chirurgia vascolare, due per senologia clinico/diagnostica ed uno per ecografie trans-rettali e controllo degli stomizzati; nel settore diagnostico strumentale, con due locali per la diagnostica vascolare; nel settore endoscopico digestivo, composto da una saletta d’attesa e da due ampi locali contemporaneamente operativi, dotati di gastroscopi, colonscopi e rettosigmoidoscopi. Un capitolo speciale è dedicato agli infermieri professionali strumentisti e agli infermieri generici di sala operatoria: Pinotto Dettori con poche pennellate ha la capacità di far emergere le singole figure, caratterizzate per la serietà, la dedizione, la bravura, l’impegno; non solo nomi ma personaggi, perché il professore conosceva le origini (penso a Gavino Nurchis di Sorso), le qualità, le capacità e le potenzialità di ciascuno. Ancora i portantini, i barellieri, gli ausiliari, gli operatori socio-sanitari OSS.

Infine gli specializzandi, il personale tecnico amministrativo dal segretario storico Mario Derosas a metà degli anni 60 fino a Tino Micelli, che è voluto andare in pensione in contemporanea con il suo direttore. Per non citare anche Daniela Petretto, Fabrizio Cossu, Edoardo Dasara e tanti altri. Solo l’attenzione del personale di segreteria ha consentito al primario di compensare la sua totale impossibilità ad assolvere di persona agli innumerevoli impegni burocratici e alle loro perfide scadenze, recluso com’era – così si esprime -, all’interno di quell’amata prigione che si era scelta, ove, tra sala operatoria, reparti di degenza, ambulatori, visite, attività didattica, attività di ricerca scientifica, discussione quotidiana di casi clinici, attività accademica con i suoi onerosi impegni, politica di Facoltà, partecipazione attiva a congressi locali, isolani, nazionali ed internazionali, urgenze operatorie diurne e notturne, e quant’altro volete aggiungere, non era matematicamente possibile per lui disporre di un solo straccio di minuto da dedicare a qualsiasi altro impegno.

Non manca la gratitudine per una collaborazione con gli anestesisti e i rianimatori, da Paolo Ruju a Gavino Ligios, da Agostino Frassetto a Pietrino Mastroni a tanti altri. Per i colleghi della Facoltà, in particolare il preside Giuseppe Madeddu, il direttore di neurochirurgia Carlo Perria, il neonatologo Angelino Dore, il direttore di anatomia Gianni Massarelli: <<Mentre scrivo – conclude il prof. Dettori – i vostri volti amichevoli e sorridenti mi scorrono uno per uno davanti agli occhi, e ancora oggi mi ispirano simpatia e forti sentimenti di gratitudine. Grazie a voi tutti, infatti, ed alla vostra grande professionalità, ho potuto vantare, al termine della mia faticosa, ma per me come per voi, sempre meravigliosa ed amata vita professionale, una casistica operatoria di assoluto valore numerico e qualitativo, in buona parte costituita da interventi di alta ed altissima chirurgia, con risultati altamente competitivi>>. Senza dimenticare i colleghi di altre Facoltà, tra quali l’amico Paolo Muzzetto, i fecondi rapporti di collaborazioni con i Rettori da Antonio Milella e Vanni Palmieri fino a Massimo Carpinelli, con una gratitudine specialissima per Alessandro Maida, preside e rettore al quale Pinotto sa di dovere moltissimo.

In parallelo questo volume sviluppa i temi legati alla didattica, all’insegnamento, alle tante discipline impartite, anche a tanti episodi curiosi e divertenti; infine la ricerca, le pubblicazioni, l’attività congressuale, i simposi, i corsi di aggiornamento; ancora il rapporto con la politica, la forte amicizia con l’Assessore Giorgio Oppi che oggi è con noi, l’impegno per nuove apparecchiature, nuovi spazi, nuovi investimenti per difendere i risultati raggiunti, per riconoscere le professionalità esistenti, per evitare l’emigrazione dei nostri malati. Per queste ragioni la nascita del Mater Olbia voluto da una strana alleanza internazionale gli sembra ancora oggi un pericolo per la qualità della sanità sassarese ora finalmente riunificata nell’AOU. I rapporti con la sanità cagliaritana.

Quando il 19 ottobre 2012 i suoi allievi organizzarono una giornata in suo onore in questa aula magna, il professore ascoltò le lezioni di alcuni maestri arrivati da Parigi e Londra (Henry Bismuth, Daniel Azulay, Paola Andreani) e ricevette dal suo Ateneo una medaglia ricordo e il sentimento diffuso di stima e rispetto.

In questo libro ci sono anche delle deliziose pagine dedicate alla vita privata, e in Meglio operare che operato, si racconta del debito di gratitudine verso Paolo Tranquilli Leali, verso Carlo Doria, Luca Cavazzuti, Teresanna Zolo per il doppio difficile intervento di artoprotesi d’anca, resosi necessario per questa artrosi bilaterale delle anche, causata credo dalle faticose esperienze di caccia sui monti di Dorgali.

E allora concludiamo proprio con la caccia e il tempo libero, partendo dai questi meravigliosi cani compagni di vita. L’autore si intenerisce e si sente in dovere di ricordare i cani da caccia ai quali è stato più affezionato e che gli hanno dato tante soddisfazioni, protagonisti di tante straordinarie avventure, ricordate con l’animo di un ragazzo curioso e sempre capace di sorprendersi: il pointer bianconero Rudi, soprannominato il professore, Loa delle Vallate, setter femmina bianconera, soprannominata “l’eccelsa”; Naìs delle Vallate, setter femmina bianconera, detta “la beccacciaia”; Rey della Bassana, figlio diretto del mitico campione internazionale Lopez della Bassana, setter maschio bianco-fegato di rara bellezza, detto ”superdog”; Vespa, insuperata setter femmina bianco-albina, nota come “miss caccia” e forse la più straordinaria fra tutte Freccia delle Vallate, setter femmina bianconera, detta “non ce n’è per nessuno”. Ed infine oggi, l’ultima campionessa, la bellissima setter gordon nero-focata, Zama ossia “il folletto”, un soprannome coniato durante la caccia alle beccacce. Come dimenticare il mio epaniel breton Full del Piceno o Teodosio Rusty dell’Alta Nurra ?

Non vengono dimenticati i cani degli amici, come Argo di Lorenzini, il bracco francese bianco nero pezzato di altissima geneaologia. Esilarante è la vicenda di Sancio, il magnifico setter bianco-arancio del professore fiorentino Francesco Saverio Rucci, specialista nella caccia alle quaglie sulla strada dei due mari: <<Sancio, veniva descritto dal padrone come un campione inarrivabile, dotato di un naso iperosmico di portata analoga al radar degli aeroporti, forte ed instancabile, appassionato cacciatore, ma soprattutto munito, come sua massima credenziale di spicco, della più solida e statuaria “ferma”, osservabile solo nei veri campioni>>. Una ferma così statuaria che, dopo una folle corsa, il cane si bloccò del tutto e <<alla fine, di comune accordo, sollevammo in due il povero Sancino e lo trasferimmo nel cassone del fuori strada, ove mantenne, non ci crederete, sempre la stessa identica posizione di ferma!>>.

C’è un’altra storia esilarante che riguarda il cane del prof. Tiberio, Bacone, un cocker bianconero piccolo di taglia e lunghissimo di orecchie, secondo il proprietario gran cacciatore di pernici, in realtà un pigrone totalmente incapace ma opportunista, bravissimo nello sfruttare a tradimento l’abilità della più solerte Loa l’eccelsa: così quel giorno a Chiaramonti, quando Bacone continuò a impadronirsi della selvaggina scovata da altri cani in ferma, sopraggiungendo di corsa e impedendo ai cacciatori di arrivare in tempo per avvicinarsi alla zona-tiro, innervosendo la campionessa che iniziò a tentare di precedere il furbissimo collega, interrompendo nervosamente la ferma quando udiva la corsa sfrenata di Bacone. Dice Pinotto di aver subito allora il massacro delle giornate di caccia, la massima salvaguardia della selvaggina, il cattivo addestramento alla ferma dei suoi cani solo per rispetto per il primario, che finalmente riuscì a capire di dover lasciare a casa il cocker Bacone e il figlio Guidino.

Introdotto dall’amico Ugo Ticca a Dorgali quando aveva 16 anni, Pinotto oggi conosce i migliori luoghi di pesca e di caccia del territorio di Dorgali, tra Osalla, Cartoe, Gonone, Fuili, Nuraghe Mannu, Cala Luna, il Bue Marino: la bellezza della costa calcarea, l’incanto del mare smeraldo, la dolcezza delle dune di sabbia bianchissima fra le quali si annidano boschetti di ginepro, il lentischio come il rosmarino e, soprattutto, l’elicriso, il cui profumo invadeva l’aria. Guardandosi indietro sembrano scomparire gli anni trascorsi che hanno conosciuto anche i sequestri di persona, perché, come ha scritto in questi giorni Franco Mannoni, <<ci si dimenticava, a un’ora da Nuoro e dalle Barbagie, dei banditi e dei manifesti-taglia con le fotografie dei latitanti affissi ai muri. Il bagno aveva un effetto liberatorio, purificatore>>.

Ma è soprattutto all’interno che Pinotto si è concentrato verso luoghi meravigliosi che mi sono cari come oltre la valle di Isalle, Oddoene, Lanaittu, Tiscali, la gola di Gorruppu. E poi all’ingresso del paese le grotte di Ispinigoli, Serra Orrios e le fonti di San Giovanni, lo Spirito Santo e Golloi con i resti della strada romana orientale che collegava Tibula con Carales. Luoghi che hanno un significato anche per noi archeologi che abbiamo studiato la Viniola sul rio Flumineddu a N.S. del Buoncammino, in regione Oddoene, un’area fertile dove dovevano essere impiantati piccoli vigneti che segnavano il paesaggio in età imperiale; da qui la strada si arrampicava prima di Su Gorroppu per Genna Silana per entrare nella misteriosa Ogliastra. Il sole, il mare, il vento, i monti: un ambiente fantastico, ricco di cinghiali e non solo. Un grande onore per l’Università è stato il fatto che Pinotto abbia ricevuto a Dorgali il 5 novembre 2011 la cittadinanza onoraria dal sindaco Angelo Carta.

Voglio ricordare però anche Padria-Gurulis vetus, con la riserva dell’avv. Pietrino Passino ed ora quella di Pier Felice Poddighe ai piedi di Monte Minerva, con la compagnia di caccia di S’Aldiga, che ho avuto modo di conoscere, anche se solo a pranzo, con tanti amici, compreso il veterinario Muzzetto, celebre per ricucire cani e cinghiali.

Guardando le immagini del pranzo di caccia a Berchidda mi viene di pensare a Niccolò Machiavelli nell’osteria di San Casciano: <<Con questi io m’ingaglioffo per tutto dí giuocando a cricca, a trich-trach, e poi dove nascono mille contese e infiniti dispetti…>>.

Ma poi: <<Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui>>.

Sono infine tante le pagine dedicate alla moglie Cicci Gaiani dalla iniziale simpatia in clinica e fino al matrimonio a Saccargia nel 1972, col suo laboratorio di analisi di Via Diaz. Forse mi sbaglio, ma mi è sembrato quasi che qualche pagina di questo libro sia stata scritta a sei mani, perché ogni tanto spuntano i ricordi della Signora, come per l’esame con Occhipinti. Ancora i figli, l’avvocato Giacomo e il microbiologo Marco, i nipotini amati Matilde, Riccardo e Federico. Tanti affetti, tanti amici, tanta simpatia, tanta voglia di amare da parte di un uomo che non ha conosciuto la solitudine.

Credo di dover concludere: tra i motivi dell’amicizia con Angelino Dore ho visto ci sono i cani Lea e Zama, la raccolta di asparagi e funghi, la pesca, il legame con un amico di Castelsardo provetto arrostitore, capace di far gustare deliziose triglie arrosto.

Per un momento lasciatemi tornare ai miei temi su Roma antica. Ho pensato alla lettera scritta nel 52 a.C. da Milone a Cicerone, che non era riuscito a difendere l’amico durante il processo per l’uccisione di Clodio. Condannato, Milone se ne era andato in esilio a Marsiglia e scriveva a Cicerone commentando la famosa orazione in suo favore meravigliosamente scritta ma mai recitata in pubblico per le proteste dei populares: «Per me è stata una fortuna che queste parole non siano state mai pronunciate in tribunale. Altrimenti non starei a gustare triglie arrosto qui a Marsiglia, se fosse stata pronunciata una tale arringa».

Spero che queste mie parole non abbiano rovinato l’appetito di Pinotto e di voi tutti.




Manlio Brigaglia a un anno dalla scomparsa

Manlio Brigaglia a un anno dalla scomparsa
Attilio Mastino, 10 maggio 2019

Vorrei riuscire ad esprimere il dolore e l’emozione che provammo il 10 maggio di un anno fa, quando Manlio Brigaglia ci aveva improvvisamente lasciato, circondato dall’affetto degli amici, dei colleghi, degli studenti, di tanti Sardi. A Palazzo Segni avevamo tentato di condividere insieme un lutto e di superare un vuoto che dopo un anno rimane intatto.

Ci aveva tanto colpito la sua scomparsa, avvenuta sul lavoro, quasi sotto i nostri occhi, dopo la presentazione due giorni prima in aula Magna con Sabino Cassese e Paolo Pombeni del volume “La macchina imperfetta” in età fascista. Proprio in quel suo ultimo difficile intervento all’Università Brigaglia aveva mantenuto la linea di uno strenuo impegno civile e democratico e aveva voluto ricordare il legame con Antonio Pigliaru, la lezione di Antonio Gramsci, il contributo della Sardegna per un’Europa migliore. Un’eredità che lascia per intero a quella generazione di studiosi che è stato capace di formare, spronandoli ad allargare lo sguardo verso un orizzonte largo condividendo passioni comuni e l’amore per la cultura.

In quei giorni al cinema davano la sua intervista sul film di Fiorenzo Serra, “L’ultimo pugno di terra”, con quella transumanza di pecore e ma anche di uomini lontano dall’isola. E quella frase ripresa anni dopo da Gavino Ledda a proposito della desertificazione e del disagio sociale degli anni ‘50, con quella espressione tremenda <<maledetto quell’autobus, maledetto quel treno che svuota il mio paese>>. Quanta pena per la Sardegna, quanto desiderio di vedere un tempo nuovo, quanto amore per la sua gente, i suoi allievi, i suoi studenti, la sua famiglia, in particolare per Marisa, che ha seguito giorno per giorno con la ricchezza del suo affetto e la sua intelligenza.

Tutti ricordiamo l’impegno intellettuale e la ricchissima sequenza di successi professionali di Manlio Brigaglia, ad iniziare dalla rivista di alta cultura e di politica  “Ichnusa” di Antonio Pigliaru, poi da lui diretta tra il 1982 e il 1993 assieme a Giuseppe Melis Bassu e a Salvatore Mannuzzu, la fondazione dell’Istituto di studi e programmi per il Mediterraneo, la direzione di Autonomia Cronache e dei Quaderni Mediterranei, la collaborazione con Radio Sardegna e con la Rai, L’Unione Sarda che aveva lasciato nel 1994 in un momento di polemica assieme a Giovanni Lilliu; poi la pagina quotidiana su La Nuova Sardegna, le mille imprese con tanti editori diversi nelle quali ci aveva coinvolto, sempre con spirito critico, con rispetto, generosità, voglia di capire, aprendoci orizzonti nuovi. Perché Brigaglia è stato soprattutto un democratico pieno di idee originali e di curiosità, dal quale ci aspettavamo sempre una battuta ironica, un’informazione strana, un retroscena che spesso ci lasciavano senza parole, invitandoci a non prenderci troppo sul serio. Oggi constatiamo che più di quanto non pensasse ha contribuito a trasformare l’idea stessa di Sardegna nell’immaginario collettivo dei suoi lettori, con un coinvolgimento capillare di tanti Sardi che hanno amato i suoi scritti nelle città, nei paesi e nei villaggi dell’isola, un pubblico vastissimo e fedele.

Quando nel 2002 aveva lasciato la cattedra, aveva terminato l’insegnamento universitario (Storia dei partiti e dei movimenti politici e Storia contemporanea) ed era andato in pensione, lo avevamo ricordato con il volume di studi in onore pubblicato da Carocci “Dal mondo antico all’età contemporanea” con oltre 40 saggi. In quell’occasione Gian Giacomo Ortu ci aveva ricordato che per lui andare in pensione non sarebbe stato possibile, perché avrebbe continuato come e forse più di prima a dipanare il filo di un impegno intellettuale ammirevole per durata e per coerenza. Sullo sfondo rimaneva la vitalità dell’insegnamento liceale di italiano e latino all’”Istituto Principe” il Liceo Azuni tra il 1955 e il 1977; poi la docenza universitaria nelle Facoltà di Magistero dalla fondazione, quindi Lettere e Filosofia e Scienze politiche tra il 1971 e il 2001, per la Storia contemporanea, il giornalismo, la comunicazione; la direzione del Dipartimento di Storia che aveva fondato con tutti noi nel 1982. Il vertice della sua carriera accademica credo sia stata la Presidenza del Consorzio tra le due Università per la Scuola di specializzazione per insegnanti, alla quale era stato chiamato dai Rettori Alessandro Maida e Pasquale Mistretta. Più ancora Brigaglia si è speso nell’organizzazione della cultura, soprattutto nel campo dell’editoria che ha contribuito a far maturare anche in Sardegna con la produzione di libri di contenuto e di fattura sempre migliori; ma anche nel campo della pubblicistica con la creazione di riviste che hanno quasi sempre lasciato il segno; infine con la promozione, direzione e incoraggiamento di enti e di istituzioni di ricerca extra-accademici e associazioni che si sono nutriti del suo insegnamento.

Questa sua straordinaria dote, la sua profondissima cultura classica, la sua proverbiale memoria, il suo talento spiegano il numero enorme di pubblicazioni per oltre 60 anni, con una sostanziale continuità e coerenza, con un carattere documentario ed enciclopedico. Ne ha parlato lui stesso nella lunga intervista rilasciata a Tonino Oppes che è stata proiettata stamane a Torino al Salone del libro; e nell’intervista raccolta da Salvatore Tola e Sandro Ruju, pubblicata in Tutti i libri che ho fatto per Mediando, a metà tra confessione e autobiografia.  Innanzi tutto la centralità della democrazia come scelta culturale, le ricerche sull’origine del fascismo e sull’antifascismo sardo, approdate come sono alle figure di Antonio Gramsci, Emilio Lussu, Velio Spano, Angelo Corsi il sindaco di Iglesias, fino al volume sull’antifascismo curato assieme a Francesco Manconi, Antonello Mattone e Guido Melis; la collaborazione con Mario Da Passano, Piero Sanna, Francesco Soddu, o quella con Luciano Marroccu sul tema degli intellettuali e la costruzione dell’identità sarda tra Otto e Novecento; il senso di una politica alta e nobile; poi tante altre questioni, i temi sociali, quelli relativi all’editoria, che hanno fornito una preziosa consulenza al legislatore regionale. E poi le sue traduzioni di La Marmora pubblicate poi con Simone Sechi e Eugenia Tognotti, William Smith, Le Lannou; dal 1975 la sua collana di Storia della Sardegna antica e moderna per Chiarella sponsorizzata da Alberto Boscolo, in perpetuo conflitto col mio maestro Piero Meloni sulla Sardegna Romana; la collana del Dipartimento inaugurata con il volume sulla Brigata Sassari di Peppinetta Fois;  lo sforzo di confezionare opere fondamentali come l’Enciclopedia de La Sardegna assieme a Guido Melis e Antonello Mattone a partire dal 1982, e poi nel 2007 i 22 volumi della Grande Enciclopedia della Sardegna per La Nuova. Tanti altri strumenti di orientamento bibliografico, le sue guide, le sue antologie divulgative, le sue sintesi indirizzate alla scuola come i 5 volumetti di Storia della Sardegna firmati anche da me e Giangiacomo Ortu per i licei nella collana delle Storie regionali di Laterza o Tutti i libri della Sardegna. Con Salvatore Tola il Dizionario Storico-Geografico dei Comuni della Sardegna, del 2006. La collaborazione con gli editori Della Torre, Gallizzi, Stampacolor, Carlo Delfino Cuec, Edes, Ilisso, Iniziative Culturali, Soter, EdiSard, Archivio Fotografico Sardo, fino alla Silvana Editoriale di Cinisello Balsamo, ad Einaudi e Carocci.

A caldo, un anno fa era prevalso il senso della perdita irreparabile, il dolore per la scomparsa di una persona che ci ha aiutato tutti i giorni, alla quale guardavamo con ammirazione e senza riserve, cercando le occasioni per incontrarci, come a Palazzo Ciancilla nei pomeriggi, quando preparava la sua lezione e lo aspettavamo solo per la gioia di parlare con lui. Oppure quando raccoglieva gli articoli per i 5 numeri dei Quaderni Sardi di Storia: nell’introduzione (Un’altra rivista di storia?) già dal 1980 ripensava il Sessantotto, riconosceva superata non solo l’azione delle Deputazioni di storia patria ma pure le ricerche localistiche strette negli schemi angusti della storia “separata” dei gruppi subalterni; rilanciava in Sardegna contro il tema dell’isolamento e della chiusura l’obiettivo del confronto e della contaminazione con le altre realtà del mondo mediterraneo; indicava la strada di una sinergia e un dibattito tra le due Università sarde; sottolineava il valore della differente provenienza di esperienze, di campi di ricerca, di interessi scientifici e persino di orientamento ideologico dei redattori, cattolici e laici, con uno sguardo attento alle fasce sociali deboli, agli ultimi, con un senso di comprensione e di partecipazione per la sofferenza degli altri. La Sardegna come parte integrante della realtà mediterranea, meridionale ed europea, ma anche emblematico terreno di verifica dei problemi delle aree periferiche in genere. E poi, citando Michelangelo Pira, la contaminazione tra storia e antropologia dall’antichità al mondo contemporaneo.  Infine il rifiuto di una subalternità rispetto alla storiografia straniera sul tema della continuità culturale della Sardegna, che ci aveva convinto ad affrontare con l’articolo critico sulla produzione statunitense, in particolare di Robert Rowland; oppure indirizzandoci verso il Nord  Africa. Non dimentico i tre volumi di mio padre, che aveva voluto correggere tagliando – come scherzava – una riga sì e una riga no, facendone poi dei libri godibili e profondi.

Oggi noi sappiamo di aver perso con il prof. Brigaglia il rappresentante di una stagione in cui i maestri sapevano costruire davvero una relazione intellettuale e umana con gli studenti che durava tutta la vita, oltre le differenze, nella piena libertà di pensiero. Del resto non ignoriamo quanto il lavoro da lui svolto ci abbia cambiato nel profondo: ed è per questo che oggi ricordiamo il nostro comune debito di riconoscenza, le sue straordinarie doti umane, la sua curiosità intellettuale, il suo spirito acuto e pungente, il suo gusto per le cose belle, il desiderio di una Sardegna più felice.




Scritture antiche e moderne

Scritture antiche e moderne
Attilio Mastino
Ittireddu, Ammentos, Archivio Memorialistico della Sardegna, I convegno internazionale, 5 maggio 2019
Sintesi

Sto rileggendo in questi giorni un volume postumo di Marco Tangheroni intitolato Della Storia, con un arguto commento agli aforismi del boliviano Nicolàs Gomez Davila: particolarmente originale mi pare il giudizio sui gravi limiti – scusate ma riferisco tra virgolette – della sociologia e delle altre scienze sociali, che si occupano prevalentemente della contemporaneità e tendono a perdere la ricchezza della profondità della storia. L’antropologia contemporanea, come la sociologia sembra appiattita sul presente – sono parole di Tangheroni – e non ha molta voglia di fidanzarsi con la storia. Al di là delle battute, forse è utile che uno storico come me inizi a parlare ad un incontro aperto come questo, sperando che in futuro si sviluppi la riflessione sul rapporto tra scienze sociali, etnografia, antropologia e la storia sulle tracce di Max Weber, verso un confronto con la dimensione del tempo trascorso; si riesca cioè di estendere metodi e capacità scientifiche di analisi anche alla realtà passata ed all’immagine del passato che si è andata affermando nel mondo contemporaneo.

Dunque partirei dall’antichità, dai graffiti osceni sulle pareti dell’ipogeo di San Salvatore di Sinis con le frasi che tanto ci hanno stupito, espressione immediata e irripetibile di un momento storico, di una cultura, di una passione; partirei dalle scritture antiche, alle quali ho dedicato tutta la mia vita: vorrei dire che l’archivio che oggi  inauguriamo non potrà essere un deposito tradizionale di ricordi, ma dovrebbe essere rivitalizzato dal rapporto con la contemporaneità.  Ad esempio penso sia necessario avviare una sinergia con il contiguo Museo archeologico di Ittireddu, dove sono conservati i mattoni con incise le scritte che ricordano la liberta amata da Nerone Claudia Acte, conosciuta per l’attività delle sue aziende tra Olbia e Hafa, tra Mores e Bonorva; almeno vorrei ricordare le recenti strabilianti scoperte delle scritture rupestri, le epigrafi incise sui miliari stradali, le terme di Sant’Andrea Priu e di Sas Presones a Rebeccu.  E poi gli archivi antichi, i tabulari di Turris, di Tharros, di Carales, come quello ricordato sulla Tavola di Esterzili, che contiene un prezioso riferimento al tabulario urbano, il Tabularium del Principe sul Palatino, forse anche al Tabularium del Senato sul Campidoglio.

Per arrivare a tempi più vicini a noi, le prime relazioni di oggi, l’introduzione del sindaco Franco Campus e di Gavina Cherchi, gli interventi di Claudia Sias e Rita Onida, ci hanno riportato ad una dimensione alta della politica, che spesso trascuriamo, alle memorie di chi si oppose al fascismo e di chi lottò per la libertà di tutti, conservate nelle lettere, nei diari, nei documenti che troppo spesso non sono stati portati all’attenzione degli storici.  Oggi, a pochi giorni di distanza dalle celebrazioni del 25 aprile, come dimenticare il discorso di Piero Calamandrei ai giovani, dove raccomandava di abbandonare le carte morte e i testamenti, per provare attraverso le carte emozioni, impegno e passione.  Allora occorre che l’Archivio Ammentos di Ittireddu promuova una sinergia con molti altri soggetti:  l’Istituto superiore regionale etnografico di Nuoro, il Premio di letteratura sarda Città di Ozieri, la Soprintendenza archivistica della Sardegna, istituzionalmente inserita nella struttura organizzativa del Ministero per i beni e le attività culturali, che nell’intero territorio regionale ed esercita la vigilanza sugli archivi degli enti pubblici (Regione, comuni e altri enti, compresi gli istituti scolastici statali) e su quelli privati  (ad es. di banche, imprese, famiglie, persone) di interesse storico particolarmente importante.

In questo quadro, aggiungerei oggi un piccolo tassello personale relativo a mio nonno, Attilio Mastino (Bosa 1882-Cuglieri 1956), punito col carcere e con robuste bevute di olio di ricino perché si era mantenuto sardista, come testimonia l’articolo su “Il solco” del I aprile 1924: mi ricordo che quando ne parlai con Girolamo Sotgiu pianse, ricordando l’olio di ricino che era stato somministrato a forza ad Olbia al padre, obbligato a restare sul palco di un comizio fascista fino a quando non fu umiliato pubblicamente.

Ho ricordato in passato che quando ritrovai il diario giovanile di mio nonno, nascosto tra le carte di famiglia ed in parte occultato dallo pseudonimo Amalio Stinotti, volli farne trascrivere i testi, un po’ per curiosità ed un po’ per divertimento: si tratta di un libriccino di 60 pagine, così descritto nel 1899 da Antioco Solinas: <<quel minuscolo libercolo, ma per te infinitamente caro e grande, perché racchiude in se tante dolci memorie; dalla coperta di perla, fregiato di bei fiori di seta, lode alle mani che vi si trattennero, e dai fogli formicolanti di frizzi e di sentenze più o meno nuove, più  o meno saggie che tanta pompa di se fa e farà sul tavolino del tuo salotto>>. 
Mi accorsi poi, rileggendo questi testi, quanto brillante, intelligente e scanzonata fosse la congrega di personaggi che ha accompagnato la giovinezza di mio nonno: tra essi i notissimi Rinaldo Caddeo e Damiano Filia, ma anche Giovanni Nurchi (il poeta dialettale bosano, cugino di Attilio) e Saverio Meloni (poi divenuto cognato,  quando sposò la sorella Nevina), assieme a tanti altri; in questo gruppo di giovani bizzarri, quasi tutti accesi anticlericali, compaiono anche i devoti seminaristi, consapevoli come Antonio Mastino Ledda, studente in S. Teologia, di dover vivere <<senza baci né carezze d’amante, di sogni ideali fra gl’inganni e i pentimenti  educato a lacrimar alla severa scuola della sventura; … infelice>>; tra questi giovani, isolata ma non a disagio, compare un’unica donna, la sventurata Pierina Bassoli Tola.

Scritto in gran parte a Bosa (ma anche a Cuglieri, a Santu Lussurgiu, a Sennariolo, a Bonarcado), questo diario contiene notizie e commenti sulla vita dei giovani studenti di Bosa, della Planargia e del Montiferru tra il 1897 ed il 1909:   queste pagine riflettono con immediatezza un mondo articolato, complesso, brillante e malinconico, credo ben diverso da quello per esempio che abbiamo documentato per gli stessi anni a Nuoro e nel retroterra barbaricino: si veda l’atteggiamento aperto e scanzonato verso l’amore, documentato ad esempio ne <<la formola matematica del cosidetto Amore delle donne>>, attorno al numero 69. Questi giovani studenti appaiono sicuri di sé, un po’ leggeri, pieni di speranze, innamorati, incapaci di resistere alla seduzione (<<Ora la bella servetta dalle forme scultoree che attira la mia attenzione e vuole per se un pò del mio tempo, prezioso quel tempo! indicato allo studio. Ora la vezzosa signorina che ha saputo farsi un pò di largo nel mio povero cuore, ora …… finalmente la mia bella …. dagli occhi ladri, la vendicativa (la chiamo così) se appena il povero amante, che son io, tarda un momento a contentare tutte intere le di lei voglie. Insomma io mi trovo in un mare di angoscie e, ciò ch’è peggio, non ho la forza bastante per poter vincere questo tiranno del mio cuore, di me stesso, della mia esistenza, e pensare seriamente ai casi miei>>).

Il protagonista è un bizzarro allievo giudiziario, scapestrato ed elegante, che si perdeva appresso alle ragazze, anche se un po’ scrofolose, con una serie di disavventure che ci vengono descritte nei dettagli da Saverio Meloni: <<quel giovine che voi vedete uscire di pretura ogni mezzogiorno, con un paletot all’inglese quasi bleu, se d’inverno, e con un bell’abito bianco se d’estate, d’una statura media, dal colorito sempre sano, dagli occhi neri e lucenti come l’ebano, con un paio di baffetti lunghi mezzo centimetro, dall’andatura spiccia quasi avesse fuoco ai piedi>>. E poi : <<Il nostro caro amico Amalio Stinotti è un accanito fumatore, un camminatore di primo stampo, un fotografo riuscito, un agile nuotatore, un attillato ganimede, un perfetto ballerino ed un tempo ed anche oggi uno scrupoloso osservatore delle leggi di Bacco>>. E, a proposito delle donne: <<Dappertutto egli stabiliva bottega, con tutte, bisogna dire, s’intendeva, e con tutte doveva romperla  dopo che ne era stuffo. Si diede spessissime volte a dar la caccia alle servotte, e quella che maggiormente prediliggeva era una paffutella, dagli occhi cerulei, bruna ricciuta, coi lombi sporgenti alquanto all’infuori e col passo cadenzato alla bersagliera>>. Spero che la famiglia voglia donare l’originale di questo diario ad Ammentos.

Divenuto più grande, mio nonno conobbe la tragedia della scomparsa in guerra (il 7 luglio 1916) di suo fratello Graziano, recentemente raccontata dal Maggiore Gerardo Severino: il Mastini di Emilio Lussu (Un anno sull’altipiano) è proprio Graziano Mastino: <<Io ho dimenticato molte cose della guerra, ma non dimenticherò mai quel momento. Guardavo il mio amico sorridere, fra una boccata di fumo e l’altra. Dalla trincea nemica, partì un colpo isolato. Egli piegò la testa, la sigaretta fra le labbra e, da una macchia rossa, formatasi sulla fronte, sgorgò un filo di sangue. Lentamente, egli piegò su se stesso, e cadde ai miei piedi. Io lo raccolsi morto>>.

Mio nonno era cugino di quel Nuorese, Pietrino Mastino, fondatore del Psd’Az, deputato e nel secondo dopoguerra costituente (ricordato nei giorni scorsi da Annico Pau su La Nuova), difensore di Emilio Lussu, che è ampiamente ricordato con ammirazione nell’edizione de Il giorno del giudizio di Salvatore Satta (con il nome ripristinato da Aldo Morace).

In realtà mio padre Ottorino, scomparso a 99 anni di età, nella poesia Tue anzianu hoe, scriveva che bisogna evitare di sentirsi vecchi e che comunque gli anziani non debbono perdersi dietro i ricordi: <<Bezzu non sìasa / si anzianu sese / su chelveddu activa / fui sos ammentos, / cria>>.

Ma lui stesso citava poi i proverbi logudoresi che invece esaltano i ricordi: <<Sa domo chi ammentada sos moltos, est beneitta cun tottu sos bios>> oppure <<Nois ammentamos cun piaghere cando fìmisi giòvanos ca bi acciapamos sas cosas mezzus chi amos pèldidu>>.

Daniela Murru per il Coro Mont’e Gonare ha scritto: <<Ammentos, sichidemi a pessichire / Cantandemi unu cuncordu / E una disisperada / A sonu de sa chiterra / In d’una notte ‘e veranu, de veranu. / Ammentos de una povera domo / Prena de povera zente / Ricca de umanidade / Ch’ischiat a piangher’e riere / Piangher’e riere. / Ammentos, sichidemi a pessichire / Dademi unu vestire istrazadu / E duos pedes pitzinnos / Pro currere in mesu s’erva / Luchida ‘e lentore. / Ammentos, ammentos, ammentos.>>.

Oggi ad Ittireddu nasce con tante emozioni “Ammentos”, l’arca salva-memoria. Carissimi Auguri a tutti noi.




Il finanziere Giovanni Gavino Tolis a cento anni dalla nascita.

Il finanziere Giovanni Gavino Tolis a cento anni dalla nascita
Chiaramonti, 4  febbraio 2019
Intervento di Attilio Mastino

Signor Sindaco Alessandro Unali, Signor Colonnello Giuseppe Cavallaro,  Autorità, Cari amici,

ricorre oggi il centenario dalla nascita di Giovanni Gavino Tolis, il finanziere di Charamonti che, per usare le parole di una recente poesia (di Angelino Tedde), non ha giocato a fare l’eroe ma lo è stato senza saperlo: preso, imprigionato, schiaffeggiato, colpito, massacrato, spogliato, deriso, sbeffeggiato, abbattuto: non sapevano / gli aguzzini / che si sarebbe aperto / il Cielo. / Hanno bruciato / il tuo corpo, / ma non la tua anima. / Ti hanno ridotto / in cenere nella carne, / ma non la tua virtù / di generoso eroe.

Inaugurando la nuova Caserma della Guardia di Finanza a Sassari il 31 luglio scorso il Comandante Regionale Gen. B. Bruno Bartoloni, ora trasferito a Firenze, ha ricordato la figura di Giovanni Gavino Tolis, morto prigioniero in Austria a Gusen – Mauthausen il 28 dicembre 1944; e ciò proprio in occasione dell’intitolazione al finanziere Tolis della nuova sede del Comando Provinciale del Nucleo di Polizia Economico Finanziaria e della Compagnia di Sassari. La presenza del Colonnello Giuseppe Cavallaro oggi ci onora tutti, testimoniando un’attenzione doverosa per il delicato lavoro di indagine portato avanti in questi anni, nel quale il maggiore Gerardo Severino – definito recentemente su Avvenire “il cacciatore di Giusti” – ha coinvolto un po’ tutti, attraverso testimonianze, documenti di archivio, ricerche scientifiche, fino al ritrovamento dei fascicoli personali, dei premi, dei giorni di congedo, perfino delle lievi sanzioni disciplinari.

Qualche settimana prima dell’inaugurazione della nuova caserma era uscita a Sassari per le Edizioni Delfino  la monumentale Storia delle fiamme gialle della Sardegna, due secoli di valore, di abnegazione e di incondizionato servizio a tutela dello Stato (1820-2018), firmata da tre specialisti di storia militare Maurizio Pagnozzi, Gerardo Severino, Mauro Saltalamacchia: un capolavoro che tratta tanti aspetti diversi, tocca le nostre famiglie, ricostruisce un radicamento territoriale che scaturisce da una ricerca lunga, appassionata, faticosissima, talora non completamente compresa, che mostra più di quanto non immaginassimo la centralità della Guardia di Finanza in Sardegna. Emergono tante vite dinamiche, aperte, spese al servizio degli altri, biografie costruite con l’obiettivo della difesa del bene comune, dell’imparzialità, dell’onestà, della dedizione. Fuori di ogni retorica – scrivono gli autori – il volume si presenta come una tangibile manifestazione di stima nei confronti dei Finanzieri sardi, in servizio e in congedo nell’ANFI, ai quali si auspica di continuare ad indossare le Fiamme Gialle con l’entusiasmo del primo giorno di arruolamento. Senza dimenticare tra essi le donne, oggi anche colleghe nella Finanza, mentre un tempo sono state mogli e figlie dei militari, dei quali hanno seguito le sorti: così la madre del nostro protagonista Maria Piga Tolis o quella Ebe Tettamanti sorella di un medico di Como che vediamo vestita a lutto per la morte del fidanzato Gavino. Essa era legata a quella Antonietta Castellini, consorte del dott. Aldo Pacifici, espulso dopo le leggi razziali dall’Amministrazione finanziaria italiana e riparato in Svizzera.

Oggi torniamo a Chiaramonti, dopo la cerimonia di sei anni fa, il 17 maggio 2012, quando fu presentato il volume scritto dal Maggiore Gerardo Severino ed edito da Carlo Delfino, con il bell’intervento del prof. Carlo Patatu; due anni prima il finanziere di Chiaramonti era stato onorato col conferimento alla memoria (con Decreto del Presidente della Repubblica del 17 giugno 2010) della medaglia d’oro al merito civile, per essersi prodigato a favore dei profughi ebrei e dei perseguitati politici, una vicenda fatta riemergere dagli archivi polverosi proprio dal Maggiore Severino; il 3 febbraio 2011 la medaglia era stata consegnata agli eredi. Sono stato qui a Chiaramonti altre volte per la Giornata della memoria dell’Olocausto del 27 gennaio, alla fine del mio mandato di Rettore dell’Università di Sassari, anche l’8 maggio 2014, anniversario della liberazione del campo di Mauthausen, per la cerimonia del conferimento della cittadinanza onoraria all’autore, il nostro amico Maggiore Gerardo Severino: in quell’occasione il Lions Club International aveva collocato la targa sulla casa di famiglia in paese. In precedenza Severino era divenuto cittadino onorario di San Nicolò Gerrei per aver ricostruito la parallela vicenda del finanziere scelto Salvatore Corrias, lo Schlinder sardo, decorato di medaglia d’oro al merito civile e anche Giusto tra le nazioni, fucilato dai nazifascisti a Como alla frontiera svizzera nel 1945. Da ultimo, nel giugno scorso, la cittadinanza onoraria a Bosa, per la ricostruzione delle vicende del battaglione R che dopo l’8 settembre 1943  partecipò alla liberazione della capitale con la V armata americana, con la figura di Salvatore Costantino Pala (commilitone di uno dei protagonisti di questo libro, Pietro Piga), per il volume sul tenente della Brigata Sassari Gaetano Mastino, soprattutto per il bellissimo libro sulla dogana dei finanzieri del porto di Bosa al centro dell’antico Delta del fiume Temo e sull’Isola Rossa.

Direttore del Museo Storico della Guardia di Finanza, Gerardo Severino con pazienza straordinaria si è dedicato a ricostruire una storia, anche recente della Guardia di Finanza in Sardegna, ha studiato con occhi nuovi la nostra isola, ha allargato i suoi interessi, è riuscito a darci il senso di un impegno, che non fu solo di pochi protagonisti arrivati a versare il loro sangue, ma fu davvero un sacrificio, uno sforzo collettivo fatto di guardie notturne, di sentinelle sotto la neve, di fermezza di fronte al pericolo, di senso del dovere da parte di uomini di cui non sempre riconosciamo il valore. È questa l’Italia migliore, l’Italia che amiamo e che può essere di esempio per costruire un futuro di pace, che certo oggi è più prossimo, con l’Unione Europea e con l’auspicabile superamento dei muri e delle frontiere tra stati, in una prospettiva di grandi intese tra popoli che ancor più oggi dovrebbero essere possibili, in barba ad egoismi sovranisti e a chiusure egoistiche di cui un giorno ci verrà chiesto conto, se resteremo insensibili di fronte a nuove deportazioni, che ogni giorno si ripetono sotto i nostri occhi. Perché, come recita un verso di Ovidio messo in testa al libro, <<Credimi, soccorrere gli infelici è cosa degna di re>>. Il senso di tutto è che la memoria non si perde col trascorrere del tempo, soprattutto che si ritrovano sempre le ragioni nascoste di una civiltà fondata sull’onore e sul dovere. Sentimenti ed emozioni che ho provato qualche anno fa visitando a Roma in Piazza Armellini, presso il Comando Generale della Guardia di Finanza, il Museo storico del corpo, accompagnato in quella visita privilegiata dal direttore, il brillante Gerardo Severino: il Museo è un luogo straordinario, pieno di memorie e fondamento essenziale per capire la ricchezza di una storia che ci riguarda tutti, me in particolare se alla mia famiglia appartiene un finanziere che si è segnalato nella difesa di Roma dai nazisti. Del resto il maggiore Severino ci ha abituato a riflettere sull’Italia tutta, dalle vette delle Alpi fino all’Etna, partendo dai tanti volumi sulla Guardia di finanza che costituiscono un’ampia biblioteca e che ha avuto la generosità di donarmi, dalla Storia dei Baschi verdi fino agli aiuti ai profughi ebrei ed ai perseguitati, arrivando all’Istria e alla Dalmazia e alla tragedia delle foibe. Tra le ultime cose nel giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo (9 maggio 2014) voglio ricordare la presentazione nell’aula magna dell’Università del volume dedicato ai finanzieri sardi Salvatore Cabitta di Porto Torres e Martino Cossu di Luogosanto, vittime del terrorismo altoatesino e medaglie d’oro alla memoria.

Lo straordinario successo del volume su Giovanni Gavino Tolis, Il contrabbandiere di uomini, introdotto dal compianto gen. Luciano Luciani, ci porta nel cuore della Shoah e spiega il ruolo positivo e generoso svolto dal giovane finanziere venticinquenne catturato dalla Gestapo, morto a Gusen nell’Alta Austria, il cui corpo fu cremato il 28 dicembre 1944 in un forno del campo di sterminio di Mauthausen: originario di Chiaramonti, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, aveva aderito alla resistenza comasca e aiutato centinaia di profughi a passare in Svizzera attraverso il confine di Ponte Chiasso in comune di Como, eludendo i controlli della polizia di frontiera tedesca. C’è in queste pagine il contrasto tra una giovinezza luminosa e felice e il gelo della galleria militare di Gusen scavata nel granito della viva roccia dai prigionieri: qui a Chiaramonti come non pensare al volume di Giovanni Soro, Camineras, con questo rimpianto profondissimo per il benessere, la gioia, la felicità di un tempo lontano, le speranze, i desideri, che vorremmo oggi riscoprire osservando da lontano il paese disteso sulla collina come un vecchio addormentato, il paese di pietra bianca sotto il castello dei Doria, che attende nella roccia del cuore spossato e stanco stagioni di acque fresche capaci di trascinare giù fino al mare turmentos mannos.

Queste pagine partono dalla geografia dei luoghi amati nel paese di origine e da quel Monte Sassu che separa di fertile territorio di Chiaramonti in Anglona (curato da laboriosi contadini) e ricco di acque dal territorio di Tula: «in altri tempi – scriveva Vittorio Angius verso il 1850 – il monte Sassu era un luogo di asilo pei banditi, dove, riuniti in grosse masnade, riposavano sicuri dopo le loro escursioni, nulla temendo della forza pubblica, perché questa mancava. Sebbene anche in tempi poco lontani continuassero a frequentarvi; tuttavolta è vero che non vi facevano ordinaria stazione, e di rado vessavano i passeggieri». E precisava: «I banditi erano non già tulesi, ma fuoriusciti dell’Anglona ed anche della Gallura».

Anche a distanza di anni rimane nel cuore del giovane sardo il ritmo scandito dal calendario delle feste locali, come il 21 settembre per San Matteo, patrono di Chiaramonti in Anglona ma anche – singolare coincidenza – patrono delle Fiamme Gialle.

Con lui erano partiti tanti altri compesani caduti in guerra, i cui nomi mi sono stati forniti in questi giorni da Maria Antonietta Solinas: il finanziere appuntato Giovanni Antonio Brunu e i carabinieri appuntato Giovanni Piga e Giovanni Maria Pulina, i soldati dispersi nella seconda guerra mondiale Stefano Solinas, Francesco Budroni, Nicolò Murru, Francesco Nela, Sebastianio Brundu. I morti in seguito a ferite o malattie come il carabiniere Amelio Serra, il soldato Giovannino Cossiga, il finanziere Antonio Lumbardu. In un campo di prigionia in Russia è morto il soldato Antonio Pinna.  Ma nell’antico palazzo comunale si conserva lo spettacolare elenco dei caduti in tutte le guerre da quel soldato Pietro Sale Fresi che è morto nella seconda guerra di indipendenza o da quel soldato Andrea Pitoto Casu nella terza. E poi la guerra etiopica, e i 24 soldati caduti durante la prima guerra mondiale, i 7 dispersi, i 4 soldati morti in prigionia, gli 8 morti a seguito di malattie o ferite. Infine la guerra in Libia, nella seconda guerra etiopica, infine nella guerra di Spagna.  Tante storie diverse, tanto dolore che emerge prepotente dalla delibera del consiglio comunale, dalle lapidi al cimitero, dai monumenti, tante famiglie distrutte da un dolore che oggi possiamo solo immaginare.

Se per un attimo usciamo dalla Sardegna, si avverte in questo libro soprattutto la conoscenza da parte dell’autore dei luoghi raccontati, anche i più lontani, dal Canton Ticino al basso lago di Como, da Cernobbio a Chiasso, le frazioni di  Brogeda, Casetta, Dogana e Laghetto, tra la Svizzera e l’Italia. Ogni avvenimento è collocato nel tempo e nello spazio, con una documentazione fotografica davvero incredibile.

Più che una biografia di un eroe, questo volume è soprattutto un affresco potente di una rete di relazioni e di rapporti, prima in Sardegna  partendo dalla famiglia allargata del ciabattino Francesco Tolis e dai cognati Piga, dai cugini Muzzoni, dagli amici Brunu o Satta; dalle proprietà di famiglia a Su Canarzu; gli anni d’oro del Fascismo e della Gioventù Italiana del Littorio prima delle farneticanti Leggi Razziali contro gli ebrei; l’arruolamento a Sassari, la partenza, la corriera per Ploaghe, il treno, la nave. Come non pensare alle scene girate da Fiorenzo Serra nell’Ultimo pugno di terra sulla corriera della Sita che negli anni 50 parte per Sassari attraversando Torralba con sullo sfondo Monte Arana o le immagini della nave che trasporta gli emigrati carichi di valigie di cartone legate con lo spago; o la frase sul maledetto treno del mio paese, quanta gente hai portato via. È questa la transumanza degli uomini, in parallelo con la transumanza delle pecore. Oppure le drammatiche pagine scritte sull’emigrazione da Gavino Ledda in Padre Padrone ?  Gli emigranti partono verso un mondo sconosciuto e lontano senza più far ritorno, proprio come è avvenuto al finanziere-ragazzo: la miseria, il dolore, ma anche la rabbia di chi parte e di chi resta, in quello che l’autore descrive come un funerale doppio, dove i morti sono ancora vivi e dove gli abitanti di Siligo che rimangono accompagnano all’autobus, come al camposanto, i parenti che partono per sempre; e dove gli emigranti a loro volta pensano di partecipare al funerale di quelli che restano, condannati ad una miseria senza scampo. La cinepresa di Fiorenzo Serra coglieva il pianto dei parenti, la sofferenza profonda, il segno di una sconfitta di un popolo intero di fronte alla miseria del dopoguerra.

Ma per Giovanni Gavino Tolis la famiglia vera finisce per essere quella dei commilitoni della Guardia di finanza, che rappresenta un punto di riferimento stabile al di là del mare:  questo libro ricostruisce anche la rete di comando, attribuisce un nome ai colleghi, ai compagni, ai  superiori, a Sassari al maggiore Bruno Squadrani; a Predazzo al maggiore Nicolò Marino che in quel momento comandava la Scuola Alpina della Regia Guardia di Finanza nella Caserma Giovanni Macchi, a oriente di Trento e Bolzano, tra Cavalese e Moena, fino al Passo Rolle sopra San Martino di Castrozza; ma tornano i nomi del comandante di Compagnia il capitano Michele Susanna, del tenente responsabile della Dogana di Chiasso il sardo Silvio Medda, dei cappellani militari, i parroci, i prevosti, i frati, mossi da un senso di solidarietà umana.   L’addestramento del giovane allievo Tolis avvenne a Roma nella Caserma Vittorio Emanuele II, che oggi si chiama Caserma Piave in Viale XXI aprile, la stessa dove lavora per il Museo storico della Guardia di Finanza il Maggiore Severino.  Segue il trasferimento alla Legione di Milano, alla Compagnia di Como, alla dogana italo-svizzera di Chiasso, l’amicizia con Salvatore Luca, una fiamma gialla in congedo originaria di Ragusa e con sua moglie Giuseppina Panzica, i loro figli che abitavano proprio sul confine con la Svizzera, presso la roggia Molinara.

Dalle carte riemerge il ritratto positivo del ventenne finanziere, che si distingueva per la prestanza fisica, per la buona intelligenza, memoria, senso pratico, buona volontà, indole buona, carattere serio, sufficiente spirito di iniziativa, cultura generale, professionale e militare. Miracoloso appare il ritrovamento presso la famiglia di tante fotografie che impreziosiscono il libro e scandiscono le tappe di una breve ma luminosa carriera, che si sviluppa soprattutto dopo l’8 settembre, quando alla dogana di Chiasso sono attestati negli ultimi quattro mesi del 1943 quasi 400 sconfinamenti in Svizzera di ebrei italiani. L’adesione alle formazioni delle Fiamme Verdi della resistenza, la complicità con gli ufficiali badogliani antifascisti come il maggiore Maurizio Bussi e i suoi sottufficiali come il maresciallo Giuseppe Dado, il collegamento con alcuni esponenti dell’Arma dei Carabinieri Reali fedeli al Re, la solidarietà verso i militari sbandati, la rabbia del prefetto e del questore di Salò, i rapporti ostili dei repubblichini, l’odio delle SS. Emergono tanti nomi, che qui non è il caso di elencare, in qualche modo in rapporto con il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia o con il Corpo dei Volontari della Libertà oppure con la Delegazione per l’Assistenza agli Emigranti ebrei. Del resto trassero beneficio dalla vasta rete di solidarietà che allora si sviluppò al confine con la Svizzera personaggi come Ferruccio Parri, Bruno e Adolfo Vigorelli esponenti della resistenza Ossolana, Leo Valiani, Ezio Franceschini, Concetto Marchesi.

Giovanni Gavino Tolis fu uno dei tanti finanzieri che si impegnarono pagando di persona in un terribile momento di transizione, favorendo – come scrive rabbiosamente il Questore di Como il 22 febbraio 44 – i passaggi clandestini di elementi ebraici in via Brogeda, al Ponte Chiasso e al Ponte di Maslianico.

Tradito da una delazione anonima alla Gestapo dell’ispettore Kolmann, Tolis fu colto sul fatto mentre nei pressi dell’orto del sig. Salvatore Luca, dietro Dogana, tentava di passare un pacco pieno di banconote alla moglie di questi Giuseppina Panzica, oltre la rete metallica di confine. Si scoprì poi che l’involucro conteneva 234 mila lire da consegnare a Lugano al triestino Oscar Orefice, residente a Milano prima delle leggi razziali.  Per queste ragioni l’accusa fu inizialmente quella, infamante, di contrabbando di valuta; l’autore ha potuto dimostrare che in realtà si trattò di un episodio minore, analogo a quello che negli stessi giorni coinvolse Giorgio Diena e Romeo Locatelli alias il patriota Omero dello spedizioniere Gondrand, implicati nel trasferimento di valuta destinata all’ebreo Vittorio Levi. Episodio che si somma ad altri, più significativi, legati al ruolo svolto dal Tolis nell’espatrio clandestino di ebrei e che comunque portò all’arresto del finanziere e della complice Giuseppina Panzica in Luca, che sarebbe stata liberata già nell’ottobre 1945. Tolis, il maresciallo Paolo Boetti e la Panzica furono trattenuti dalle SS a Cernobbio, poi a Como in Carcere ed a San Vittore a Milano. Il 9 giugno 44 Tolis fu condannato alla deportazione in Germania, passò per il campo di concentramento di Fossoli in provincia di Modena, l’anticamera dell’inferno. Come non pensare a Zaira Coen Righi, mantovana, insegnante di scienze al liceo Azuni di Sassari, deportata nel 1944 e morta in un forno crematorio ad Auschwitz, che l’amica Sotera Fornaro ha la settimana scorsa ricordato a Budoni all’Anfiteatro Andrea Parodi per la Giornata della memoria ?

Troviamo Tolis il 5 agosto a Bolzano in partenza per Mauthausen e poi nel sottocampo di Gusen II, a scavare nel granito la terribile galleria destinata all’industria militare tedesca: in totale 7 km di tunnel larghi fino a 8 metri e alti fino a 15 metri per ospitare la produzione missilistica delle V2. La condizione dei deportati appare tragica  e disumana, le giornate segnate da centinaia di morti e feriti.  Seguiamo la rete delle informazioni che i prigionieri potevano scambiarsi per raggiungere amici e parenti; a Chiasso la fidanzata del Tolis Ebe Tettamanti appare costantemente informata e partecipe; in Sardegna le tragiche notizie arrivarono attraverso la Guardia di Finanza fino al padre Francesco (che sarebbe scomparso nel 1966) e alla madre Maria (scomparsa nel 1968). Oggi sappiamo che il finanziere di Chiaramonti morì il 28 dicembre 1944 lasciato insieme a molti altri suoi compagni, nudo, per circa sei ore a temperatura inferiore ai 20 gradi sotto zero.  La salma nei giorni successivi fu bruciata nel forno crematorio di Mauthausen; sorte non diversa ebbero altri amici e conoscenti del Tolis, come quel Giorgio Casale morto il 3 febbraio 1945.

Oggi, scomparsi i genitori e i fratelli – Francesco nel 2002 e Mariangela nel 2006 -, sopravvive la nipote Giovanna Tolis.

Ma tutta la vicenda è ora ricostruita in questo libro attraverso i dispacci, le comunicazioni, le informazioni che si scambiarono i comandi della Guardia di Finanza dopo la fine della Repubblica di Salò. Emergono tanti dati anche in Sardegna attraverso l’impegno di Angelo Ammirati direttore dell’Archivio di Stato di Sassari, Antonina Stincheddu, funzionaria dell’ufficio anagrafe di Chiaramonti, Paolo Pulina originario di Ploaghe che so impegnato a Pavia nella Federazione delle associazioni sarde in Italia e Carlo Patatu.  Naturalmente sono stati mobilitati ricercatori e studiosi all’interno dei diversi comandi delle Fiamme Gialle.

Dobbiamo però proprio al Direttore del Museo Storico del Corpo della Guardia di Finanza se il mosaico è stato ricomposto con l’ampia relazione del 19 febbraio 2009, se la vicenda è stata ricostruita nei dettagli, se si è arrivati alla decisione del Presidente Giorgio Napolitano che il 17 giugno 2010 concesse la medaglia d’oro al merito civile con la motivazione che ben conosciamo: si ricorda il coraggio, l’impegno per i profughi ebrei e i perseguitati politici, la sofferenza nel campo di concentramento, la testimonianza di solidarietà e di dignità fornita in un momento tanto difficile per il nostro Paese. La strada che porta il nome di Tolis qui a Chiaramonti  a Funtana Noa, la lapide al cimitero come per un cenotafio privo del corpo, decorata sulla sinistra da una palma che assomiglia troppo ad un filo spinato, ricordano ai compaesani una figura che tutti ammiriamo, rinnovano il senso di appartenenza alla comunità, in cui – come ha detto recentemente il Presidente Mattarella – si condividono valori con le nuove generazioni e si tramanda il ricordo degli atti di eroismo che sono alla base dell’Italia di oggi.

A distanza di anni rimane forte in Sardegna il senso di gratitudine per chi ha voluto ricordare questi avvenimenti, per chi ha inteso farci rivivere il dramma della guerra, per chi ha coinvolto le nostre scuole e i nostri giovani in un impegno per la pace contro la xenofobia e il razzismo, che non può accettare tradimenti.




XXIe édition du Colloque international «L’Africa romana».

XXIe édition du Colloque international «L’Africa romana»
L’épigraphie nord-africaine: nouvelles, relectures, autres synthèses
7 décembre 2018, Tunis
Attilio Mastino

Chers Directeurs Générales, Excellence l’Ambassadeur d’Italie, Chers amis,

Nous voilà réunis encore une fois à Tunis, émus et bien heureux, à l’occasion de cet XXIe édition du Colloque international «L’Africa romana» consacré à l’épigraphie nord-africaine: nouvelles, relectures, autres synthèses, dans l’espoir d’ouvrir un nouveau chapitre de nos réunions, qui débutèrent à Sassari en 1983.

Au cours de ces 35 années, nous avons été accompagnés par de nombreux maîtres, par de nombreux chercheurs, par de nombreux amis véritables engagés dans des recherches archéologiques, mais également dans la coopération entre les deux rives de la Méditerranée. L’édition 2018 a été rendue possible grâce à l’aide de nombreux sujets, l’Institut national du patrimoine dirigé par Faouzi Mahfoudh, l’Agence de mise en valeur du patrimoine et de promotion culturelle dirigée par Kamel Bchini, l’Ambassade d’Italie avec son Excellence M. Lorenzo Fanara, la Fondation de la Sardaigne, représentée aujourd’hui par la vice-president Avv. Angela Mameli. Merci à Samir Aounallah e Daouda Sow pour ce qu’ils ont fait.

Il faut aujourd’hui une forte capacité de renouvellement, de changement et de créativité: il s’agit en outre de rapprocher la culture de la vie, de lui donner du sens, de la valeur et de l’utilité ; la connaissance de la culture classique conduit à la rencontre d’un monde fantastique, extraordinaire pour sa profondeur, pour ses expériences, pour ses horizons. Rome, Carthage  et Athènes ont le charme, la capacité de séduire, de fasciner. Elles l’ont eu par le passé et elles doivent l’avoir encore plus maintenant, car l’homme d’aujourd’hui, qui vit dans une société complexe, difficile et séduisante, a encore plus besoin d’outils pour comprendre la realité. La naissance de l’École archéologique italienne de Carthage, en février 2015, répond précisément à ces besoins.

Je voudrais souligner en premier lieu qu’il est faux d’affirmer que les auteurs classiques se tournaient toujours vers le passé et non pas vers l’avenir: Seneca affirmait dans les Naturales QuaestionesMulta venientis aevi populus ignota nobis sciet; multa saeculis tunc futuris, cum memoria nostra exoleverit, reservantur: pusilla res mundus est, nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat. Beaucoup de choses que nous ignorons seront connues de la génération future ; beaucoup de choses sont réservées à des générations encore plus éloignées dans le temps, quand même le souvenir de nous aura disparu: le monde serait une chose très petite si l’humanité n’y trouvait pas ce qu’elle cherche.

Ces mots illuminants, que nous avions adoptés dans l’entrée du palais de l’Université de Sassari, témoignent aujourd’hui de la vitalité de la culture classique et de l’importance de la recherche scientifique faite de curiosités, d’intérêts, de passions qui doivent motiver et animer le quotidien de nos chercheurs, de nos professeurs, de nos étudiants.

Nous sommes ici réunis, aujourd’hui, non seulement pour étudier les anciennes écritures, pour redécouvrir la langue latine, les autres langues de l’Antiquité, le grec, les langues parlées par les Carthaginois et les Numides, plus en général pour recouvrer l’histoire ancienne et l’archéologie classique. Nous ne ferons pas, au cours de ces trois journées, de verbosos commentarios, mais nous entrerons avec notre enthousiasme et nos découvertes au cœur du sujet, pour trouver – je veux suivre les Institutiones de Gaius – le principium de notre histoire et de notre culture (in omnibus rebus animadverto id pefectum esse quod ex omnibus suis partibus constaret et certe cuiusque rei potissima pars principium est ): d’ici vient la base d’une ouverture universaliste de plus en plus moderniste, dans un monde global qui risque de bâtir des murs, cherchant les alibis du souverainisme, sous prétexte d’une sécurité illusoire à l’intérieur de frontières blindées.

Il est bien de rappeler très fermement aux jeunes de tous les pays méditerranéens de ne pas négliger leur propre principium, un principium qui n’est pas national, mais qui situe nos pays dans une perspective universelle et globale, qui tient compte des entrelacements de l’histoire et qui nous conduit vers une ouverture de plus en plus ample et solidaire. En abordant le thème de l’intégration des immigrés, du multiculturalisme en rapport avec les identités locales, nous tenons à réaffirmer que la force de la Rome antique résidait dans une perspective supranationale, dans l’universalisme, dans le dépassement des divisions nationales. Rome a eu la capacité d’intéresser et d’impliquer les élites de nombreuses nations à son idéal. Ce même phénomène eut lieu dans le monde hellénistique, qui fut l’héritier d’Alexandre le Grand. La grande chance pour l’élite intellectuelle actuelle et donc aussi pour les savants qui se consacrent à l’étude de l’héritage des Romains et des Grecs, les professeurs de latin et de grec, les archéologues, les épigraphistes, est que leurs idéaux communs – les idéaux scientifiques avant tout – contribuent à l’harmonie entre les nations. La vocation des études classiques du futur sera de contribuer à un processus d’acculturation globale, de susciter le désir de chacun de nous d’intégrer une réalité culturelle complexe au niveau mondial, en rejetant l’idée d’appartenance à une telle race ou de mépriser les cultures perçues superficiellement comme différentes: il est nécessaire de travailler pour former cette conscience et rendre disponible tout ce qu’il faudra pour qu’une telle attitude se répande. Il est clair qu’à présent nous devons enfin nous libérer du préjugé impérialiste de la primauté de la culture occidentale, mais il faut poser d’un dialogue se réalisant dans le respect avec des intellectuels d’autres traditions, surtout en ce moment, quand la diffusion des médias de masse et les exigences de la production et de la distribution de biens tendent à massifier les modes de pensée et de communication, risquant ainsi de saper notre propre identité culturelle.

Les études sur l’antiquité grecque et romaine vivent sans aucun doute un moment d’extrême intérêt et d’importance sur le plan scientifique, si l’on considère à la fois la qualité des résultats obtenus et la bonne renommée dont nos recherches jouissent partout, pour le grand intérêt pour le patrimoine culturel; pourtant, les études anciennes souffrent à présent dans les universités et dans les écoles. Les études classiques ont d’excellentes raisons pour continuer à être pratiquées dans la civilisation moderne de la technologie et du marché, à condition que nous considérions le monde classique comme la racine constitutive de la civilisation du monde actuel et futur, que nous reconnaissions les principes de démocratie, de religion, de solidarité et de respect qui sont une expression du monde ancien mais qui surtout sont à la base de l’identitè même des nations qui donnent sur la Méditerranée, avec toute la profondeur des continents.

Sans les études classiques, le monde serait plus mauvais: nous exaltons constamment la civilisation technologique moderne, mais nous ne réalisons pas que nous le faisons uniquement en rapport avec le monde antique. Parce que, comme l’écrit Paolo Mastandrea (Quale futuro per gli studi classici in Europa ?, ed. L. Cicu, Sassari 2008), nous ne pouvons comprendre aucun de ces trois mots (civilisation, moderne, technologie) sans la culture classique. On ne comprend pas moderne sans un rapport avec l’ancien; on ne comprend pas civilisation, car la civilisation dérive de civis et civitas et se réfère donc précisément à cette dimension urbaine dans laquelle la culture classique, athénienne ou romaine, a donné son meilleur. On ne comprend pas technologie sans la techne attribuée au mythique Ephaistos, l’architecte divin, le dieu jeté par son père Zeus à l’intérieur du volcan de l’île de Lemnos, et donc boiteux et élevé par les nymphes, qui auraient appris les mystères de son art aux Sintii, à qui le héros Prométhée aurait volé le feu pour le donner aux hommes. Et sans son fils Talos, l’automate ailé qui empêchait les étrangers et surtout les Sardes de pénétrer dans l’île de Crète, les brûlant vifs et provoquant cette grimace appelée Risus Sardonius, déjà mentionnée il y a trois mille ans par Homère à propos de la grimace d’Ulysse menaçant les Proci: et Ulysse est le chef de la lignée des hommes, attaché au mât du bateau, entre les chants des sirènes, jusqu’à l’île des Lotophages, comparé à l’homme qui s’accroche au bois du salut. Strabon (17,30,20) identifia l’île de Meninx, à la frontière sud de la Petite Syrte, avec le pays des Lotophages, où quelques compagnons d’Ulysse, pour avoir goûté les fruits du lotus, sucrés et agréables aux vertus légendaires, ont oublié leur pays et leur retour: ceux qui ont mangé le fruit du lotus – raconte Homère – ne voulaient pas rentrer pour raconter ce qu’ils avaient vu, mais ils préfèrent rester parmi les Lotophages, manger du lotus et oublier le retour. Retour auquel le héros les a forcés – en pleurant – avant de partir pour l’île du Cyclope. Ulysse est certainement le prototype de l’explorateur, le voyageur par excellence, aussi bien ceci dans l’interprétation classique, que dans l’interprétation médiévale et moderne. Ulisse et Hercule, que Sénèque a célébrés comme «invictos laboribus et contemptores voluptatis et victores omnium terrorum», grâce à la sapientiae cupido et au innatus cognitionis amor. Et nous savons que l’acte fondateur de la littérature latine est la traduction de l’Odyssée de Livius Andronicus.

Si nous avons un avenir – et nous voulons en avoir un, nous voulons dépasser toute question rhétorique et exiger un futur  pour nos études -, l’avenir c’est faire comprendre aux jeunes leur rapport avec le passé et donc leur apprendre à lire leur présent par rapport au passé et le passé par rapport au présent, en faisant appel à l’inter-textualité et en redécouvrant le continuum entre le monde antique et le présent. L’expression « l’homme ne vit pas que de pain » était utilisée bien avant Jésus-Christ. Et le pain, pour nous, est aujourd’hui la civilisation technologique, mais elle ne suffit pas, il nous faut plus, une culture humaniste, fondée sur l’antiquité gréco-latine, puis sur les grandes religions. Ludus était l’école dans l’antiquité et Ludus doit devenir l’école de demain, qui ne peut pas se limiter à un devoir ; nous devons redécouvrir le plaisir qui vient de la lecture d’un texte dans sa langue originale, le plaisir de la traduction personnelle, le plaisir d’une comparaison, le plaisir d’une découverte. Nous devons saisir l’aspect ludique de la recherche, qui doit nous intéresser et nous exciter, car nous en avons assez des magistri plagosi, comme ceux qui ont appris le grec à Augustin.

Les études classiques peuvent constituer un point de repère tant pour les pays européens que, paradoxalement, pour le Maghreb et d’autres régions du monde. On a l’impression que nous faisons trop peu pour faire revivre la culture classique par la rencontre entre les deux rives de la Méditerranée et entre les différents pays, surtout après l’expérience exaltante des printemps arabes, qui a souvent dégénéré en hivers terribles. Nous n’avons pas toujours été solidaires et souvent nous n’avons pas compris l’intérêt, le respect, l’admiration qui règne au Maghreb pour notre tradition.

Plus de 40 ans ont passé depuis le congrès extraordinaire de Dakar au Senegal Africa et Roma, parrainé par l’Istituto di Studi romani sous les auspices du Senegalensium Rei publicae Princeps, Léopold Sédar Senghor, dont les actes ont été publiés en 1979 sous le titre Acta omnium gentium ac nationum conventus latinitatis litteris linguaeque favendis ; en les feuillettant, j’y ai trouvé le souhait du recteur de l’Académie de Strasbourg Argentoratensis: maneant semper vincula illa inter Africam et Europam quibus nos eadem communitate eademque inter nos caritate coniunctos nosmet sensimus.

Malheureusement, nous vivons une période de conflits entre cultures, peuples, pays, et cela aussi à cause de notre incapacité à comprendre les autres, à développer une vie en commun paisible, à laisser de côté l’égoïsme et les intérêts, à rejeter les fondamentalismes et les intolérances, même de notre part. Le monde antique nous fournit les outils pour donner naissance à une nouvelle époque fondée sur le respect des autres, sur le pluralisme et sur la valeur de la diversité. La culture classique est une composante fondamentale de la culture méditerranéenne, mais elle est aussi autre chose. Pourquoi étudier la littérature ancienne, pourquoi l’histoire? Voilà la nécessité de lire les textes dans leur langue d’origine, car la langue n’est pas vraiment un exercice logique mais un outil pour la compréhension historique des textes. La volonté d’utiliser les médias numériques disponibles, qui sont un instrument au service de la philologie, de l’épigraphie, de la numismatique, de l’archéologie, constitue aujourd’hui une forme de démocratisation de la culture. L’’utilisation, ainsi que les technologies de l’information, la télévision, le cinéma, les power points et d’autres instruments.

Au début du troisième millénaire, la culture ancienne ne cesse de nous étonner par son sens éternel de source de connaissance.

Notre Ècole voudrait se proposer comme un observatoire privilégié de la culture classique, identifiant sa valeur de formation et même d’éducation, qui ne peut se fonder uniquement sur la reconnaissance d’une complexité de la grammaire ou de la syntaxe, mais qui est liée à notre condition humaine actuelle. Non seulement dans les pays où la formation linguistique ou culturelle est plus directement liée à la culture classique, mais aussi et peut-être surtout dans les autres pays de tradition anglo-saxonne ou slave ou arabe ou berbère; et tout d’abord la valeur de l’humanitas latin, ce qui nous lie indissolublement à cet héritage complexe de la culture classique, qui ne s’inscrit pas dans un hyperuranium ethnocentrique, mais qui pénètre les nations et les peuples au cours de l’histoire, et qui est maintenant confronté aux progrès de la technologie de l’information, des sciences naturelles, de la médecine, de l’archéologie elle-même ainsi qu’à de nouvelles méthodes d’enseignement.

Admirer les traces, même infimes, de la culture classique (je pense aux légendes sur les monnaies grecques et latines qui circulent au-delà des frontières de l’empire) nous montre une temoignage d’une oikouméne où des peuples de différentes ethnies, cultures, religions, ont perçu les lueurs de la civilisation classique. La civilisation islamique s’est merveilleusement greffée sur la civilisation classique, tant au niveau de la transmission du livre qu’au niveau, plus proprement, de la transmission et de l’interaction culturelle, ce qui constitue une leçon profonde pour nos jours, qui connaissent une accélération effrayante, une nouvelle forme de provincialisation, une provincialisation non dans le sens de l’espace, mais dans celui du temps.

Donc, la culture classique comme liberté, droit, justice, solidarité, raison, poésie, art, patrimoine des hommes, difficile à atteindre, ktema eis aei, si l’on veut, d’après Thucydide, non pas comme l’objet d’études des antiquaires, ni d’érudition nostalgique. À l’époque de la mondialisation, quand le démon de l’homo oeconomicus, du marché, émerge trop souvent, la leçon ancienne et moderne de la culture classique nous apprend à nous reconnaître dans les valeurs fondées sur l’humanitas, de ce nihil humani a me alienum puto. Toujours au troisième millénaire, la leçon de la culture classique découle de la source de Castalia et répète la devise delphique du «connais-toi toi-même».

Bon travail à tous.




Presentazione del volume Memorie di Pendio Grande.

Presentazione del volume di
Antonio Ledda, Memorie di Pendio Grande, Ghilarza 2018,
Serramanna I dicembre 2018, Associazione Il Pungolo

Grazie all’amicizia con Antonio Ledda, ho letto qualche mese fa con sorpresa il dattiloscritto provvisorio del volume che oggi presentiamo qui a Serramanna in questo Settecentesco Monte Granatico, con un titolo che richiama un’opera di Vico Mossa: mi aveva colpito la capacità dell’autore di raccontare il suo paese amato, la sua infanzia, i suoi giochi, il rapporto dolce e amaro con le persone che soffrono, con alcuni personaggi emarginati sempre osservati con simpatia come i due sordomuti; ma anche con i poveri, con suoi familiari, con i suoi amici.

Il sapore di vita vera, di autenticità e di partecipazione, con gli occhi di un ragazzino pieno di curiosità, di interessi, di paure, con una grande capacità di osservazione, ma anche sensibile al dolore, alla sofferenza, alla malattia, alla morte, pure quando è voluta e cercata: così il suicidio di Tziu Agostinu tanto affettuosamente legato a questa moglie magra e secca, con la testa sempre coperta dal fazzoletto color giallo oliva; tanto legato da non poterle sopravvivere. Un ragazzino, quello di allora, che era fornito di una memoria gigantesca, se oggi è capace di raccontare la sostanza profonda di un mondo al tramonto, in una Sardegna allora rimasta prodigiosamente quasi fuori dal tempo, chiusa nella sua identità, irrigidita nei suoi costumi millenari.

Scorrendo ora queste pagine stampate a Ghilarza dalle Edizioni Nor con questa strepitosa copertina che richiama un monumento modernissimo, il monumento al grano che ci riporta a questo luogo, ci sono mille cose da raccontare, mille emozioni da cogliere, mille sensazioni che si accavallano.

Io non sarei in grado in nessun modo di ricordare con tanta forza e capacità prensile, con tanta lucidità la mia giovinezza spensierata e lontana,  anche se ho ritrovato molte cose  che mi appartengono e che sono in comune tra noi: vivere in una famiglia numerosa, la stanza segreta, il nascondiglio oscuro tra i fasci di canne raccolte ad asciugare e a invecchiare al sole; oppure le misteriose capanne costruite da ragazzi, le evoluzioni e i giochi di equilibrismo sui rami degli alberi di fico in campagna, assieme ai fratelli, come tanti acrobati improvvisati; l’altalena; le disavventure in bicicletta; il rapporto con gli animali domestici; i carri a buoi (a Serramanna ma non a Bosa ancora con le ruote piene); il gelataio Baglioni – a Bosa – con la bici a tre ruote; il cinema; il banditore di Cuglieri;  i momenti collettivi, come le vendemmie, la raccolta dei fichi, delle pere, delle fave, i profumi dei campi; perfino il libretto  nero con tutti i creditori nel negozio di mio padre. In queste pagine fioriscono i ricordi, che rasserenano, come l’immagine della casa dell’ infanzia: così a Modolo per il poeta Orlando Biddau, il granaio con la frutta appesa ad essiccare e i mazzi d’agio e di cipolle, / le ghirlande di sorbe, i grappoli / d’uva, le noci e le mandorle / le grosse collane di fichi, / le pere e le melagrane / e le melerose odorose / di tutte le primavere di mia nonna.

Innanzi tutto non si capisce l’artista di oggi,  Antonio Ledda (che ora si divide tra il Campidano e il mare di Bosa), senza leggere questo libro, che fa scoprire l’origine delle sue competenze e abilità artigianali affinate a Cagliari e Firenze, il gusto per il bello, le capacità tecniche, il legame con la natura, l’esperienza nella lavorazione dei frutti della terra, già da quando si limitava a girare la manovella per lavorare la farina per il pane fatto in casa oppure riparava il piano in mattonelle in terracotta del forno; persino la consapevolezza di possedere un carattere forte e difficile, la forza  di ammettere i propri difetti.

C’è un’enorme differenza con la fanciullezza di un altro autore, tanto diverso e apparentemente più infelice, il Gavino Ledda di Padre Padrone,  con quel paese letterario, Siligo, con le sue tradizioni popolari, con la lotta per la sopravvivenza, la tragedia del vivere quotidiano, la sofferenza di una società che sembra immobile e fuori dalla storia, afflitta dal gelo e dalla pioggia, dalle cavallette e dalle malattie.

Qui con Antonio Ledda siamo di fronte ad un quadro ben più articolato e positivo, che non conosce la solitudine della campagna controllata dai barracelli, con legami forti tra le persone, con un sole sempre splendente, perfino con tenerezza e affetto inusuali in una Sardegna antica: così il rapporto indimenticabile col padre o il rimpianto per l’assenza del fratello più piccolo della sposa, imbarcato in marina, forzatamente assente dalla cerimonia del matrimonio in famiglia. L’indulgenza per gli errori e i malanni altrui, come per i malati di mente. Come diceva Cossiga per il suo paese, Serramanna per Antonio Ledda è il “luogo” che gli ha insegnato la sardità, nella lingua, nei costumi, nei cibi, nel concetto di “paesanità” e quindi di fierezza, di sincerità e di amicizia. Una sardità che compare in tutte le pagine di questo volumetto, che con la lingua sarda in prosa o in rima restituisce abitudini, indica in dettaglio strumenti agricoli, riporta alla memoria proverbi e soprannomi, perché questa è sa limba imparada dae minore, attaccau de mama a sa suttana (Ignazio Camarda).

Né l’autore si nasconde che questa sua formazione difficile gli ha lasciato addosso anche qualche ingenuità, una candida passione per il mito di una Sardegna grande e felice nel Mediterraneo, che legherei al nome stesso della strada di Serramanna dove si trovava la casa campidanese che l’ha accolto da ragazzo, la via Gialeto nel vicinato di Babané, un tempo solo un vicoletto fangoso in campagna. E Gialeto re di Sardegna è il frutto di una falsificazione romantica ottocentesca, quella delle Carte d’Arborea, che è alla base della “invenzione di una mitica battaglia per l’indipendenza della Sardegna dal dominio bizantino”, con la ribellione e finalmente la liberazione durante il periodo giudicale. Una storia di successo, se la Polisportiva Gialeto continua ancora oggi a sostenere nel nome una tradizione così controversa.

La Via Gialeto a Serramanna che sfocia sullo stradone principale è un po’ il microcosmo di un’infanzia dura ma felice,  di un mondo che poi si allarga e arriva fino ai due fiumi un tempo ricchi di pesci, il Rio Mannu e il suo affluente il Rio Leni; un orizzonte che progressivamente si estende, verso i confini con Samassi e Sanluri a Nord e Villasor a Sud; a Est con Serrenti, Nuraminis, la Villagreca del nuraghe Sa Corona che ho visitato con Giovanni Lilliu quasi 50 anni fa; a occidente fino a Vallermosa e Villacidro; fino a comprendere progressivamente  più in generale tutto il Campidano che Ledda chiama il “nostro Campidano” e persino tutta la Sardegna.  Strade che ci conducono fino a quella San Sperate di Pinuccio Sciola a ridosso di Villasor che un ruolo deve pur avuto nel fiorire di tante scuole d’arte in una Sardegna che usciva faticosamente dalla Guerra, assieme agli artisti ceramisti di Pabillonis e di Assemini: queste pagine conservano memoria delle controverse fasi della trasformazione dell’antico paese contadino, caratterizzato da tradizioni quasi preistoriche come testimoniato dal menhir Perda Fitta a Cuccuru Ambudu, da un’economia di baratto e di sopravvivenza basata sulle antiche professioni, sul trasporto animale a dorso d’asino, sul frumento impiantato in età romana in un’isola che fu per Cicerone uno dei tria frumentaria subsidia rei publicae. Mentre a San Sperate i muri vengono dipinti di bianco e coperti di murales, a Serramanna – se si escluse la Società operaia – ad essere intonacati sono i mattoni di fango, i caratteristici ladiris che ricordano una tecnica edilizia documentata in Sardegna dallo scrittore Rutilio Palladio nel IV secolo d.C., i mattoni di argilla e di paglia prodotti in primavera e descritti nel de lateribus faciendis dell’Opus Agriculturae. In parallelo con Antonio Ledda, nelle parole di chi l’ha conosciuto ragazzino, Pinuccio Sciola compare senza neppure le scarpe ai piedi, ma già circondato da affetto, stima, speranza, affezionato alla vita del paese che si sviluppa con una straordinaria socialità nelle cantine, nei cortili e nelle cucine, integrata nella campagna, ma insieme pieno di curiosità, desideroso di lasciare una traccia di sé.  Ledda con una competenza pratica e artigianale che si osserva in ogni pagina di questo libro, come a proposito delle pratiche per la conservazione del grano contro i parassiti o gli insetti, che ricordano le pagine luminose del volume di Francesco Manconi, Il grano del re, con la descrizione delle pratiche agricole per dare ossigeno al deposito del grano nel monte granatico: pagine che rendono bene il tema delle continuità, della storia lunga dell’isola, delle eredità profonde con le quali generazioni e generazioni di Sardi hanno dovuto fare i conti. L’ispanizzazione dell’isola si imposta su una realtà culturale di lunga durata, che parte dal mondo antico e in qualche misura sopravvive in modo sotterraneo ancora ai nostri giorni.

Questo libro ci consente di varcare una soglia, per entrare in un territorio, per cogliere una cultura, un ambiente sociale, un momento della nostra vita, che conserva intatto il sapore della vita vera, il senso delle cose che ci sono care, il profumo della casa che continuiamo ad amare anche quando ne siamo stati sradicati e viviamo in una città. C’è una soglia da superare e una porta che non si chiude mai tra realtà e fantasia, tra la rabbia e l’amore, tra la fede e la ragione, tra le parole e le cose. Anche le figureddas in legno dell’artista stanno lì a ricordare una fanciullezza luminosa e colorata, che si può rivivere non attraverso le cose ma solo partendo dai luoghi che suscitano emozioni, non quei luoghi di oggi tanto diversi, ma quelli della memoria, che evocano le mille immagini di allora, gli arragordus de unu piciochedhu: i giochi come a màmmacua, la raganella per Pasqua, la barchetta a vela che veleggiava entro il tino per la festa di settembre, la trottola; i giochi a squadre anche con le ragazze;  le guerricciole tra bande di ragazzotti, le fionde, le cerbottane, sa passillada della domenica,  il buio della notte illuminato dalla lampade a carburo. Dunque il ruolo di su castiadori, del custode dell’aia, s’axroba, contro i furti; la semina; il duro lavoro nei campi. Le tradizioni raccontate in dettaglio, come per il matrimonio di Marilena e Vittoriu,  talora con una competenza linguistica e descrittiva da far invidia ad un antropologo.

C’è in questo libro anche un capitolo, dedicato alle prime espressioni d’arte del ragazzo, ai primi disegni, che spiega lo svilupparsi della vocazione artistica: utilizzando i tizzoni di carbone <<disegnavo sui muri imbiancati con calce nel magazzino del vino o del pagliaio, dove ancora oggi si possono vedere>>.  E poi la scuola, i metodi didattici severissimi, la crudeltà dei maestri verso i ragazzi più fragili.  Tanti racconti, alcuni davvero sconvolgenti come la vicenda di Maria Pistirinca, che ci consentono di ricostruire un ambiente, un clima, una rete di rapporti sociali chiusi al proprio interno, che però non escludevano sos cabillus, sos strangius, gli stranieri come i mercanti desulesi arrivati a vendere – come scriveva Montanaru – truddas e tazeris:

Tott’isclamana: Accò sos castanzeris!

E issos umiles naran: Eh, castanza!

E chie comporat truddas e tazeris?

Sono tornato oggi a Serramanna per rivedere Vito Spiga e mia sorella Lucia e la tomba di Vincenzo, con il desiderio di rinnovare la memoria, con un rimpianto che gli anni non riescono a cancellare. Sono passato davanti a quella che è stata una delle Cantine sociali più grandi d’Europa e davanti all’industria conserviera agroalimentare della CASAR, sempre con disagio. Ma poi ho osservato ammirato la chiesa parrocchiale di San Leonardo di epoca catalano-aragonese, con il caratteristico campanile ottagonale ricostruito dopo il crollo di un secolo fa. Campanile che compare nel nuovo stemma disegnato da Flaviano Ortu su indicazione di Stefano Pira. Ma tornano in questo volume anche Sant’Ignazio da Laconi, Sant’Angelo proprio a due passi da Via Gialeto, San Sebastiano, in campagna l’antica chiesa giudicale di Santa Maria con la splendida festa durante le vendemmie.  Tanti luoghi favolosi nella sterminata pianura campianese, dai quali con generosità i miei parenti ci portano a Bosa prodotti davvero unici, come i carciofi, gli asparagi, le bietole selvatiche, le olive, i limoni.  Un mondo nuovo e un mondo antico che si ritrovano.

Quando scavammo con i nostri studenti le terme di Villaspeciosa sotto la direzione di Giampiero Pianu ci rendemmo conto che è in corso in questa area della Sardegna un salto di qualità, un rinnovamento culturale  profondo anche nel modo di trattare i beni culturali e il patrimonio. Basta guardare questo Monte Granatico o il vicino mercato della carne. Questo libro testimonia una attenzione e una sensibilità che non può essere di una persona ma che è certamente di un gruppo, di tanti amministratori e di un’intera comunità. È evidente che sotto gli occhi abbiamo ora tante novità e ancora di più ce ne aspettiamo per una Sardegna futura più felice di quella conosciuta da un bambino di un tempo lontano.

Attilio Mastino




Presentazione del volume La via dei retabli.

Presentazione del volume di Caterina Virdis Limentani e Maria Vittoria Spissu, La via dei retabli.
Le frontiere europee degli altari dipinti nella Sardegna e del Quattro e Cinquecento
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Carlo Delfino Editore, Sassari 2018

Cari amici,

ero a Stintino il 12 agosto quando qualche mese fa questo volume è stato presentato per la prima volta al Museo della Tonnara dalla storica dell’arte Maria Paola Dettori, dall’Editore Carlo Delfino e da Maria Vittoria Spissu.  Caterina Virdis Limentani, annunciata negli inviti, non aveva potuto essere presente, era già ammalata e il 9 settembre finiva per lasciarci definitivamente a Padova, con grande dolore della città e di tutta la Regione – il Veneto – dove è stata Consigliere Regionale del PCI dopo il 1990. Dolore soprattutto della sua Università di Padova, che due anni fa le ha dedicato un volume curato da Mari Pietrogiovanna, Uno sguardo verso il Nord, che riassume in poche parole la sua originale prospettiva di ricerca e il suo orizzonte scientifico davvero innovativo: con lo sguardo di una raffinata studiosa “capace di sondare le molteplici possibilità di conoscenza delle opere d’arte e d’imporre una visione in grado di dilatare la concezione di “arte europea” ” contro ogni provincialismo e localismo, ormai del tutto anacronistici.

Era stata proprio la Virdis a chiedermi di essere qui a Sassari alla Biblioteca Universitaria per presentare questo volume, scrivendomi una lettera intitolata “dopo tanto tempo” già il 15 maggio e poi di nuovo il 4 giugno.

Le date e i tempi sono importanti nel nostro rapporto, che è stato di lunga amicizia e di stima ma anche di conflitto, perché Caterina era convinta che molti di noi avessero fatto troppo poco per aiutare i suoi allievi e per radicare nella Facoltà di Lettere e Filosofia e poi nel Dipartimento di storia scienze dell’uomo e della formazione la Storia dell’arte medioevale e moderna. Io arrivavo da Cagliari dove operavano presso la Facoltà di Lettere e Filosofia una decina di studiosi e avevo visto con i miei occhi il peso rilevantissimo della storia dell’arte nella formazione degli studenti modernisti e anche nella Scuola di specializzazione in Studi Sardi da Corrado Maltese a Renata Serra, da Salvatore Naitza a Maria Grazia Scano Naitza, a Maria Luisa Frongia, a Silvana Casartelli Novelli, ad Aldo Sari poi transitato a Sassari, a Giorgio Pellegrini, a Roberto Coroneo, ora ad Andrea Pala e ad Alessandra Pasolini.

Da noi, dopo Caterina Virdis (2007-2011) e Aldo Sari, la Storia dell’arte si è radicata con Giuliana Altea e Antonella Camarda nel Dipartimento di scienze umanistiche e sociali, mentre nel Dipartimento di Storia siamo rimasti del tutto scoperti, con supplenze o contratti tenuti dagli allievi di Scano Naitza e Coroneo Mauro Salis e Nicoletta Usai oppure da colleghi di Architettura, Urbanistica e Design, Michael Heinz Robleski. E ciò sinceramente non credo per una nostra negligenza ma solo per i meccanismi del mondo universitario che tendono a radicare sempre di più i gruppi più forti.  Ed è così che Maria Vittoria Spissu, borsista a Sassari nell’ambito del programma Master & Back, è andata a finire all’International Studies Institute di Firenze e alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna come professore a contratto. Altre bravissime allieve della Virdis non hanno trovato una sistemazione in Sardegna, con grande dispiacere della Maestra.

Mi scriveva a giugno: “Questo messaggio, dopo tanto tempo, forse ti sorprenderà. Ti scrivo per annunciarti che oggi o domani riceverai un libro che potrai considerare l’ultima fatica di una studiosa, compiuta in collaborazione con una sua brillante allieva, Maria Vittoria Spissu. Il testo nasce da un corso universitario dello stesso titolo, la via dei retabli, tenuto nelle aule di via Roma (Palazzo Ciancilla) parecchi anni fa e poi cresciuto fino a raggiungere la forma attuale quando le due autrici avevano da tempo lasciato Sassari”. E continuava: “Pensiamo di presentare il volume presso la Biblioteca Universitaria grazie alla disponibilità dell’ottima Maria Rosaria Tarasconi, o entro giugno o appena passata l’estate. Detto questo, ti chiedo se potrai essere nel tavolo dei relatori in quell’occasione. La tua presenza chiuderebbe simbolicamente il senso del progetto e della collaborazione tra le autrici, riconducendo il libro al suo luogo d’origine nel più autorevole dei modi”.

Allora avevo accettato con entusiasmo, cogliendo l’occasione per un incontro che aveva un poco il sapore di una riconciliazione cercata tra persone che si volevano bene e che amavano la Sardegna. Segno che conosceva benissimo la profonda stima che nutrivo nei suoi confronti.

La data della presentazione era stata fissata al 27 settembre, ma ormai era troppo tardi per tutti. Oggi non piangeremo per questa perdita ma ci concentreremo sulla sua opera e sull’opera di Maria Vittoria Spissu, sulla presentazione di un libro bellissimo, denso, ricco di novità, che ci fa scoprire una Sardegna internazionale, colorata ed elegante; anzi consideriamo questo giorno come un’occasione di festa, ricordando soltanto le tante opere dedicate dalla Virdis alla nostra isola: ho sfogliato in questi giorni (per il Convegno internazionale Isole, Isolanità, Insularità promosso da Franciscu Sedda e Paolo Manichedda a ottobre a Cagliari),  il bel volume della Virdis curato con Giuliana Altea e Monica Farnetti già del 1996 Insularità: percorsi del femminile in Sardegna pubblicato da Chiarella; oppure Ascoltare la pietra, Sculture di Pinuccio Sciola nel 2013; ma come dimenticare altre opere della Virdis come le sculture e la grafica di Paola Dessy nel 1999, i dipinti e le opere grafiche di Stanis Dessy nel centenario della nascita nel 2000 per la mostra di Padova e nel 2013 per la mostra alla Pinacoteca comunale di Oristano; oppure nel 2008 l’arte dell’incisione a Sassari nel Novecento: produzione, formazione, politiche espositive, curato assieme a Paola Dessì, con la quale ha pubblicato nel 2008 il volume Incisioni italiane; oppure Vincenzo Manca nel 2010; o Albino Manca con Giuliana Altea nello stesso anno; la postfazione all’Album delle ore d’ozio di Enrico Costa impiegato di Banca curato da Paolo Cau nel 2014.

Proprio quest’opera ha forse ispirato il nostro gruppo di amici guidati da Manlio Brigaglia e dall’avv. Toto Porcu, che nei prossimi giorni – il 17 dicembre – inaugurerà la bellissima statua in bronzo qui, davanti al portone della Biblioteca Universitaria, su piazza Fiume, per ricordare il brillante scrittore e giornalista protagonista dello straordinario e positivo confronto con lo studioso tedesco Theodor Mommsen. Lo ricorderà per noi Antonello Mattone.  Infine le tante mostre in Sardegna e in Continente sempre in collaborazione con la Federazione delle Associazioni Sarde in Italia e i circoli sardi, a Padova con il circolo Eleonora d’Arborea che presiedeva, a Siena, a Firenze: le tessiture d’artista in Sardegna all’Exma di Cagliari, Giovanna Sechi, Francesco Ciusa, Antonio Corriga, Elio Pulli, il maestro rimasto col cuore di un bambino che si emoziona e fa emozionare.

Paolo Pulina dirigente della FASI con i suoi 60 circoli ha di recente raccolto testimonianze preziose sulla prof.ssa Virdis alle quali non possiamo non rimandare con gratitudine e affetto. Tanti amici hanno scritto di lei partendo dalle elementari ad Ozieri, dall’Azuni a Sassari, allievi di un giovane Manlio Brigaglia, poi a Cagliari con Corrado Maltese, a Padova  tra il 1970 e il 2006, dove la Virdis ha fondato il Corso di laurea in Cultura e Tecnologia della Moda, il che spiega l’attenzione in questo volume per l’abbigliamento dei personaggi raffigurati sui retabli; proprio a Padova ha insegnato Storia dell’arte fiamminga e olandese, Iconografia e iconologia, Storia dell’arte moderna e Storia dell’arte contemporanea; poi la Scuola di specializzazione a Milano, infine l’Università di Sassari fino al pensionamento nel 2011. Qui con Monica Farnetti appena arrivata aveva curato il volume Per amicizia, scritti di filologia e letteratura in memoria di Giovanna Rabitti, docente alla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere della nostra Università fino alla sua prematura scomparsa nel 2008.

A questa concezione di un’arte in Sardegna aperta verso l’Europa, dalla penisola iberica fino al mondo del cinquecento fiammingo si rifà questo volume su la via dei retabli in un Mediterraneo allargato, che nel titolo richiama quella “via della seta” tra il misterioso oriente e il nostro mare, che oggi vorremmo riscoprire per capire un mondo senza più frontiere, con riferimento alla ricezione, alla fortuna e all’irradiazione del gusto artistico; perché nella Virdis <<costante è stato il voler far affiorare il confronto, l’intreccio, e il riverbero delle esperienze artistiche da luoghi e in luoghi anche distanti tra loro, sulla base di un assunto che costituisce la trama dei diversi corsi universitari da lei impartiti>>; del resto il sottotitolo dell’opera riguarda proprio le frontiere europee degli altari dipinti nella Sardegna del Quattro e Cinquecento, superando il provincialismo che ha afflitto i nostri studi da tempo immemorabile, che hanno assunto il teorema di un’isola culturalmente depressa. A questa impostazione si rifanno pienamente i suoi allievi oggi in cattedra e non solo.

Parleranno di quest’opera Alma Casula e Maria Vittoria Spissu, ma  volevo da subito sottolineare lo stile ricercato, l’attenzione agli aspetti iconografici e alle derivazioni e contaminazioni culturali; l’interesse per il contesto storico; la ricca selezione fotografica; una novità è rappresentata dalla sistematizzazione della materia, che distingue le categorie delle raffigurazioni, oggetti, soggetti, decorazioni, abbigliamento, luoghi, con speciale attenzione per i maestri da Castelsardo a Sanluri, da Ozieri ad Ardara, da Cagliari ad Oristano, passando da Joan Mates fino ai Cavaro, i modelli, le impronte d’oltremare e d’oltralpe, ecc.

Questo volume riflette anche il progresso negli studi, le scoperte della ricerca archivistica, restituisce la “complessità della società” sarda del Quattrocento e del Cinquecento iberico, le rotte, le botteghe, i viaggi degli artisti alcuni locali come Giovanni Muru ad Ardara oppure Pietro Cavaro. Ma il nervo scoperto è quello dell’identità di un’arte sarda, dell’esistenza di uno specifico sardo, che spiegherebbe attardamenti del gotico maturo, ritardi, arcaismi; eppure occorre correggere anche le posizioni dei maestri Corrado Maltese e Renata Serra del lontano 1962 e fare pure autocritica, aprire orizzonti nuovi, ammettere un rapporto tra l’arte sarda e l’ampiezza dell’articolazione dell’arte in Europa, superando la prospettiva italocentrica e ritrovando i segni della cultura flandro-iberica. Non basta: il tema della costante resistenziale concepito da Giovanni Lilliu, riprendendo una lontanissima formula gramsciana, non riesce più a spiegare tutte le variabili di un’arte aperta e non imbrigliata in una piega territoriale: per osservare questi retabli straordinari è necessario come scrive Caterina Virdis <<portare il punto di osservazione fuori dal campo e assumere una prospettiva europea>>, ricordare come la Sardegna appartenesse alla Corona d’Aragona, anche se è opportuno rivedere quello che la Virdis chiama <<l’assoluto disinteresse nei confronti degli investimenti artistici da parte dei grandi feudatari catalano-aragonesi>>. In realtà la vicenda del retablo della chiesa di San Pietro di Tuili in Marmilla, voluto dai coniugi di Santa Cruz, Giovanni e sua moglie Violante, feudatari del paese di Tuili, dimostrerebbe il contrario; i recenti studi di Marco Antonio Scanu hanno fatto sapere come questa questione sia ancora in piena ebollizione e come vada rivalutato il rapporto che univa la Sardegna, i suoi vescovi e altre personalità alla Saragozza aragonese. Nel saggio su Tuili e in altri studi dello stesso autore si mette in luce come sia esistita un’attenzione verso la Sardegna da parte delle oligarchie, allora ai vertici del sistema di potere: in primis il viceré Nicolau Carroz nella seconda metà del Quattrocento, che intese abbellire la chiesa cagliaritana dei francescani Osservanti, di nuova fondazione, con pitture, agevolmente identificabili con il Retablo della Porziuncola, ancora una volta del misterioso Maestro di Castelsardo.

Sono stato ad Ardara pochi giorni fa accompagnato dal mio amico Giovanni Conconi e da Stefano Tedde, a ridosso del palazzo giudicale con le memorie di Adelasia scavato in queste settimane dagli allievi di Marco Milanese: nella chiesa di Santa Maria del Regno il grande retablo maggiore commissionato dal canonico Joan Cataholo, arciprete della cattedrale di Sant’Antioco di Bisarcio, ci ricorda all’inizio del Cinquecento (1515) la profondità della cultura teologica, l’eleganza, il peso della spiritualità dell’ordine francescano, il rapporto tra il Maestro di Castelsardo e forse un suo allievo, Giovanni Muru autore della maggior parte delle tavole; è l’epopea dei tempi più maturi dei sovrani Cattolici. Ci interroghiamo, come per Tuili, sul luogo nel quale le tavole sono state tagliate, dipinte, decorate; il progetto originario, le dinamiche di bottega, i modelli, i tempi di realizzazione, le finalità. Il ruolo della Sardegna, rappresentata sinteticamente dalla scena di San Gavino, il soldato palatino turritano martirizzato sotto Diocleziano, vastamente presente nell’immaginario del potere dei Giudici di Torres fin da Gonario II se da lui fu portato fino all’abbazia cistercense di Clairvaux il manoscritto della Passio fin dal XII secolo. Scomparso il Giudicato, non sorprende che l’antica cappella palatina di Santa Maria del Regno abbia mantenuto il ricordo nel Retablo Maggiore di una lontana devozione dei signori del Logudoro per il martire rappresentato a cavallo, con l’insegna della torre che rimanda alla Turris Libisonis romana e sullo sfondo quelle che potrebbero essere interpretate come le fortificazioni della colonia cesariana. Debbo dire che sono rimasto senza fiato osservando questo particolare poco noto ma tanto significativo, che incatena alla Sardegna questo monumento.  Come non pensare al San Gavino turritano con sullo sfondo le costruzioni della colonia romana, opera di Matia Preti allievo del Caravaggio riscoperto da Vittorio Sgarbi nel Monastero di clausura delle Cappuccine ?

Questo e altri temi ancora più emozionanti sono stati discussi approfonditamente nelle pagine e nelle schede di questo libro, con passi in avanti e un’impostazione scientifica di cui siamo davvero grati alle autrici del volume. Grazie a Maria Vittoria Spissu per aver portato a termine anche con la presentazione di oggi l’eredità ricevuta dalla sua maestra. Grazie per quello che farà ancora.




Presentazione del volume di Christine Hamdoune Ad fines Africae Romanae.

Attilio Mastino
Presentazione del volume di Christine Hamdoune
Ad fines Africae Romanae
Les mondes tribaux dans les provinces maurétaniennes, Ausonius Éditions Scripta antiqua 111,  (LabEx Archimède, Archéologie et histoire de la Méditerranée et de l’Égypte anciennes), Bordeaux 2018
Tunisi, 7 dicembre 2018

Cristine Hamdoune professoressa emerita all’Université Paul-Valéry di Montpellier 3 raccoglie in questo documentatissimo volume i risultati di una feconda attività di ricerca quasi trentennale iniziata sui MEFRA nel 1993 con l’articolo dedicato a Tolomeo e alla localizzazione delle tribù della Tingitana, momenti che in parte abbiamo condiviso già in occasione del nostro viaggio di studio nella Volubilis di Edemone vent’anni fa oppure in tante altre circostanze, come per il XIV convegno de L’Africa Romana svoltosi a Sassari nel 2000, dove ha sintetizzato il tema delle controverse relazioni tra la Mauretania occidentale e la Mauretania orientale; oppure per il XV congresso di Tozeur sui processi di acculturazione delle l’acculturation des “gentes”della Cesariense.

Per il XVI congresso di Rabat nel 2014 aveva messo a frutto il tema dei movimenti di popolazione nei carmina funerari africani. Sempre con la capacità di rielaborare la lezione dei suoi maestri come Jean-Marie Lassère (Ubique amici nel 2001) e  mettendo a frutto i risultati delle indagini archeologiche condotte a Banasa, a Tingi, a Volubilis,in tanti altri luoghi delle Mauretanie.

Nel XIX Convegno ci aveva presentato il tema del potere all’interno dell’organizzazione tribalke in Cesariense  partendo da Ammiano Marcellino, tema che aveva ripreso ad Alghero per il XX convegno nel 2013, attenta alle discontinuità e alle trasformazioni, all’alternarsi dei momenti di continuità e di rottura, all’organizzazione delle comunicazioni, alle tematiche militari, al peso della geografia nella storia, agli aspetti istituzionali delle gentes e dei gentiles, dal viaggio di Massimiano fino Vandali e poi all’apertura all’Islam, in un mondo articolato e complesso diviso in regni locali fortemente vitali.

Christine aveva affrontato il tema delle Nationes in rapporto allo spazio provinciale, ovviamente tenendo conto della relazione che un populus aveva nei confronti di un luogo geografico di origine: le popolazioni straniere, alleate o sottomesse a Roma (nationes exterae), spesso chiamate a far parte degli auxilia di cui al volume del 1999. Altre volte il termine natio era usato per indicare popoli ostili alla Res pubblica oppure etnie definite etnocentricamente “barbare e arretrate”, rispetto alla cultura di cui i Romani si ritenevano portatori primi.

In epoca imperiale questa nozione era riferita soprattutto ai peregrini che abitavano ampie aree all’interno dello spazio geografico dell’impero con frontiere che vanno sfumandosi ai suoi margini e che conservavano le loro tradizioni e, se si vuole, una propria cittadinanza, in qualche caso alternativa alla cittadinanza romana: natio è dunque la comunità di diritto alla quale si apparteneva per vincolo di sangue, partendo dalla terra nella quale si era nati, dal luogo d’origine, di appartenenza o di provenienza. Il termine era utilizzato di frequente per indicare anche gli africani che abitavano fuori dall’impero romano e che avevano una propria lingua e tradizione.   In ambito provinciale la questione aveva importanti contenuti culturali e giuridici, in relazione al rapporto tra la cittadinanza romana e gli iura gentis, cioè le tradizioni giuridiche locali dei peregrini, che sopravvivevano all’interno di una provincia romana, come testimonia ad esempio la celebre tabula Banasitana per i Baquati. Quanto questo tema sia rilevante per le aree di confine, poste “dentro” e “fuori” rispetto a quei fines che segnavano l’impero, in particolare nei mondi rurali e marginali, è documentato dalle manifestazioni artistiche, ad iniziare dalle stele libiche come ad Abizar oppure dalle stele libico-romane come a Castellum Tulei in Kabilia della nostra copertina; dall’epigrafia, dalle fonti geografiche, dall’urbanistica, fino ad arrivare agli autori arabi che riescono a far trasparire, pur in un processo di profonda trasformazione, eredità multiple che incredibilmente sopravvivono nei secoli, per tanti aspetti diversi, con una sostanziale conferma nel tempo della percezione geografica originaria che ha determinato la nascita delle province e la formazione di cantoni e distretti differenti.

Naturalmente il punto di partenza è rappresentato dal volume di Y. Moderàn su Les Maures et l’Afrique romaine (IVe –VIIIe siècle), pubblicato a Roma nel 2003, con attenzione soprattutto per i “secoli oscuri” dei Mauri in Tripolitania, Bizacena, Proconsolare e Numidia: ma ora il discorso si sposta ad occidente verso la Tingitana e soprattutto rimette in discussione, attraverso le interpretazioni più recenti fino a Jehan Desanges, Philippe Leveau, Paul Albert Février, Claude Briand-Ponsard, David Mattingly, Jen-Marie  Lassère, Michel Christol, categorie e schemi troppo semplici e superati di una prospettiva romano-centrica che hanno influenzato la storiografia di età coloniale ma che in modo quasi sotterraneo arrivano quasi fino ai nostri giorni: il tema dell’incontro tra culture, il rifiuto di una egemonia assoluta della cultura romana, il superamento della tesi aprioristica della sottomissione dei Mauri, della fusione indistinta tra culture diverse o alla rovescia della resistenza alla romanizzazione, che tanto ci hanno appassionato, con la pretesa di irrigidire la realtà entro categorie anche nuove (il meticciato), che pure non si rivelano efficaci. Come diceva Marco Tangheroni nel suo volume postumo gli storici rischiano spesso di trasformare la storia in una disputa teologica, dimenticando l’oggetto stesso della ricerca, proponendo generalizzazioni che cercando di spiegare una realtà complessa. Ovviamente non possiamo rinunciare a stabilire connessioni, a mettere ordine, a proporre linee di riorganizzazione del passato, per comprendere e spiegare: l’inquietudine sul proprio mestiere dovrebbe sempre accompagnare gli storici che non vogliono travisare quella realtà che è oggetto dei loro studi. Dunque cosa conosciamo, come conosciamo, quali sono i limiti della nostra conoscenza, quali ne sono le fonti, elementi tutti che danno al mestiere dello storico un carattere artigianale e addirittura artistico e che rendono fondamentale la fase di apprendistato nella quale i maestri debbono seguire i loro allievi, con spirito laico e aperto, evitando gli schematismi e le generalizzazioni.

Questo volume è fortemente ancorato ai dati disponibili, al ruolo della geografia nella storia specie nelle regioni di frontiera, alle fonti, che erano consapevoli della estrema diversità delle popolazioni autoctone locali (500 tribù per Plinio operavano tra l’Atlantico e l’Egitto, innumerabiles gentes per Agostino) e non trascuravano il rapporto tra città e campagne e le relazioni pacifiche e non conflittuali che a seconda dei luoghi e delle circostanze storiche emergono chiaramente attraverso il tempo. L’A. ritiene che si è privilegiato per troppo tempo l’aspetto conflittuale delle relazioni tra Roma e i popoli libici organizzati in gentes, tanto da dare l’impressione di province fragili e poco pacificate, sottoposte alla violenza dei popoli collocati all’interno del limes ma anche alla spinta delle tribù nomadi provenienti dal Sahara. Insomma è necessaria ora una visione “plus nuancée” dei rapporti tra il governo romano in sede provinciale e i capi delle gentes rurali ma sedentarie, più o meno isolate, con un ridimensionamento delle dimensioni distruttive delle c.d. rivolte maure dei primi tre secoli; e con la consapevolezza che il governo imperiale ha operato <<pragmaticamente>> con una serie di controlli fiscali, amministrativi, di polizia, ideologici>> tali da consentire col minimo sforzo di conseguire obiettivi specifici (A. Ibba).

La prima parte del volume è dedicata a L’emprise du monde tribal sur un éspace géographoique contraignant, un miliéu geografico che favorisce tuttora le comunità agropastorali più o meno autosufficienti, con una grande differenziazione tra la Tingitana, la Cesariense occidentale e quella orientale; la geografia determina in qualche caso le forme di occupazione del territorio e fissa limiti precisi al nomadismo delle tribù, prevalentemente sedentarie. Nelle due Mauretanie emergono tutte le difficoltà dei Romani a dominare gli spazi, a sviluppare la colonizzazione, a concedere promozioni municipali, a estendere il fenomeno urbano, con la necessità di introdurre presidi militari a controllo delle comunità non urbane, le gentes tribali che sono caratterizzate da forme di mobilità che non sempre possiamo ricostruire nel tempo. Assistiamo ad una diseguale evoluzione delle gentes foederatae verso le civitates e addirittura in alcune aree verso i municipi o le colonie, ma con forme nettamente distinte dai processi ben noti in Africa Proconsolare, una dicotomia ufficializzata già attraverso la monetazione di Adriano che distingue le Mauretanie dall’Africa. E del resto già la decisione di Claudio di sostituire al regno di Giuba II e di Tolomeo due province distinte separate dal fiume Moulouya era ben giustificata, se poi emergeranno profonde differenze  tra la romanizzazione della Tingitana e la Cesariense: la Mauretania atlantica fu abbandonata quasi completamente già nel III secolo di fronte all’iperattivismo dei Baquati guidati dai principes constituti e poi dai reges, protagonisti dei conloquia con gli ultimi governatori provinciali, per quanto l’A. ritenga che i mondi tribali della Tingitana finiscano per essere più o meno periferici e non si evolvano realmente. Viceversa la Cesariense fu fortemente condizionata dalla vicina Numidia, progressivamente orientata con la nova praetentura severiana verso Sud, ben urbanizzata a dispetto dei disordini che conosciamo soprattutto nella seconda metà del III secolo tra il Monte occidentale Ouarsenis (in berbero Warsnis), la Piccola Kabilia (Béjaïa), i territori a S del Mons Aurasius, con le gentes spesso adtributae alle comunità urbane oppure externae, quae sub nulla sunt potestate Romana per Agostino. Eppue possiamo registrare profonde influenze culturali romane e del cristianesimo anche all’interno delle gentes che non per questo perdono la propria identità, inizialmente sotto il controllo dei praefecti gentis o nationis, più o meno legati al governo provinciale. Le fonti geografiche e letterarie latine e greche ci consentono di conoscere almeno i nomi di un limitato numero di populi che facevano uso di una scrittura locale, che riflette varie lingue autoctone fin qui poco conosciute; l’unità di scrittura non corrisponde ad un unico alfabeto a causa della totale assenza di normalizzazione linguistica e dell’esistenza di una varietà di linguaggi libici, imparentati tra loro e sicuramente collegati con il berbero parlato ancora oggi. E questo sia con riguardo alle tribù che vivevano a ridosso dei municipi e delle colonie romane, come quelle più eccentriche e marginali (Mazices e Quinquegentanei) o periferiche rispetto al limes provinciale come i Baquati o, in Cesariense, i Bavari.

La II parte del volume è intitolata Un cadre politique et culturel profondément modifié dans l’Antiquité tardive, a partire dall’aggregazione funzionale di quel che restava della Tingitana a Nord del fiume Loukkos e di Lixus alla diocesi delle Hispaniae con Diocleziano. Negli stessi anni, la nascita della provincia Sitifense a oriente della Cesariense segnala gli effetti principali delle politiche romane nelle aree collocate a ridosso della Numidia, più aperte alle influenze culturali centrali: densità ineguale della popolazione e degli insediamenti urbani e forme ben distinte della valorizzazione agricola dei fundi mauri, spesso a ridosso delle antiche proprietà imperiali, che finiscono per orientare l’insediamento. Le aree più vicine al confine della Numidia, se appaiono anch’esse conservare l’organizzazione tribale, risultano più integrate e meno isolate e le gentes finiscono per risultare profondamente cristianizzate, come i Mazaces della Numidia o i peregrini dell’episcopato Ceramusensis della Sitifense. Se è vero che i castella della regione di Sitifis sono rimasti costantemente in possesso di una forma significativa di autonomia, i contadini anche se romanizzati solo in parte, finirono per essere integrati nel sistema politico e giuridico romano, senza possedere un proprio ius gentis, ma riferendosi e agganciandosi alle colonie o ai municipi vicini o anche ai latifondi imperiali articolati in vici e castella, con villaggi che pur mantenendo alcune istituzioni tribali (principes, seniores), arrivano talvolta alla condizione municipale. Queste comunità sono talora divenute sedi vescovili rurali che si aggregano alla chiesa di Cartagine, dove si è andato sviluppando il culto dei martiri. Con una differenza sostanziale tra le regioni degli altipiani, dove l’organizzazione tribale sembra scomparire progressivamente, e le regioni montuose della Sitifense contigue alla Cesariense (Hodna) dove ritroviamo dei limites nei quali gli originari castella alla fine dell’età severiana erano pervenuti alla condizione municipale (Equizeto, Thamascani, Thamallula, Lemnellef), ma con qualche flessibilità se ad es. Sertei conserva l’organizzazione tribale all’interno dei praedia imperiali.

In Cesariense viceversa l’urbanizzazione meno intensa spiega la forza e la rilevanza dell’organizzazione gentilizia local , tanto che per difendere la pace all’interno della provincia i Romani finiscono per essere costretti ad appoggiarsi progressivamente sulle élites tribali maure, sui notabili locali, che adottavano comportamenti romani, assumevano titoli come quello di praefecti gentis e fornivano reclute per i distretti militari del limes.  La nuova interpretazione delle testimonianze archeologiche porta a ridimensionale il numero delle “forteresses romaines” e a riconoscere l’autonomia delle aristocrazie maure in possesso di estesi latifondi, che mantengono i segni esteriori del potere romano ma insieme ereditano valori tradizionali locali. La guerra di Firmo (figlio di quel Nubel velut regulus per nationes Mauricas potentissimus) iniziata nel 370, alimentata dalla dissidenza maura, testimonia i limiti di questa politica che comunque giunge sino al momento dell’arrivo dei Vandali, con un progressivo distacco dall’autorità centrale preceduto dalla rivolta di Gildone. Una straordinaria espressione attribuita al primate d’Africa Aurelius anni dopo in occasione del Concilio di Cartagine del 397 testimonia l’isolamento progressivo delle Mauritaniae, positae in finibus Africae e troppo contigue al Barbaricum, che non dovevano pretendere una visita pastorale da parte del vescovo di Cartagine come non lo facevano gli Arzuges a Sud della Tripolitania e della Bizacena, anche perché per i Mauri forse era più semplice mantenere un rapporto con la sede apostolica romana. Si arriverà ad Agostino che sostiene che la Mauretania Cesariense rifiutava di appartenere all’Africa (nec Africam se vult dici), ma forse Claude Lepelley aveva ragione a parlare di “snobisme carthaginois” nei confronti delle aree più periferiche e lontane dalla capitale. Del resto si tratta di processi che si sviluppano progressivamente nel tempo, tanto che con l’invasione vandala emergono potentemente i regni mauri autonomi che si liberano della tutela vandala e che ormai gravitano più che sul Mediterraneo verso le aree sahariane; l’occupazione bizantina non modifica questo quadro, con l’eccezione di Sitifis fortemente presidiata dall’impero.

La terza parte del volume è dedicata proprio a Les temps des royaumes maures (Ve-fin di VIIe siècle): l’A. dimostra che l’organizzazione provinciale in qualche modo sopravvive con i Vandali e con i Bizantini, con una riorganizzazione per gruppi tribali allargati sottoposti a basileoi locali, senza che venga a cadere la latinità e il cristianesimo, pur con le profonde differenze tra la Mauretania occidentale e la Sitifense. L’A. ipotizza l’esistenza di più regni mauri che riuniscono popolazioni di origini diverse, in particolare un vero e proprio stato multietnico, quello dei Mauri “du premier cercle” a suo tempo riconosciuti da Roma che comprendeva anche i romano-africani fedeli alle tradizioni latine urbanizzati sotto il dominio dei Bavari del djebel Amour, pian piano capaci di controllare un regno multiculturale che dalla Moulouya arrivava fino all’Ouarsenis. E uno Stato “du deuxième cercle”, che comprendeva i Mauri installati nella provincia all’inizio del V secolo, che si è progressivamente affermato nella parte più occidentale della Cesariense. Viene affrontato il ruolo unificatore del cristianesimo, alla base di una cultura mista originale. Meno informazioni possediamo sul regno di Hodna, anche se da al-Nuwayrî sappiamo che il sovrano locale si appoggiava sui notabili mauri. Su scala più ridotta l’A. individua il regno degli Ucutamani. Tra l’antica Tingitana e la Mauretania occidentale si collocano i Baquati sull’Atlantico ed i Macurebi à Est tra la Kabilia e la vallata dello Chelif, eredi dei Mauri del primo cerchio, destinati però a perdere completamente i contatti con la latinità e poi con il cristianesimo nel corso del VI secolo, almeno per i Baquati. Si arriva all’VIII secolo per il crollo anche in Cesariense alla vigilia dell’arrivo degli Arabi, di fronte alla spedizione di Mûsa ibn Nusayr.  E’ ridimensionato il significato dell’origine maura del principe Awraba Kusayala.

Vengono esaminati i dati – per la verità abbastanza sintetici -, forniti dalle più antiche fonti arabe su quelli che ora vengono chiamati i Berberi, gli Imazighen dei nostri giorni, capaci di mantenere le loro strutture sociali più antiche in territori che continuano ad essere ben distinti: la Sitifense orientale più vicina alla Numidia è ora chiamata Zab, la Cesariense Sûs al-Adna e la Tingitana Sûs al-Aqsa: come se le differenze geografiche e culturali fotografate dall’organizzazione romana venissero ancora percepite in età araba.

Le fonti principali sono Ibn Khaldûn sui Beni Ifren e i Magrâwa, al-Ya’kûbî (IX secolo) sugli Anbiya del Sûs al-Aqsa (all’interno del più vasto popolo dei Şanhâdja, all’ovest dell’Hodna colloca i Banu Yarniyân lo stesso autore).  Inoltre il geografo persiano Ibn Khurdâdhbah. Si tratterebbe del popolo dominante nello Zab, le regioni meridionali della Sitifense.  Al-Nuwayrî precisa che esisteva un sovrano dello Zab, circondato da molti principi, che governava un ampio territorio collocato presso la città di Arba (a occidente dell’antica Tubunae), abitata ancora da Rūm e da Cristiani: la principale città dello Zāb, è talora indicata come Adna (Al Raqiq, Al Bakri), Adhna (Ibn Khaldūn), Arba (Al Nuwayri, Ibn al Athir) et Azba (Ibn Khaldūn). Più a ovest, abbiamo il vago ricordo di un numero notevole di Berberi ostili alla conquista araba. Come già in età bizantina, la Mauretania dei primi secoli dell’occupazione araba è una terra popolata da popolazioni africane, come i Berberi del Sûs al-Adna, un popolo senza religione che vivevano come selvaggi e non conoscevano il vero Dio.

A partire dal XIV secolo le notizie fornite dal massimo storico e filosofo del Maghreb Ibn Khaldûn (Walī al-Dīn ʿAbd al-Raḥmān ibn Muḥammad ibn Muḥammad ibn Abī Bakr Muḥammad ibn al-Ḥasan al-Ḥaḍramī) ricostruiscono a posteriori e con attualizzazioni la vicenda dei regni mauri al momento della conquista con un’affidabilità davvero dubbia, sovrapponendo notizie appartenenti ad epoche differenti, tanto che dovremmo riconoscere la nostra ignoranza sul tema dell’organizzazione territoriale di Mauri alla fine del VII secolo.




Angela Donati. Intervento di Attilio Mastino, Bologna 17 ottobre 2018

Angela Donati. Intervento di Attilio Mastino
Bologna 17 ottobre 2018

Angela Donati è stata – per usare le parole di Giancarlo Susini – il primo professore di Storia romana nell’Ateneo sassarese fin dal 1974, dove aveva assegnato alcune tesi di demografia storica: dieci anni dopo, aprendo assieme ad Azedine Beschaouch il terzo dei convegni de L’Africa Romana ricordava lei stessa che all’Università di Sassari la legavano sul piano scientifico, intensi comuni programmi di ricerca e, sul piano umano, il riconoscimento di una radice e di una matrice di autentico e schietto spirito amico. Allora oggi vorrei far prevalere il ricordo dell’amica cara davvero, che aveva scelto nella ricerca di far brillare il proprio impegno sociale e politico, con dedizione, con finezza, lungi dalla retorica, con generosità, con la capacità di scoprire i talenti dei giovani allievi, come negli ultimi giorni con le fulminee pubblicazioni su Epigraphica degli articoli che presentavano scoperte e novità da tutto l’ecumene romano, correggendo pazientemente, indirizzando, suggerendo, sempre con uno sguardo paziente e partecipe.

Già nella Presentazione del secondo volume dell’Africa Romana nel 1985 ricordava il tema dei collegamenti tra le due sponde del Mediterraneo sul piano della ricerca scientifica ma anche delle relazioni tra le persone, gli studiosi, la gente comune: se c’è un simbolo di questi contatti sono le navi dell’ipogeo di Ercole Salvatore a Cabras da lei raccontate negli studi in onore di Piero Meloni, un monumento sul quale era tornata con noi proprio sul numero di “Epigraphica” del 2018.  Nel saluto come segretaria generale dell’AIEGL al convegno di Tozeur del 2002 ricordava di aver vissuto i nostri incontri fin dai loro primissimi passi con Marcel Le Glay e sempre li aveva seguiti nel loro vagare tra diversi luoghi della Sardegna, dell’Africa e della Spagna, come a Siviglia dove aveva aperto il convegno con una lezione magistrale firmata assieme a Raimondo Zucca sulle ricchezze dell’Africa. A lei dedicheremo il XXI dei nostri incontri a dicembre a Tunisi, presso la Scuola archeologica italiana di Cartagine di cui era voluta diventare socia onoraria.

L’abbiamo ammirata per le sue straordinarie doti di organizzatrice di ncontri internazionali già agli esordi del programma Erasmus e l’abbiamo osservata scrivere l’introduzione a tanti volumi diversi in un orizzonte larghissimo, riuscendo a sintetizzare con parole semplici obiettivi e orientamenti nuovi, spaziando come il suo Maestro dalle singole schede e dagli aspetti tecnici dell’officina lapidaria fino alle grandi sintesi, desiderosa di manifestare concretamente il più grande rispetto per le tradizioni culturali e religiose, per la profondità delle diverse storie e delle diverse culture, per il patrimonio identitario, con la consapevolezza che esistono variabili geografiche e cronologiche nel momento in cui culture diverse entrano in contatto, sempre evitando di perdere la concretezza e di  piegare il dato scientifico a schemi ideologici. Contro le semplificazioni che non danno conto della complessità della storia.

Eppure non ha mai rinunciato ad un puntualissimo lavoro di indicizzazione analitica per la rivista e per le Monografie delle sue Collane “Epigrafia e Antichità” e “Studi di Storia Antica”, che pubblicava con Vittorio Lega.  I suoi lavori sull’urbanizzazione, la storia militare, la flotta, la vita religiosa, gli imperatori, i cippi itinerari, i termini agrimensori, i carmina, l’instrumentum come a Barcellona poche settimane fa, la fase paleocristiana, la storia della disciplina partendo dai tardi umanisti fino a Bartolomeo Borghesi e Theodor Mommsen e oltre, i musei come a Rimini o a Cesena, la didattica dell’epigrafia, sempre con una acutissima attenzione per le scritture antiche, per la produzione culturale, il rapporto tra demografia e società, con l’emozione e la passione per la scoperta anche la più minuta, con una straordinaria capacità di mantenere uno sguardo freschissimo e di entrare in contatto con il mondo antico: il ruolo della geografia nella storia, dalla Cispadana  fino al Danubio, alla città mesica di Ratiaria (Archar) o alla celtica Carnuntum, all’Augusta Bilbilis patria di Marziale in Iberia, ad Alessandria in Egitto, a Zama Regia in Bizacena, fino alla Thuburnica fondata da Gaio Mario in Numidia già nel suo primo lavoro su Studi Romagnoli del 1964.

Parlando a nome dei colleghi delle Università di Cagliari e di Sassari ma anche di tanti colleghi magrebini che l’hanno conosciuta e le hanno volute bene, credo di poter dire che un pezzo di noi se ne è andato per sempre e sentiamo il senso di una perdita irreparabile, eppure sono convinto che le sue opere non invecchieranno nel tempo, ma resterà soprattutto il sapore della novità, il ricordo di una generosità e di una disponibilità senza eguali, la preziosa funzione di collegamento, un punto fermo al quale guardare sempre con ammirazione, con il desiderio di emulazione. Un poco con invidia. A me personalmente resta il ricordo dolce di un’amica e la consapevolezza di un debito che è aumentato giorno per giorno. Con le tante confidenze, fino ai suoi imminenti splendidi progetti per la rivista “Epigraphica”, che cercheremo di mettere in pratica con lo spirito giusto.   Era orgogliosa del titolo di Professore Emerito di Epigrafia e antichità romane nell’Università di Bologna.

Se veramente la morte non è niente, perché sei solo passata dall’altra parte come scrive Henry Scott Holland, asciughiamo le lacrime dei tuoi familiari, dei tuoi colleghi, dei tuoi studenti, e ti lasciamo andare in pace con le parole antiche di una grande poetessa, Alda Merini, “Che la terra ti sia finalmente lieve”.