Isole – Intervento di Attilio Mastino a Carloforte – Tavola rotonda con Umberto Eco – 26 giugno 2010

ISOLE

di Attilio Mastino

LocandinaL’ AMBIVALENZA DELLE ISOLE

Le isole godono nel pensiero antico di una  profonda ambivalenza: da un lato esse rappresentano un ‘punto di passaggio’ lungo le rotte mediterranee, dall’ altro, per la loro stessa natura, sono luoghi ‘remoti’ e ‘isolati’, e, in quanto tali, possono trasformarsi in luoghi utopici.

Il grande storico delle “Annales” Lucien Febvre assunse paradigmaticamente la Sicilia e la Sardegna come espressione rispettiva dell’ «île carrefour» e dell’ «île conservatoire».

Al di là dello schematismo febvriano non c’è dubbio che la Sicilia partecipi di un maggiore dinamismo culturale ed economico rispetto alla Sardegna in tutte le fasi della storia.

Ma in effetti alla Sardegna era  stato concesso il primato  nel “canone delle isole” del Mediterraneo, sulla base non della superficie (non calcolabile nell’ età arcaica), ma per il suo maggiore effettivo sviluppo costiero rispetto alla Sicilia.

Questo canone, formatosi  entro il V secolo a.C. , ma presumibilmente già dal secolo precedente, è derivato  dal periplo di ciascuna isola, unico strumento  in possesso degli Antichi, per determinare, seppure approssimativamente, l’estensione delle isole.

E’ noto che in tre occasioni Erodoto  ricorda la Sardegna come l’isola più grande del mondo:  la notizia  è da considerarsi ovviamente erronea se le dimensioni dell’isola, in rapporto alle altre isole del Mediterraneo,  vanno calcolate in termini di superficie, dato che la Sardegna, con i suoi 23.812 km. quadrati viene superata dalla Sicilia, con 25.426 km. quadrati. In passato, il presunto errore di Erodoto, variamente ripreso dagli scrittori antichi, in particolare da Timeo e quindi da Pausania, era stato considerato come una prova per dimostrare la scarsa conoscenza che dell’isola avevano i Greci, esclusi alla fine del VI secolo a.C. dalle rotte occidentali dalla vincente talassocrazia cartaginese all’indomani della battaglia navale combattuta nel Mare Sardo per il controllo di Alalia, della Corsica e della Sardegna. Una tale interpretazione va comunque rettificata e va rilevato che il calcolo di Erodoto è stato effettuato non in termini di superficie ma di sviluppo costiero delle diverse isole del Mediterraneo: il litorale della Sardegna è lungo circa  1.385 km. (oltre 4.000 stadi, circa 600 miglia secondo le fonti: tra i 740 e gli 888 km.) ed è dunque nettamente superiore al perimetro costiero della Sicilia, che ha uno sviluppo di 1.039 km. Per Procopio il perimetro dell’isola poteva essere percorso solo in 20 giorni da un uomo a piedi, che marciasse svelto a 200 stadi al giorno. Prima della conquista romana doveva d’altra parte essere impossibile calcolare l’esatta superficie della Sardegna, dato che la presenza punica non oltrepassò il fiume Tirso e non riguardò la Barbaria montana.

Pertanto se ne può dedurre viceversa una buona conoscenza del litorale sardo da parte dei marinai greci già nel V secolo a.C., come testimoniano i nomi di “Isola dalle vene d’argento”, “Ichnussa”, “Sandaliotis”, con riferimento in particolare alla forma cartografica dell’isola. Del resto il significato della battaglia di Alalia – che alcuni ritenevano il momento finale della colonizzazione greca nel Mediterraneo occidentale –  viene oggi notevolmente ridimensionato. Tuttavia c’è da presumere che le caratteristiche della costa e dei fondali, le correnti e l’andamento prevalente dei venti siano stati oggetto di successive esperienze durante la dominazione cartaginese; dopo il 238 a.C. e quindi nell’intervallo tra la prima e la seconda guerra punica, in età  romana.

La Sardegna appare dal mito come un’isola felice (eudaimon), che per grandezza e prosperità eguaglia le isole più celebri del Mediterraneo: le pianure sono bellissime, i terreni fertili, mancano i serpenti e i lupi, non vi si trovano erbe velenose (tranne quella che provoca il riso sardonio).

La Sardegna, isola di occidente, appare notevolmente idealizzata, soprattutto a causa della leggendaria lontananza e collocata fuori dalla dimensione del tempo storico.  Eppure i Greci avevano informazioni precise sulla reale situazione dell’isola: già Diodoro Siculo, confrontando il mito con le condizioni di arretratezza e di barbarie dei Sardi suoi contemporanei, osservava come essi erano riusciti a mantenere la libertà promessa da Apollo ad Eracle, dopo le ripetute aggressioni esterne. I discendenti del dio erano riusciti ad evitare, nonostante le dure condizioni di vita, le sofferenze del lavoro. Si aggiunga che gli autori greci e latini avevano una notevole conoscenza, più o meno diretta, dell’esistenza in Sardegna di una civiltà evoluta come quella nuragica, caratterizzata da un lato dall’assenza di insediamenti urbani, dall’altro da uno sviluppo notevole  dell’architettura, dell’agricoltura e della pastorizia. Questa consapevolezza si esprime, per l’età del mito, nella saga degli Eraclidi, di Dedalo e di Aristeo, che avrebbero determinato quello sviluppo, prima dell’evoluzione urbana miticamente attribuita a Norace.

Il canone delle isole, attestato nel Periplo dello Pseudo Scilace, in Timeo, Alexis, Pseudo Aristotele, Diodoro, Strabone, Anonimo della Geographia compendiaria, Tolomeo, ed in epigramma ellenistico di Chio, comprendeva, originariamente, sette isole, il cui elenco, seppure  non sempre nello stesso ordine, è il seguente: Sardegna, Sicilia, Creta, Cipro, Lesbo, Corsica, Eubea.

È sintomatico del processo di formazione di questo canone il fatto che l’isola più occidentale  dell’elenco sia la Sardegna e che il più antico aggiornamento del canone, contenuto nel Periplo di Scilace, forse ancora del VI secolo a.C., annoveri esclusivamente isole del Mediterraneo orientale.

L’ Occidente, ossia lo spazio del buio, dopo il tramonto del sole, è evocato nella rotta di Odisseo, ma la codificazione occidentale della geografia dell’ Odissea è del tutto ignorata da Omero, mentre le avventure di Odisseo principiano ad avere una loro localizzazione occidentale solo nella Theogonia di Esiodo.

Invano, dunque, cercheremo nel testo dell’ Odissea una specificazione geografica dell’ isola di Aiàie, sede del Palazzo di Circe o del nesos Ogugìe, dove Kalupsò abita.

I celebri versi 1011-1015 della Theogonia esiodea, attualmente non più considerati un’interpolazione tardiva,  marcano una localizzazione tirrenica dell’ isola di Circe:

Circe, figlia del Sole, stirpe di Iperione,
unitasi in amore con Odisseo, dal cuore che sopporta,
generò Agrio e Latino, irreprensibile e forte.
Questi molto lontano, nel mezzo di isole sacre,
regnavano su tutti gli illustri Tirreni.

Con Lorenzo Braccesi dobbiamo ribadire che «la critica ha riconosciuto la prima codificazione della geografia dell’ Odissea a una matrice euboica, sottolineando come le tappe delle peregrinazioni di Ulisse, nella loro localizzazione occidentale, si accompagnino all’ evolversi della grande avventura coloniaria di Calcide e di Eretria».

A questo medesimo quadro storico potremmo, dunque, proporre di attribuire una serie di filoni mitografici greci ambientati in isole occidentali, pur rendendoci conto che il mito è un sistema semiologico che impone la individuazione «dei meccanismi delle sue letture e riletture successive, dall’ antichità fino ad oggi».

LA SARDEGNA ISOLA DELL’ ESTREMO OCCIDENTE

In questa chiave è  opportuno evidenziare due  nuclei di tradizioni mitiche che localizzano la sede di Phorkos / Phòrkus nello stretto fra Sardò, la Sardegna, e Kyrnos, la Corsica e la sede di Gerione, l’ avversario di Herakles nella sua decima fatica, nelle tre maggiori isole baleariche.

Una tradizione mitica alquanto antica localizzava  la sede di Phorkos / Phòrkus, una divinità ancestrale confinata nell’ Oceano occidentale, nel mare fra Sardò, la Sardegna, e Kyrnos, la Corsica.

Servio nel suo commento ad Eneide V, 824  precisa: >.

Si tratta, come è evidente, di una razionalizzazione del mito, del resto presente nella stessa forma nel primo Mitografo del Vaticano. Che tale critica razionalista del mito non  sia ascrivibile a Varrone o comunque ad una fonte latina lo dimostrano le Storie incredibili di Palefato, un misterioso autore di una raccolta di miti, interpretati in chiave razionalista, forse da ascrivere ad ambiente del Peripatos, tra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C..

Tra i miti interpretati da Palefato vi è anche  quello relativo alle figlie di Phòrkus, che descrive Phòrkus come regnante «sulle isole fuori dalle colonne d’ Ercole (sono tre)», che lasciò dopo la sua morte alle tre figlie Stenò, Euriala e Medusa, le quali spartitesi il patrimonio, ciascuna governava un’ isola. Perseo, esule da Argo, esercitava la pirateria contro i paesi costieri con navi e truppe; saputo che da quelle parti c’ era un regno tenuto da donne, molto ricco e scarso di uomini, vi giunge; e per prima cosa stazionando nello stretto tra Kerne e Sardò, cattura l’ Occhio [un amico di Phòrkus nell’ interpretazione razionalistica di Palefato], mentre sta navigando da una parte all’ altra.

La lezione tràdita dai codici a proposito delle isole delle figlie di Forco  è discussa né ci illumina il tenue riferimento di Varrone (nel commento di Servio all’ Eneide) a Phorcus che rex fuit Corsicae et Sardiniae , benché in Palefato all’originario Kùrnos (Corsica) si sostituisca Kerne, in relazione all’ utilizzo del Periplo di Annone e ad una ambientazione esplicitamente atlantica del mito.

In realtà sembrerebbe che una fonte mitografica anteriore a Palefato conoscesse una localizzazione tirrenica (sarda-corsa) di Phorkus, che Omero considera figlio di Poseidon e di Thòosa e che altre teogonie riportano all’ ordine preolimpico, in quanto figlio di Pontos e Gaia, o di Okeanos e Tethis. Indubbiamente le varie localizzazioni antiche di Phorkus variano tra le isole ionie di Cefallenia e Ithaka, la Libye del lago Tritonio (lo Chott el Jerid della Tunisia meridionale) e l’ Africa atlantica, tuttavia l’ ambientazione tra Sardegna e Corsica  ci mostra una codificazione insulare mediterranea assai antica di un mito in origine privo di specificazioni geografiche.

Vi è infine da chiedersi se, ammessa la localizzazione mediterranea del mito,  le tre isole su cui regnavano le figlie di Phòrkus, al di là dello stretto fra Sardegna e Corsica,  non possano essere identificate nelle tres insulae adiacenti all’ HispaniaBaliarica maior, Baliarica minor ed Ebusus.

E allora veramente potremmo aggiungere un tassello alla tesi di chi sposta le colonne d’Ercole, come ho già avuto modo di osservare a proposito della spedizione degli Argonauti nella Grande Sirte e della localizzazione del Giadino delle Esperidi, in origine associato al tunisino Lacus Tritonis (Chott el Jerid) e poi trasferito sull’Atlantico. Credo che una discussione laica sulla localizzazione delle Colonne sia opportuna, anche perché è certo che i miti greci hanno accompagnato la navigazione e dunque si spostavano nello spazio e nel tempo. Del resto lo stesso Sergio Frau ha oggi fatto un notevole passo indietro sulla questione del mito di Atlantide.

FUNZIONE DELLE ISOLE

Le isole, urbanizzate o meno, sono soggette ad un utilizzo economico in relazione sia al loro ruolo nella navigazione antica, come approdi e luoghi di approvvigionamento dei navigli, sia e soprattutto per lo sfruttamento delle risorse minerarie (ad esempio i filoni ferrosi di Ilva, le cave di granito di Planaria, l’argilla di Aenaria-Ischia, l’allume di Lipara), agricole (la messa a coltura delle Stoikádes da parte dei Massalioti, la coltivazione comunitaria delle isole Lipari), della silvicoltura (con la connessa attività dei cantieri navali), dell’allevamento, della pesca e della raccolta di molluschi e di corallo, con le manifatture ad esse collegate.

Dall’ antichità ai nostri giorni le isole (e le coste) hanno frequentemente offerto un’ottima base alle attività piratiche. Come lucidamente notato da Federico Borca:

Le isole procuravano porti sicuri, basi logistiche da cui partire per effettuare ruberie e saccheggi sulla vicina terraferma, infine nascondigli dove potersi rifugiare in caso di pericolo, ovvero dove tendere un agguato a un ignaro mercante di passaggio con la sua nave. Avevano reputazione di essere frequentate da pirati o comunque legate ad attività predatorie non soltanto le Baleari, ma anche numerose altre isole tra cui la Corsica e la Sardegna, le isole del mare Tirreno e l’arcipelago delle Eolie (…).

Benché  la pirateria abbia costituito un fenomeno endemico lungo tutta la storia del Mediterraneo le campagne militari  contro i pirati sviluppate dai Romani, ed in particolare il bellum condotto da Pompeo con i suoi legati nel 67 a.C. e le iniziative di Augusto contro la risorgente pirateria consentirono lo sviluppo tra l’età tardo repubblicana e l’Alto Impero di residenze di lusso nelle isole.

Tali residenze, in corrispondenza spesso di proprietà imperiali delle stesse isole, poterono servire anche da esilio dorato per i membri della domus Augusta che si macchiarono di colpe sanzionate con la relegazione in insulam, mentre altre isole servirono per la deportazione. Nel Mediterraneo Occidentale le insulae per le quali è attestata, nelle nostre fonti, la relegatio o la deportatio (a parte la Sardinia e la  Corsica) furono le Baliares, Planasia, Pontia, Pandateria nel Tirreno, Cercina e le Aegrimuritanae insulae presso le coste dell’ Africa.

Infine, con la tarda antichità e, successivamente, nell’ alto medioevo, talora con continuità nel tardo medioevo, le desertae insulae, spesso di dimensioni ridottissime, costituiscono il luogo extra mundum dove i monachi trovano l’ horror solitudinis, che diviene nell’ esperienza eremitica del monasterium un  paradisus, pur non restando esclusa l’esigenza di trovare nelle insulae un perfugium , pro necessitate feritatis barbaricae.

Nella pars Occidentis sono documentati monasteria insulari  a Capraria (Maiorica), nelle Stoechades, nelle insulae del Ligusticum mare ( Lero, Lerina, Gallinaria, Palmaria, Noli, Tino e Tinetto), nelle isole dell’ Etruscum mare e in particolare Gorgona, Capraia, Montecristo ma anche dirimpetto alla costa campana (insula Eumorfia). Il fenomeno  monastico riguardò anche, come si è già osservato, le piccole insulae della Sicilia e dell’ Africa.

Rutilio Namaziano, in una sorta di day after descrive il litorale etrusco e le isole dell’arcipelago abitate dai monaci rifugiatisi nelle grotte per sfuggire all’avanzata di Alarico: gente che per il terrore della misera era diventata volontariamente miserabile e come in passato Circe trasformata i corpi dei compagni di Ulisse in maiali, così ora il cristianesimo rendeva mostruosi e deformava gli animi dei fedeli: tunc mutabantur corpora, nunc animi.

E allora la maledizione, il risentimento dei pagani verso i cristiani: Atque utinam numquam Iudaea subasta fuisset, mai Gerusalemme fosse stata conquistata sotto il comando di Pompeo o l’impero di Tito. Espressioni che sono quanto mai lontane dalla comprensione di un fenomeno, lo sviluppo dell’esperienza monastica, che invece rappresentò per l’Africa e per la Sardegna un momento di straordinaria fioritura culturale e di profonda spiritualità.

A proposito di mostri, antiche leggende marinare parlavano di mostri marini, i favolosi thalattioi krioì, identificati oggi con l’orca gladiator, che secondo Eliano trascorrevano l’inverno nei paraggi del braccio di mare della Corsica e della Sardegna, accompagnati da delfini di straordinarie dimensioni .

L’isola più grande del mondo,  la Sardegna, nelle fonti è sempre associata alla Corsica, sesta tra le isole Mediterranee nel Periplo di Scilace, come in Dionigi il Periegeta, per il quale l’amplissima Sardegna (Sardò eurutàte) e la deliziosa Corsica  (eperatos Kurnos) erano unite nello stesso mare d’occidente.  Ed Eustazio parlando delle isole del mare Ligustico, conferma che la più estesa è la Sardegna, mentre la Corsica prende il nome dalla serva Corsa oppure dalla sommità dei suoi monti e il suo paesaggio è caratterizzato da uno staordinario manto boschivo, innhorrens Corsica silvis per Alieno. Il paesaggio era dominato da quegli alberi fittissimi che impedirono la colonizzazione romano-etrusca ricordata da Teofrasto nel IV secolo a.C., quando sull’isola non riuscirono a sbarcare i 25 battelli, che ebbero i pennoni danneggiati dai rami degli alberi di una foresta sterminata. Niceforo chiamava la Corsica anche kefalé, testa irta di capelli, per via delle tante cime montagnose e la ricchezza di boschi.

Gli Oracula Sibyllina annunciavano per Cyrno e per la Sardegna uno stesso destino tragico, una sorta di apocalisse incombente, «sia a cagione di grandi procelle invernali, sia per le sciagure inflitte dal supremo dio, quando le due isole nel profondo del pelago penetreranno, sotto i flutti marini».

Abitate da pescatori e da pirati, le isole circumsarde prendevano il nome da un dio e ricordavano antichi miti marinari, come l’Hermaea insula all’uscita dal porto di Olbia, Tavolara: Olbia è la colonia che il mito vuole fondata dai gemelli Ippeus e Antileone, figli di Eracle e di una delle 50 Tespiadi, Prokris.,

Oppure l’isola di Eracle, l’Asinara, oggi l’isola dei cassintegrati, l’isola  del parco, l’isola che non c’è e che vorremmo fosse nel cuore della Sardegna.

Oppure, all’uscita da Porto Conte, l’Isola delle Ninfe, la Numphaia nesos, oltre le falesie di Capo Caccia, oggi Foradada.

Consentitemi infine di venire all’arcipelago suscitano ed alle due isole di questo mare occidentale, la Plumbaria insula, che poi divenne la Sulcitana insula Sardiniae contermina, per la presenza di una colonia fenicio punica oggi studiata da Piero Bartoloni (uno studioso che ammiro, che  ieri ho visto all’opera con oltre 50 nostri studenti). E poi il municipio romano dell’età di Claudio, Sulci, la città pompeiana punita da Cesare, porto d’imbarco del minerale di Metalla. Poi l’isola di S. Antioco, la terra del santo africano, quasi un nuovo dio, sbarcato dalla Mauritania su una parva navicula.

Infine vorrei ricordare l’isola che ci ospita, Enosim, l’isola degli sparvieri di un’iscrizione punica, Accipitrum insula, San Pietro, nido di pirati e di uccelli rapaci e insieme tre secolo fa rifugio per i tabarchini della Tunisia, una vicenda che abbiamo ripercorso a Calasetta.

La geografia storica della Sardegna e delle isole del Mediterraneo è innanzi tutto uno spazio di intersezioni, di stratificazioni culturali, di contatti: il mito esprime con vivacità le emozioni dei marinati e degli uomini di ieri e di oggi che operano in quel Mediterraneo che è stato soprattutto non un mare ma uno stagno.

Le isole godono nel pensiero antico di una  profonda ambivalenza: da un lato esse rappresentano un ‘punto di passaggio’ lungo le rotte mediterranee, dall’ altro, per la loro stessa natura, sono luoghi ‘remoti’ e ‘isolati’, e, in quanto tali, possono trasformarsi in luoghi utopici.

 




L’Africa Romana – XIX Convegno: Sassari – Italia

L’Africa Romana – XIX Convegno: Sassari – Italia
Convegno internazionale di studi
Sassari,  16-19  dicembre 2010

Il tema sarà “Trasformazione dei paesaggi del potere nell’Africa settentrionale fino alla fine del mondo antico. Scontri, integrazioni, transizioni e dinamiche insediative. Nuove prospettive dalla ricerca” .

 

Le adesioni, con il titolo dell’eventuale comunicazione, debbono essere inviate entro e non oltre il mese di luglio al seguente indirizzo:

DIPARTIMENTO DI STORIA
Università degli Studi di Sassari
Viale Umberto n. 52 – I
07100 SASSARI

Oppure via fax o posta elettronica:

+39 079 2065241 –  africaromana@uniss.it

La scheda di prenotazione alberghiera e di adesione alle escursioni (in allegato) dovrà pervenire entro e non oltre il 15 ottobre 2010.

Contatti


Prof. Attilio MASTINO
+39 079 2065203

Dott. Alberto GAVINI
Dott.ssa Maria Bastiana COCCO
+39 079 2065233

Prof.ssa Paola RUGGERI
Prof. Raimondo ZUCCA
+39 079 2065241

 

Allegati


“L’Africa Romana” – XIX Convegno (file PDF – 200 Kb)
Circolare
“L’Africa Romana” – XIX Convegno (file PDF – 1.411 Kb)
Locandina del Convegno
“L’Africa Romana” – XIX Convegno (file PDF – 922 Kb)
Scheda sistemazione alberghiera, adesione escursioni
“L’Africa Romana” – XIX Convegno (file PDF – 149 Kb)
Programma del convegno ed altre informazioni



Sardegna e Mediterraneo tra Medioevo ed Età Moderna

Sardegna e Mediterraneo tra Medioevo ed Età Moderna.
Studi in onore di  Francesco Cesare Casula
a cura di Maria Giuseppina Meloni e Olivetta Schena
Intervento di Attilio Mastino
(con il contributo di Franco G.R. Campus)

Cari amici,

torno con emozione in questa Aula Magna rinnovata, tra tante persone che mi sono care, in questa Aula Magna nella quale mi sono lauereato quasi 40 anni fa. Debbo a Giovanni Melis, a Maria Giuseppina Meloni, a Olivetta Schena, a Luca Codignola Bo il piacere di presentare oggi a Cagliari questo volume intitolato Sardegna e Mediterraneo tra Medioevo ed Età Moderna edito dall’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea del Consiglio Nazionale delle ricerche offerto a Franceco Cesare Casula da allievi e colleghi.

Un libro denso di 17 studi originali che spaziano dalla Sardegna giudicale all’età contemporanea, con significativi allargamenti e proiezioni di interessi e di prospettive storiografiche verso la Penisola iberica, la Penisola italiana, le isole mediterranee e il Nord Africa, sulla linea ideale che rimanda alle originali passioni della scuola di ricerca fondata da Alberto Boscolo. Di questa scuola Francesco Cesare Casula è stato e continua ad essere uno tra i più significativi esponenti, impegnato in sottili indagini filologiche e paleografiche, ma capace di proiettare il suo pensiero su livelli alti di una riflessione, che in questi ultimi anni ha assunto posizioni certo controverse, ma assolutamente stimolanti ed originali nel panorama internazionale.

Quello che presentiamo oggi è  un significativo e generoso omaggio dei colleghi, allievi e collaboratori dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea del CNR di Cagliari e delle Università degli Studi di Cagliari e di Sassari ad un maestro amato e ammirato, che per tanti anni è stato direttore dell’Istituto di Studi Italo-Iberici e poi dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea e professore di Storia Medioevale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari.

Come osservano le curatrici, nel corso della sua brillante carriera accademica, grazie alla sua ricca e diversificata produzione scientifica, Francesco Cesare Casula ha dato un contributo fondamentale alla conoscenza e all’approfondimento della storia medioevale della Sardegna, inserendola in un ampio contesto mediterraneo. È stato, ed è ancora, inoltre, un punto di riferimento per molti giovani, ai quali ha offerto l’opportunità di ampliare le proprie conoscenze e di incamminarsi verso il mondo della ricerca. Per sua iniziativa sono state pubblicate collane di monografie e di opere miscellanee e anche una rivista prestigiosa, come “Medioevo. Saggi e Rassegne” che per 25 anni ha raccolto le migliori ricerche riguardanti nello specifico le relazioni tra i popoli che tra l’antichità e l’Età Moderna ebbero come spazio comune il Mediterraneo. Tematiche riprese con solide basi nella nuova collana dell’ISEM.

Francesco Cesare Casula ha anche promosso, con lucida insistenza, la pubblicazione della collana che raccoglie i documenti necessari per la storia della Sardegna, prima nella Coleccion de documentos ineditos in collaborazione con l’Archivio della Corona d’Aragona di Barcellona, e successivamente, e personalmente penso anche meglio, nella nuova collana denominata Documenti per il Regno di Sardegna.

Luca Codignola, che dal 1 giugno 2008 ha avuto l’onore di sostituire Cesare Casula quale direttore dell’Istituto CNR sintetizza le ragioni di un debito di riconoscenza contratto anche in relazione alle sinergie che hanno consentito di far convergere nell’ISEM l’Istituto di Studi Italo-Iberici di Cagliari, il Centro di Studi sulla Storia della Tecnica di Genova, il Centro per lo Studio delle Letterature e delle Culture delle Aree Emergenti di Torino e la sua sezione di Milano, già diretti, rispettivamente, dai professori Carlo Maccagni, Sergio Zoppi e Giuseppe Bellini.

Nel suo intervento, Luigi Leurini, direttore del Dipartimento di Filologia classica, Glottologia e Scienze storiche dell’Antichità e del Medioevo, richiama il magistero di Francesco Cesare Casula e  sottolinea la varietà dei temi trattati in questo volume, che tocca argomenti relativi ad aspetti politici, economici, culturali e più ampiamente sociali che hanno riguardato la storia della Sardegna dal periodo giudicale all’età moderna. Tematiche, queste, tutte ben presenti nella attività di ricerca di Francesco Cesare Casula come ben dimostra l’elenco di oltre 20 pagine che raccoglie, al momento, tutte le sue pubblicazioni.

Graziano Milia, infine, scrive come Presidente della Provincia di Cagliari, ma credo meglio come suo ex allievo, con la gratitudine verso il docente e lo studioso che, in oltre quarant’anni di instancabile impegno, ha formato generazioni di studenti e di ricercatori.

Permettete anche a me di richiamare le tante occasioni di incontro e di dibattito che ho avuto con Cesare Casula, l’ammirazione per la sua prodigiosa attività e per le sue straordinarie capacità di comunicazione, come già a Bosa ahimé ormai 30 anni fa, in occasione della settimana della Scuola di specializzazione in Studi Sardi, oppure a Sassari per una serie di conferenze sul senso della storia, oppure a Cagliari, a parlare di Carta de Logu e di statualità, ma in tanti altri centri della Sardegna, perché Casula è riuscito in quel campo difficile e faticoso della divulgazione con una capillare penetrazione delle sue opere e delle sue idee anche nei comuni più lontani, invitato dalle Università della terza età, da appassionati, da club di servizio, da scuole,  e non ha tralasciato di utilizzare mezzi di comunicazione come la televisione (le sue lezioni a Videolina ancora prima del Consorzio Nettuno) ma anche attraverso i fumetti. Un precursore, ma seguendo quella vecchia tradizione che proveniva da quelle scuole politiche che prediligevano, rispetto ad oggi, il contatto diretto con la gente, Casula non si è mai sottratto al faccia a faccia con tutti, dal normale appassionato al politico più alto al vertice dello Stato. Mostrando sempre disponibilità, attenzione, ironia e mai raccogliendo lo scontro fine a se stesso.

Ora questa occasione mi consente di dire quella la stima e quell’ammirazione e l’affetto che provo per lui non è un sentimento esclusivo, ma la ritrovo quotidianamente a Sassari nei suoi colleghi Giuseppe Meloni, Angelo Castellaccio, e nei suoi allievi di prima generazione come Pinuccia Simbula, e in quelli di seconda generazione come Alessandro Soddu, Mauro Giacomo Sanna e Franco Campus. Quest’ultimo mi ha assistito nella preparazione di questo intervento, anche perché non sono propriamente uno specialista di storia medievale.

Il volume è composto seguendo l’ordine alfabetico degli autori. Io, se permettete, ho cercato di scomporlo secondo i diversi temi trattati, partendo dall’età giudicale, che per Casula rappresenta la vera originalità della storia della Sardegna, differenziandosi nettamente da Giovanni Lilliu, per il quale la storia della Sardegna è fondata su un mito, il mito dell’età dell’oro dell’epoca nuragica, una cultura non pacifica ed imbelle ma conflittuale, quando le armi venivano usate dagli eroi per difendere l’autonomia,  l’autogoverno, la sovranità del popolo sardo, quando i sardi erano protagonisti e padroni del loro mare. Per Lilliu la preistoria e la protostoria sono il tempo della libertà, prima che i popoli vincitori e colonizzatori imponessero una cultura altra. Gli altipiani ed i monti al centro dell’isola erano l’antico grande regno dei pastori indipendenti. Furono i Cartaginesi e poi i Romani a creare una Sardegna bipolare, quella dei mercanti e dei collaborazionisti della costa e quella dei guerrieri resistenti dell’interno: verso questo popolo della Barbagia accerchiato ed assediato vanno le simpatie di Lilliu, che denuncia la violenza dell’imperialismo e del colonialismo romano, giunto fino ad espropriare i Sardi della loro terra, della loro libertà, perfino della loro lingua.

Per Casula la storia della Sardegna si compie nei quattro regni giudicali, si esprime nella sovranità dei giudici, nelle sedute delle Coronas de rennu, nelle curatorie, perché il cuore della storia è rappresentato dal grado di consapevolezza con la quale i Sardi veri acquisiscono il concetto di sovranità perfetta, alla base di un’autonomia da costruire per l’oggi.

Proprio l’età giudicale rappresenta il nucleo centrale di questo volume di studi in onore, ma devo confessare di averlo iniziato a leggere partendo dall’accattivante articolo di Barbara Fois sulle Le donne, il matrimonio, l’amore e il sesso nella Sardegna giudicale un particolare punto di osservazione, non solo femminile, della società medievale.

Si parte con Il matrimonio. E’ noto come nella Sardegna medievale ci fossero due tipi di sponsali, a “sa pisanisca”, di ispirazione continentale dove era previsto il versamento, in favore del marito, della  dote sulla quale la donna non aveva alcun diritto, e quello a “sa sardischa” che prevedeva, con una perfetta parità giuridica tra uomo e donna, la conservazione dei beni personali e la messa in comune solo delle rendite e dei beni acquisiti dopo il matrimonio personale. Il lavoro della Fois appare particolarmente interessante nella ricerca delle testimonianze delle ritualità, dei luoghi, e sulle trattative preliminari. Certamente non si trattava di matrimoni in chiesa o davanti a esponenti religiosi dato che questo non fu considerato un sacramento sino al Concilio di Trento del 1570. Ma certamente appare affascinante immaginare il rito, confermato da un passo del Condaghe di S. Pietro di Sorres nella formula “a cclaru et a facke”, che sembra dividere questa cerimonia in due fasi distinte: una alla luce del giorno con la firma del  contratto matrimoniale (a cclaru) e una notturna (et a facke) con l’accompagnamento notturno della sposa alla casa del marito. Una prassi conservata anche nei secoli successivi se in un documento più tardo, datato Sassari 20 settembre 1568, scritto da uno scandalizzatissimo gesuita, padre Baldassarre Piñas, si parla con dovizia di particolari di preti sposati e della cerimonia del matrimonio, in uso in Sardegna:  “si accasano con determinate cerimonie, e i genitori e i parenti della donna la accompagnano fino a casa sua, ed essa è la più onorata del villaggio e si accasano mediante scrittura, la quale, dicono, stabilisce che i beni che acquisteranno li divideranno a metà”.

L’amore. Anche nella Sardegna medievale amore e matrimonio erano due concetti quasi incompatibili tra loro, e in questo non vi erano distinzioni di sesso. Valeva la ragion di stato sia per i donnikellos destinati a ricoprire la carica di giudice, ma in modo particolare anche per le donnikellas destinate a portare il titolo per i figli che verranno. Forse una qualche forma di libertà, ma nel senso del nostro modo di vedere, avevano le donne e gli uomini che appartenevano al ceto dei maiores. Un dato che si ricava dal fatto che, nella documentazione giudicale, non è del tutto raro annotare donne facoltose unite con uomini decisamente poveri. Tutto questo nel contesto del rigido mondo medievale che basa le unioni sul principio del consensum e mai sulla passione, ma il caso sardo mostrerebbe un particolare livello di emancipazione della figura femminile. Le donne libere erano, dunque, libere per davvero, anche nella possibilità di amare e di scegliere il proprio compagno di vita. Ma non così era per le serve. I Condaghi sono ricchi di kertos che rivelano le vicende di povere serve che, in nome dell’amore per un uomo, di solito un altro servo, reagiscono con la fuga per evitare di sottostare al volere dei loro padroni che invece tendono ad unire tra loro le persone di loro pertinenza. Lo scopo era quello di conservare il possesso anche sui figli che conseguentemente non dovranno essere spartiti con nessun altro padrone.

Il sesso. Secondo la Fois il sesso nella Sardegna giudicale era molto più libero e disinibito e si evince non solo dagli aspetti si qui detti. I documenti riportano l’alto numero dei figli nati in forritzu, cioè in fornicazione, illegittimamente e fuori dal matrimonio. Questo non significava una diminutio per chi è illegittimo, né sembra che ci fosse qualcuno che meravigliasse di questo alto numero. Le unioni promiscue, diciamo così, le possiamo definire non solo un costume diffuso e normale ma anche trasversali: una serva Susanna Kerbu aveva dato alla luce un figlio, Jorgi de Fokile, concepito in furritzu col genero! Una la società giudicale libera nei costumi sessuali e molto poco classista: donne libere sposano o hanno amanti di condizione servile e viceversa uomini liberi sposano serve, ma tutti, come scrive la Fois alquanto divertita “pare si diano un gran daffare fra le lenzuola, compresi i preti”. La Carta de Logu su questi temi non distingue mai fra liberi e servi, anche quando l’argomento diventa serio e scottante e si parla di violenza carnale. Il capitolo prevede la possibilità di un matrimonio fra la donna nubile e lo stupratore, ma solo se si placchiat assa femina; se lei non lo vuole, lui dovrà farle la dote, pena il taglio di un piede, oltre alla multa che dovrà pagare. Ma c’è una considerazione ancora più interessante: e cioè che nella norma non si fa distinzione di trattamento fra una vergine ed una donne nubile. Nel testo viene definita anche la figura della jurada, che forse potrebbe voler dire promessa, fidanzata, ma nel contempo questa norma ci dice anche che non era raro che donne nubili non fossero più illibate, e questo non faceva nessuna differenza, dunque non si attribuiva alla verginità il valore di una virtù.

Tagli meno trasgressivi sono invece presenti nel saggio di Giuseppe Meloni, sulla La conoscenza del territorio tra storia e microstoria. La curatoria di Dore. Il contributo che ha come pretesto l’analisi di un distretto territoriale del Regno di Torres, in realtà spazia su tutti i temi cruciali pertinenti l’insediamento della Sardegna medievale: dalle metodologie di approccio, comprendendo in questo non i documenti di archivio ma anche i dati originali offerti dalle ricerche archeologiche, al tema delle cause degli abbandoni connesse ad una pluralità di fattori come la guerra, la diffusione della peste, ma anche a motivazioni di carattere economico. Meloni compie un’ampia sintesi anche della storiografia tradizionale: dal Fara che descriveva questa parte dell’Isola come caratterizzata da “valli fertili e ridenti campi ricchi di messi, fiumi irrigui, colline vocate alla viticultura e all’arboricultura ed opulenta di armenti e greggi”, alle tematiche interpretative più diffuse emerse dagli studi di John Day, Angela Tersosu Asole, Marco Tangheroni e ovviamente Francesco Cesare Casula, ma anche nei nuovi progetti di ricerca promossi in particolare dall’Università di Sassari e Cagliari e portati avanti dalle nuove leve dei ricercatori. Scrive Giuseppe Meloni: «il tema dell’insediamento medievale nelle sue forme, differenziazioni e fluttuazioni, diventa così vitale per capire fino in fondo il quadro sociale, economico, e di riflesso politico-militare, di una regione come la Sardegna e soprattutto delle differenze  che esistono  tra aree periferiche e aree dell’interno. Questi sviluppi storici appaiono il più delle volte (particolarmente per i secoli XIV-XV) totalmente fuori dagli schemi tradizionali». L’analisi sul territorio è una di base di partenza, ma ha in sé una precisa metodologia di approccio, affrontare il tutto non isolando nessun elemento perché tutto sta in relazione con tutto, ossia non si può isolare un processo da un altro. In questo rientrano anche i dati sui sistemi insediativi precedenti (preistorici, classici), ma anche la loro evoluzione nel corso del tempo. Un progetto di Histoire totale che risale nella sue definizioni al grande Marc Bloch.

Su questo filone si inserisce sia Sebastiana Nocco, sulLa definizione della linea di confine tra due comunità della Sardegna nei secc. XIV-XIX che il lavoro di Giovanni Serreli, su Alcuni casi di pianificazione dell’insediamento in epoca giudicale. Nel primo caso il contributo si concentra all’analisi di una circoscrizione territoriale, la Nurra, contesa oltre quattro secoli dalle due città di Alghero e Sassari. La vicenda è stata in questa sede ripercorsa ricorrendo a fonti di vario genere: dai privilegi, agli atti parlamentari, ai fascicoli processuali con annessa documentazione scritta e cartografica. La presenza eccezionale di un apparato cartografico prodotto a supporto delle istanze della città di Alghero rende ancora più interessante questo spaccato di storia locale che tuttavia si inserisce, vista anche la documentazione studiata, come supporto originale nel più vasto dibattito della nuova definizione del paesaggio all’indomani della grande stagione dell’abbandono dei villaggi nella seconda metà del XIV secolo. Uno spazio geografico di ricerca che oggi sta ritrovando un rinnovato intesse grazie alle nuove ricerche archeologiche condotte sul sito nuragico di S. Imbenia, da parte di Marco Rendeli dell’Università di Sassari, e più in generale su tutta la struttura insediativa pertinente alle epoche successive (Franco Campus, Alessandro Soddu). Un’area che in età romana, secondo le indicazioni di Tolomeo, ospitava il porto Ninfeo dove si localizza una delle più vaste ville di età imperiale della Sardegna settentrionale. Durante il periodo medievale la Nurra è oggetto di particolare attenzione da parte dell’autorità giudicale mediante la prassi delle concessioni all’Opera di S. Maria di Pisa, ma in aggiunta è lo spazio primigenio dei Doria che, a partire dal 1235, agirono come veri e propri agenti per lo sviluppo di nuove aree di colonizzazione.

Giovanni Serreli, si concentra a tale proposito su Alcuni casi di pianificazione dell’insediamento in epoca giudicale. L’autore si pone come obbiettivo la possibile individuazione di una politica di pianificazione, gestione o razionalizzazione dell’insediamento esercitata dai regnanti giudicali. Certamente, il punto di partenza, è la stessa struttura che suddivideva in curatorìe o partes i regni Torres, Càlari, Arborea e Gallura. Una suddivisione certamente non frutto della casualità della storia, ma bensì frutto di esperienze sedimentate nel corso dei secoli. Un forte determinismo era dovuto dalla continuità con il sistema insediativo dei secoli precedenti. Un esempio per tutti il quadro delle viabilità medievali che ricalcavano il più delle volte quelle di età romana, come nel caso della a Turre Karales costruita dall’età di Augusto, che nella documentazione medievale, precisamente nel Condaghe di S. Pietro di Silki, è ricordata a più riprese come la via maiore, o la via Turresa (con l’aggettivo che mostra il superamento del classico Turritana). In un documento del 1206, pubblicato dal Solmi nel IV volume dell’Archivio Storico Sardo, è riportato come il confine tra il giudicato di Cagliari e Arborea, venne fissato da Guglielmo di Massa proprio dove «vi est sa pedra fita ki si clamat Petra de Miliaru». Una citazione che si presenta come la più lontana testimonianza della sopravvivenza dei miliari romani lungo questa fondamentale arteria stradale. Una strada contornata di villaggi che nella loro accezione toponomastica tradivano il riferimento alle distanze in miglia romane (Ottava, Decimo, Quarto), ma anche il ricordo delle stesse stationes degli itinerari come nel caso di Molaria, oggi Mulargia, tra Hafa e ad Medias. Come non ricordare in questo frangente il distretto della Romangia che certamente ha in sé un preciso riferimento geografico al  territorio pertinente alla colonia romana di Turris. In questo senso il maestro, Francesco Cesare Casula, aveva già annotato come i condaghi siano chiaramente espressione di una “spiccata atmosfera romanza”, con riferimenti ad usi e tradizioni di età bizantina, di età romana o addirittura di età preistorica. Serreli attraverso la documentazione analizzata, mette in evidenza l’attenzione dei sovrani giudicali verso l’insediamento con il fine di vitalizzare e ripopolare aree deserte e poco sfruttate mediante l’inserimento degli ordini monastici. Il caso più noto di questa prassi è quello della donazione a Santa Maria di Bonarcado di territori e beni da parte del giudice Costantino di Arborea con il patto che gli abati che si succederanno «regant illud et ordinent et lavorent et edificent et plantenet». Sono queste le basi del perché nel giudicato di Arborea nasce e prende forza il mito del re che fonda borghi e città. Come nel caso più noto di Burgos ai piedi dell’antico castello del Goceano grazie alla carta emanata intorno al 1339 dall’ancora donnikellu Mariano, che forse agiva in concorrenza e in parallelo a quanto veniva portato avanti nello stesso periodo dal fratello Giovanni nell’area del Monteacuto e soprattutto in quello della Bosa Nuova, sorta ai piedi del castello fondato dai Malaspina, passata definitivamente agli Arborea nel 1317. I più recenti dati archeologici mostrano inequivocabilmente come la fase di monumentalizzazione della fortificazione, come la torre maestra e le nuove torri lungo la cinta muraria, fu intrapresa solo a partire dagli anni venti del XIV secolo. In definitiva lo studio di Serreli offre un primo campionario delle attività di gestione e pianificazione da parte dei giudici sardi che operavano in virtù di un alto livello di controllo dei territori del proprio stato, ma sono certo che gli esempi in questo senso potranno nel prossimo futuro moltiplicarsi. È una linea di ricerca che si annuncia quanto mai fertile e stimolante dove le nuove leve di ricercatori dimostrano di ben padroneggiare e gestire i dati a disposizione.

Sul tema della penetrazione degli ordini monastici si è invece soffermata Olivetta Schena, con il saggio sulla Carta Sarda in caratteri greci: note diplomatistiche e paleografiche emanata dal “giudice” Costantino Salusio II fra 1081 e il 1089, scritta in caratteri greci ma in lingua volgare campidanese. Ogni volta che ci si sofferma sulla quantità e qualità della documentazione scritta prodotta in Sardegna occorre a mio avviso compiere una riflessione storiografica: il prolungato silenzio della scrittura (fino ad oltre la metà dell’XI secolo) è stato infatti interpretato, da una parte, come un segno di arretratezza culturale e dell’affermazione della cultura orale, dall’altra come un effetto diretto dell’azione cruenta dei dominatori succedutisi nel tempo, in termini di sottrazione e distruzione della documentazione. Gli accenni di questi “disastri” si trovano anche nel noto inno di Ignazio Mannu del 1794 contro i feudatari Su patriotu sardu a sos feudatarios (Procurade de moderare) che riporta testualmente come:

«S’isula hat arruinadu
Custa razza de bastardos;
Sos privilegios sardos
Issos nos hana leadu,
Dae sos archivios furadu
Nos hana sas mezzus pezzas
Et che iscritturas bezzas
Las hana fattas bruiare».

Queste letture storiografiche hanno un in sé i caratteri della verità, ma tuttavia non tengono conto di un’altra ragione “di struttura”, ossia della realtà di un contesto politico – quello “alto-giudicale” – egemonizzato da quelle poche famiglie eredi della classe dei funzionari bizantini. Se è vero che nel primo secolo dopo il Mille la Sardegna segna un “ritorno all’Occidente”, come lo definì con perfetta lucidità Marco Tangheroni, è tuttavia ancor più vero che da questo momento lo storico che voglia occuparsi del periodo medievale della Sardegna, abbandona il campo delle congetture ed inizia, per la prima volta, ad operare attraverso gli strumenti conoscitivi offerti dalla lettura delle fonti scritte. Fonti scritte, e lo dico con una certa invidia da parte mia mi occupo di età classica, che provengono dai quattro regni autonomamente e simultaneamente. Una ripresa che non è attribuibile al caso, ma che appare sempre più motivata dal fatto che i giudicati entrarono in diretto contatto con quelle entità che esercitavano le loro prerogative di controllo e gestione dei beni immobili attraverso lo strumento del documento scritto. Il documento in oggetto, infatti, riguarda la conferma delle donazioni fatte dal padre Orzocco Torchitorio I e dal nonno Mariano Salusio I alla chiesa di San Saturno. «Un caso esemplare di confluenza di problematiche e metodologie diverse – diplomatistiche, paleografiche, linguistiche- : uno spaccato della situazione storica della Sardegna come nodo fra civiltà mediterranee diverse ma complementari». Aspetti che persistono nella porzione meridionale dell’Isola dove l’aspetto della grecità appare evidente non solo attraverso le testimonianze epigrafiche, ma anche nella ostinata conservazione, nella titolatura dei giudici, di cariche di ispirazione greco-bizantina e nell’uso, attestato solo nel meridione dell’isola, del doppio nome, uno dinastico: Torchitorio o Salusio che si alternavano rigorosamente, seguito da quello personale come Barisone, Costantino. La carta sarda, quindi, appare come la testimonianza tangibile della medesima tenace continuità culturale ma fortemente significativa delle consuetudini cancelleresche locali. Una serie di documenti che, anche se pensati in sardo, potevano essere scritti in caratteri greci, a prova che i primi giudici di Cagliari si sentivano realmente e ideologicamente diretti e legittimi eredi della precedente amministrazione bizantina.

Il saggio di Angelo Castellaccio (Castelli e fortezze nella Sardegna medioevale: il periodo genovese) è nella pratica una sintesi su una delle tematiche credo più care a Francesco Cesare Casula: il tema degli insediamenti fortificati e delle forme territoriali del potere signorile. Casula in questo è stato uno dei precursori coniugando, dal punto di vista storiografico, la necessità di una certa localizzazione delle strutture nel confronto alle centinaia di villaggi abbandonati. Una considerazione evidente anche dal fatto che l’esigenza di riproporre una nuova quantificazione delle fortificazioni nel concreto emerse solo nel 1980, all’interno dell’Atlante della Sardegna, cinquant’anni dopo il lavoro di Raimondo Carta Raspi e dopo il più noto volume di Foiso Fois. Casula, che in quella sede presentò una sintesi storico-geografica dei castelli e dei villaggi abbandonati, aveva posto l’accento sul fatto che i castelli di età bizantina erano il prodotto di una strategia volta alla protezione delle valli dalle incursioni delle popolazioni localizzate nelle montagne, mentre, la successiva suddivisione istituzionale del territorio regionale (i giudicati) rappresentava per lo studioso la causa per costruzione di nuovi castelli destinati al controllo e alla difesa dei confini. La loro distribuzione sul territorio era lo specchio dei rapporti di forza tra i quattro regni giudicali. Successivo a questa vi era lo sviluppo delle nuove fortificazioni, tutte da ricondurre alla presenza delle famiglie signorili. Ad esempio, i Doria per Castelsardo, Alghero e Monteleone, i Malaspina per Bosa e Osilo. Questi castelli rappresentavano un ruolo di immediata novità nell’evoluzione socio insediativa. Casula, ma anche Castellaccio in questo saggio, pongono l’accento sulla necessità di ampliare e coordinare le indagini, evidenziando allo stesso modo le committenze, le caratteristiche costruttive, le tattiche di difesa militare, le maestranze e le diverse entità finanziarie necessarie alla loro costruzione. Questo è nei fatti il campo delle nuove ricerche orientate non solo all’interno degli archivi, ma anche sul “campo” e nel vasto ambito tematico dei paesaggi medievali e delle ricerche interdisciplinari di tipo storico e archeologico condotte, sull’onda lunga della scuola di dottorato in Storia Medievale dell’Università di Cagliari, diretta da Casula. La strada era del resto già tracciata: quella di conoscere al meglio il periodo in cui si sviluppò «l’unica civiltà storica indigena della Sardegna cioè quella giudicale».

Il tema dei giudizi dei contemporanei catalani sull’Isola è affrontato da Alessandra Cioppi. Il contributo si basa in particolare sullo studio di un memoriale inedito di Ramon ça Vall, uno dei maggiori e più noti uomini d’affari barcellonesi del Trecento. Un mercante di valore e fidato funzionario regio ma anche finanziatore dell’impresa sarda. Un uomo di parte, fedele partecipante alle attività della corte, ma anche “in parte” in quanto ebbe un ruolo di primo piano nell’impostazione della industria metallurgica catalana nell’Iglesiente. Qui ottenne vasti possedimenti territoriali e divenne appaltatore di tutte le entrate e i diritti regi di Villa di Chiesa. Un ruolo che lo espose a critiche non solo di tipo locale, da parte delle popolazioni residenti, ma anche all’interno degli stessi ambienti catalani tanto che lo costrinsero a ritirarsi e a lasciare l’isola nel 1336. Il documento studiato dalla Cioppi presenta in dettaglio gli introiti fondamentali del Regnum Sardiniae: la zecca, la treta del forment (grano), la dogana, il sale, le entrate degli heretats (feudatari), il censo versato dal giudice di Arborea, i diritti dell’ufficiale del fisco, e quelli del mostazaffo (funzionario preposto al controllo dei pesi e misure). Vi è anche l’imposta straordinaria del 1325 versata per il futuro matrimonio di Costanza, figlia di Alfonso IV, con Giacomo III, sovrano di Maiorca. I dazio fu pagato dal giudice di Arborea, dai marchesi Malaspina, dalla città di Villa di Chiesa. In questo frangente appare di particolare interesse il ruolo della città di Sassari che dovette stornare i fondi per il futuro matrimonio da quelli necessari ai lavori di fortificazione della città. Una fortificazione, posta in luce recentemente nelle indagini archeologiche di Piazza Castello, che venne imposta come risposta alle ribellioni, scoppiate nel luglio del 1325, di Viciguerra e Brancaleone Doria e Azzone Malaspina e culminate con l’uccisone del podestà catalano Ramon de Sentmenat. Ribellioni, necessità di nuove costruzioni, impegni militari, crollo dei commerci che, nella parte finale del memoriale, fanno da sfondo alle considerazioni del ça Vall sullo stato generale dell’Isola. Qui emerge che il quadro delle rendite appare decisamente deludente rispetto a quanto ci aspettava in passato e come ha ben sottolineato Alessandra Cioppi «l’isola andava perdendo il suo ruolo di polo di attrazione, ed il Regnum cominciava a presentare segni di precarietà». Tutto il Regnum scontava il prezzo della più vasta decadenza economica generale che investiva il Mediterraneo alla metà del Trecento, quindi non sarebbe stato sufficiente raggiungere una stabilità politica istituzionale mediante l’imposizione dell’ordinamento feudale. Questo sistema difficilmente si sarebbe fuso a quello mercantile tipico delle città nuove della Sardegna, ma sul lungo periodo avrebbe spezzato definitivamente quella comunione, quella vitalità, quell’identità locale sedimentata nel corso dei secoli precedenti. Ma il ça Vall, come già aveva detto Tangheroni, descrisse gli effetti, ma non le cause, dato che egli stesso era una parte causa di quel processo.

Luciano Gallinari, con  Alcuni “discorsi” politici e istituzionali nello scontro tra Pietro IV d’Aragona e Mariano IV d’Arborea ha come obbiettivo non solo le vicende politiche, ma soprattutto una ricerca letterale dei singoli vocaboli utilizzati dalle due parti. Questo perché «Alla metà del XIV secolo cambiò il rapporto tra gli Aragonesi e i Sardi. E forse si è nel giusto, quando si afferma che dopo circa trent’anni durante i quali il Giudicato di Arborea era riuscito a convivere in modo più o meno pacifico con il Regnum Sardiniae all’interno dello stretto spazio sardo, il giudice,  Mariano, si trovò ad una sorta di bivio: rimanere un fedele vassallo del sovrano e vedere il proprio ruolo all’interno dell’isola inesorabilmente ridotto, oppure reagire alla politica di sempre maggiore accentramento politico e istituzionale portata avanti dalla Corona». È in questa affermazione che si trova il cuore di questa ricerca. A cominciare dalla notizia riportata da alcuni funzionari catalani dell’armamento di un lembum armato, da parte di Mariano IV, con lo scopo di ottenere dalla Curia romana l’investitura dell’Isola a discapito della Corona. La notizia ovviamente fa parte di un tassello politico che mirava a dimostrare il cosiddetto tradimento degli arborensi nei confronti dell’ordine superiore rappresentato dalla Corona Aragonese. Una vicenda ancora più chiara se posta in parallelo con le notizie del 1353 quando si evince come Mariano non si decidesse a muovere guerra contro i Genovesi dato che i suoi doveri vassallatici erano stati espletati a sufficienza con il pagamento del censo, e che, quindi, non doveva al re alcun servizio militare. Chiamato in causa su questo punto da Bernat De Cabrera, luogotenente regio, Mariano rispondeva che era pronto ad offrire ogni tipo di spiegazione accogliendo il De Cabrera nella sua città di Bosa. Una disponibilità che mostrava, nelle parole della diplomazia, la delicatezza dell’argomento ma, soprattutto, i nuovi rapporti di forza. Il Cabrera, infatti, lamenta che questo avrebbe rappresentato un tradimento e un ribaltamento di quell’ordine costituito dall’infeudazione papale. Non era lecito, infatti, che un vassallo invitasse il rappresentante del re nella sua residenza, quando invece sarebbe dovuto succedere il contrario. Ma, oramai, Bosa era la nuova sede di rappresentanza di un regno Arborense e per la città sarebbe stato un onore ospitare il governatore. Un fitto scambio di lettere dove Luciano Gallinari ben sottolinea come il livello dei compiti che una persona si assegna (il giudice, il luogotenente regio) dipendono proprio dall’idea che ognuno si è fatto di se stesso. E in questo contesto proprio in questa serie di piccoli passaggi si afferma quell’idea di Bosa Manna, tramandata per la prima volta nel Libelllus Judicum Turritanorom redatto del corso della seconda metà del XIII secolo, ma che proprio nell’uso di questo termine palesa in modo evidente le sue interpolazioni successive e datate al pieno Trecento. Il taglio, quindi, offerto da Gallinari è denso di sorprese soprattutto nel proseguo delle vicende inserite nel saggio, che qui non è possibile riprendere interamente per motivi di brevità, ma che dimostrano, una volta di più, come lo scontro si realizzò non solo sui campi di battaglia, ma anche ad un raffinato livello istituzionale. Una strategia a tutto campo che mi ha colpito, diciamo più che personalmente, dato che cita un certo Michino Mastino, abitante di Bosa, che nel 1366 dichiarava apertamente di aver udito che il pontefice aveva concesso al giudice la «conquestam Sardiniae» quasi come una sorta di crociata contro i Catalani rei di non pagare il censo dovuto alla Sede Apostolica. Una voce che girava non solo negli accampamenti militari, ma anche ad Oristano. Mariano quindi riconosceva il dominio eminens della Sede Apostolica, ma con questa manovra tentava di «collegare direttamente a livello feudale il pontefice al giudice, ponendo così quest’ultimo sullo stesso gradino della piramide feudale che regolava i rapporti tra pontefice e re Aragona». Era un nuovo livello dello scontro, ma anche quello del processo intentato dalla Corona contro il Giudice: non solo ribellione, ma quello ben più grave della lesa maestà. I documenti, analizzati in con questa finalità da Gallinari, mostrano come la Corona si adoperò nella costruzione dei suoi capi di accusa con una costante gradualità: dall’accusa di ribellione portata avanti dal 1351, all’azione legale vera e propria negli anni successivi. Lo studioso nel suo saggio, da storico attento come dimostrano i suoi lavori precedenti, segnala come non si conoscano le fonti di parte giudicale e come la passata storiografia su questi documenti abbia tentato di delineare un automatico profilo psicologico, tutto in negativo, del personaggio Mariano. Ma nell’uso delle parole ufficiali, e al disotto dei singoli termini, anche quelli concernenti i ruoli delle istituzioni e del diritto tra enti sovrani, come ha ben seminato l’insegnamento sulla statualità di Casula, si mostra un contenuto raffinato e determinante.  Ancora tutto da indagare, forse ancora meglio dei singoli fatti bellici.

Questo perché, come scriveva Fernand Braudel, le isole tengono aperte sul mare delle finestre e da queste si possono vedere i segni delle rivoluzioni passate, ma anche quei i tasselli pertinenti alla percezione dell’Isola dall’esterno, dal di fuori delle sue frontiere naturali. È su questo orizzonte si muove il saggio di Maria Grazia Mele, su La frontiera mediterranea: i Centelles tra interessi feudali e difesa del Regno di Sardegna che prede come spunto il caso della difesa del Regno di Sardegna alla fine del XVII secolo. Un’Isola, un territorio, meglio un regno, dimenticato dalla Corona anche se esposto, dopo la perdita della piazzaforte di la Goulette in Tunisia, alle continue incursioni da parte dei Saraceni. Per i contemporanei da fuori l’Isola rappresentava un punto strategico di notevole importanza, forse rivestiva anche un certo valore economico, se ben organizzato ma vista al suo interno era «un mondo in cui tutto girava al rallentatore: un regno fedele, ma lento nel recepire le direttive della Corona, soffocato dai ceti privilegiati, dove le convenienze di qualcuno trovavano il giusto spazio». Guillem Ramón de Centelles chiese all’imperatore Carlo V di essere nominato ammiraglio del regno di Sardegna in virtù del fatto che la carica era stata ricoperta nel XIV secolo dal suo avo Francesc Carròs. Il protagonista è esponente di una delle famiglie valenzane più eminenti e a supporto della sua richiesta offre un interessante memoriale surrogato puntualmente dalla studiosa dai documenti citati, che ripercorre tutte le vicende della conquista dell’Isola secondo il livello di partecipazione da parte dell’importante famiglia iberica. Nella parte finale del memoriale l’Isola è presentata come un punto di osservazione privilegiato rispetto all’Africa e prima barriera di difesa della «cattolicissima Spagna». Nonostante lo sforzo e le “pezze giustificative” adottate il progetto non andò a buon fine. Probabilmente, come scrive Maria Grazia Mele, questo non avvenne per non turbare gli equilibri interni all’Isola, come nel caso degli attriti con l’importante famiglia dei Peralta, contrasti che risalivano sin dai tempi degli ultimi scontri con la casata di Arborea. Ma, al di la di come andarono le cose, ancora da definire nelle ricerche future, il caso portato all’attenzione mostra come il tema della difesa dell’Isola nel Cinquecento era percepito come pressante, ma questo accadeva solo in ambito locale. Un fattore già registrato alcuni secoli prima quando la caduta in mano araba di Cartagine, e il concreto pericolo delle invasioni che arrivano dalla vicina Africa, aveva accelerato il processo di definizione territoriale dei giudicati. In questo caso il maggiore feudatario in Sardegna avrebbe potuto tutelare al meglio i propri territori difendendo l’intiera isola, ma solo come diretto ammiraglio di sua Maestà.

Sulla famiglia iberica dei Carròs è invece dedicato il saggio di  Sara Chirra, in particolare su Berenguer II Carròs, vissuto a cavallo tra il XIV e il XV secolo. Un personaggio senza dubbio protagonista nel quadro delle vicende sarde dato che ricoprì importanti incarichi istituzionali e che partecipò attivamente contro le forze armate arborensi durante la battaglia di Sanluri del 1409 occupandosi anche delle faccende successive alla morte in Sardegna dell’erede al trono Martino in Giovane. Ciononostante, fu un personaggio decisamente controverso, accusato anche di favorire il forte contrabbando che veniva esercitato nei porti olgliastrini compresi nei suoi territori. Il conte fu il protagonista anche di vicende giudiziarie molto singolari come quella culminata in un processo, svoltosi a Oristano nel 1417, che lo vedeva accusato di abusi carnali perpetrati ai danni di una giovane donna di Gonnostramatza. Di tale processo, conservato presso l’Archivio della Corona d’Aragona di Barcellona, 1417-1418, sono stati studiati in questo saggio gli atti inediti relativi alle deposizioni dei testimoni. La documentazione, si configura come una narrazione ricca di particolari curiosi e pittoreschi, offre un significativo spaccato di vita sociale come nel caso della sua volontà di prendere con se, per amicizia una donna sarda, di cui si ignora il nome preciso, soverchiando le rimostranze dei genitori. L’episodio ha un immediato parallelismo con le ultime vicende leggendarie legate a Martino il Giovane. Una ignota “bella di Sanluri” fu capace di fiaccare definitivamente le ultime forze del giovane principe: una sorta di vendetta per la sconfitta subita. Nella cruda realtà delle vicende legate al Carròs la faccenda si risolse con prelevamento coatto, un vero e proprio sequestro, della fanciulla desiderata. Lo stato di cattiva conservazione del documento non permette di comprendere in modo esaustivo la conclusione della vicenda processuale, ma certamente, secondo la studiosa cagliaritana, il ruolo politico del conte, ricordato nel Parlamento del 1421 tra i nobili e più illustri del Regno di Sardegna, dato che racchiudeva nelle sue mani il più vasto feudo dell’Isola, favorì, diciamo così senza sorprenderci, la piena l’archiviazione del caso. La legge, il più delle volte, anche alla fine del medioevo, non era sempre del tutto uguale per tutti.

Il tema specifico della difesa delle coste sarde è affrontato da Daniele Vacca. Il contenuto di questo breve intervento dal titolo Le torri litoranee della costa sud-occidentale della Sardegna e i problemi relativi alla difesa delle isole minori dagli attacchi corsari è nella pratica una puntualizzazione sulle problematiche pertinenti la realizzazione del sistema di difesa costiero del Regno di Sardegna. Un programma edilizio istituito di fatto dal sovrano Filippo II, con la creazione, nel 1587, dell’ufficio dell’Amministrazione delle Torri. Un sistema necessario per l’intensificarsi delle incursioni turco-barbaresche. Nel saggio si approfondisce in particolare quella parte di documentazione conservata presso l’archivio di Stato di Cagliari riguardante la costruzione delle torri nella porzione sud-occidentale del Golfo di Cagliari. L’importanza strategica di queste prime torri, unitamente a quelle costruite nello stesso periodo nella parte sud-orientale, è data dal fatto che il loro scopo principale era quello di proteggere la capitale del regno.

Si va invece dall’altra parte, alla vicina isola di Corsica, con il lavoro di Maria Giuseppina Meloni, una sintesi di una più vasta ricerca effettuata dalla studiosa in questi anni presso nell’Archivio della Corona d’Aragona di Barcellona. La ricerca è stata finalizzata a portare alla luce tutta la documentazione dispersa nelle varie sezioni dell’archivio catalano al fine di approfondire e chiarire questo aspetto poco studiato dell’espansione della Corona d’Aragona. Come è noto la Corsica non fu mai conquistata dalla Corona d’Aragona, ma i Catalani non rinunciarono mai al principio che l’isola apparteneva di diritto alla Corona tanto che, al fine di destabilizzare il dominio genovese, sostennero costantemente un partito filocatalano di opposizione alla Repubblica ligure. Un’attività che permise di portare avanti per più di un secolo, con un limitato impegno finanziario e militare, le rivendicazioni catalane. Solo sotto Alfonso V si tentò di occupare l’isola, dopo la conclusione della faccenda sarda, approfittando della congiuntura favorevole offerta dai successi nell’isola di Vicentello d’Istria. Una spedizione attaccò e occupò la sede fortificata di Calvi. La documentazione su queste attività appare particolarmente abbondante e ricca di particolari che vanno dalle fasi preliminari all’organizzazione amministrativa e militare della sede di Calvi in attesa di una nuova spedizione atta alla conquista di Bonifacio ma che nei fatti non fu mai portata a termine. La seconda parte dell’articolo è dedicata ai rapporti tra la Corsica e il Regno di Sardegna. Dalle fonti emerge, infatti, la frequenza dei rapporti economici, politici e demografici tra le due isole. La Sardegna fu, inoltre, per tutto il Tre e Quattrocento, meta di un costante flusso migratorio verso l’isola vicina, costituito non solo da esuli politici che vi trovavano rifugio e sostentamento, ma anche da persone comuni che cercarono, con l’emigrazione nella vicina Sardegna, migliori condizioni di vita. Un taglio particolarmente interessante,  secondo l’autrice, anche perché non è da escludere che vi siano nelle diverse sezioni dell’Archivio nuovi e inediti documenti sul tema in modo da estendere il quadro delle tematiche di indagine.

Sul tema delle assemblee rappresentative è invece orientato il tema affrontato da Esther Martí Sentañes (I procuratori municipali nelle assemblee rappresentative della Corona d’Aragona nel XV secolo: il caso sardo) in particolare sulla figura dei sindaci o procuratori che ogni città regia inviava alle diverse assemblee parlamentari nel corso del XV secolo. L’autrice sottolinea come ogni nucleo urbano aveva diritto ad un solo voto, indipendentemente dal numero dei suoi rappresentati presenti nei parlamenti, ma il numero dei sindaci di una città pesava nel senso di notorietà che la stessa città riusciva a trasmettere nel resto del Braccio reale e nell’assemblea generale. In questo appare significativo come i rappresentanti delle città regie della Sardegna oscillavano tra i 4 di Cagliari (alla pari con Barcellona), i tre di Sassari e Bosa (alla pari di Perpignano), i due per Iglesias e Alghero. Lo studio permette di conoscere meglio questi personaggi agevolando al contempo lo studio dei rapporti tra le famiglie che occupano il potere urbano locale. Nella ricerca assume particolare importanza lo studio del cursus honorum dei ripresentanti che utilizzavano le assemblee come spazio per proteggere gli interessi del proprio gruppo di appartenenza, oppure di quello del territorio di provenienza, cercando, fin dove possibile, di stringere nelle proprie mani, o in quello dei propri famigliari, anche il potere di rappresentanza pertinente agli altri bracci come quello militare o quello ecclesiastico. Attraverso questo studio preliminare è interessante annotare come le elites delle città sarde siano la diretta espressione di un processo che parte da lontano: dall’iniziale fase signorile nel corso del XIII secolo e dalla concreta capacità di ritagliarsi spazi autonomi di tipo politico e sociale. Un saper fare tipico delle città medievali dalla Sardegna. Recentemente Franco Campus ha scritto negli atti di un convegno dedicato ai Castelli e Fortezze nelle città e nei centri minori italiani che le città della Sardegna erano state capaci, grazie all’origine comune nell’incastellamento signorile, di imporre al panorama statico dell’Isola improvvise “accelerazioni”, Centri urbani capaci di fondere in un unico amalgama i nuovi gruppi etnici e tradizioni culturali profondamente diverse. Il loro successo non derivava dalla posizione strategica militare, ma proprio dalla capacità della classe dirigente locale (sarda, pisana, genovese, catalana) di gestire al meglio il rapporto con la Corona nella richiesta ed ottenimento di nuovi privilegi e franchigie. Abitare nel borgo sottoposto ad un castello era più che un lusso, da sempre era come risiedere in una vera e propria città.

Ancora sullo studio particolare delle carriere dei funzionari, del loro cursus honorum in Sardegna, si è incentrato il lavoro di Anna Maria Oliva, in particolare sulla figura di March Jover, catalano di nascita, operò a Cagliari dal 1369 sino al 1423 al servizio di ben cinque sovrani della Corona d’Aragona: Pietro IV, Giovanni I, Matino II, Ferdinando I e Alfonso V . (March Jover uomo del re e uomo dei consiglieri di Cagliari nella Sardegna tra Tre e Quattrocento). Il lavoro coglie in pieno quell’auspicio espresso nel passato da Marco Tangheroni sulla necessità di ampliare le ricerche oltre alle vicende politiche e militari verso le figure dei grandi mercanti e dei finanziatori catalani dell’impresa sarda. Il grande lavoro di raccolta di documenti compiuto dall’autrice ha permesso di definire il personaggio in modo completo, sia nell’ambito delle sue attività pubbliche, sia nella sua formazione culturale. Senza dubbio March Jover si offre come l’elemento di spicco una grande famiglia, fu ricordato anche dal padre della storiografia sarda, Giovanni Francesco Fara proprio in ragione del suo impegno come amministratore e come titolare di alcuni feudi. Un uomo prezioso per la Corona, certamente impegnato a proteggere i suoi interessi finanziari, ma che operava nel campo della sua attività amministrativa con una onestà fuori dal comune come comprova il fatto che nel 1391 fu esentato da divieto di cumulo degli uffici. Un livello di correttezza e di “buon governo” che fa chiaramente da contrasto con quel panorama di funzionari e ufficiali corrotti che operano in Sardegna già dai primi anni della presenza catalana. Un contesto di illegalità che le popolazioni locali, e sopratutto l’antica aristocrazia sarda, non aveva mai smesso di evidenziare al sovrano nelle diverse sessioni parlamentari. Devo dire che la condotta tenuta in Sardegna da questo personaggio mi ha molto colpito, soprattutto in parallelo al periodo classico dove si conosco pochi casi di buona amministrazione, ma non di rado i governatori romani assumevano nell’Isola un comportamento avido e violento. In qualche caso i Sardi intentarono processi per concussione, come contro il propretore Tito Albucio (accusato alla fine del II secolo a.C. per conto dei Sardi da Gaio Giulio Cesare Strabone, zio di Cesare) e, cinquanta anni dopo, contro il propretore Marco Emilio Scauro, figliastro di Silla, orgoglioso esponente del partito aristocratico, che i Sardi unanimi accusarono di malversazioni e di violenze: proprio la loro unanimità avrebbe destato i sospetti ma anche l’ironico apprezzamento di Cicerone. La linea difensiva adottata in quell’occasione da Cicerone irritò non poco i Sardi, alcuni dei quali anni dopo lamentarono anche gravi offese personali. Sono pienamente convinto che tra le diverse ragioni della buona condotta del funzionario catalano non debba essere sottovalutata la sua scelta della residenza nell’Isola, a Cagliari, ma anche il suo matrimonio, con una certa Francesca, di cui non si esclude l’origine sarda. In definitiva, anche se per via indiretta, era divenuto parte integrante non tanto del Regnum catalano, ma della stessa Isola. Un aspetto confermato dall’intervento di March Jover ai lavori del parlamento del 1411, come sindaco della città di Cagliari, dove depositò un memoria non solo sulla sua città  ma sul generale stato dell’Isola. Il testo fu del tutto ignorato dal Parlamento catalano, che non intendeva farsi carico della situazione dell’isola, ma specchio secondo l’autrice dell’ampio spessore politico ed ideologico dell’oratore e della perfetta conoscenza sia dei suoi interlocutori, sia delle materie e delle difficoltà presenti nell’Isola segnata da final desolacio e ruina se non si fosse provveduto per tempo e con i mezzi adatti. La sua visione appare fortemente condizionata da una prospettiva sarda, pur essendo lui un catalano, ma non quella dei Sardi di Arborea, ma di quella oramai dei Sardi del Regnum.

In conclusione hanno un carattere del tutto originale i saggi di Mario Corda, Simonetta Sitzia e Giovanni Sini.

Il primo, con un lavoro sui  Marmorari nel Regno di Sardegna (XVII-XVIII secolo) presenta con dovizia di particolari l’attività svolta a Cagliari, all’interno della cattedrale della città, nel corso dei secoli XVII-XVIII, da parte di 10 marmorari di provenienza ligure e lombarda. Lo studioso grazie alla numerosa documentazione si sofferma nello specifico sui tempi, i modi e i costi di realizzazione delle innumerevoli opere commissionate. La seconda Simonetta Sitzia concentra la sua attenzione sulle Le visite pastorali sarde tra XVI e XIX secolo, compiendo alcune riflessioni storiografiche e annotazioni metodologiche soprattutto alla luce del fatto che, ancora oggi, su questi documenti si possiede una conoscenza superficiale e fortemente condizionata dal paradigma storiografico impostato dopo il Concilio Vaticano II. Nella prima parte del saggio la studiosa compie una completa rassegna degli studi precedenti, ma soprattutto sposa in pieno l’impostazione metodologica proposta in precedenza da Turtas sulla necessità di repertoriare tutto il materiale, comprendendo in questo anche quello di età moderna, e di agevolarsi in modo completo ed esaustivo di banche dati logiche e di facile accesso. Questo permetterebbe di collocare nella giusta posizione storiografica dell’istituto ecclesiastico della visitatio. Nella seconda parte il lavoro è indirizzato al tema delle fonti visitali conservate negli archivi diocesani di Cagliari e di Oristano. Il saggio mette in evidenza come sia possibile superare l’approccio localistico degli studi precedenti attraverso una metodologia basata sulla cosiddetta “circolarità ermeneutica”: un incrocio tra i dati di natura diversa ed eterogenea: i resoconti delle visitali, le relazioni al limina e i dati dei Quinque libri. In definitiva lo scopo finale è la correlazione di una quantità enorme di elementi: dalle viabilità, al grado di conservazione ed esistenza degli edifici, alla toponomastica, all’onomastica, senza trascurare il carattere organizzativo religioso nel periodo precedente e successivo al concilio di Trento.

E infine, sull’uso e correlazione tra informatica e Scienze Umane è il saggio Giovanni Sini, intitolato Informatica umanistica. Appunti e riflessioni sullo stato dell’arte e nuove prospettive. L’Informatica Umanistica è una disciplina relativamente recente ed utilizza per le tematiche di studio quelle proprie delle Scienze Umane ma attraverso i metodi dell’informatica. Nel saggio sono ben definite tre fasi di evoluzione: nella prima si riconosce al mezzo informatico il ruolo di avere reso più disponibile, ad un numero infinito di studiosi, archivi e documenti. La seconda fase è quella dell’editoria digitale che tutti ben conosciamo; la terza è la diffusione dei testi attraverso la filosofia della rete che certamente sul lungo periodo potrà offrire effetti positivi per una maggiore circolazione di idee ma, cito testualmente «ha in sé degli effetti negativi per il pericolo di un possibile isolamento dal mondo reale preferendo un comodo mondo virtuale e digitale». Questo aspetto mi ha molto colpito perché al di là di tutte le innovazioni informatiche continua ad avere un senso la ricerca pura, fondata sul contatto umano, sull’esperienza diretta e sulla contiguità fisica e calorosa, a tutti livelli, tra maestro e allievo.

E del resto è questo il motivo principale per cui siamo qui oggi: festeggiare e ringraziare un Maestro al quale auguro una lunga e proficua attività.

Grazie




28. Conclusioni.

Affronterò il confronto elettorale in modo leale ed aperto, serrato sui programmi, senza polemiche con gli altri candidati (che non considero avversari ma concorrenti che stimo), perché l’Ateneo non deve essere trasformato in un campo di battaglia: i candidati devono lavorare per presentare i propri programmi e le loro specificità, non per travisare le intenzioni altrui con un processo alle intenzioni, se ci si limita ad un confronto miope sulle persone, costruendo una vituperatio un poco caricaturale, che poi finisce per diventare un boomerang.

Con serenità, secondo lo stile di “misura”, di tolleranza e di ascolto che ha improntato la mia attività di studioso e di responsabile a vari livelli del governo dell’Università, desidero portare un clima positivo e difendere un valore, quello dell’unità dell’istituzione universitaria, al di sopra degli inevitabili conflitti, che saranno in qualche caso utili per una crescita che si misuri con il pluralismo e che combatta la frammentazione del mondo universitario.

Il confronto elettorale aperto e pubblico tra candidati può essere un’occasione di crescita, per stimolare la comunità universitaria e definire i programmi che, partendo dalle specificità di Ateneo, siano capaci di proiettarsi sul piano regionale e nazionale, allo scopo di far emergere un’idea compiuta del futuro di una grande università pubblica; insieme un momento fondamentale del confronto democratico con pubblici civili dibattiti; se sarò eletto, mi impegno a farmi carico degli interessi generali di tutto l’Ateneo, senza partigianerie, preferenze politiche, scelte di parte e con una posizione di ragionevole equilibrio tra gli interessi contrapposti, costruendo l’autorevolezza della carica innanzi tutto su un forte senso etico, sulla serietà dei comportamenti, sul rigore e l’efficienza, sulla meritocrazia, sulla lotta al clientelismo, al nepotismo, alle pressioni corporative o di appartenenza.

A chi produce di più dovranno essere garantiti più fondi per la ricerca e più possibilità di progressioni di carriera per i docenti particolarmente brillanti. Intendo interpretare con spirito di servizio e dedizione le diverse anime di un Ateneo complesso, che vanta una storia secolare (il nuovo Rettore celebrerà i 450 anni di vita dell’Istituzione) e che conta su esperienze significative e su una rete di rapporti internazionali che costituiscono il più prezioso patrimonio sul quale possiamo costruire il futuro.

Credo sia nota la passione con la quale mi sono mosso, nell’ambito delle esperienze che di volta in volta ho maturato (direttore di Dipartimento, Preside, Prorettore, delegato alla ricerca). Non ho tessere di partito e respingo qualunque soggezione dell’Ateneo al sistema dei partiti, che deve essere punto di riferimento per il cittadino ma non per l’Istituzione universitaria.

Se sarò eletto sarò il Rettore di tutti, dei docenti, del personale tecnico amministrativo, degli studenti, dell’intero mondo della sanità.

Credo siano note le mie qualità scientifiche ed umane, la voglia forte di collaborare, di ascoltare, di costruire ogni giorno qualcosa che rimanga nel tempo. Intendo dare un contributo per valorizzare le nostre risorse (materiali, professionali ed umane) e per far crescere il nostro Ateneo, tenendo conto della sua storia secolare, della sua complessità, della sua ricchezza di contenuti umani e scientifici.

Non ritengo il potere un valore in sé, ma offro con serenità il mio servizio al nostro Ateneo con lo scopo di raggiungere obiettivi reali: mi conforta l’amicizia e la stima dei tanti colleghi che hanno chiesto un mio impegno e sostenuto la mia candidatura, colleghi che sono disposti a seguirmi in questa avventura, decisi a collaborare per trovare soluzioni.

Se questo programma otterrà l’approvazione ed il consenso di tutti, se questa avventura si concluderà con un successo, cercherò di coinvolgere tutti i colleghi con lo scopo di creare una comunità. Vogliamo un Ateneo europeo, di qualità, capace di misurarsi in un confronto internazionale ma fortemente radicato in una Sardegna che non tradisca la propria originale identità.




27. Infrastrutturazione e gestione del patrimonio edilizio.

Molto è stato fatto negli ultimi anni per le strutture edilizie, per le infrastrutture, i laboratori, le tecnologie. Occorre ora completare tutto ciò che è rimasto incompiuto e vigilare sul collaudo dei lavori effettuati per evitare che alcune opere non funzionino; soprattutto concentrarsi sulla manutenzione e sulla gestione.

Intendo muovermi a valle del piano complessivo di gestione e di sviluppo edilizio approvato dal Senato e dal Consiglio di Amministrazione, che richiamo in questa sede solo per sommi capi e che andrà debitamente aggiornato, rispondendo oltretutto all’obbligo di legge di inserire gli interventi all’interno di un documento di programmazione triennale, per definire le opere da proporre per accedere a finanziamenti pubblici.

Come è noto da cinque anni il Ministero ha tagliato il capitolo dei fondi per l’edilizia, per cui in questo campo chiederemo alla Regione Sarda ed al Sistema delle autonomie locali di assumersi le responsabilità che competono loro per legge. La realizzazione del Polo di eccellenza di ricerca e formazione in Agraria e Medicina Veterinaria a Bonassai coi fondi strutturali europei (APQ Istruzione e Università) potrebbe rappresentare un elemento di forte innovazione nel panorama accademico e nel sistema economico, ma esso soffre della progressiva scomparsa dei finanziamenti inizialmente promessi dalla Regione Sarda.

L’iniziativa potrebbe costituire un’occasione storica per rilanciare l’area vasta di Sassari e più in generale la Sardegna nord-occidentale facendo leva sulle vocazioni naturali del territorio. La eventuale dislocazione delle due Facoltà al margine occidentale del Comune di Sassari non era stata concepita come un mero decentramento dell’Università, bensì come l’occasione per superare una tappa cruciale della politica spaziale dell’Ateneo, aggregando risorse, definendo una massa critica per il capitale umano, rinnovando impianti e laboratori, fornendo strumenti per dare risposte innovative alle esigenze di sviluppo di tutta l’Isola.

L’obiettivo non sarà realisticamente perseguibile senza le risorse regionali e l’Università non può farsi carico di ulteriori impegni finanziari. Deve essere chiaro che non è accettabile procedere con una nuova gigantesca opera incompiuta: senza la certezza dei finanziamenti sarà necessario ridimensionare l’intervento o addirittura riconvertirlo.

Né possiamo distogliere l’attenzione dalle immediate emergenze delle due Facoltà, che hanno necessità di disporre da subito delle risorse economiche indispensabili per ottenere l’accreditamento dei corsi di laurea in rapporto ai parametri qualitativi e quantitativi europei, la realizzazione dell’ospedale veterinario e le aule per la Facoltà di Agraria.

Priorità assoluta nel programma edilizio verrà data alla sistemazione in una nuova sede della Facoltà di Economia e alla ristrutturazione del Palazzo dell’Università centrale col recupero degli spazi dell’ex Estanco e del Palazzo di Porta Nuova, anche attraverso forme innovative di utilizzo. Occorre completare finalmente il Polo Bio-naturalistico di Piandanna, chiedendo alla Regione la liquidazione dei 20 milioni previsti nel protocollo d’intesa sull’APQ del luglio 2008 e riaprire finalmente il Centro linguistico di Ateneo.

Si deve procedere ad organizzare il Polo chimico-farmaceutico con il secondo lotto della Facoltà di Farmacia e con la revisione costante degli impianti del Dipartimento di Chimica, grazie anche a specifici interventi sul piano della sicurezza.

Si devono programmare le opere di sistemazione ed ampliamento delle Facoltà di Lettere e Filosofia e di Lingue e Letterature straniere (ex Istituto IPAB in via di acquisizione, aula magna nell’ex-Ma, Polo dell’identità). Progettisti e direttori dei lavori saranno scelti con trasparenza sulla base di accertate competenze.

Occorre razionalizzare il patrimonio, con investimenti significativi finalizzati alle esigenze didattiche, di ricerca, di assistenza sanitaria di qualità e amministrazione: si deve arrivare ad una definizione dell’inventario del patrimonio mobile e immobile dell’Ateneo, dei Dipartimenti, degli Istituti, dei Laboratori, anche attraverso un incarico ad una ditta specializzata.

Occorre assumere l’impegno di dismettere progressivamente tutti i locali in affitto, restaurando edifici storici disponibili attorno alla Piazza Università. Se opportuno si potrà razionalizzare il patrimonio vendendo i terreni e gli edifici non più utili per portare avanti la missione dell’Università.

Occorre garantire interventi urgenti per manutenzione straordinaria immobili e ricostruzione, ripristino, trasformazioni immobili; intendo proporre un piano di interventi urgenti per la sicurezza sui luoghi di lavoro, al fine di evitare pericoli per il personale e responsabilità a carico degli amministratori, utilizzando il capitolo delle manutenzioni straordinarie ed eventualmente l’avanzo di amministrazione per adeguare le strutture secondo precise priorità e urgenze, in costante rapporto con il documento sulla valutazione dei rischi previsto dal Testo Unico dell’aprile 2008.

È necessario un forte investimento nella formazione in tema di sicurezza e di valutazione dei rischi in particolare nei laboratori scientifici, coinvolgendo Presidi, Direttori di Dipartimento, personale, studenti; occorre arrivare a definire nuovi regolamenti in materia. Intendo potenziare il Servizio Prevenzione, Protezione, Igiene e Sicurezza che deve porsi in un dialogo continuo con gli uffici e con il personale addetto alla sorveglianza sanitaria e con i rappresentanti dei lavoratori.

Infine occorre un rapido processo che porti all’abbattimento delle barriere architettoniche per consentire l’accesso (ad iniziare dall’Aula Magna dell’Università) agli studenti disabili: si richiede a questo proposito un impegno che non discenda solo da un obbligo di legge ma da una precisa scelta etica di solidarietà dell’Ateneo.

Quanto alla Sanità, è necessaria una svolta per migliorare la qualità delle strutture degli edifici clinici, ultimare i cantieri rimasti all’Università e quelli trasferiti all’Azienda Ospedaliera Universitaria, elevare la qualità degli interventi, stimolare il Servizio Sanitario Regionale a portare avanti fino in fondo la sua missione, che è quella di assicurare strutture efficienti dove svolgere l’assistenza sanitaria.

Ingenti risorse dovrebbero essere destinate alla edificazione di un nuovo, moderno ed onnicomprensivo ospedale oppure ad una urgente e radicale opera di ristrutturazione e messa a norma degli edifici esistenti, con adeguamenti tecnologici che abbattano i costi di riscaldamento e condizionamento ed interventi per l’installazione di sistemi fotovoltaici.

Si debbono programmare interventi, anche a costo zero, per migliorare la qualità ambientale degli spazi universitari, con una rigorosa selezione degli artisti e delle opere da esporre e con una valutazione seria dell’esistente (penso all’esperienza di Zebra crossing della Facoltà di Lettere e Filosofia che ha raggiunto obiettivi significativi).

Soprattutto occorre curare ed estendere le aree verdi, gli spazi per le attività sportive e ricreative, i prati ed i giardini all’interno delle Facoltà e dei Centri di ricerca. Si debbono istituire nuovi punti di ristoro entro le Facoltà e una nuova organizzazione dei posti auto.

Suggerisco un deciso impegno sul piano ambientale, iniziando dal settore del risparmio energetico (rilancio della figura dell’Energy manager), dalla riconversione delle centrali di riscaldamento a gasolio in centrali a metano, dalla produzione di energia con pannelli fotovoltaici.

La produzione di energia da fonte rinnovabile implica un miglioramento dell’efficienza tecnico-economica della gestione delle strutture di ricerca e didattiche offrendo l’opportunità non solo di ridurre le spese destinate all’acquisto di energia, ma anche di percepire i contributi pubblici previsti per l’operatività di tali installazioni; nei tempi del ritorno al nucleare (che non vogliamo in Sardegna), il ricorso all’energia solare consente inoltre di contribuire al miglioramento della qualità ambientale riducendo le emissioni gassose rilasciate dalle tradizionali e non rinnovabili fonti di produzione energetica; l’opportunità di installare un impianto fotovoltaico assume inoltre una particolare valenza culturale che si riflette per l’Università sia al proprio interno (personale e studenti) sia all’esterno (comunità civile) in termini di qualificazione della propria immagine, di responsabilizzazione in tema di consumi energetici e di sensibilizzazione delle Istituzioni e dei cittadini.

In funzione della sua sostenibilità economica, il progetto può inoltre trovare declinazione in termini sociali e solidaristici prevedendo, ad esempio, che il margine economico che ne deriva possa essere destinato al sostegno del lavoro dei giovani ricercatori (assegni di ricerca) o di progetti di cooperazione internazionale.

Questi obiettivi si potranno realizzare solo con una complessiva riorganizzazione e potenziamento degli uffici, con una centralizzazione delle procedure di gare e appalti, con una crescita delle competenze interne.




26. Informatica.

L’informatica e le nuove tecnologie (microelettronica, fisica, nanotecnologie) sono ormai sempre più uno strumento fondamentale con il quale è possibile affrontare sfide significative anche in altri settori disciplinari.

Il nostro Ateneo dovrebbe fare una seria riflessione sull’argomento, decidendo quali siano le strade più adeguate per colmare un evidente gap storico, che potrebbe diventare cronico nei prossimi anni.

Una strada ragionevole è quella di puntare inizialmente sulle competenze già esistenti, a condizione che le stesse abbiano livello di eccellenza e possano generare a breve ulteriore ricchezza culturale.

Occorre immaginare una casa per chi opera nei settori innovativi in ambito informatico e tecnologico e definire un indirizzo di Ateneo molto preciso sulla politica delle risorse umane (attribuendo integrazioni di budget ai gruppi di ricerca migliori).

Se è centrale e prioritario il tema della ricerca, si deve arrivare finalmente all’aggregazione della didattica in campo informatico. Si deve procedere ad un ripensamento dell’offerta didattica delle discipline informatiche nell’Ateneo, con la riduzione delle docenze a contratto e l’assunzione di nuove professionalità, delegando magari al Centro servizi di Ateneo l’alfabetizzazione informatica di base, preparando persone che potranno a loro volta sviluppare ricerca, didattica e trasferimento tecnologico.

Occorre innalzare la qualità della didattica in ambito informatico (oltre l’ECDL), senza sottrarre risorse ma anzi potenziandone la capacità di produrre ricerca, innovazione e tecnologia, valorizzando il capitale umano.

Deve essere razionalizzata l’organizzazione delle segreterie studenti, delle aule multimediali, della trasmissione delle lezioni on line, facendo tesoro delle esperienze acquisite in questi anni. Si procederà all’acquisto di notebook per gli studenti migliori. Il settore informatico dell’Ateneo deve espandersi sia sul piano delle infrastrutture con adeguate risorse e sia sotto il profilo dei servizi, in quest’ultimo caso quasi a costo zero: si rende urgente promuovere un’azione programmatoria che consenta di superare ingessature decennali, inciampi, ritardi e si deve svecchiare l’intera struttura. Non possiamo continuare ad operare con soluzioni parziali che piovono dall’alto.

Intendo promuovere una Conferenza di Ateneo sull’informatica. Va risolta l’attuale insufficienza delle infrastrutture del CED, in particolare per quanto attiene alla situazione della sala macchine, che rischia di compromettere in modo integrale i servizi erogati.

Tra gli altri punti critici segnalo la relativa inadeguatezza dell’infrastruttura di rete, l’esistenza di situazioni di nicchia, con realizzazioni informatiche autonome, sovrapposte oppure addirittura in contrasto con il quadro d’insieme; lo scarso uso dei badges per gli studenti, legato principalmente alla indisponibilità di lettori e software che consentano di armonizzare le diverse applicazioni; l’esigenza di coordinare meglio a livello di Ateneo le licenze software dei principali applicativi; l’esistenza di numerose procedure facilmente automatizzabili ma svolte in modo quasi totalmente manuale, ad esempio per quanto attiene la gestione IVA, la gestione del patrimonio, la redazione del bilancio ed il monitoraggio di indicatori relativi ai risultati di gestione.

Pare necessario arrivare ad una gestione unitaria attraverso un Centro Servizi autonomo ed un Comitato tecnico scientifico diretto da un delegato del Rettore, che definisca le linee strategiche di Ateneo e le priorità e promuova il coordinamento del Centro Elaborazione Dati, del Centro Servizi Tecnologici, del Settore Comunicazione, assorbendo il CISD, con una forte presenza del personale docente più sensibilizzato al tema.

Tale centro avrà in particolare il compito di pianificare annualmente tutta l’attività informatica e telematica di interesse comune dell’Ateneo, garantendo la gestione dei servizi essenziali e la realizzazione delle direttive e dei programmi approvati dagli organi accademici. Una carta dei servizi dovrà essere posta alla base dell’azione del centro, sulla base dei principi della trasparenza e tempestività di intervento per tutti gli utilizzatori.

Occorre ripensare globalmente la gestione dei flussi di informazioni settore per settore, responsabilizzando dirigente, delegato e funzionari.

Occorre una graduale revisione delle infrastrutture di rete, principalmente basate su tecnologia radio-ottica, con passaggio alla fibra ottica, magari col mantenimento di configurazioni ridondanti tramite tecnologia radio.

È necessario un ulteriore aumento della banda disponibile tra le diverse strutture dell’Ateneo ad un valore minimo di riferimento di 1 GB, anche in relazione all’impiego della fibra ottica e al potenziale utilizzo di telefonia IP.

Occorre arrivare alla revisione e messa in sicurezza di connessioni e armadi di distribuzione, con definizione di una praticabile politica di sicurezza rivolta a studenti ed ospiti dell’Ateneo. L’attuale inadeguata sede del CED deve essere abbandonata e si deve pensare ex-novo ad una nuova sala macchine con riposizionamento dell’intero Centro servizi, con soluzioni tecniche di dettaglio da studiare.

Deve perseguirsi un deciso miglioramento dei servizi attualmente erogati, tramite l’acquisizione di apparecchiature dedicate e soluzioni tecniche innovative. In particolare:

  • Posta elettronica: incremento dello spazio disponibile ad un minimo di 5GB per utente, gestione più efficiente della connessione dall’esterno tramite webmail.
  • Spazi web: centralizzazione di tutti gli spazi di Ateneo, con introduzione di spazi disponibili per i singoli utenti strutturati.
  • Anagrafe ricerca: definitivo lancio della nuova piattaforma, con affiancamento di personale dedicato alla gestione dell’applicativo in modalità open source.
  • Back-up: attuazione di una nuova strategia per il back-up dei dati critici conservati presso il CED, possibilmente attraverso la creazione di un sistema di storage dedicato, indipendente e remoto rispetto alla sala server.

Il costituendo Centro avrà un nuovo insieme di funzioni e servizi. In particolare:

  • Telefonia IP: graduale passaggio alla tecnologia IP, mirata all’abbattimento dei costi, con sperimentazione di tecnologie miste audio/video;
  • Sistema bibliotecario: acquisizione di ulteriori banche dati telematiche, di particolare rilievo scientifico (INSPEC), acquisizione di tecnologie innovative per la consultazione on-line di documenti (e-paper);
  • Badge: armonizzazione delle procedure di autenticazione ed interfacciamento al sistema di accesso al Sistema Bibliotecario di Ateneo da parte di soggetti detentori di badge, in particolare gli studenti. Armonizzazione delle procedure di interfacciamento alla segreteria studenti (CSS, libretto elettronico, firma digitale, verbalizzazioni esami, iscrizioni on line). Valutazione di potenziali collaborazioni con ERSU sulla base del badge detenuto dagli studenti. Il ritardo nella registrazione dei crediti e degli esami può configurare un danno grave per il Fondo di Funzionamento Ordinario dell’Ateneo, mentre è opportuno alleggerire il lavoro delle commissioni di esame e delle segreterie attraverso un sistema efficiente e sicuro. I tesserini dovrebbero essere arricchiti di contenuti, in rapporto all’utilizzazione delle strutture universitarie, all’ingresso nelle biblioteche, in sinergia con l’ERSU per l’accesso alla mensa ed agli altri servizi studenteschi.
  • Sperimentazione e divulgazione applicativi open source: graduale sostituzione in tutti i comparti dell’Ateneo (amministrazione e didattica) di applicativi a sorgente aperta.
  • Supporto ai laboratori didattici: gestione armonica e coerente dei laboratori didattici, sotto la responsabilità di un unico soggetto, da attuarsi per mezzo di un team di persone specializzate che potranno presenziare e supportare i docenti anche nell’ambito delle lezioni (tutoraggio informatico).

Più in generale l’informatica deve completare il suo adeguamento con ADSL e Wireless, estendendo gli investimenti di Cybersar per il calcolo scientifico.

Occorre inoltre avviare la migrazione dei sistemi infornatici proprietari verso i loro equivalenti liberi e gratuiti.




25. Comunicazione e diffusione delle conoscenze.

Considero fondamentale per un Ente pubblico come l’Università garantire la massima trasparenza verso l’esterno ed orientare i servizi alle relazioni con i cittadini: non si tratta solo di promuovere l’immagine dell’Ateneo e di garantire la visibilità per i servizi, per l’offerta didattica, per i risultati della ricerca; più ancora si richiede un’informazione puntuale sugli atti e sullo stato dei procedimenti, una definizione dei diritti dei cittadini e le azioni indirizzate al miglioramento degli aspetti organizzativi.

La comunicazione diviene allora uno dei settori portanti dell’Ateneo, strumento per migliorare l’efficienza dell’amministrazione e per snellire i procedimenti, al di là di un approccio tradizionale e burocratico (penso ad alcuni adempimenti formali che rischiano di trascurare l’esigenza sostanziale di trasparenza, come il c.d. “fabbisogno interno”).

I Consigli dei corsi di studio debbono rendere pubbliche informazioni complete, aggiornate e facilmente reperibili sui propri obiettivi formativi, sulle attività formative previste, sulle risorse utilizzate e sui propri risultati.

Gli organi accademici, le commissioni rettorali, le Facoltà ed i Dipartimenti debbono pubblicare tempestivamente on line i verbali delle proprie sedute.

Gli organismi deputati alla ricerca debbono rendere conto pubblicamente delle attività di ricerca e di trasferimento tecnologico e dei finanziamenti esterni acquisiti.

Occorre rilanciare il sito web con una totale traduzione in lingua inglese ed intendo costituire un vero e proprio ufficio stampa, pensato per dare risalto alle attività del nostro Ateneo e dei singoli ricercatori, per fornire in tempo reale informazioni complete e documentazione sulle ricerche in corso.

Dovrà essere creato un canale diretto con quotidiani, radio, televisioni, periodici informativi.

Il Centro stampa di Ateneo deve essere profondamente ripensato, potenziato negli strumenti, valorizzato per le risorse professionali già presenti, ciò al fine di renderlo competitivo e veramente al servizio dell’intera comunità universitaria che ha necessità di un Servizio editoriale di qualità, accreditato ed autosufficiente sul piano finanziario. Sassari University Press.




24. Centri di spesa.

Occorre avviare la razionalizzazione dei centri di spesa con autonomia contabile, il cui numero deve essere ridotto senza traumi, magari in qualche caso accorpati per aree, senza stravolgimenti degli organi statutari.

Debbono essere riconosciute le specifiche responsabilità degli EP e dei Segretari amministrativi dei Centri di spesa, che debbono essere affiancati da giovani in formazione e non debbono individuare nell’Amministrazione una controparte ostile. Si deve arrivare alla dipartimentalizzazione degli attuali Istituti della Facoltà di Medicina e Chirurgia, all’indomani della nascita dell’Azienda Ospedaliera Universitaria.

D’intesa con la Conferenza dei direttori dei Dipartimenti, assumo l’impegno per definire le modalità di calcolo delle dotazioni dei Centri di spesa e soprattutto la ripartizione delle tasse studentesche a favore delle Facoltà e dei laboratori, senza appesantimenti eccessivi a carico degli studenti, ma con la prospettiva di utilizzare le tasse come leva per ottenere un impegno maggiore.

Occorre introdurre parametri per ripartire le risorse basati su logiche di premialità (ad esempio, per i Dipartimenti considerare la produttività scientifica e per le Facoltà la produttività ed i risultati della didattica, come pure applicare i requisiti di numerosità iscritti per l’attivazione di corsi di studio).

Occorre ridiscutere il sistema di dotazione e riequilibrio a favore dei Centri di spesa con reali prospettive di sviluppo senza escludere camere di compensazione e quote di solidarietà, in modo da consentire il raccordo tra la programmazione finanziaria e la programmazione promossa dagli stessi Centri.

Sono necessari interventi per il calcolo delle dotazioni con premialità a favore dei Dipartimenti più produttivi e che abbiano adeguata massa critica.

Mi pongo l’obiettivo di accrescere le reti di relazioni, favorire la condivisione di laboratori, l’uso delle apparecchiature, l’erogazione dei servizi, l’impiego del personale tecnico amministrativo ed in particolare la collaborazione interdisciplinare in settori di rilevanza.

Il Consiglio di Amministrazione dovrà fissare indirizzi precisi e stimolare Facoltà e Centri di spesa perché venga innescato un processo di razionalizzazione fissando obiettivi da raggiungere attraverso azioni concrete, con una verifica del tema delle prestazioni a pagamento, con correzione di distorsioni e sostegno ai Dipartimenti che operano al servizio del territorio. Occorre accrescere la responsabilità gestionale nelle strutture periferiche ed introdurre meccanismi premianti per aumentare le entrate proprie e contenere i costi (utenze, affitti, ecc.), con un’attenzione particolare alla programmazione della spesa per il personale.




23. Medicina universitaria.

La contrastata nascita delle Aziende Ospedaliere-Universitarie di Sassari e Cagliari, disposta da leggi nazionali che hanno ridefinito i rapporti tra Servizio Sanitario e Università, consentirà un rilancio delle due Facoltà mediche se le due Aziende saranno messe nelle condizioni di svolgere la propria specifica missione, che è quella di integrare la programmazione generale dell’assistenza (di cui è titolare il Direttore Generale) con la programmazione didattico-scientifica della Facoltà di Medicina (di cui è titolare l’Università): l’AOU di Sassari è nata con gravissimi ritardi rispetto al Decreto Legislativo 517/99 e con una dimensione spaventosamente ridotta, addirittura con un disavanzo finanziario programmato pari al 20%, visto che la spesa storica di oltre 100 milioni di euro è stata drasticamente ridotta.

La situazione gestionale organizzativa dell’AOU è ancora precaria. Alcuni reparti sono stati assorbiti nella ASL (neurochirurgia o nefrologia ad esempio). Abbiamo vissuto per anni con l’incubo di vedere l’Università soffocata dalle spese per il servizio sanitario; ora l’AOU, debitamente potenziata, deve diventare lo strumento per recuperare ritardi e disfunzioni, per ritrovare efficienza al servizio della collettività, e non deve concentrarsi esclusivamente sugli aspetti puramente “ospedalieri” e di taglio delle spese, con scarso interesse per l’innovazione, la ricerca e la didattica.

La formazione in ambito sanitario, dai corsi di laurea alle Scuole di specializzazione di area medica, è oggi sottoposta alla verifica dei requisiti assistenziali minimi stabiliti a livello nazionale.

Il non possesso di tali requisiti determina da un lato il dimensionamento dell’offerta formativa dei corsi di laurea e dall’altro lato la soppressione delle Scuole di specializzazione.

Anche la ricerca in ambito sanitario è oggi sottoposta a verifica e soprattutto si deve proiettare in modo efficace verso uno sviluppo futuro: occorre sostenere i gruppi di ricerca realmente produttivi. Per questi motivi, se le Aziende ospedaliero-universitarie non riusciranno ad attuare, in sinergia con l’Università e le altre Aziende sanitarie, le proprie specifiche finalità, l’assistenza non potrà coniugarsi con i due fattori che ne condizionano la qualità: un’adeguata formazione del personale medico e degli operatori sanitari al servizio del territorio, capaci di impegnarsi con scienza e coscienza ed una ricerca in grado di promuovere l’innovazione e l’aggiornamento in campo biomedico e biotecnologico.

È pertanto indispensabile operare affinché le Aziende ospedaliero-universitarie possano realizzare la loro missione integrata, valorizzando il patrimonio di strumenti, di spazi, ma soprattutto di personale e di studenti. Per Sassari, l’Azienda è un’occasione preziosa per difendere il territorio dalle minacce che si profilano all’orizzonte e addirittura per trasformare le minacce in preziose occasioni di sviluppo ed in efficaci sinergie (penso alla formazione del personale delle professioni sanitarie da occupare nelle nuove strutture sanitarie che tra breve sorgeranno nella Sardegna nord-orientale).

L’Azienda Ospedaliero-Universitaria dovrà trovare spazi di autonomia, completando l’organico, le strutture, i servizi che debbono essere adeguati al ruolo di eccellenza che l’Azienda specializzata nella ricerca deve assumere, fornendosi di regolamenti e strumenti operativi, come ad esempio il Codice etico con le sue procedure.

Occorre soprattutto incrementare le risorse e stimolare i nuovi attori della politica regionale per consolidare un’organizzazione che porti ad una puntuale valutazione del rapporto tra posti-letto ed esigenze scientifiche e didattiche, operando con coerenza ed arrivando anche al taglio dei posti-letto ridondanti, con una nuova attenzione per le specifiche problematiche del Nord Sardegna.

Attraverso iniziative di collaborazione con l’ASL n. 1 in vista di una futura possibile riaggregazione, l’AOU può e deve diventare uno strumento strategico per la riqualificazione della sanità territoriale, facendo riacquistare a Sassari il proprio ruolo storico di polo regionale di riferimento, in grado di offrire alla popolazione prestazioni in linea con i livelli di eccellenza europea.

Ciò richiede la destinazione di investimenti adeguati a superare il gap tecnologico che rischia di dequalificare le strutture universitarie e ospedaliere di Sassari. Per ottenere tutto questo sarà fondamentale battersi perché la Facoltà di Medicina e Chirurgia non venga ospedalizzata e costruire obiettivi condivisi con il Governo regionale, anche per evitare che i programmi rimangano lettera morta o pure aspirazioni.

In questo senso lavorerò per una definizione dell’Atto Aziendale a valle del Protocollo d’intesa (che doveva essere approvato entro 60 giorni dalla delibera della Giunta Regionale dell’8 luglio 2008) che risolva le numerose criticità fin qui segnalate.

Intendo procedere alla nomina di un delegato al reperimento di risorse per l’acquisto di attrezzature sanitarie e di un delegato per il settore sanitario, anche se la Sanità merita un intervento incisivo e continuo del Rettore per quanto riguarda la partecipazione alla programmazione sanitaria regionale, i rapporti con il SSN ed in particolare con l’ASL, l’accreditamento dei corsi di studio dell’area sanitaria in ambito UE, l’attuazione del Piano Sanitario Regionale, il rapporto con il Direttore Generale e gli altri responsabili dell’Azienda Ospedaliera Universitaria.

Senza un costante intervento del Rettore si rischia di condannare l’AOU ad un rapido declino, coinvolgendo il personale universitario che deve mantenere un costante rapporto con l’amministrazione di provenienza, partecipando alle scelte di fondo e determinando l’accreditamento dei corsi.

Con particolare attenzione verranno seguite le esigenze della prevenzione, dell’educazione sanitaria e della riabilitazione, mentre verrà garantito un collegamento diretto con l’Ordine dei medici.

Sarebbe urgente arrivare alla nascita dei nuovi Dipartimenti sanitari, in sinergia con il nuovo assetto interno all’AOU (Dipartimenti ad attività integrata) e promuovere il costante monitoraggio sulla copertura dei Settori scientifico disciplinari di base e caratterizzanti, anche al fine di una efficace interfaccia tra didattica, ricerca e assistenza sanitaria; senza dimenticare un fecondo rapporto con le Facoltà umanistiche, a sostegno di insegnamenti comuni (bioetica, economia sanitaria, storia della medicina ecc.).

Infine, l’Università deve avviare un serrato confronto con la Regione Sarda per concordare obiettivi e reperire risorse adeguate verso lo svolgimento dei corsi di studio per le professioni infermieristiche, tecniche, della riabilitazione e della prevenzione oltre che delle scuole di specializzazione, sempre con l’occhio rivolto verso orizzonti generali e la difesa degli interessi degli studenti che meritano di conseguire un titolo spendibile sul mercato europeo. Si deve coinvolgere l’Osservatorio regionale per la formazione specialistica dei Medici.

L’assistenza, per la Facoltà di Medicina, è lo strumento di lavoro essenziale: pertanto un’attenta cura dovrà essere posta all’assetto dell’Azienda Ospedaliero Universitaria. In particolare le dimensioni e le caratterizzazioni dei letti di degenza dovrebbero tenere conto delle esigenze didattiche sia dei Corsi di laurea che delle Scuole di specializzazione.

A tale proposito le dimensioni previste dall’Azienda per alcune aree sono attualmente insufficienti per garantire la sopravvivenza di molte scuole di area medica. Sempre ai fini della sopravvivenza delle scuole dovrà essere preoccupazione del Rettore sollecitare tra strutture dell’AUO e AUSL 1 una stretta cooperazione per l’utilizzazione delle risorse assistenziali aziendali ai fini della didattica e della pratica clinica per le varie specialità.

Giuridicamente le strutture assistenziali dell’AUSL dovrebbero essere considerate come strutture di sede dalle Scuole che non riescono a raggiungere nell’AUO le dimensioni e le caratterizzazioni prescritte dalla attuale legge sul riordino delle Scuole di specializzazione di area medica.

Il rapporto con l’AOU dovrà essere regolamentato anche attraverso protocolli di intesa ed estendersi ai temi della sicurezza, della raccolta dei rifiuti speciali, dell’applicazione del Contratto collettivo al personale universitario, che deve mantenere un rapporto costante con l’Ateneo. L’Università non rinuncerà a gestire gli spazi dei Dipartimenti e della didattica e si farà carico di tutte le attività svolte da docenti non convenzionati con l’AOU.

Sul piano dell’assistenza, occorre intervenire incisivamente in un settore dal quale dipende la salute e la qualità di vita di tanti di noi: bisogna far cessare i tragici viaggi della speranza, specialmente in ambito oncologico, un fenomeno in crescita come effetto delle recenti politiche regionali (si parla ormai di circa 20.000 ricoveri fuori dalla Sardegna).

Ci aspettiamo dalla nuova Giunta Regionale un atteggiamento nuovo, positivo, aperto, che parta dal valore del patrimonio di esperienze, di idee, di conoscenze che la Sanità sassarese ha saputo accumulare, con una piena consapevolezza dei problemi.

L’Università non rinuncia a seguire quella fetta di personale che lavora nell’AOU, intende essere il valore aggiunto delle strutture assistenziali, il motore dello sviluppo del territorio, lo strumento per raggiungere per i pazienti prestazioni che siano comparabili con quelle di altri ospedali prestigiosi, che hanno avuto la fortuna di trovare ascolto da politici espressi dal territorio, sensibili, capaci, positivi.

Si rende necessario un forte stimolo per completare gli investimenti edilizi a favore delle strutture cliniche e dei reparti che presentano condizioni di grave criticità, chiedendo alla Regione di mantenere gli impegni a suo tempo assunti anche sui FAS e progettando la nascita di un nuovo ospedale compatto.

Infine il Rettore sarà il difensore dei diritti dei medici e del personale assistenziale, che attende da anni l’applicazione delle normative nazionali sulle indennità di posizione e di esclusività, con un contenzioso che si è esteso nel tempo spesso a danno del bilancio universitario e che è ora arrivato fino al Consiglio di Stato.

Per il personale tecnico amministrativo dell’Azienda si pongono alcuni temi: la mobilità orizzontale e verticale, la formazione, il pagamento delle indennità accessorie, il lavoro straordinario, la rilevazione delle presenze, le prestazioni a pagamento, la distribuzione del fondo comune di Ateneo, la composizione delle delegazioni ed i meccanismi di mobilità intercompartimentale. E, infine, il problema dei problemi: l’inadeguatezza e l’obsolescenza del patrimonio strutturale e tecnologico dell’AOU.

Senza l’assegnazione di risorse adeguate a riqualificare l’AOU sul piano strutturale e tecnologico, quest’ultima non potrà mai assumere quel ruolo di organizzazione assistenziale di elevata complessità che la legge le attribuisce, con conseguenze profondamente negative per la sanità sassarese nel suo complesso e per il funzionamento della Facoltà di Medicina.

È pertanto indispensabile che l’Università chieda con forza che vengano mantenuti ed erogati gli investimenti previsti per l’AOU di Sassari nella deliberazione RAS n. 58/25 del 28 ottobre 2008. Il Piano straordinario per gli interventi strutturali di cui alla predetta delibera prevede un intervento complessivo di 120 milioni di Euro, dei quali 60 su fondi FAS regionali e 60 su fondi statali di cui al “Progetto per la Salute, Sviluppo e Sicurezza del Mezzogiorno”.

È urgente acquisire al più presto i 60 milioni su fondi FAS, al fine di avviare il progetto edilizio illustrato qualche mese fa alla Facoltà da parte del Direttore Generale dell’AOU. Il piano straordinario per gli investimenti tecnologici prevede un intervento dell’importo di appena 3 milioni di Euro, del tutto insufficiente per colmare le carenze esistenti, che richiederebbero un investimento dell’importo di 20 milioni. Si rende pertanto necessario un forte impegno sulla Regione Autonoma per adeguare l’importo dell’investimento alle esigenze reali.




22. Gestione delle risorse e politiche di bilancio.

Occorre in primo luogo sgomberare il campo da equivoci. L’Università di Sassari non rischia il dissesto finanziario, ha accumulato in questi anni risorse destinate a tempi difficili e collocate prudentemente nell’avanzo di amministrazione.

La struttura del bilancio dell’Ateneo è realmente sana e le spese in conto capitale storicamente non sono mai state superiori alle entrate.

Le politiche fin qui adottate hanno portato l’Ateneo ad un notevole incremento del FFO, che è alquanto sovradimensionato rispetto all’aliquota spettante dello 0,85%, a causa dell’attuale livello di valutazione della didattica (0,54%) e del consolidamento di una spesa storica che ha rappresentato la base per le assegnazioni successive.

Per il futuro è prevedibile una riduzione del FFO a causa del meccanismo individuato dal Governo per la riassegnazione delle quote accantonate per il riequilibrio attribuite in base alla virtuosità degli atenei che potrebbero passare dal 7% al 30% dell’intero budget (da 525 a 2500 milioni di euro sul piano nazionale).

Già nel 2009 si prevede che la nostra sarà una delle Università che si vedranno riattribuire una quota inferiore al prelevamento, nonostante l’incremento del fondo globale, che nel 2010 sarà ridotto in una misura che potrebbe danneggiare quasi tutti gli Atenei. Del resto non è chiaro se in futuro il calcolo nella riattribuzione delle quote di premialità sul FFO privilegerà la ricerca (per due terzi) rispetto alla didattica (un terzo). E come è noto la produttività nella ricerca del nostro Ateneo è nettamente al di sopra dell’aliquota standard, con un trend in crescita nell’ultimo anno (in relazione alle entrate per la ricerca derivanti da fondi esterni sul totale delle entrate e delle borse per le scuole di dottorato).

Comunque non possiamo limitarci ad un’osservazione passiva, ma dobbiamo incidere in profondità con un miglioramento delle prestazioni che abbia un riflesso positivo sul versante delle entrate e con una politica di risparmi, che però non può comprimere esigenze reali e nascondere interventi che hanno forte rilevanza simbolica.

Occorre impegnarsi per trovare altre risorse, per reperire sul mercato prestazioni a pagamento, per allargare il bilancio dell’Ateneo. Sul piano formale si rende invece necessario procedere ad una profonda riforma organizzativa e funzionale, evitando che alcuni passaggi si riducano ad un mero adempimento formale: penso alla consultazione dei Dipartimenti e delle Facoltà al momento della stesura del documento di previsione contabile triennale. Una contabilità che consenta una doppia e integrata lettura di una stessa realtà eviterà duplicazioni di informazioni e di attività.

Un importante piccolo passo avanti è stato fatto qualche anno fa con la contabilità economica (con il piano dei conti patrimoniale e con varie attività di formazione del personale), mentre ora è tempo che il sistema di contabilità economico-patrimoniale abbia uno sviluppo autonomo. La commissione bilancio ha manifestato l’esigenza di un sistema informativo che faciliti la pianificazione delle risorse sia da un punto di vista finanziario (bilancio preventivo, finanziario annuale e pluriennale) sia da un punto di vista economico (bilancio COEP, budget economico/analitico).

Tutte le proposte di delibera che pervengono al Consiglio di Amministrazione dovranno avere il visto di legittimità ed il visto della copertura finanziaria da parte della ragioneria. Il bilancio deve essere pubblicato. Penso ad una rigorosa verifica dei residui, in modo da certificare i residui attivi di difficile esazione ed i residui passivi di minore entità, tenendo presente gli impegni da affrontare nei prossimi anni (vertenze giudiziarie in corso), anche in relazione a convenzioni sottoscritte come per la realizzazione del Polo agro-veterinario di eccellenza.

La responsabilità nella certificazione dei residui deve essere chiara e deve far capo ai singoli uffici ed ai singoli funzionari. Occorre arrivare ad una revisione del regolamento di contabilità che modifichi il processo di formazione del bilancio con un’audizione non formale delle strutture e dei centri di spesa.

Sul piano finanziario occorre adottare provvedimenti finalizzati a rispettare i vincoli sulla riduzione della spesa pubblica indicati nella legge finanziaria 2009, in particolare per incarichi e consulenze, la gestione degli organi, le autovetture, le spese per il personale, ecc. Occorre fissare limiti precisi nel prelevamento dall’avanzo di amministrazione, dettati da un criterio di prudenza e procedere rapidamente al recupero crediti in particolare di fronte alla Regione, all’Assessorato alla Sanità, all’ASL, all’AOU, ecc. Occorre ottenere un aggiornamento costante della relazione predisposta dall’Ufficio legale sui contenziosi in atto e sui prevedibili oneri a carico dell’amministrazione.

È necessaria la massima trasparenza nel fornire i dati ai componenti degli organi accademici, per migliorare il processo decisionale e per ottenere un affinamento degli obiettivi nel bilancio triennale.

Sul piano del metodo per la futura redazione del bilancio annuale e pluriennale, vista anche l’esigenza di avviare una razionalizzazione delle procedure, si precisa che i documenti di programmazione non possono essere redatti in un’ottica semplicemente contabile, ma devono tener conto degli indirizzi ministeriali per la programmazione triennale e degli orientamenti della CRUI; la predisposizione di tali documenti, dunque, deve essere il frutto di un processo al quale partecipano i diversi soggetti che hanno responsabilità di indirizzo e gestione in Ateneo; nello specifico è necessario anzitutto individuare gli obiettivi strategici concordati dagli organi accademici e derivati dai programmi in corso di realizzazione.

In seguito, occorre declinare gli obiettivi operativi (legati alla ricerca, alla didattica e a tutte le attività di supporto) per l’anno di riferimento e per il triennio, individuando parallelamente le azioni più consone, tenuto anche conto degli indicatori e dei meccanismi di premialità e sanzione introdotti dal Ministero dell’Università e della Ricerca.

È indispensabile attivare un processo che coinvolga efficacemente alcuni attori d’Ateneo: responsabili scientifici ed amministrativi di strutture didattiche e di ricerca e responsabili di uffici amministrativi.

È altresì cruciale intensificare l’attività di monitoraggio continuo e controllo di gestione a livello di Ateneo e di singoli centri di responsabilità.

A questo scopo occorre procedere rapidamente all’istituzione di un ufficio programmazione, bilancio, controllo di gestione, con una pianta organica rinnovata.

Deve inoltre proseguire il confronto avviato dal Gruppo di lavoro nominato dalla Conferenza permanente dei Direttori dei Dipartimenti in relazione alla nuova struttura dei Centri autonomi di spesa, alla Revisione del Regolamento per la finanza e la contabilità, alla riduzione del numero dei Dipartimenti: tali temi sono pregiudiziali ad ogni futuro intervento sul bilancio che deve escludere tagli “a pioggia”, salvaguardando le iniziative di qualità e combattendo la frammentazione della spesa.