Giovanna Rabitti: introduzione.

Giovanna Rabitti

Introduzione

L’intento di chi ha promosso questo volume di studi è innanzi tutto quello di coltivare e onorare il ricordo di Giovanna Rabitti, che è stata docente alla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere della nostra Università fino alla sua prematura scomparsa nel 2008. La ricordiamo oggi con rimpianto e con affetto, pensando al suo straordinario contributo nei primi anni di una Facoltà in formazione, alla sua personalità intellettuale,  alle sue curiosità ed alle sue passioni; e insieme alla sua rigorosa ed originale produzione scientifica  centrata principalmente ma non esclusivamente  sulla poesia lirica e altri generi del secolo  XVI.

A nome dell’Università di Sassari desidero ringraziare tutti coloro che hanno voluto  questo volume e gli autori dei contributi, gli amici e le amiche, i colleghi e le colleghe appartenenti a varie Università (da quelle che sono state le sue, Sassari e Firenze, fino a quelle di Padova e di Roma), quasi tutti operanti nell’area dell’italianistica.

Il “criterio” secondo il quale si articola il volume è la fedeltà agli ambiti e agli argomenti di ricerca di Giovanna. Ciascuno e ciascuna ha preso spunto infatti dalla bibliografia dei suoi studi e ha scelto e approfondito uno dei suoi autori, generi letterari e temi prediletti. Il montaggio ha rispettato l’ordine cronologico degli argomenti.

In apertura è un ritratto di Giovanna Rabitti come studiosa, filologa e interprete dei testi letterari: un ritratto intellettuale e intimo insieme, disegnato da chi è stato per lei un caro amico e un giovane maestro, quale Riccardo Bruscagli.

Laura Fortini affronta quindi con un taglio molto singolare il campo, estremamente caro a Giovanna, della scrittura epistolare femminile, partendo da Chiara d’Assisi, attraversando il Quattro-Cinquecento in cui risplendono i nomi di Alessandra Macinghi Strozzi, Chiara Matraini e Vittoria Colonna, fino ad arrivare alla contemporaneità rappresentata dal carteggio fra Hannah Arendt e Mary McCarthy.

Gianni Venturi affonda nel Rinascimento, stagione elettiva degli studi di Giovanna, attraverso la figura esemplare di Ludovico Ariosto e il tema del ritratto, letterario e pittorico. Omaggio all’autore dell’Orlando furioso ed excursus nella grande pittura italiana, il saggio è altresì un’importante tessera aggiuntiva al mosaico degli studi sull’ecfrasi, tema sul quale Giovanna si è cimentata con successo.

Monica Farnetti sceglie Gaspara Stampa a testimone della lirica cinquecentesca, alla quale Giovanna ha dedicato a più riprese le sue energie, e di quella femminile in ispecie: argomentando a favore di una viva presenza di Dante, più significativa anche se meno vistosa di quella di Petrarca, fra le fonti del cosiddetto petrarchismo.

Adriana Chemello si concentra sul rapporto fra Giovanna e la poetessa cinquecentesca che ha costituito il suo esordio di filologa, Chiara Matraini, e che l’ha poi accompagnata lungo l’intero corso della sua carriera. Della poetessa lucchese si riattraversa tutta l’articolata produzione – dalle Meditazioni alle Rime alle Lettere ai Dialoghi spirituali -, mentre della sua studiosa di elezione si ripercorrono tutte le maggiori intuizioni e i più felici risultati di indagine.

Luigi Matt discute dei Viaggi di Pietro Della Valle, sontuosa e ultima fatica editoriale di Giovanna, in termini di lingua e stile, affrontando il delicato rapporto fra toscano e romanesco che connota l’opera dello scrittore secentesco collocato senz’altro in posizione dissenziente rispetto alle linee-guida dettate all’epoca dall’Accademia della Crusca.

Con Anna Dolfi entriamo nel territorio degli studi della Rabitti ottocentista, e l’attenzione si appunta al suo encomiabile lavoro di editrice e interprete dei Canti di Leopardi: un lavoro che ha comportato per lei l’attraversamento della selva della bibliografia leopardiana ma nondimeno la possibilità di tracciarvi un sentiero esegetico preciso e sicuro.

Mentre con Laura Luche visitiamo il Novecento e il felicissimo genere letterario del racconto poliziesco, di cui Giovanna è stata, oltre che studiosa, avida lettrice. Il genere è rappresentato qui in modo inatteso da un autore quale Garcia Márquez, il cui romanzo Cronaca di una morte annunciata è letto secondo un’ottica interpretativa singolare quanto convincente.

La bibliografia degli studi di Giovanna Rabitti, aggiornata a questa data, chiude il volume, nutrito e accompagnato da un inestinguibile affetto e da una sempre ugualmente dolorosa nostalgia.

Sassari, Pasqua 2011

Attilio Mastino




Francesca Amalia Grimaldi a Sassari

Francesca Amalia Grimaldi a Sassari

Presentare la produzione di Francesca Amalia Grimaldi, affettuosamente sollecitato dall’Assessore comunale alla cultura Dolores Lai, significa per me riflettere sull’originale percorso di un’artista che  incanta, capace di commuovere e di coinvolgere; significa farsi trascinare dolcemente in un mondo colorato di nostalgie, di rimpianti, di melanconie, ma anche di sogni nuovi.

C’è un prima e c’è un dopo nell’esperienza artistica ed umana dell’artista, che prepotentemente si manifesta in questa mostra che presenta innanzi tutto i lavori a carattere prettamente figurativo, realizzati con tecniche miste, pastelli a olio e acquarelli, acquarelli e tempere. Ci sono le marine, le abbaglianti dune di sabbia macchiate dal verde dei cespugli e dal rosso dei fiori dell’armenia pungens, dai ginepri piegati dal vento, soprattutto dalle ombre lunghe che annunciano la sera. Animate dalle barche sfondate, quasi nascoste nella sabbia, dai casotti cadenti, dalle baracche solitarie, dalle vele; con la schiuma del mare, un mare che spesso si confonde con la spiaggia, come durante un temporale, con un cielo talora plumbeo oscurato da tante ombre minacciose, dalle nubi che cadono fino a sfiorare la terra, e che però è attraversato da una luce sfolgorante.  Ci sono i luoghi che amiamo, tra Alghero, Fertilia, Maria Pia, le coste di Capo Marrargiu, Porto Ferro, Rena Majore ad Aglientu con i suoi stranissimi alberi colorati; ci sono sullo sfondo i monti, e all’interno della Sardegna il lago di Gusana, le querce secolari dell’antica Sorabile a Fonni, i colori dell’autunno che macchiano e rendono rossastri gli alberi, che caratterizzano in modo inconsueto anche il terreno di una campagna senza figure umane, solitaria e remota, ma anche desiderata e rimpianta.

Quasi con una predizione, Antonio Romagnino ha parlato del fascino di una pittura che annuncia una tempesta imminente.

E poi, in piena discontinuità e con sorpresa,  la sua ultima produzione che abbandona i temi figurativi e si concentra sulle nuove frontiere dell’astratto: una produzione nata da uno studio e da una ricerca  personali effettuati in questi ultimi anni, nel campo della pittura espressionista contemporanea, con richiami, citazioni, riflessioni,  ma anche con una forte originalità, basata su tecniche inconsuete, che esprimono il proposito di semplificare la realtà, di renderla lineare: così ,  Alghero, la città incantata tra cielo e mare, quasi cristallizzata, vista dalla strada che arriva da Bosa, che ricorda il titolo e le atmosfere di un celebre romanzo di Giulia Clarkson.

In queste opere esplode la creatività dell’artista;  le forme, le linee e il colore sono dominati dalla esigenza di giungere alla manifestazione delle emozioni interiori. Questi elementi vengono caratterizzati dalla deformazione e dalla esasperazione di linee su grandi campiture nere con un linguaggio che si avvale, nel contempo, di una contrastata sintesi disegnativa e una grande valenza cromatica, spesso con un richiamo ai più celebri blues.

Il colore, a tratti molto intenso, viene applicato con molta energia su vaste tele, perché il limite dello spazio non abbia a ridurre la libertà del gesto creativo, con procedimenti tecnici talvolta coincidenti con la “pittura d’azione” (action painting). Si può definire perciò, questo tipo di pittura, come “istintiva”:  la pittrice si sente libera dal preconcetto di sapere ciò che possa dar vita o senso ad un buon quadro, dunque deve obbedire in modo informale solo al suo istinto e al sapiente gesto pittorico che tale istinto guida.

Se c’è un fil rouge che unisce e accompagna tutta questa produzione così diversa ma così riconoscibile, è l’eleganza, la misura, il nobile distacco, che sanno dare sensazioni profonde e sanno parlare con dolcezza al cuore. Con gusto e sapore di vita vera.

Attilio Mastino




Artisti e Letterati: Gianni Fois.

ARTISTI E LETTERATI

Gianni Fois

di Attilio Mastino

Gianni Fois, nato a Bosa il 6 marzo 1943, ha vissuto da sempre nel centro storico di Bosa, nel cuore del borgo medievale, dove più sentite e più gelosamente custodite sono le antiche consuetudini cittadine.

Il suo orizzonte è quello che va dal mare di Capo Marrargiu alla torre di Columbargia, dalla valle del Temo alle verdi colline di Nigolosu: qui ha costruito il suo rifugio, la sua casa solitaria, la sua finestra sul golfo di Bosa, al centro della campagna curata con passione per tutti i mesi dell’anno. La vigna di Santa Lughìa è un po’ il luogo mitico nel quale ha trascorso la sua fanciullezza, dove ancora ritorna periodicamente per ritrovare se stesso, per tornare indietro nel tempo, per ricaricarsi e superare le difficoltà, con un atteggiamento positivo ed aperto verso la vita.

Dagli studi classici gli deriva la passione per la ricerca e per il recupero delle tradizioni popolari locali, delle quali spesso è diventato animatore fedele ed appassionato.

Incline per natura al contatto con la gente, facilitato in questo anche dal suo lavoro di funzionario comunale, ha trovato nell’incontro con gli anziani la fonte di tante notizie e di tante informazioni, che rischiavano di andare perdute per sempre. Da questi interessi e da questo instancabile rapporto con la sua città è scaturito il volume Nostra Signora di Regnos Altos. Fede, storia, leggenda, che entrerà sicuramente in tutte le case di Bosa perché la devozione per la Madonna è patrimonio comune di ogni bosano: del resto il castello dei Malaspina con la vetusta chiesa di Regnos Altos fa parte integrante della storia ed anche della vita quotidiana di questa antica città fluviale.




Billia Muroni, Storia di Bosa e Planargia.

Billia Muroni, Storia di Bosa e Planargia.

di Attilio Mastino

È un piacere per me parlare di Billia Muroni, ricostruire il suo percorso di politico, di insegnante, di studioso, di amico partendo da questo suo libro pubblicato dall’Editore Zonza. Uscito ad un anno di distanza dalla morte, compensa in parte il vuoto che Billia ci ha lasciato: il volume è stato stampato dalle grafiche Ghiani di Monastir, lo stesso tipografo che nel 1988 ha pubblicato Gente di Planargia, con in appendice le voci relative ai 10 comuni della Planargia scritte da Vittorio Angius per il Dizionario del Casalis.

Nato a Tresnuraghes nel 1948, Billia ha frequentato il seminario vescovile e si è poi iscritto alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari, vivendo da protagonista il ’68, un’esperienza straordinaria che avrebbe segnato le sue scelte politiche successive. Aderisce inizialmente al gruppo del Manifesto e poi fonda assieme a Salvatore Ganga la sezione del Pci di Tresnuraghes, di cui è stato il primo segretario. In polemica col settimanale cattolico “Libertà” (al quale invece io collaboravo) pubblica all’inizio degli anni ’70 una lettera aperta agli studenti del Liceo Classico di Bosa nel momento dello scontro animato dal prof. Sfara, un rivoluzionario sui generis. Eletto nel consiglio comunale di Tresnuraghes in una lista civica di sinistra, è stato tra il 1980 e il 1983 consigliere comunale di opposizione, più volte candidato alle elezioni provinciali per la nuova provincia di Oristano. Nella scuola, nelle attività di sperimentazione, nell’impegno contro la dispersione scolastica, diede il meglio di sé, collaborando per anni con la attivissima preside della Scuola Media n. 2 di Bosa Emma Contu e con molti altri nostri colleghi che anche oggi, a distanza di un anno dalla morte, lo vogliono ricordare, con il suo sorrispo aperto e leale ed il suo entusiasmo, con la sua sensibilità e il suo senso profondo dell’amicizia.

La sua complessa vicenda politica e personale non può però essere compresa senza pensare al vero elemento di continuità che ha caratterizzato la vita di Billia Muroni, il volontariato nelle associazioni cattoliche giovanili, la parrocchia, lo sport come servizio sociale (nel Csi), la radio: l’impegno non convenzionale per gli emarginati, per i giovani, per i poveri, un impegno vissuto coerentemente come scelta di vita e come il canale attraverso il quale Billia per anni è entrato in contatto diretto con la sua gente, che oggi lo piange.

Il titolo di quello che possiamo ritenere il capolavoro di Billia, Gente di Planargia, indica bene anche nel sottotitolo, «Religione, politica e cultura dalla fine del Settecento al primo Novecento», i tre campi specifici di un impegno, che è stato di vita vissuta prima ancora che di ricerca nei polverosi archivi locali dei nostri paesi e della nostra città.

Anche il volumetto dedicato al Tesoro di San Marco è frutto di una ricerca lunga ed accurata negli archivi della parrocchia di Tresnuraghes, con attenzione per le tradizioni popolari, per l’associazionismo delle confraternite, per gli aspetti più profondi e reconditi di una fede popolare vissuta come momento fondamentale della comunità, come elemento essenziale per definire l’identità di un gruppo, di un paese, di una micro-regione come questa Planargia così compatta ed omogenea dal punto di vista geografico, linguistico, culturale ed economico eppure – sono parole di Billia – perennemente smembrata, alla ricerca ciclica più o meno convinta di un’unità politico-amministrativa universalmente conclamata ma mai concretamente attuata, almeno nei tempi lunghi.

Anche nelle altre opere di Billia (Bosa: Immagini tra mito e storia, in collaborazione con V. Mozzo, S. Flore, ed. Delfino, Sassari 1993) c’è un elemento che appare veramente tipico del personaggio e un po’ spiega molte delle sue scelte e molti dei suoi atteggiamenti: Billia era convinto che in epoca medioevale e moderna, ma ancora ai nostri giorni, esiste una centralità della Chiesa nella vita dei villaggi della Planargia. Così si spiega perché l’archivio parrocchiale diventa il punto di vista privilegiato per la ricostruzione storica, da integrare con documenti degli altri archivi, ad iniziare dall’archivio vescovile o dall’archivio comunale di Bosa o dall’archivio di Stato di Cagliari. Questo volume, dedicato alla storia di Bosa e della Planargia, rappresenta certo un passo in avanti significativo sul piano della ricerca rigorosa con una conoscenza accurata della bibliografia più recente (sono citati oltre 80 titoli di lavori specialistici di carattere generale) e con l’obiettivo di offrire finalmente un’opera accessibile anche sul piano del linguaggio agli studenti delle Scuole Medie e dei Licei, impreziosita da una splendida documentazione fotografica curata da Gianflorest Pani.

Già il titolo, Bosa e Planargia, quasi incatenate insieme, indica la volontà di chi osserva il territorio da un punto di vista particolare, dal villaggio più remoto della Planargia, la volontà cioè di cercare una strada per riaffermare la centralità di Bosa ed il rapporto della città del Temo con l’ambiente circostante e con i diversi comuni della Planargia.

Billia sapeva bene che la causa dell’isolamento di questo territorio e del frazionamento delle nostre comunità è soprattutto da ricercarsi nei condizionamenti, nei limiti e nella prospettiva della gente di Bosa, un capoluogo che spesso ha rinunciato alla sua funzione di coordinamento e che si è ripetutamente ripiegato su se stessa. Recentemente Giovanni Sistu, in alcune tra le più belle pagine scritte su Bosa, nel volume pubblicato sulle città dell’isola dal Banco di Sardegna, è riuscito a spiegare questo aspetto della storia di Bosa, richiamando quel “senso di insularità” che un noto studioso inglese riscontrava nelle comunità medioevali chiuse dentro le mura, delle quali sottolinea l’importanza psicologica. Per Bosa questo senso di insularità è una costante storica, che persiste al di là della scomparsa delle mura, della demolizione dell’elemento fisico dell’isolamento.

Altrove Muroni ha parlato di Bosa come di una nobildonna decaduta; io credo che anche lui condividesse però il giudizio sulla diversa qualità dello sviluppo civile di questo centro, nei suoi rapporti con il territorio circostante, che ha profondissimi elementi di identificazione ed ha marcati segni di identità, risultato di una storia lunga, che ciascuno di noi è consapevole di portarsi dietro, con una rete di rapporti, di relazioni e di eredità che rappresentano veramente la ragione per la quale noi per Bosa parliamo di città e di ambiente urbano, anche quando la crescita demografica presenta – come oggi – un saldo negativo. Anche quando i monumenti si sbriciolano, come in questi giorni la Cattedrale, proprio nell’anno del Grande Giubileo.

Billia Muroni ha tentato di procedere con l’esperimento che Tonino Oppes aveva pensato dieci anni fa con il volume Planargia: ha tentato di estendere l’identità del territorio e della comunità al di là delle mura di cinta, nei paesi e nelle valli per le quali – all’incontrario – Bosa da sempre è stata un punto di riferimento, come capoluogo, come sede del vescovo, come centro caratterizzato dai monumenti e da un’edilizia civile di qualità, come luogo di formazione per generazioni di studenti. E dunque questa proiezione di Bosa al di là delle sue mura ci proietta fino a Montresta ed a Modolo, enclaves nell’antico territorio comunale; fino a Suni, Tinnura, Flussio, Magomadas e Sagama, sull’altopiano basaltico della Planargia; ma anche fino a Sindia, al confine col Marghine, ed a Tresnuraghes, in provincia di Oristano, in un’area di confine che ha perso da tempo i contatti con Padria e con Pozzomaggiore.

Con questo volume Billia ha tentato di dirci che Bosa deve superare il suo isolamento, senza perdere la sua identità, i suoi monumenti ed il suo paesaggio; mantenendo anzi il clima, l’atmosfera, la rete di sentimenti e di sensazioni di un piccolo mondo articolato e al suo interno straordinariamente complesso, dal quale la Planargia non vuole rimanere estranea.

Prima ancora che di storia, questo è un libro di geografia: Billia conosce l’importanza della geografia nella storia e ritiene che il fiume, il mare, l’altopiano e la montagna abbiano profondamente condizionato le forme dell’insediamento umano, le dimensioni stesse delle case e delle barche, che sono rapportate alla ricettività degli approdi portuali, alle forme della linea di costa, ai fondali ricchi di corallo e di pesci.

È la geografia che condiziona il bizzarro percorso della ferrovia, che sembra studiato per unire tra loro i comuni della Planargia.

È la geografia che spiega molte caratteristiche del popolamento e molte attività economiche, le miniere, le antiche gualchiere sul rio Mannu, le concerie, i mulini, fino alla cantina sociale di Flussio. Ma anche la pastorizia e l’agricoltura nella valle del Temo.

Il confine meridionale del territorio è rappresentato proprio dal rio Mannu e dalla sua foce a Foghe, ai confini con Sennariolo e con Cuglieri, ai margini dell’altopiano di Oddine sul quale dieci anni fa il prof. Carlo Tozzi (ora all’Università di Pisa) svolse gli scavi archeologici che ci hanno fatto conoscere forse il più antico sito del primitivo insediamento umano già nel Neolitico antico, quasi 8000 anni fa, un’officina litica seminomade insediata sulle dune di sabbia create dal vento sull’altopiano.

Oggi possiamo dire che il sito di Torre Foghe, al margine meridionale della Planargia, deve aver avuto un ruolo fondamentale nei meccanismi di diffusione dell’ossidiana sarda e deve essere stata una delle tappe attraverso le quali l’ossidiana del Monte Arci veniva trasportata verso la Sardegna settentrionale e la Corsica. Sono oltre 2500 i pezzi rinvenuti, con scarti di lavorazione ma anche con circa 600 strumenti e manufatti in ossidiana, che si aggiungono all’industria litica in selce, ai ciottoli di fonolite del Monte Ferru, adattati alle attività agricole.

Nel volume vengono presentati gli ultimi studi sul Neolitico recente, sulle domus de janas come i furrighesos di San Marco a Tresnuraghes, immaginati come labirinti terribili e misteriosi, alle domus di Silattari e di Coronedu a Bosa, fino alle pietre fitte come il bètilo di Pischina ’e Nassa ancora a Tresnuraghes. E poi l’Età del rame, con la muraglia megalitica di S’Albaredda sull’altopiano di sa Sea o come a san Bartolomeo di Flussio. E poi l’Età del bronzo antico, con i nuraghi a corridoio come a Lighedu od a Seneghe a Suni o come a Mulineddu a Sagama. E la grande civiltà nuragica, che proprio nell’area meridionale della Planargia ci ha conservato testimonianze imponenti: il nuraghe Nani, il sistema difensivo sul rio Mannu, gli altri 22 nuraghi elencati nel territorio di Tresnuraghes, che si aggiungono ai 78 nuraghi censiti da Alberto Moravetti per il resto della Planargia: 100 nuraghi in tutto, che hanno una densità notevole, superiore a quella dell’intera Planargia. E poi le “tombe di giganti”, come quelle di Martine o di Pischina ’e Nassa, i templi a pozzo, come Puttu a Magomadas, i bètili. E poi l’età fenicio-punica e romana nel retroterra di Bosa, gli scavi di Marco Biagini a Santu Nigola, a Santu Maltine ed a San Giovanni, presso l’antica Magomadas; gli scavi di Antonietta Boninu a San Bartolomeo di Flussio, di Marcello Madau a Sagama ed a Suni, di Maria Chiara Satta nella villa catoniana di S’Abba Drucche a Bosa, i latifondi sul rio Mannu, con i cippi che forse conservano traccia della rivolta di Ampsicora contro i Romani, i popoli africani e sardi rimasti su questo territorio, i Giddilitani, i Muthon, gli Udaddadar, che immaginiamo sconfitti assieme ad Annibale e condannati in età repubblicana a servire nelle terre tra Bosa e Cornus che sarebbero appartenute più tardi alle ricche Numisiae. E accanto alla storia, il mito e le leggende: la vicenda di Calmedia, che giustamente Billia ritiene più antica della falsificazione delle Carte d’Arborea alla metà dell’Ottocento; i toponimi misteriosi, come Porto Alabe con la fontana di zia Pòlita o Su Tìppiri, parola punica per indicare il rosmarino, miracolosamente sopravvisuta nel tempo. L’età romana, tra l’Hermàion akron, il Capo Mercurio, l’attuale Capo Marrargiu, e la foce del fiume Olla a Foghe, ai margini settentrionali del territorio di Cornus, a sud delle foci del Temo e del municipio romano di Bosa, è documentata ad esempio dal bellissimo timbro di bronzo con l’immagine dell’imperatore Caracalla trovata da un pastore di Tresnuraghes oppure dall’ancora di Turas che forse ci testimonia la presenza di un navicularius, L. Fulvius Euthichianus, un appaltatore del trasporto di grano, con proprietà a sud del rio Mannu ed in Sicilia.

Billia Muroni ricostruisce il percorso della strada romana direttissima che collegava Cornus a Bosa, “Su caminu ’osincu”, che superava il rio Marafé a Su ’adu ’e su pische (al ponte Sa Fabrica) e dopo aver lambito le falde occidentali del colle Santa Vittoria, attraversava il rio Mannu, costeggiava i nuraghi Nani e Maltine e toccava l’attuale Tresnuraghes, dove non è escluso si possa trovare qualche miliario romano.

La successiva età bizantina è oggi testimoniata paradossalmente dalla malvasia, prodotta nel territorio a denominazione d’origine controllata, ma anche dalle chiese, come dalla chiesetta della Vergine d’Itria a Tresnuraghes, dai santuari, dalle statue, tracce di una devozione orientale documentata dal culto per l’imperatore Costantino. E poi il Medioevo giudicale, la splendida figura di Marcusa de Gunale, nata a Bosa Manna, moglie del giudice di Torres Costantino e madre del giudice Gonario, fondatore dell’abbazia di Nostra Signora di Corte a Sindia; il monachesimo a sant’Ippolito di Sirone, a Caravetta a Bosa, a San Pietro di Scano Montiferro, i Cistercensi ed i Benedettini. Proprio la storia di Marcusa de Gunale, del figlio Gonario e del nipote Barusone, distruggendo il mito di Calmedia, ci parla del momento in cui Bosa Vetus cominciò a coesistere con la nuova Bosa che già si costruiva sotto la protezione del castello. Ci parla di una Bosa Manna amministrata secondo gli ordinamenti giudicali e di un’altra città, più recente, Bosa Nuova, regolata dal marchese dei Malaspina forse già secondo ordinamenti di tipo pisano.

E insieme la curatoria di Frussìa e la successiva curatoria di Serravalle, definita per la prima volta da Billia sulla base dei documenti conservati dal 1341 presso l’archivio della Curia vescovile di Bosa: la Planargia con le sue 12 ville, tra le quali Forssiu, Modol valle, Tribus Noragis o Noraquis, ma anche alcuni centri oggi abbandonati, almeno quattro: Morgeterio o Mogultera presso Montresta, così come Suttamonte, Trigano presso Sagama (o Noraghes de Trigano), Oinu presso Sindia.

E poi la Planargia arborense, Giovanni de Bas Serra imprigionato a Bosa, suo fratello, il giudice Mariano IV, l’ostilità per i Catalani, Bosa che diventa il centro di raccolta e di comando di tutte le forze sarde anti-catalane, gli affreschi che ora Billia attribuisce al vescovo francescano Ruggero Piazza ed al 1360 durante il regno di Mariano IV, infine Ugone ed Eleonora e la pace di Barcellona del 1388 con Giovanni I il Cacciatore; per Eleonora a Tresnuraghes giurarono il maiore de villa Toma de Simala ed i giurati De Logu, Serra, Solinas, de Roma, Sotgiu; e gli abitanti Penna e Seche.

La storia catalana della Planargia inizia con quasi un secolo di ritardo, dopo il naufragio delle forze arborensi e la sconfitta a Sanluri dell’ultimo giudice Guglielmo, per opera di Martino il giovane, con l’assedio di Bosa del 1410 deciso soprattutto dai cannoni catalani per la prima volta usati in Sardegna. Sei anni dopo Trenorachs contava appena 25 famiglie e 100 abitanti, segno di una crisi dovuta alle devastazioni della guerra.

L’epoca catalano-aragonese e spagnola fino alla baronia è oggi meglio conosciuta grazie soprattutto agli studi di Cecilia Tasca ed ai documenti ritrovati attraverso l’archivio del Comune di Bosa: ma ancora un anno fa Billia si interrogava sul contrasto tra la città reale, Bosa, che si vede riconoscere gli antichi privilegi, e la Planargia, controllata militarmente dal feudatario e dal castellano, sottoposta ad esazioni ed a tributi spesso intollerabili. Il feudo del Castello comprendeva 8 ville, inclusa Trigano ormai quasi spopolata. Quindi il ruolo dei Villamarì, la baronia, il porto, la raccolta del corallo, la conferma degli antichi privilegi per la città regia, i diritti doganali, la costruzione delle torri costiere, la rinascita di una comunità che espresse alcune delle figure centrali del ‘500 isolano, il canonico Gerolamo Araolla, il poeta Pietro Delitala, amico di Torquato Tasso, per non parlare di Giovanni Francesco Fara, vescovo per pochi mesi nel 1591, che rappresenta il vertice di quell’umanesimo tardo che in Sardegna si sviluppò alla fine del XVI secolo.

Billia Muroni presenta con brevi schede queste grandi figure, ma entra forse per la prima volta nella vera storia della Planargia, affrontando i temi sociali, gli aspetti economici, le sopraffazioni e gli abusi degli ufficiali regi, ma anche le malattie, come la malaria, le pestilenze, la mortalità infantile, il malcostume del clero, la stregoneria, le eresie, le vendette personali, l’attività dei tribunali dell’Inquisizione, il contrabbando, l’esercito, gli atti di eroismo e di vigliaccheria, i barracelli, la nascita della nobiltà locale. E ancora i pirati saraceni e le vicende dello stendardo sequestrato dal ventenne di Tresnuraghes Giovanni Maria Poddighe nel 1684 e conservato a Magomadas: episodio che dimostra l’incapacità delle autorità spagnole di proteggere la costa, anche dopo la costruzione delle torri costiere, di Foghe, S’Ischia Ruggia, Columbargia, la torre del porto di Bosa e Torre Argentina, tutte collegate al Castello.

E poi il risveglio della chiesa post-tridentina, la fondazione del Seminario ad opera dei Gesuiti, le confraternite in Planargia ed i gremi dei sarti, dei calzolai e dei fabbri a Bosa; argomenti ai quali Billia in passato ha dedicato studi preziosi.

A partire dal ’700 Billia Muroni può utilizzare più ampiamente la documentazione da lui stesso scoperta e pubblicata alcuni anni fa nel volume Gente di Planargia: il riformismo sabaudo, la colonia dei Greci a Montresta, Greci massacrati in pochi decenni dai pastori bosani, la fine del feudo della Planargia, l’esproprio e l’inventario dei beni posseduti dai feudatari, come a Luzanas, a Sa Mandra ’e sa Giua, a Su Lacchedu, a Pianu Idili, a S’Olia in territorio di Tresnuraghes. La fine dei diritti feudali, il feu in grano, il diritto di gallina pagato solo dagli ammogliati, che forse sostituì l’arcaico ius primae noctis, il tributo agricolo Llaor de corte, il vino mosto, il deghino, il segno porci, il diritto di 21, il bue de carrarzu, i diritti per il formaggio, la lana, le fornaci, i branchi di maiali, l’orzo, la semina nei terreni demaniali, ecc.

Billia studia la ripartizione dei territori dei villaggi in vidazzoni per la coltivazione comunitaria e paverili per il pascolo, come nel Marrargiu di Tresnuraghes, o a S’Ena oppure a Pischinas di Magomadas ed a Sirone di Suni.

È possibile così comprendere le ragioni dei ripetuti disordini, i commovimenti, le agitazioni come i moti del grano di Sindia del 1790, la rivolta di Bosa tre anni dopo, la cacciata dei Piemontesi del 1794, le proteste antifeudali di Suni del 1795, l’adesione di Tresnuraghes alla rivolta di Giommaria Angioy del 1796, la repressione militare dei disordini affidata ai nobili bosani don Francesco Marcello, Gavino Passino, il conte Enrico Piccolomini e gli stessi canonici della cattedrale di Bosa, ansiosi di mantenere gli antichi privilegi e guidati dal vicario diocesano can. Borro, fratello della marchesa della Planargia. Muroni studia soprattutto la storia dei vinti, la tragica storia dei seguaci locali dell’Angioy, gli sfortunati sostenitori delle riforme e della democrazia, schiacciati dalla feroce repressione sabauda, come i fratelli Rocca, don Salvatore Virdis Deliperi, capogiurato della consiglieria cittadina, don Pietro Uras, suo vice, Giommaria Tolu, il notaio di Tresnuraghes Giuseppe Sias, i Delitala di Sindia, i Dettori di Suni, compreso il delegato di giustizia.

È interessante osservare che una percentuale altissima dei sacerdoti documentati tra i rivoluzionari proveniva dalla diocesi di Bosa: Muroni elenca 14 sacedoti, tutti attivamente schierati con l’Angioy. Raimondo Turtas ha tentato una spiegazione, ricordando che tanti sacerdoti aderirono alla rivolta forse maturando questa decisione nell’esperienza diretta della cura animarum, in un’area geografica, la Planargia, dove il disagio, la fame, la povertà e le malattie dovevano essere arrivati a livelli di terzo mondo, dove i fedeli dovevano essere quotidianamente oppressi dalle angherie baronali.

L’Ottocento vede Bosa capoluogo di provincia, sede di prefettura e di comando militare di piazza: con il restauro della cattedrale di Bosa e con la fabbrica della chiesa di San Giorgio a Tresnuraghes inizia in Planargia una serie di opere pubbliche che consentono a Muroni di parlare di “risorgimento planaregese”, dopo la svolta radicale determinata dall’editto delle chiudente e dalla fine del feudo. Sono gli anni della cartiera sul rio Mannu e più tardi dei numerosi caseifici.

Billia si sofferma ad illustrare la storia meno nota, come il naufragio nella località Sa barca isfatta della nave spagnola Vencedor, armata di 74 cannoni, il cui relitto è stato localizzato sulla spiaggia di Columbargia. E poi le vicende della scuola a Bosa ed in Planargia ed alcune figure significative, come l’avvocato Gavino Fara, il cav. Luigi Passino, primo deputato al Parlamento subalpino dopo la «perfetta fusione» della Sardegna con gli Stati di terraferma e la rinuncia all’autonomia parlamentare. Il generale Agostino Fara, eroe di Peschiera e di Novara, il can. Gavino Nino, tra i protagonisti della falsificazione delle Carte d’Arborea, un vero romanzo storico, la cronaca di una nazione inventata. Il garibaldino Giuseppe Dettori della brigata «Bixio». Sono proprio queste figure ad introdurre il tema della sardità e della nazione sarda nel dibattito risorgimentale, quando si incontrarono secondo Giovanni Lilliu l’arcaica Sardegna stamentaria e l’idea dell’Italia unita.

Trattando del processo che porterà all’unità d’Italia, Billia Muroni presenta le grandi figure che svilupparono in Planargia la cultura della sardità e insieme il dibattito risorgimentale. Mentre bande armate continuavano a scendere dal Montiferru arrivando a depredare nel 1867 l’esattore delle imposte di Tresnuraghes e compiendo impunemente bardane e grassazioni, l’avv. Luigi Canetto iniziava la sua battaglia per una democrazia più matura, candidandosi alla Camera e scontrandosi con l’ex ministro della Marina mercantile Efisio Cugia, espressione della destra più reazionaria. L’avv. Canetto, repubblicano convinto, massone, anticlericale, si batté per promuovere profonde trasformazioni culturali, morali ed economiche, fondando un giornale ed impiantando sul Monte Minerva a Villanova una moderna azienda zootecnica, con animali importati dalla Svizzera. Fu lui a fondare a Tresnuraghes nel 1889 la Società operaia di mutuo soccorso, divenendone presidente onorario, non vigilando sull’autonomia degli operai, perché «il popolo non ha bisogno di direttori spirituali né temporali, il popolo sa dirigersi da sé; anzi deve dirigersi da sé, non deve lasciarsi dirigere da nessuno».  Sua figlia Maria, come è noto, avrebbe sposato Carlo Bakunin, il figlio del rivoluzionario russo Michele.

La vicenda del porto di Bosa rende bene la delusione post-unitaria, anche se la fine dell’Ottocento registra un risveglio culturale segnato dalla nascita delle Società operaie di mutuo soccorso e dalla pubblicazione nella tipografia vescovile dei giornali L’imparziale, Il Temo, La nuova Bosa, La Sentinella Bosana, titoli che ci portano agli anni successivi alla domenica di sangue ed alla rivolta popolare del 14 aprile 1889, studiata nel bel volume di Antonio Naitana, che Billia non ha potuto leggere.

La crisi di fine secolo è testimoniata nei canti di Giovanni Nurchi e di Sebastiano Moretti a Tresnuraghes, vero e proprio megafono – sono parole di Muroni – del pensiero diffuso tra larghi strati della popolazione più emarginati.

L’età giolittiana apre il periodo dell’emigrazione in America Latina, con esperienze straordinarie e drammatiche, mentre nel primo dopoguerra si afferma in Planargia il sardismo antifascista. Al gruppo di sardisti passati al fascismo aderì il poeta Sebastiano Moretti, che aveva già promosso, appena rientrato a Tresnuraghes, dopo un esilio ventennale, l’apertura della prima sezione planargese del fascio fin dal dicembre 1922, con un centinaio di iscritti.

Il volume si chiude con la cronaca più recente: la figura di Palmerio Delitala fondatore del Partito popolare e poi nel secondo dopoguerra della Democrazia Cristiana, i fratelli Melis, Melkiorre e Federico, ai quali recentemente è stata dedicata una mostra al Padiglione dell’artigianato di Sassari, ma anche Pino, elegante illustratore, ed Olimpia, con la sua azienda per la produzione del filet.

Il volume prosegue mettendo in evidenza le grandi figure di politici e di studiosi e di artisti espresse dalla Planargia, seguendo il processo di profonda trasformazione vissuto dal territorio, fino alla difficile rinascita ed agli anni dell’autonomia regionale e dello sviluppo turistico, quando la sociologa americana Carol Counihan ha potuto illustrare il processo di omologazione e di perdita dell’identità, l’impatto che la modernizzazione ha avuto sui modi di vita tradizionali, ai quali Billia guardava con ammirazione e con rimpianto.

Billia Muroni ci ha insegnato ad amare un territorio straordinario, ricco di memorie storiche e di emergenze culturali e ci ha mostrato che anche la microstoria della Planargia ha una sua dignità e caratteri peculiari, all’interno della più vasta storia della Sardegna, segno della diversità e della originalità di queste comunità.

Da qui bisogna partire per fare veramente di Bosa e della Planargia insieme un ideale e sofisticato luogo di soggiorno, in un ambiente di elevata qualità, molto caratterizzato ed originale.




Orlando Biddau, il poeta della disperazione.

Orlando Biddau, il poeta della disperazione.

di Attilio Mastino (1993)

La recentissima pubblicazione a cura dell’Editore Chiarella di Sassari, con il contributo dell’Amministrazione provinciale di Nuoro, del Comune di Modolo e della Comunità montana del Marghine e della Planargia, dei tre volumi di poesie di Orlando Biddau (L’anima degli animali, Le verdi vigilie e, inedito, L’inverno inconsolabile) consiglia una più attenta riflessione su un poeta “scomodo”, un grande poeta dalla sensibilità acutissima, le cui opere sono state fin qui trascurate, a prescindere dai riconoscimenti ufficiali attribuiti all’autore.

Orlando Biddau nacque da genitori sardi a Fiume nel 1938: un trauma vivissimo furono per lui, dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale e la fine del Fascismo, il viaggio in nave (un piroscafo nero, dall’aspetto terrificante), il forzato rientro in Sardegna, la fame, l’angoscia della madre per l’assenza del padre ancora in guerra.

Modolo, il paese di origine della famiglia, ha rappresentato in quegli anni un piccolo universo, un paradiso di pace in un mondo sconvolto dalla guerra, e questo non solo per la famiglia Biddau e per gli altri sfollati; basta pensare a Melkiorre Melis rientrato dalla Libia invasa dagli inglesi, che ci ha lasciato una straordinaria testimonianza di quegli anni nel dipinto Ultime luci a Modolo (datato al 1945): per Antonello Cuccu «una calibrata e misuratissima tessitura di tonalità “basse” (siamo al crepuscolo), costruita attorno a una prevista pennellata “alta”, fuoco emozionale dell’opera, che descrive la folgore di un riflesso solare sul vetro di un infisso domestico»; l’attenzione è catturata dall’immagine di una donna vestita di nero, che torna a casa portando sulla testa un’anfora d’acqua, accompagnata da una bambina. La vita a Modolo conserva ancora un sapore antico, di cui la brocca per l’acqua da bere è un po’ il simbolo.

Come non collegare a questo quadro il Racconto d’estate di Orlando Biddau? «Nella lena agostana me n’andavo / assorto sulle oscure risonanze / della brocca di creta, e tenace perdurava il limìo nell’aria crespa». E poi, al meriggio: «e l’anfora d’argilla m’assillava. / Qual tremito di mani, quali labbra / vi attinsero i loro sortilegi? / Quale scongiuro più forte, / dell’acqua sparsa?» E poi il rientro del padre dalla guerra sfortunata, la rabbia, la povertà: «giunse l’uomo spezzato dalla guerra, / faceva vino cattivo, era intrattabile: / un pomeriggio di settembre la sua donna / se lo trascinò in vigna con i bambini. / Il rigoglio dei tralci, la brezza più dolce / della carezza materna compirono il miracolo: / la ricomposta famiglia si sentì felice / quale mai sarebbe più stata». Ma la felicità è di breve durata e c’è un prezzo da pagare, tanto che la vigna dopo qualche tempo va definitivamente in malora.

Quella di Biddau fu un’adolescenza inquieta e difficile: «Mi trascino dall’età della ragione / una memoria dilaniata dalla fame / e l’insonnia scavate dentro grembo / nero della madre come incontro al supplizio».

E poi, crescendo il lavoro pesante, da manovale muratore, interrotto da poche settimane d’estate, quando correva a perdifiato «per stancarmi / e rimediare qualche sogno la notte / che mi facesse trasecolare al risveglio; / o, sazio di giochi coi compagni, / si dava nuova lena alla / corsa col cerchio lungo tutte le strade / polverose della contrada … / sporchi e sudati ci si bagnava nudi / al ruscello, tra i fichi e i cotogni / della valle ed il declivio dei vitigni».

E poi gli studi superiori a Bosa, la città ancora oggi cara alla memoria. E poi Cagliari, Genova, nel 1967 la grande occasione, la laurea in Lettere alla Sorbonne di Parigi, il riconoscimento ad Ozieri per le sue poesie in lingua sarda; e poi ancora gli studi ad Urbino, alla scuola di Carlo Bo, la tesi di laurea in Lingue straniere su Les illuminations di Rimbaud.

Un’esperienza, questa di Urbino, interrotta nel 1970, allorché Biddau sceglie il ritorno in Sardegna e l’insegnamento ad Oristano: questa strada però si rivela impossibile: l’insegnamento è una vita che non fa per lui. Nascono i problemi di salute, le difficoltà, si impone il ritorno nel paese della sua infanzia, Modolo, dove da allora si dedica alla letteratura ed agli studi prediletti. Scrive le sue poesie ed ottiene alcuni tra i più ambiti riconoscimenti ancora ad Ozieri nel 1988 (Premio Tonino Ledda) ed a Sassari (I Premio Pompeo Calvia).

La lirica di Orlando Biddau è ricca di stimoli letterari, soprattutto per l’influenza che le letture dei poeti del Novecento hanno avuto nell’animo del poeta: sono evidenti le influenze del simbolismo, del surrealismo, dei lirici nuovi, dell’ermetismo; ma è soprattutto Eugenio Montale, accanto a Rimbaud ed a Garcia Lorca, che viene riconosciuto come il suo modello ed il suo maestro.

L’originalità della poetica di Biddau è rappresentata dal ruolo degli animali, visti nelle loro sofferenze, nelle loro angosce, nei loro sentimenti che li avvicinano in modo impressionante agli uomini: «Sono il gufo cieco che non trova / riparo alla bufera notturna».

C’è un episodio della sua infanzia che lo condiziona, la morte dell’agnellino che gli era stato regalato da bambino: «giocavo con l’agnello della mia verde infanzia / fu sgozzato per pasqua: interminabile pomeriggio / in cui digiuno girovagai per i campi / tra i miei mesti olivi e lo stormire del vento».

E ancora: «Non so il latrato lugubre, il lamento della bestia destinata al mattatoio …/ la mia pena al confronto è una goccia / nell’oceano e mi condanna ogni ciottolo / nel mio passo se invoco la morte. / Sono ormai d’oltretomba e sopravvivo / all’angoscia dell’agnello trascinato al macello / i guizzi estremi del luccio preso all’amo / urlano nei millenni che brucio in eterno». Oppure: «furoreggia il tempo e m’assale il mio demone / hanno trascinato un maiale al macello / il suo lamento sanguina il vuoto lutulento».

La notte del poeta è ormai popolata da incubi, da rimorsi, dalla disperazione, dall’angoscia: «Si vorrebbe dormire un sonno pesante che ti lasci di pietra / un sonno da cui svegliarsi del tutto rigenerati / e non venir assalito dai rimorsi che logorano come la bassa marea / ogni giorno che ho da mettere al mondo / discendo i gradini slabbrati d’ardesia della mia morte».

E i pensieri di morte sono come il lamento del cardellino accecato: «non ho che i miei occhi da cavare, perché la vita è spietata / e l’innocente muore col cuore nel fango».

Il rigoglio della primavera aggiunge angoscia ad angoscia: «Son condannato alla mola dei giorni / e il cavallo cieco non ricorda la strada». E allora la solitudine, il tedio, lo sconforto per quello che non è stato: «Sperperai le mie primavere / in un sonno malsano, e al risveglio, / non avevo che il silenzio del gufo, / ed un verme nel cuore».

La sua disperazione è innanzi tutto una malattia, l’«inadeguatezza a vivere», che lo segna «come i tatuaggi indelebili della gente di mare o di carcere». I ricordi lo tormentano, perché nulla è lacerante come la memoria, che sanguina a toccarla; è ancora il mondo degli animali a suscitare nel profondo del suo animo una tempesta: «il verso familiare del gufo all’imbrunire / mi rimanda le mie estati lontane, / quando il tempo era senza peso / e l’aria lievitava di favolose promesse».

C’è un episodio che ha segnato la sua adolescenza, una svolta, un momento tragico, la morte della madre, una donna semplice e triste, che ha lasciato in lui un’impronta profonda: «Sempre più arduo, solitario e smarrito / è il mio sentiero dacché tu non sei più / a consolarmi con le tue mani diafane / e la voce trepida e apprensiva / di chi timida visse in silenzio / un’attesa di lunghi anni d’infamia / e di condanna sognando di visitare di notte una tomba / col mio nome infangato e infranto / che ripulivi con furtive lacrime». E ancora: «Ora che non sei più mi chiedo il segno / inspiegabile della tua vicenda, / aspetti sconosciuti, minuzie, domande non rivolte e che ormai / è troppo tardi formularti».

E quando ritrova la memoria si dispera: «T’ho trovato, madre, nel buio / miele d’una lunga insonne notte / d’inverno. Il focolare spento, e il vento ramingo ululava con la gola / nera e insondabile della malaventura, dal camino deserto».

C’è poi un altro personaggio, nelle poesie di Orlando Biddau, ed è Anna, «una ragazza / minuta e spaurita, permalosa / e imprevedibile, dai capelli corvini / e gli occhi fondi d’apprensione / selvaggia, quasi in essi si dibattesse / una lucertola colta al laccio»: «strana ragazza, che veleno sprizzi a ogni tua / impronta». È lei, con il suo morso di murena, con la sua unghiata di predace, la sola che ha avuto comprensione per il poeta «depresso da idee persistenti di morte», la sola con la quale il poeta può vivere, perché «è meglio la tua scossa di torpedine / insabbiata in un dolore torbido e bieco / che la felicità d’un insano mortorio». È lei, questo «scricciolo spaurito dalla furia delle intemperie», che riesce a donare la gioia nei momenti di abbandono. È lei che consente al poeta di trovare «la mia porzione di cielo e una stella fissa nel nero notturno che m’avvolge»; è lei che rimette in moto un cuore guasto da anni.

L’uno e l’altra si sorreggono a vicenda contro «la facile pietà, i mormorii e gli sguardi / obliqui» della gente; eppure «per noi non c’è posto al banchetto, / si chiude la porta che dà nella sala». Del resto la convivenza tra i due sfortunati è difficile: «Se il comune sentiero dovesse biforcare, / l’incubo della tua assenza s’addolcirà / nel tempo come sorba o dattero o corbezzolo, / solo per il calore assicurato a una casa».

Alle volte si cerca insieme la fine del tormento: «Solo una morte precoce potrà assicurarci il riscatto e il riposo sotto un unico cippo»; e allora «la tua garrula voce di tordo s’incupirà / subitanea, il tuo riso arguto si rannuvolerà, / e moriremo affiancati in un sonno comune».

C’è nell’opera di Biddau la spiegazione del suo ripiegarsi su se stesso, del suo ritorno alle radici ed all’infanzia, del suo chiudersi nel paesaggio amato della sua valle e del suo piccolo paese , Modolo: nei suoi viaggi all’estero ha sempre cercato i paesaggi che gli ricordassero la sua terra, la sua dimensione vera di vita, quasi come un bimbo che torna nel grembo materno. Così in Spagna: «a Siviglia consumai la mia inquietudine, per ritrovare all’Alhambra / di Granada e nei vicoletti e piazzuole della Cattedrale / il filo conduttore che mi avrebbe riportato al mio paesaggio».

Solo a Modolo, però, può «aspirare l’antico odore d’infanzia, / può rinascere lieve l’illusione, / rinverdire la formula, l’idillio / che schiuda l’incantesimo».

E qui fioriscono i ricordi che lo rasserenano, come i ricordi della casa della sua infanzia: «il granaio con la frutta appesa ad essiccare e i mazzi d’aglio e di cipolle / le ghirlande di sorbe, i grappoli / d’uva, le noci e le mandorle / le grosse collane di fichi, / le pere e le melagrane / e le melerose, odorose / di tutte le primavere di mia nonna ». E poi nascono tanti altri ricordi, l’infanzia nelle braccia di Marta, che tesseva dei cestini d’asfodelo, la benedizione delle case per Pasqua, con i chierichetti che cantano, l’afa stagnante del vicolo: «Selvaggia la mia terra, valli / e monti, macigni, rupi, / e per confini il rombo del mare….L’anima nostra è distorta / come una tanca di sughere, / che il maestrale ha inclinato / tutte in una direzione, per sempre, senza rimedio. Che almeno al vagabondo / possa lei indicare / la via del vento».

Le gioie che ancora prova sono quelle legate alle vendemmie, alle mietiture, ai pascoli, alla raccolta delle olive, ma sempre con una punta di disperazione: «M’è angoscia e tenerezza andar per miei olivi / ove mia madre ha disperso i suoi giorni». «Luce d’acerba mandorla, i ritorni / d’infanzia han foglie di nespolo al crepuscolo / Al crocevia degli olivi la casa è deserta… Aspetta il sonno per vivere un’altra prigionia, / il fiume alla foce rinsangua la mia solitudine, / con l’affollata memoria e le prime intemperie d’autunno».

La fanciullezza riemerge anche ripensando a Bosa, a questa città fluviale che gli è cara, ma che pure suscita qualche apprensione, soprattutto nei momenti di festa. Molti di noi, di fronte al carnevale di Bosa, hanno provato talvolta un forte sentimento di disagio, di isolamento, di estraniazione, in certe occasioni, quando per ragioni diverse non ci siamo lasciati coinvolgere nella festa. Per certi versi il Carnevale di Bosa è inquietante ed oscuro ed il poeta riesce a cogliere in modo splendido questi sentimenti: «Odio i giorni di festa in cui i belati / si spengono in un silenzio incredulo / dilaga il dolore per tutte le vene / al delta ove sfocia l’esistenza verso il mare / del nulla». « Hanno esposto la carcassa di un cinghiale al ludibrio della folla / in questa città carnascialesca ed è vano fuggire / dalla mia inermità nel trapasso o nell’evasione / perché l’infamante marchio degli esclusi si estende ad ogni plaga». È impossibile tornare sereni, perché «non puoi ridare la luce alla farfalla / dalle ali tarpate né la gioia al vecchio somarello / subissato d’angherie all’inizio del carnevale».

Nella confusione del carnevale bosano anche la scomparsa del cane Eugenio può diventare una tragedia da ricordare con angoscia: «Nel trambusto del carnevale cittadino / ti perdevo: le vie e le piazze care dall’infanzia / s’irrigidirono ostili al mio accoramento / indifferenti all’angustiata indagine sciolsi / le mie residue lacrime nel ritorno / a piedi in paese. Dopo una mezz’ora sento il tuo / iterato raspare alla porta di casa».

Ma di Bosa il poeta ha nel cuore soprattutto il paesaggio, la marina, le case, la stazione degli eucalipti: «La mia inerzia si scioglieva al sole / lungo il viale o dalla città alla marina, / o più spesso lungo la strada inversa / presso la stazione si destava al singulto del vento»; e ancora: «La pioggia indolente rimena / un antico torpore assopito, si perdono le acace nella nebbia / presso la vecchia stazione / che sa le partenze e le soste, la via del fiume lungo i giunchi / e i canneti, il mare aperto»; e poi il centro storico, visto in modo quasi allucinato: «Si guadagnava la città dopo un’ora / circa di cammino. I rintocchi dell’orologio / sul corso dilatavano lo spazio angusto / in modo inverosimile; le forbici del barbiere / lo esaltavano di mitiche figure e arabeschi. / Ma gli angeli alle volte e alle vetrate / della Cattedrale trasudavano angoscia; / la vita in libertà era ai viali alberati e sui / lungofiume che immettevano nella piazza / principale, ove pulsava un vento caparbio» (Visione di città).

Eppure però sono soprattutto l’Isola Rossa, la foce del fiume, il mare che hanno un significato per il poeta: «Respira il mare ed io son vivo, / le barche in secca a un porticciolo di sassi / come ramarri al sole. Venimmo / un mattino a quest’isola verde / per sciogliere il voto, ed il passo / e il respiro era incerto a violare / le intatte scogliere ove cielo / e mare si fondevano. / Candide ali si aprivano / sulle braccia nude dei fanciulli, / colombacci marini; tra frusci / d’azzurro e spumeggi / si tuffavano in acqua, emergevano / con un riso acerbo, agguantando / esultanti un’orata! / Tenera come la gola della lucertola / la memoria della spina di ieri. / Dietro il faro e la torre / un pane frugale, e di ritorno / con un fiore di giunco. / Come lungo cammino della memoria, / come arsura bramosa dell’oblio, / un fiore di giunco» (Per voto).

La poesia L’ultimo rifugio è introdotta da alcuni versi di Montale (Quivi / gettammo un dì su la ferrigna costa / ansante più del pelago la nostra / speranza! ): «Quando ancora alla corda senza scampo, / ancora a queste rive venivo, / come alla casa paterna che non sa / dove andare all’estuario del Temo / sconsolati gabbiani planavano lenti sul greto, / più in là, oltre il modo ed il colle di mirti / intatte spiagge e scogliere lunari, / in scenari a balzi di rocce / ove reciti Amleto i suoi furori, / preludi al funebre canto». Sono i paesaggi che tornano nella poesia Sas Covas: «Ormai fuori di me, barcollavo / cercando fra le rocce / striate e iridate come nuovo / paesaggio lunare la mia / identità mi smarrivo / nella desolazione di crateri / spenti, banchi d’arenaria / rosi da un sole alienato, / luci inaudite, cisterne / di magia, abissali / variazioni oceaniche / scongiuri ed incantesimi / che mi portassero alla città, / alla viva sorgente, al pozzo».

E poi il viaggio per mare (Nel porto dell’antica città, con un verso iniziale di Rimbaud: Et libre soit cette infortune): «Nel porto dell’antica città un bianco veliero / ci attende. Salperemo assieme ai gabbiani ubriachi / d’azzurro incantato, alle ultime ore di sole / che reclusi nel limbo d’attesa andiamo cogliendo / lungo muri devastati e macerie e riporti fin sino / alla lastra del mare e che serbano tutto il sapore / del frutto fuori stagione. Teniamoci in serbo / gli attoniti scricchi del meriggio in sfacelo per quando / entreremo nell’alma città dalla luce sapiente / ch’ogni moto dell’animo plachi, e l’intima / fibra disseti del suo desiderio. Oh l’altro sole, / lontano da quelli che cadono sulle stagioni, / e la sua ombra!…/ E dunque ormai consumiamo il cammino / lungo il molo gettato contro il cielo su immobili / mari d’ardesia. Siam respinti in esilio all’estremo / confine del mondo; più avanti c’è solo l’agguato, / la folle Musa impietrita in statua di sale / con voce suadente m’invita a discendere i gorghi / senza ritorni dei suoi tenebrosi tentacoli».

Ancora nella stessa poesia Alla foce del Temo: «Se fosse veglia o sogno l’inquietudine / che nottetempo mi spingeva a queste / rive adusate non so più….». C’era una costruzione tra Bosa Marina e Turas, che era ancora lorda dei residui di guerra, nella quale il poeta giocava da bambino, S’Istalle ‘e Avanzu: ad essa Biddau dedica una splendida poesia. E poi, ancora alla foce del Temo, nella poesia Sas Covas: «L’ansia irrefrenabile delle onde / mi spingeva a queste rive / per declivi e altipiani / ove tra macchie di mirti / e lentischi s’aprivano grotte / ricoperte d’agavi e fichidindia, / abbarbicati sulle rocce digradanti / al chiaro greto del fiume, / tra giuncaie e stenti canneti / sino alla placida foce..».

Orlando Biddau, come si vede, è dunque un grande poeta, legato intimamente al suo paese (Modolo) ed a quella che considera la sua città (Bosa); ci piace segnalarlo, perché crediamo che finora sia stato non solo trascurato, ma anche talora un po’ ingiustamente misconosciuto.




Antonio Atza

Antonio Atza

di Attilio Mastino (2002)

Antonio Atza è tornato a Bosa, ad un anno di distanza dalla pubblicazione del volume a lui dedicato da Giorgio Pellegrini e Simona Campus per le Edizioni Poliedro di Nuoro, un volume voluto dall’allora Assessore alla Cultura Vincenzo Mozzo; ed è tornato per donare al Comune ancora una decina di nuove splendide opere che ripercorrono una strada iniziata oltre quarant’anni fa con i celebri Blues: se ne avvantaggia la collezione ospitata ormai in modo permanente nelle settecentesche sale della antica Biblioteca Comunale, dove il nuovo Assessore comunale alla Cultura Anna Maria Piroddi ha voluto trasferire le opere, dirimpetto al Palazzo Deriu che ospita Melkiorre Melis ed ora anche Emilio Scherer, maestri amati ed ammirati da Atza.

Lascia senza fiato, su tutta una parete, la trilogia “Omaggio alla luna di maggio”, con il promontorio del Monte Sa Sea e con le rocce dilavate di Sos Puppos, tra Cala ‘e Moros e Cala Rapina, a Nord della foce del Temo, che diventano ormai un’isola di fiaba, con un mare d’incanto e i gabbiani che intrecciano con i loro voli quasi le linee di un ricamo, simile a quel filet che troviamo reale nel recente “Reliquiario di San Senzanome” donato proprio in questi giorni.

In realtà Atza riesce a far riemergere quella che considera la stagione più felice della sua vita, una fanciullezza lontana che lo riporta a Bosa, a questa città fluviale che gli è cara: viene da pensare all’immagine che di Bosa e del suo mare hanno dato altri pittori ed altri poeti, come di recente Orlando Biddau, il poeta di Modolo, che nella poesia Sas Covas immagina un sogno luminoso e terribile: «Nel porto dell’antica città un bianco veliero / ci attende. Salperemo assieme ai gabbiani ubriachi / d’azzurro incantato, alle ultime ore di sole… Siam respinti in esilio all’estremo / confine del mondo; più avanti c’è solo l’agguato, / la folle Musa impietrita in statua di sale / con voce suadente m’invita a discendere i gorghi / senza ritorni dei suoi tenebrosi tentacoli».

I tentacoli di Biddau richiamano gli inquietanti tentacoli, gli incubi, le creature mostruose che Atza raffigura nei suoi quadri, arrivando al profondo dell’anima, come nella “Luna Bosana”  ora donata al Comune di Bosa o nelle tante opere precedenti, in particolare quelle nelle quali i paesaggi reali si accompagnano all’astrattismo più spinto, frutto di  fantasie e di  esperimenti originali, che  segnano la sua produzione più nota: ma con una serenità e con un ottimismo che incanta.

C’è sempre una certa aria di famiglia con le sensazioni che Biddau è capace di descrivere, raccontando la città di Bosa, la vallata del fiume Temo, la foce, i luoghi meravigliosi amati fin dall’infanzia, che ritroviamo nelle opere di Atza, nei bozzetti, negli olii:  «Quando ancora alla corda senza scampo, / ancora a queste rive venivo, / come alla casa paterna che non sa / dove andare all’estuario del Temo / sconsolati gabbiani planavano lenti sul greto, / più in là, oltre il molo ed il colle di mirti / intatte spiagge e scogliere lunari, / in scenari a balzi di rocce / ove reciti  Amleto i suoi furori, / preludi al funebre canto» (L’ultimo rifugio ).

Sono soprattutto l’Isola Rossa, la foce del fiume, il mare che hanno un significato e che riescono a toccare le corde più profonde del cuore: «Respira il mare ed io son vivo, / le barche in secca a un porticciolo di sassi / come ramarri al sole. Venimmo / un mattino a quest’isola verde / per sciogliere il voto, ed il passo / e il respiro era incerto a violare /  le intatte scogliere ove cielo / e mare si fondevano. / Candide ali si aprivano / sulle braccia nude dei fanciulli, / colombacci marini; tra frusci / d’azzurro e spumeggi / si tuffavano in acqua, emergevano / con un riso acerbo, agguantando / esultanti un’orata! / Tenera come la gola della lucertola / la memoria della spina di ieri. / Dietro il faro e la torre / un pane frugale, e di ritorno / con un fiore di giunco. / Come lungo cammino della memoria,  / come arsura bramosa dell’oblio, / un fiore di giunco» (Per voto).

I gabbiani di Atza non sono sconsolati come quelli di Biddau: sono il simbolo di una vita che ricomincia, di un legame che non si è spezzato, di una voglia prorompente di un ritorno ai luoghi più cari dai quali non ci si vorrebbe più staccare.

C’è nell’ opera di Atza (come in quella di Biddau) la spiegazione del suo ripiegarsi su se stesso, del suo ritorno alle radici ed all’infanzia, del suo chiudersi nel paesaggio amato della sua valle e della sua città, senza dimenticare gli altri luoghi della sua vita, da Bauladu a Cornus, da Sassari a Gavoi, ma anche in continente ed all’estero:  Atza nel suo lungo itinerario ha sempre cercato i paesaggi che gli ricordino la sua terra, la sua dimensione vera di vita, quasi come un bimbo che torna nel grembo materno, perché solo nel suo paese può «aspirare l’antico odore d’infanzia,  / può rinascere lieve l’illusione, / rinverdire la formula, l’idillio / che schiuda l’incantesimo».

Atza sa raccontare senza parole, sa descrivere l’incantesimo per immagini, sa trasmettere emozioni profonde: la bellissima mostra delle opere donate al Comune di Bosa documenta un percorso artistico che rivela le qualità tecniche e insieme i sentimenti, soprattutto il coraggio di mettersi in discussione, di  cercare strade nuove, di confrontarsi in uno scenario internazionale, senza chiudersi alle novità, ai nuovi linguaggi, alle nuove formule espressive.

Con quest’ultima produzione Antonio Atza si conferma grande artista, dalla sensibilità sempre acutissima, punto di riferimento essenziale per la cultura bosana, punto di approdo per una scuola di pittori e di artisti che inizia con Scherer, per arrivare ai Melis: dopo oltre 50 anni di attività, il Maestro ha conservata intatta la capacità di mettersi in discussione e di cimentarsi con il nuovo; anzi, proprio la sua lunga esperienza gli consente di muoversi con autoriotà, senza indulgere ai luoghi comuni ed alle cose scontate. Ritengo che sia un grande privilegio per tutti i Bosani, quello di aver acquisito al patrimonio comunale una collezione di straordinaria bellezza, accessibile in permanenza nei caratteristici locali del Corso Vittorio Emamuele.




L’archivio storico del Comune di Bosa

L’Archivio storico del Comune di Bosa

dii Attilio Mastino

Bosa ha conosciuto negli ultimi anni tutto un fiorire di studi e di ricerche: basti pensare al recentissimo volume sulle monete del Museo Civico di Francesco Guido, agli articoli di sintesi sulle indagini archeologiche curate da Antonietta Boninu, Lidio Gasperini, Maria Chiara Satta, Alberto Moravetti e Raimondo Zucca, ai volumi sul castello e sui vescovi di Bosa di Salvatorangelo Palmerio Spanu, all’opera di documentazione curata da Giovanni Mastino, al volume della collana Sardegnambiente Planargia di Tonino Oppes, agli studi tascabili sulle tradizioni popolari di Vincenzo Marras, ai volumi fotografici curati da Vincenzo Mozzo, alla storia postale di Piero Damilano, alle ricerche sulle epidemie e sull’organizzazione sanitaria di Eugenia Tognotti, all’opera di recupero delle figure di Giuseppe Biddau, Giovanni Nurchi, Orlando Biddau, Melkiorre Melis (quest’ultima legata al nome di Antonello Cuccu), allo studio sul ponte sul fiume Temo di Giuseppe Ibba. Per non parlare poi delle numerose tesi di laurea discusse nei due Atenei isolani (e non solo) sui monumenti e sulla storia della città: citerò soltanto quella di Franco Stara sulla condizione giuridica della città spagnola, quella di Stefania Cossu sulle curatorie della Planargia e del Montiferru e quella di Maria Teresa Angius sulla Relacion de la antigua ciudad de Calmedia. Del resto questo interesse e questa attenzione sono curiosamente condivisi anche dagli studenti e dagli alunni di tutti gli Istituti scolastici cittadini.

Se ne ricava l’impressione che quanto era stato solo intuito a grandi linee sul passato della città, ora sembra possa essere approfondito ed esaminato in tutti i dettagli. A ben vedere però questa impressione si rivela fondamentalmente errata, dal momento che in realtà la storia della città di Bosa rimane ancora tutta da scrivere: se non lo dimostrassero le ultime sensazionali scoperte archeologiche sulla villa catoniana di età tardo-repubblicana di S’Abba Drucche, ce lo garantirebbe comunque questo volume che contiene l’inventario della prima sezione (Antico Regime) dell’Archivio Storico del Comune di Bosa.

Quando, sei anni fa, iniziò il riordino dell’Archivio Storico e di Deposito del Comune di Bosa curato dalla Cooperativa «La Memoria Storica» diretta da Cecilia Tasca, grazie ad un progetto voluto dagli Amministratori comunali e fermamente sostenuto da Vittorio Sotgiu e dalla Sovrintendenza Archivistica della Sardegna, non potevamo prevedere che tutto il dossier relativo alla storia di Bosa in età giudicale, in età aragonese, in età spagnola ed in età piemontese. stava per dover essere riaperto. Eravamo infatti convinti che ormai nell’Archivio Comunale di Bosa ben poco restasse da salvare: un po’ perché noi stessi avevamo vissuto alcuni momenti ben poco edificanti per la storia dell’Archivio e ne avevamo potuto verificare il disordine se non il vero e proprio sfacelo; un po’ perché conoscevamo nei dettagli la storia dei successivi trasferimenti dei documenti tra i locali che hanno di volta in volta ospitato il Comune (il «Palazzo Civico», secondo Pasquale Cugia, nel 1892 era il «bell’edificio all’estremità ovest della Via o Piazza Maggiore» nell’attuale Piazza Costituzione; più tardi fu trasferito nella palazzina di Piazza IV novembre, poi nell’ex Convento dei Carmelitani e da ultimo nell’Orfanotrofio Puggioni); infine perché molte altre collezioni di proprietà comunale sono andate disperse, come quelle conservate nel Regio Ginnasio e ricordate alla fine dell’Ottocento da Pasquale Cugia («Nel Ginnasio, il Municipio tiene la Biblioteca comunale, non spregevole per l’accolta dei libri; ivi conservasi una collezione geologica dei dintorni della città; pregevol medagliere di monete puniche e romane; alcune iscrizioni»). Pesava del resto sull’Archivio di Bosa il giudizio impietoso che 1’8 maggio 1770, cinquanta anni dopo l’ingresso dei Piemontesi in Sardegna, era stato formulato dai funzionari del Viceré Conte d’Hallot Des Hayes, che aveva visitato la cittadina del Temo riportandone un’impressione molto negativa: «Si è poi S.E. in primo luogo disposta a far riconoscere la Curia, nella quale per Archivio altro non trovossi che un vecchio e disfatto armario, che si conduce ogni triennio in Casa di quello, che viene nominato per Assessore, ove esistono pochi processi senza Inventario, e malamente tenuti, li quali tutti con i pochi attualmente vertenti, si sono presentati ai Ministri della Visita per essere riconosciuti. Mancano le Prammatiche, Pregoni, Editti, e molti registri, specialmente quello de’ Bollettini, e perciò esservi l’abuso di non usarsi, nelle introduzioni del bestiame pelli e cuoi, le debite cautele prescritte dalle leggi del regno per evitare i furti». Come conseguenza dell’ispezione fu disposto che Bosa, assieme ad Alghero, Oristano ed Iglesias, fosse sottoposta ad un rigoroso piano di riforma generale, che prevedeva tra l’altro il pagamento di uno stipendio per un segretario «più capace di tenere col dovuto ordine, chiarezza e metodo i libri, e le scritture appartenenti agl’interessi di quel pubblico». Una traccia di questa riforma è documentata dall’Archivio del Comune di Bosa, almeno per quanto riguarda la seriazione dei libri di regiment (doc. 58 sgg.), le istruzioni in materia di estrazione e nomina dei Consiglieri e impiegati di città (doc. 170), oltre che di barracellato e di ufficio del censorato (doc. 7); queste ultime precedono però di un mese la visita viceregia.

Questo volume, che sono veramente felice di poter presentare oggi al pubblico, costringe a rivedere drasticamente questi giudizi: l’indice dei documenti depositati in Archivio e che dovranno essere studiati in dettaglio è per molti versi una sorpresa, anche se l’originaria consistenza risulta purtroppo notevolmente ridotta; esso consente di dire fin d’ora che si è aperta una nuova fase nella ricostruzione della storia della città, se è vero che i documenti più antichi risalgono indietro fino al 1427, cioè fino ai primi anni della conquista aragonese, quando la città ottenne in perpetuo dal Re Alfonso V i salti di Sierra, Espinas e Castañas. Gli anni che ci stanno davanti saranno sicuramente dedicati non solo alla pubblicazione degli altri 11 inventari dell’Archivio, ma soprattutto allo studio dei singoli documenti, che dopo il riordino potranno essere emessi a disposizione degli studiosi. Ne verranno in formazioni di dettaglio non solo sull’amministrazione cittadina nell’Ottocento e nel Novecento, in epoca successiva alla fusione del 1848, ma anche in età più antica, fin dalle origini dell’impianto dell’Archivio.

Del resto già questo volume ci dà notizia dell’indice numerico dei titoli e dei privilegi della città di Bosa dal 1339 al 1705 (doc. 42), anche se poco o nulla sappiamo sugli statuti in lingua italiana della città, di cui rimangono solo alcuni frammenti pubblicati da Antonio Era e da Giovanni Todde, precedenti alla traduzione in lingua sarda o catalana disposta nel corso del Parlamento di Alvaro de Madrigal degli anni 1555-61. Una traccia degli antichi ordinamenti potrebbe esser ora individuata dalla sopravvivenza ancora in piena età piemontese della figura del magistrato di origine genovese, forse introdotto dai Malaspina, di su Castaldu (equivalente all’Amostassen) (doc. 285). Ma le informazioni fornite dai documenti che si presentano in questa sede riguardano l’evoluzione progressiva delle magistrature cittadine, i difficili rapporti con il signore feudale del castello, con il Marchese della Planargia (doc. 258) e con l’alcaide di Serravalle (doc. 257), il ruolo dei rappresentanti della città nei parlamenti spagnoli (fino ai 12 capitoli delle richieste del sindaco Passino in occasione del Parlamento del 1698 convocato dal viceré conte di Montellano, doc. 6), la realizzazione delle diverse opere pubbliche: del 1846 è l’appalto per la costruzione del macello (doc. 483), che pochi anni dopo vediamo rappresentato nella tempera di Luigi Claudio Ferrero, presso il ponte, sulla sponda sinistra del Temo; dell’anno successivo è l’appalto per la costruzione della caserma dei Cacciatori Franchi (doc. 484). Ritorna ripetutamente l’appalto dei lavori di rifacimento del vecchio ponte a sette arcate negli anni 1633, 1661, 1724, 1778, 1789 (docc. 18, 22, 470, 478, 491, 493), che a causa delle inondazioni del Temo richiedeva una continua manutenzione; nel 1726 fu perciò istituito un diritto di pedaggio per chi attraversava il ponte, con lo scopo di recuperare le spese sostenute nei restauri precedenti (doc. 471); i costi del resto venivamo ripartiti tra le ville della tappa di insinuazione, che arrivava a comprendere anche tutto il Marghine, fino a Bolotana. Ma già nel 1850 il ponte era in pessime condizioni, tanto che il La Marmora ricorda che «è vecchio, e minacciava rovina quando io lo visitai l’ultima volta»; «esso è composto di sette archi: ciocché vi ha di male è che allorquando fu fabbricato, o si restaurò, si lasciò il fondo del fiu­me ingombrato dagli avanzi, o dalle basi degli antichi pilastri; questo fa che nel tempo in cui le acque sono basse, i battelli non possono sempre passare sotto gli archi, né comunicare colle parti del fiume di sopra, e di giù del ponte; locché è un inconveniente, perché questo fiume è navigabile ancora circa due miglia al di sopra della città; dove esso serpeggia in mezzo d’una larga vallata, tutta piena d’ulivi e ben coltivata».

Solo nel 1871 fu costruito il nuovo ponte a tre arcate, ricordato da Pasquale Cugia vent’anni dopo con queste parole: «Per entrare in Bosa col nostro itinerario si attraversa il fiume Temo sul bel ponte moderno di tre arcate costruito nel 1871 su disegno dell’ing. Pizzagalli del G(enio) C(ivile). Fu gettato nello stesso sito nel quale esisteva il precedente di 7 arcate: nel fabbricare e ricostruire quest’ultimo, il fondo del fiume non fu liberato dagli avanzi di altre pile più antiche, di tal che, ingombro, l’acqua non scorreva bene con pregiudizio dell’igiene e del transito delle barche che non potevano oltrepassarlo: poiché il fiume è navigabile fino a 2 km. circa a monte della città. Ora vi si è riparato con l’erezione del nuovo ponte».

Ma, più in generale, abbiamo ora un quadro complessivo anche delle attività del Comune, delle gabelle, tasse, imposte riscosse, secondo una linea di autonomia decisa da Alfonso il Magnanimo e confermata dal vicerè De Moncada nel 1594; si pensi ai diritti incassati dalle «barche pescatrici nella fiumara» (doc. 432) ed alle decime ecclesiastiche. E poi i diritti doganali, la temporanea condizione di porto franco riconosciuta nel 1626 da Filippo IV, il contrabbando (si ricordi l’episodio del 22 maggio 1828 narrato da Bacchisio Sannia, capo dell’uffizio postale di Bosa, nel volume di Piero Damilano). I bilanci comunali ci conservano la storia dell’evoluzione del donativo, le esenzioni, i benefici, i creditori ed i debitori. Abbiamo un quadro più esatto della notevole ampiezza delle terre pubbliche comunali (poi andate disperse quasi per intero alla fine dell’Ottocento, in occasione della costruzione del porto) con i loro usi civici tradizionali: conosciamo la localizzazione del paberile e dei vidazzoni in epoca precedente alle chiudende: il prezioso campo di Palmas o quello di Buddesi, il salto di Benas, che si voleva includere nel vidazzone, i salti di Monte Mannu, di Campeda, di Barasumene, di Montresta, di Cherchettanos, di Silva Manna, le proprietà di Taratala, il segato di Cumada.

E poi il rapporto tra contadini e pastori, il continuo  sconfinamento del bestiame nelle terre seminate, le prestazioni comunitarie (come quella di ronda marittima, dalla quale erano dispensati gli anziani custodi del prato e del segato), l’ordine pubblico, la repressione degli omicidi da parte del magistrato civico, la difficile situazione sociale, caratterizzata dal vagabondaggio, dalle epidemie (che si vorrebbero contenere disponendo la quarantena per le navi provenienti dai luoghi infetti), l’alto numero di illegittimi, che venivano abbandonati e assistiti a spese della città dal «padre degli orfani» (Vittorio Angius ricorda che «sono alcune balie stipendiate dalla cassa civica per gli spurii. Il numero di quelli che espongonsi suol essere all’anno di otto o dieci. Ne muoiono quattro o cinque»).

L’assistenza alle orfane nel 1724 era garantita anche dalle pensioni derivanti dall’affitto di alcune abitazioni del centro storico, secondo le disposizioni di un antichissimo legato, che risaliva addirittura all’inizio del Cinquecento ed alla volontà di Isabella di Villamarì, la principessa di Salerno, tanto amata in città (doc. 37). Altri legati sono quelli del canonico Giovanni Pietro Puggioni a favore dei poveri (a. 1708) (doc. 255) o quelli destinati al finanziamento dell’Ospedale di Santa-Croce.

E poi l’organizzazione sociale: l’attività delle Associazioni e dei Gremi, come il Gremio dei fabbri, impegnato alla metà del XVIII secolo in un processo contro i carbonai di Montresta, per il taglio indiscriminato degli alberi (doc. 489); oppure il Gremio dei sarti e dei calzolai, che nel 1617 dispone la costruzione di una cappella in un terreno di proprietà del Convento del Carmine (doc. 488)..

E poi la realtà produttiva, le merci di importazione, le produzioni locali (il grano, il vino, l’olio, gli ortaggi), l’importanza delle concerie, il commercio del corame, delle pelli crude, dei cuoi; la pesca, le difficoltà annonarie, gli ostacoli posti dal Marchese di Santa Maria per l’approvvigionamento del sale (doc. 81). E le feste, come quella dei Santi patroni, Emilio e Priamo, che risale ad epoca precedente alla scoperta seicentesca delle reliquie conservate nella Cattedrale; proprio il 28 maggio del resto è la data di entrata in carica dei Consiglieri e del sorteggio del Clavario dall’elenco dei componenti le due prime classi di cittadini.

E l’evoluzione della struttura burocratica del Comune, le risoluzioni del Consiglio generale e del Consiglio particolare, le inadempienze dei segretari comunali, la nascita del catasto, i provvedimenti per reprimere l’abigeato, l’organizzazione della compagnia barracellare.

Un capitolo importante è rappresentato dai rapporti della città con il Vescovo, con il Capitolo della Cattedrale e con i numerosi conventi: si pensi ai Carmelitani, ai Frati Minori Osservanti (che nel 1753 ottengono la chiesa della Maddalena), alle proprietà religiose come quelle di Monte Crispu e di Malosa.

Una svolta per la storia della città fu rappresentata sicuramente dall’arrivo dei Piemontesi, impegnati ad istituire il catasto, a realizzare opere pubbliche, ad adottare il nuovo piano d’ornato per un riordino urbanistico della città.

Eppure ancora all’inizio dell’Ottocento Bosa aveva mantenuto le tradizioni più antiche e i documenti cittadini continuavano spesso ad essere ancora scritti in lingua spagnola.

Del resto proprio in età piemontese si pose il problema della persistenza dell’organizzazione feudale: una traccia importante è rappresentata dalla lunga e complessa controversia tra la città, i coloni greci ed il Marchese di San Cristoforo, erede dei diritti feudali: nel 1774 il re Vittorio Amedeo III reintegrava finalmente la città di Bosa nel possesso del territorio di Montresta, a conclusione della controversia con il Marchese Antonio Todde.

Come si vede, le suggestioni sono infinite: questo volume ha sicuramente il merito di aver creato nuovi stimoli e nuove curiosità per la ricerca. Di questo credo si debba essere grati ai  giovani che hanno svolto questo lungo ed appassionato lavoro.




Il Condaghe di Luogosanto

Attilio Mastino
Il Condaghe di Luogosanto
5 settembre ore 10

Eccellenza, signora Presidente, Signor Sindaco, Cari amici,

più che per la mia competenza in materia, sono stato chiamato a parlare oggi a Luogosanto per la mia lontana parentela col sindaco Mario Scampuddu. Lo faccio con emozione davanti alle autorità, a tanti studiosi, ad amici, a persone che mi sono care.

Ho trovato significativo ed anche un po’ curioso che sia stata l’Accademia della Lingua Gadduresa presieduta da Andrea Rasenti a pubblicare questo volume di  Graziano Fois e Mauro Maxia sul Condaghe di Luogosanto, per iniziativa delle Edizioni Taphros di Dario Maiore: l’opera originale è stata infatti scritta a Sassari non in lingua Gallurese ma in Logudorese e riflette  un clima culturale, un ambiente, una tradizione che sono insieme iberici e logudoresi, come testimoniano i tanti catalanismi del testo: siamo nel 1519 nel terzo anno di Carlo V ed è come se il punto di osservazione scelto per narrare una così significativa fetta della storia religiosa e civile della Gallura sia volutamente esterno alla cultura locale e come se la memoria dei gloriosi eremiti devoti del culto mariano sia rimasta affidata agli archivi sassaresi piuttosto che alle testimonianze locali, per quanto il testo richiami genericamente antiche tradizioni orali.  Del resto gli autori non escludono che la scelta del logudorese sia stata determinata dal più elevato prestigio della varietà logudorese rispetto agli idiomi locali di matrice corsa. Vanno d’altra parte tenute presenti le incertezze documentarie sulla cronologia relativamente più tarda dell’introduzione dell’attuale dialetto sassarese a Sassari e del Gallurese in Gallura.

Riemerso dal fondo Sanjust della Biblioteca Comunale di Cagliari, il documento potrebbe esser una copia caralitana del manoscritto originario sassarese, effettuata dallo scriptorium dei frati di Stampace: il ritrovamento è significativo anche se il documento è in realtà molto più noto di quanto non appaia a prima vista e tutta la vicenda dei santi Nicolao e Trano e della antichissima presenza francescana nella diocesi di Civita è stata costantemente e gelosamente custodita dalla Provincia francescana di SM delle Grazie se è vero che era nota una trascrizione settecentesca del padre Pacifico Guiso Pirella, il costruttore nel 1730 della basilica dei Martiri di Fonni, che ha voluto rappresentare sulle pareti del santuario i pittoreschi  affreschi con le emozionanti immagini dell’arrivo dalla Terra Santa dei primi monaci francescani in Sardegna. Al tema hanno del resto dedicato attenzione in passato studiosi del livello di Arrigo Solmi, Evandro Putzulu, Agostino Saba, da ultimo Paolo Manichedda, che hanno collegato il manoscritto alla biblioteca di Nicolò Canyelles vescovo di Bosa negli anni 80 del 500, poi alla biblioteca del magistrato bibliofilo Montserrat Rossellò passata nel 1613 ai Gesuiti di Cagliari. Infine alla famiglia del Marchese di Neoneli Enrico Sanjust.

Il documento in nostro possesso in realtà non è un condaghe come pure è definito già dal Vitale; se si vuole neppure esattamente un fundaghe, ma una lettera con una leggenda di fondazione di una chiesa, quella della Madonna di Luogosanto e delle vicine chiese di Trano e Nicolao: studiato ora negli aspetti codicologici, diplomatistici, storici, linguistici, è una preziosa ed unica testimonianza dell’intreccio tra devozione mariana e culto dei santi in Gallura in un luogo come Luogosanto che conserva ancora oggi il sapore antico di un centro religioso e santuariale e che mantiene tradizioni secolari e speciali privilegi solennemente riconosciuti dall’autorità ecclesiastica fin dal medioevo. Non abbiamo elementi per ipotizzare un qualche collegamento originario con la celebrazione romana dell’anno santo a partire da Bonifacio VIII, anche se non è escluso che alle origini dei privilegi fino ad oggi posseduti ci sia una bolla papale del XV secolo. Siamo però di fronte ad una tradizione alla quale non si può non guardare con rispetto e piena comprensione dello spessore storico di tradizioni locali che appaiono profondamente radicate.

Quello che è storicamente certo è che l’opera fa riferimento ad un provvedimento, ad un atto giuridico del primo vescovo delle diocesi unite di Ampurias e Civita Ludovico Gonzalez, frate osservante, di origini iberiche, che nei primi decenni del Cinquecento volle evidentemente ricostruire – a beneficio dei confratelli vescovi sardi –  la vicenda della presenza francescana nella diocesi di Civita, erede di Olbia romana e di Fausiana tardo antica, rinata a partire dal 1095. L’antica diocesi medioevale era stata fusa proprio qualche anno prima con la diocesi di Ampurias, erede dell’antica sede di Flumen, il cui nome fa riferimento alla valle del Coghinas, diocesi attestata già nel 1112 nel territorio dell’antica Tibula. La data è sicura, anno ab incarnazione domini millesimo quingentesimo decimo nono, nel sesto anno del Papa Leone X (Giovanni dei Medici). Assistito dal notarius Gribaldus, Ludovicus dichiara di operare con l’autorità di episcopus civitatensis ossia di Terra nova, l’antica Olbia e recupera per condache et una littera antigua oltre che dalla tradizione orale la vicenda dei tre frati che dalla chiesa di san Giovanni Battista in Gerusalemme tornando in Italia ascoltarono l’invito della Madonna – apparsa miracolosamente loro in sogno –  di stabilirsi in sa isola lunga et petrosa quale est sa isola nostra de Sardigna, nel gran bosco del Capo di Sopra dove erano venerate le tombe degli eremiti San Nicola e San Trano.

Dietro questi pochi dati c’è la storia stratificata di un territorio montagnoso, c’è la profondità della cultura locale, c’è la certezza che la presenza francescana in Gallura è antichissima, addirittura si ritiene contemporanea a san Francesco, se è vero che la prima notizia storica relativa a conventi o monasteri francescani in Sardegna risale al marzo 1230 in una pergamena dell’Archivio di stato di Pisa che si data a 4 anni dalla morte ed a due anni dalla canonizzazione: e come è noto San Francesco fu in Terra Santa  nel 1220 e morì nel 1226. Il 1226 è anche l’anno della morte anche del suo protettore papa Onorio III. Per gli Annales Sardiniae di Salvador Vitale il conventiculum di Luogo Santo sarebbe stato costruito già nel 1218 proprio durante il Papato di Onorio III ad rupem sancti Trani.

Restano moltissimi interrogativi che non appaiono completamente risolti nel volume, tanto che alcuni capitoli sono intitolati Non conclude. E questo specialmente a proposito dei livelli differenti di documentazione che spesso sono cuciti tra loro in modo poco convincente quando non si sovrappongono anche per l’evidente ignoranza degli originari compilatori. Intanto poco sappiamo del destino delle diverse copie di un documento che doveva esser conservato in copia a Luogosanto e forse nella provincia francescana del Capo di Sopra, il che spiegherebbe la sottolineatura relativa alla selva di Capo Soprano del testo, in relazione alla divisione però più tarda, seicentesca, della originaria circoscrizione dei Frati Minori. Del resto forse è eccessivo porre al nostro testo delle domande precise di tipo storico come quelle che seguono, che ci sono state suggerite dalla curiosità di scendere in profondità e di capire di più.

–         il vescovo Gonzales utilizza come sua fonte più condaghi di fondazione delle tre chieste oppure un unico condaghe, ben distinto dal testo a noi pervenuto ? c’è un contrasto nel testo se inizialmente si parla di una trascrizione di testi raccolti: in condaginis dictarum ecclesiarum antiquis, espressione ripresa dall’Aleo en los antiguos codices de la fundacion de las mismas Iglesias. Eppure il vescovo dichiara: invenimus per condaginem et per unam scripturam antiquam et per antiquam famam etiam nostrorum subditorum Diocesanorum.

–         il condaghe logudorese citato dal vescovo Ludovico come sua fonte risale a quanti secoli prima di lui ?  al quattrocento o addirittura al trecento ?

–         Fino a che punto si sviluppa l’ intreccio tra la documentazione cinquecentesca con il formulario in lingua latina e la documentazione più antica ripresa dal condaghe logudorese che è in sardo ? Eppure dobbiamo osservare che la parte iniziale in logudorese appare contemporanea al vescovo Ludovicus, che richiama il parere de tottus sos diocesanos nostros de sa diocesi dee Civita over de Terra Nova: perché il vescovo scrive in latino e poi in sardo ? Non è che il vescovo Gonzalez è autore di tutto il testo logudorese, che dunque è cinquecentesco e non precedente ? Oppure dobbiamo distinguere tra Ludovicus, che si definisce Dei et apostolicae sedis gratia Castri Ianuensis, Ampuriensis, Civitatensis episcopus ed un precedente anonimo vescovo della diocesi di Civita autore del testo in logudorese citato tra virgolette ?  Non sembra proprio, anche perché abbiamo già osservato che Ludovicus agisce in quanto episcopus civitatensis, come se le due diocesi sopravvivessero distinte anche se unificate nella persona del vescovo.

–         Dunque quali sono le ragioni dell’utilizzo del latino e del sardo e dove i testi si divaricano?

–         Inoltre, quando si è costituita la leggenda di fondazione, tenendo presente (come mi fa osservare Alessandro Soddu) che il toponimo Luogosanto è documentato già nei secoli precedenti?

–         Quando furono costruite le tre chiese galluresi della Madonna di Luogosanto, di San Trano e di San Nicolao, che erano  tanto antiche da risalire a cando sa cristiana fidei commençait a chrescher et isparguersi per issu mundo ? Cioè ad età paleocristiana.

–         Eppure sappiamo che erano state consacrate con il frutto delle elemosine da un cardinale avignonese, un incerto messer Giovanni, nell’età di Papa Onorio, mentre Francesco era ancora in vita.

–         A quando risalgono i due santi eremiti?

–         Quando furono ufficialmente attribuite alle tre chiese cussas indulgencias et perdonos, quelle famose indulgenze e perdonanze, in occasione della festività della natività di Maria e nelle altre occasioni sacre?

Di fronte a una straordinaria e talora incerta stratificazione, va osservato subito che gli autori preferiscono presentare tutto il ventaglio delle ipotesi possibili, anche là dove le cose potevano apparire chiarissime.

Innanzi tutto la presenza degli eremiti nella Gallura: come è noto la tradizione storiografica sarda di matrice ecclesiastica ha costantemente attribuito la originaria introduzione del modello monastico in Sardegna all’esperienza compiuta da Eusebio di Vercelli e da Lucifero di Karales nella Tebaide nel corso del IV secolo in occasione dell’impero di Costanzo II: su questa linea si attestano alcuni dei commentatori del condaghe, che preferiscono fissare un intervallo di circa 8 secoli tra l’esperienza eremitica di Nicolao e Trano e forse di San Quirico nelle grotte galluresi e l’arrivo dei tre frati francescani dalla Terra Santa.  Più esplicitamente nei Successos dell’Aleo alla fine del 600 Nicolao e Trano sarebbero morti nel 390 d.C. dopo aver fondato una hermita, una chiesa rurale in onore della Madonna. Eppure la tradizione pluristratificata che inizia con il Fara non esclude anzi suggerisce la possibilità che i due eremiti siano vissuti in età bizantina oppure siano stati dei benedettini vissuti addirittura nel XII secolo pochi decenni prima di San Francesco.  Né esiste veramente l’esigenza di negare il ruolo di Fulgenzio di Ruspe nell’introduzione del monachesimo in Sardegna all’inizio del VI secolo né di negare la possibilità che alcuni dei monasteri documentati in Sardegna possano risalire ad epoca più antica di Eusebio, visto lo stato di degrado dell’organizzazione monastica in Sardegna documentato nell’età di Gregorio Magno. Infine, la ricerca delle reliquie nella nostra isola non comincia certo nel XIII secolo se è già attestata con i martiri sardi Efisio, Potito, Lussorio, con il vescovo caralitano Primasio che si è occupato del corpo di Speratus o con il vescovo di Ippona che ha portato con se il corpo di Agostino forse alla fine del VII secolo.

Al di là delle contraddizioni, degli errori, delle sovrapposizioni del nostro documento che sono effettivamente evidenti, sono rimasto sorpreso comunque dell’antichità di un documento che precede di circa un secolo la guerra per le reliquie sviluppatasi in Sardegna nel Seicento. Possiamo anche ammettere che la leggenda di fondazione sia nata solo nel Cinquecento proco tempo prima dell’episcopato di Ludovicus e ciò con lo scopo di valorizzare le origini francescane della devozione alla Madonna della Gallura e con lo scopo di definire giuridicamente il quadro delle indulgenze concesse effettivamente dal Pontefice o in qualche modo usurpate sia pure difese da una profonda tradizione religiosa locale.

Ad un secolo successivo riferiamo allora la guerra delle reliquie, che non si è limitata alla ricerca dei Sancti innumerabiles nelle chiese cagliaritane (San Saturno, San Lucifero) e nella basilica di San Gavino a Porto Torres, ma che si è estesa fino a comprendere altre diocesi, desiderose di retrodatare la propria storia religiosa ad epoca apostolica: così lo scontro per la primazia tra l’arcivescovo di Cagliari e quello di Sassari, gli scavi, gli atti notarili relativi alle scoperte, la leggenda della città di Calmedia e dei suoi vescovi Emilio e Priamo a Bosa,  la scoperta di iscrizioni con la sigla fraintesa di beati martires per bonae memoriae in tutta l’isola; la ricerca del corpo di San Simplicio (che mons. Tamponi continua ancora oggi) presso la basilica di Terranova. Il detonatore credo sia stato rappresentato dalla pubblicazione nel 1598 del De Sanctis Sardiniae di Giovanni Proto Arca, alle origini della letteratura agiografica isolana: a due anni dopo risale la Chronica de los santos de Serdena di Dimas Serpi. Ma il riflesso del nostro testo compare già nel Fara ancora alla fine del 500 e più in dettaglio nel 1624 nel Christus crucifixus di Jaime Pinto, che ha tutte le informazioni relative al documento fondativo delle chiese francescane di  Luogosanto.

La vicenda della polemica religiosa per le reliquie è troppo nota per dover essere oggi richiamata: quello che è però evidente è che ben prima che i Gesuiti si impadronissero di questa problematica guidando gli Arcivescovi di Cagliari e di Sassari nella lotta per la primazia, i Frati Minori avevano autonomamente avviato la riscoperta della loro presenza in Sardegna, oltretutto ancorandola a quell’anachoritarum incolatum che rimandava ai precedenti nobili della vita eremitica che ispirò la originaria comunione francescana. Comunione del resto nobilitata con riferimento all’esperienza dei tre monaci fondatori in Terra Santa in partibus infidelium, il pellegrinaggio in terra d’oltremare, in rapporto con l’ordine gerosolimitano e più ancora con i Giovanniti. Quello di Luogosanto sarebbe dunque il luogo del primo insediamento minoritico in Sardegna, conserverebbe un primato significativo, precedendo secondo Graziano Fois anche l’insediamento conventuale caralitano di Stampace considerato alle radici del francescanesimo isolano. Per quanto non mi azzarderei a seguire l’autore nel fissare le date della presenza francescana nella prima domus cagliaritana già nel 1217 e addirittura fino a due anni prima a Luogosanto, nell’età del giudice Lamberto Visconti.

Non va del resto nascosta la difficoltà rappresentata dall’inconsistenza della documentazione relativa ai due o tre eremiti, Trano, Nicolao, Quirico, nomi che recentemente sono stati considerati deformati e collegati col culto ben più noto e diffuso di San Nicola di Trani, il martire pellegrino pugliese morto il 2 giugno 1094.

Non so quanto rimanga dopo aver identificato le contraffazioni ideologiche e le ambiguità del nostro testo, che pure esprime una realtà storica, quella delle forte devozione mariana presso il venerato santuario di Luogosanto meta di antichi pellegrinaggi e quella di un’antica presenza francescana sui monti della Gallura: manca certamente una minima sensibilità per la cronologia, anche se il documento si fonda sulla consapevolezza che il territorio gallurese – quando la Sardegna usciva dal medioevo – era disabitato sulle colline granitiche della curatoria di Montanna e della vicina Gemini: è nel deserto che i gloriosi eremiti che hanno preceduto l’insediamento francescano cercano il loro raccoglimento e la loro dimora. Come è noto sappiamo ben poco sulle dimensioni e le caratteristiche del fenomeno urbano nella Gallura in età romana: il territorio occupato dal bellicoso popolo dei Corsi, ostile agli immigrati italici e resistente alla romanizzazione, doveva conoscere un insediamento sparso, con pochi centri abitati di modeste dimensioni, la cui localizzazione presenta problemi pressoché insuperabili per gli studiosi. E’ stata recentemente discussa l’identificazione di Tempio Pausania con la stazione militare romana di Gemellae oppure, in alternativa, con il santuario rurale di Heraeum. Fin qui è prevalsa l’idea che la città storica di Tempio Pausania debba comunque aver avuto un precedente illustre ed una sorta di continuità dall’età romana fino ai nostri giorni (per quanto la cosa contrasti con le leggende locali, che parlano proprio di uno spostamento di Tempio dall’agro di Luogosanto, presso la chiesa di Nostra Signora del Rimedio, all’attuale sede). Appare forse sottinteso il pregiudizio che non ci si può rassegnare ad immaginare che il territorio non conoscesse nell’antichità romana una fase urbana evoluta, che superasse l’insediamento sparso dei Corsi, pure esplicitamente testimoniato dalle fonti; e ciò anche se possiamo credere che le stazioni stradali e le fortificazioni romane dovettero avere a nord del Limbara un carattere estremamente modesto per tutta l’età imperiale ed in età bizantina.

Il nostro documento parte dalla consapevolezza che gli eremiti Nicolao e Trano avevano scelto il deserto, la montagna, la vita eremitica: ne discendono conseguenze non di poco conto anche sulla geografia storica della Sardegna bizantina e giudicale, che contrastano con l’idea romantica di una forte urbanizzazione, idea alla quale è legato il nome stesso di Tempio Pausania ricalcato sulla denominazione della antica diocesi di Fausiana in Gallura deformata dalle Carte d’Arborea, un falso della metà dell’800.

Eppure qui vicino il Palazzo di Baldu, la chiesa di santo Stefano, la grotta della chiesa di San Trano, il castello di Balaiana, le altre 22 chiese della campagna di Luogosanto testimoniano un momento di crescita e di forte espansione di una comunità che certamente ha visto nella presenza francescana il motore del suo sviluppo, anche se in origine è proprio il fatto che il territorio era disabitato ad aver incoraggiato la presenza francescana, caratterizzata da una singolare instabilitas loci, per il girovagare dei frati in territori disabitati.

Ci muoviamo veramente su tematiche difficili e controverse, a partire dall’introduzione del cristianesimo in una Gallura che Gregorio Magno descriveva alla fine del VI secolo abitata ancora da barbari pagani al margine tra la provincia bizantina e la Barbaria interna. Gregorio distingueva tra i cristiani della provincia bizantina ed i pagani dell’interno, tra provinciales e barbari e, nell’ambito della stessa provincia, precisava che esistevano alcuni territori, come quello della lontana diocesi di Fausiana, in cui i pagani continuavano ad essere in numero consistente: quosdam illic paganos remanere cognovimus et ferino degentes modo Dei cultum penitus ignorare.

Ma sono tante le problematiche sollevate da questo testo: la presenza degli ordini monastico-cavallereschi, l’affiliazione delle tre chiese di Luogosanto all’Ordine Gerosolimitano, l’arrivo dei due eremiti, i rapporti tra il monachesimo eremitico, quello benedettino e quello francescano, l’autorità del vescovo di Civita, l’impegno per sviluppare la pratica devozionale dei pellegrinaggi, delle elemosine, delle indulgenze, l’arrivo miracoloso della statua della Madonna, gli ex voto per grazia ricevuta, i miracoli.  Guardiamo a questi aspetti con grandissimo rispetto, ma oggi anche col senso della storia, con la voglia di andare oltre la superficie, di arrivare veramente alle radici, al cuore di una tradizione, quella sintetizzata dalla Porta Santa del nostro santuario, che racconta una vicenda secolare di fede, di devozione, di raccoglimento, di preghiera. Forse allora occorrerà chiedere aiuto agli archeologi, ad Angela Antona, a Fabio Pinna, a Franco Campus, ai collegi della Soprintendenza e dell’Università, per ricostruire attraverso le testimonianze di cultura materiale la realtà storica dell’insediamento eremitico e del primitivo insediamento francescano, attraverso le rovine medioevali delle chiese e del monastero, che abbiamo potuto recentemente visitare in occasione della inaugurazione del museo cittadino promosso da mons. Francesco Tamponi.

Sfogliando questo libro ho trovato il gusto per la scoperta, la voglia di rileggere un documento straordinario con gli occhi disincantati della filologia, della linguistica, della diplomatistica. Credo dobbiamo agli autori il sapore di una novità e di una primizia, la voglia di tornare alle radici di una fede antica e vitale che rimane preziosa anche per noi uomini d’oggi.




Ricordo di Ignazio Delogu

Ricordo di Ignazio Delogu

Attilio Mastino

Sassari, 29 luglio 2011

Voglio partire da un ricordo intenso e doloroso, quando dai locali di questa Facoltà,  quindici anni fa, usciva la lenta processione che accompagnava il feretro del nostro amico Enzo Cadoni che ci aveva lasciato all’improvviso.

A ricordarlo sulle scale della Caserma Ciancilla, con parole che ci avevano commosso davvero, era stato Ignazio Delogu, unico protagonista della cerimonia con le sue incredibili capacità di affabulatore. Aveva rivelato in quell’occasione una sensibilità profonda, una capacità di parlare a nome di tutti, una sensibilità come quella di un amico ferito che riusciva a mettersi in sintonia con tutti.

Immaginerete perciò la mia emozione per esser chiamato a ricordare Ignazio alla presenza di Veronica, della sua famiglia, di tanti amici, di tante persone che gli hanno voluto bene.

Veronica mi aveva raccontato la sua lunga malattia: già sei mesi fa la sua fine sembrava imminente, il suo disagio, le speranze che si spegnevano, le preoccupazioni di chi gli stava vicino.

Capisco oggi il dolore della perdita, la sofferenza dei mesi scorsi, la lontananza, il senso di solitudine ricorrente negli ultimi anni, ma anche l’affetto e l’amicizia che ci aveva manifestato al telefono o in occasione dei suoi ultimi soggiorni a Sassari, un anno fa per la conferenza per il centenario della incoronazione della Madonnina delle Grazie tra i frati di Silki suoi amici.

L’associazione di San Pietro di Silki l’aveva voluta lui, assieme a Padre Francesco, assieme al notaio Faedda, assieme ai tanti amici che poi si erano dati da fare per promuovere nel 2001 il convegno tra Sassari e Usini sulla Società giudicale in Sardegna e sul condaghe, che Ignazio aveva tradotto nel 1997 partendo dall’edizione di Giuliano Bonazzi di un secolo prima. Un’operazione talvolta difficile e critica, ma preziosa per la riscoperta dello straordinario valore storico del documento.

Ignazio è stato il primo a rilevare la cura con la quale gli scrivani del monastero annotavano la delimitazione dei confini delle terre donate o acquistate e a segnalare alcuni aspetti formali – la brevitas stilistica, il succedersi di nuclei narrativi – che considerava i primi esperimenti di una nascente prosa romanza nella seconda metà dell’XI secolo. Delogu ci ha convinto che la descrizione dei confini dei saltos elemento fondamentale e ricorrente nelle schede del testo giudicale, avveniva con uno stile narrativo, che sembra seguire idealmente lo spostarsi degli agrimensori a cavallo sul terreno, tra corsi d’acqua, nuraghi, cippi di confine, monumenti romani che continuavano a marchiare il paesaggio isolano.

Ignazio idealizzava il medioevo sardo: per lui anche l’organizzazione servile della società giudicale era da apprezzare, perché le consuetudini giuridiche locali, espressione del diritto romano classico, sopravvivevano e non lasciavano senza difese la classe dei servos.

Ignazio ha riflettuto da ultimo sulla sentenza di Gonario II, a proposito delle  carte poco affidabili («non sun de crederelas») esibite il 30 maggio nella corona giudicale in occasione della festa per l’anniversario del martirio di San Gavino a Torres e che dovevano poi essere nuovamente depositate nella corona di Sant’Elia de Monte Santo da parte di un gruppo di alcune centinaia di servi, protagonisti di una vera e propria rivolta legale contro il monastero. Per Delogu non si tratterebbe di carte di liberazione o di affrancamento di servi e ancelle, ma di antichi contratti di affittanza o enfiteusi, magari non più compresi in tutta la loro validità, risalenti a decenni o addirittura a secoli prima, che dimostravano comunque che i convenuti chiedevano «di essere considerati lieros ispesoniarios, cioè fittavoli o enfiteuti»: documenti che, se fossero stati esibiti dopo la sentenza, veri o falsi che fossero, non sarebbero stati più considerati prove attendibili della condizione di libertà dei servi del monastero.  Di conseguenza spesso non ci troveremmo di fronte a veri e propri servi ma a quelli che dovevano esser stati in origine dei possessori, comunque  fittavoli, enfiteuti, appartenenti a famiglie asservite nel corso del lungo e tormentato periodo di transizione dalla dominazione bizantina alle istituzioni giudicali.

In questo quadro c’è veramente una dimensione storica, uno sforzo di sintesi e di riflessione, che partiva dai dettagli, come a proposito della fierezza degli abitanti di Usini, perché cando b’at homine bi depet devet essere puru sa fieresa si no sa balentìa.

E sa balentia era tipica di Ignazio, anche quando si scontrava con i colleghi o battagliava azzuffandosi tra Omnium cultural o Obra cultural o altre istituzioni catalane a Prada nella Catalogna francese oppure ad Alghero, accalorandosi con una passione che ci sorprendeva sempre. Antonello Mattone lo ha definito entusiasta e quasi vorace nelle sue passioni, come quando scriveva sull’Unità nelle sue corrispondenze dalla Spagna franchista o dai paesi latinoamericani.

Aveva colpito tutti il carattere torrentizio della sua eloquenza, la sua conversazione brillante che copriva i più svariati argomenti, partendo dal medioevo, mischiando tante storie e tante vicende vicine e lontane. Qualche anno fa era stato preso di mira bonariamente ma con insistenza da un giornale locale, che per mesi, una volta alla settimana,  lo rappresentava nelle vesti di uno dei vescovi medioevali o dei santi del duomo di Sassari o di allenatore di basket e gli attribuiva l’orgoglio di essere il vero autore della Carta De logu di Eleonora; oppure immaginava che si vantasse di aver scritto un condaghe o qualche altro documento medioevale, di aver conversato con un lontano personaggio storico del passato, attribuendogli l’età di Matusalemme. Ignazio ne soffriva, ma soprattutto non riusciva a capire l’ironia di qualche suo ex allievo che – noi tentavamo di giustificare l’anonimo censore – forse era rimasto colpito dalla sua oratoria, dal tono alto delle sue lezioni, da una sapienza che qui a Sassari non sempre era di casa, e forse era un poco fuori luogo. Perché Ignazio è stato soprattutto un uomo colto, un intellettuale cosmopolita un poco aristocratico, un comunista che teneva le distanze con nobile distacco, che però non rinunciava a esprimersi anche sulla storia di Carbonia (l’argomento della sua tesi di laurea discussa a Cagliari con Alberto Boscolo) o del piccolo borgo di Uri, ma anche su Olzai, Fonni, Dorgali, Alghero, sempre attento al mondo del disagio, all’opposizione, al destino degli ultimi, agli aspetti sociali più profondi.

Apparentemente fuori luogo negli ambienti che spesso frequentava era questa sua straordinaria conoscenza del mondo iberoamericano radicata nelle sue origini algheresi, soprattutto coltivata a Roma tra i letterati spagnoli, futuri grandi scrittori fuoriusciti a causa della dittatura franchista. Il quartiere Prati era, in prevalenza, il loro quartiere. Scrittore e giornalista, Ignazio, dopo una iniziale militanza sardista si era iscritto al PCI.  Il Partito gli aveva affidato la responsabilità dell’istituto Italia-Cile, che  era stato costituito a Roma.  Le sue traduzioni dei versi di Pablo Neruda che lo legavano a Hernan Loyola amico da sempre, di altri poeti iberici., la sua amicizia con personaggi come Gabriel Garcìía Marquez, Mario Vargas Llosa e Rafael Alberti, che aveva tradotto in italiano in modo impareggiabile.  Su queste amicizie fiorivano vere e proprie leggende, come a proposito della sua visita nel Cile di Allende al seguito di Berlinguer, quando sulla stampa era stato definito spagnolescamente come . Ce le raccontavamo queste storie un poco barocche con ammirazione e sorpresa, ripercorrendo le tappe di una vita che si è mossa tra realtà e fantasia nei luoghi più diversi, diventando quasi mitica. Eppure Ignazio ha pubblicato saggi critici  e traduzioni dei maggiori poeti spagnoli, catalani, galeghi e latino-americani  con Mondadori, Garzanti, Guanda, La Nuova Italia, Editori Riuniti, Newton Compton.

Imprudentemente si era occupato anche di Preistoria e protostoria della Sardegna, con il celebre convegno di Oliena voluto da Mario Melis nel 1988, dedicato ai primi uomini in ambiente insulare, che lo aveva sfiancato e lasciato pieno di debiti. Lo studioso si muoveva male tra i ragionieri e rischiava di rimanere schiacciato da tante promesse non mantenute.

Perché l’uomo, con tutte le sue qualità che lo mettevano tanto al di sopra di noi, sapeva anche di essere fragile e  pieno di debolezze, lottava contro la solitudine ed ha desiderato fino all’ultimo di tornare nella sua città che oggi lo piange come scrittore, come poeta, come studioso che ha ottenuto tanti riconoscimenti prestigiosi.

Ogni tanto mi regalava i suoi lavori, i volumi di poesie in italiano o in logudorese premiati ad Ozieri, i racconti come quello su Carrera longa, la lunghissima via Lamarmora piena di vita e di storia, che riteneva più del Corso la vera erede della viabilità romana al margine del territorio di Turris Libisonis. Così La  luna di Via Ramai che gli aveva fatto guadagnare il premio letterario della città di Sassari, l’opera che aveva reso manifesto il suo amore per gli spazi angusti del centro storico, per Piazza Tola, per alcuni ristoranti caratteristici, per queste piccole realtà di quartiere cariche di storia e di umanità vera. Mi interrogava e verificava che li avessi davvero letti, si emozionava di fronte  al giudizio degli amici, ci teneva conservare un rapporto diretto e affettuoso anche a distanza.

Una parte non rilevante ma tuttavia centrale occupa nella sua produzione letteraria la poesia in lingua sarda. Sviluppatasi dopo i primi successi al Premio Ozieri viene raccolta e pubblicata nel volume, A boghe sola, nella collana della Biblioteca di Babele collana di letteratura sarda plurilingue della EDES. Scrive Nicola Tanda: “Quel senso di solitudine che è prima di tutto nel cuore, e che connotava allora il suo viaggio. Alimenta ancora la vena  di surreale malinconia che attraversa le diverse sillogi di questa raccolta. Nel confronto tra la Sardegna della memoria e quella  del presente, risultato di uno sviluppo lacerante che ha determinato  quasi la scomparsa della sua civilissima cultura, la voce del poeta si leva accorata e senza speranza e potrebbe indurci a essere più uniti e solidali. In A boghe sola, Ignazio Delogu raggiunge nelle intense vibrazioni della lingua madre la pienezza della maturità, grazie a un trattamento personalissimo della lingua e a una originale meditazione sui grandi temi dell’esperienza umana che rivelano una profonda affinità del poeta con alcune delle principali tradizioni italiane ed europee del XX secolo”.

Neppure l’ambiente locale così critico e talvolta così crudele come quello di Sassari ha però mai messo in discussione la grandezza di Ignazio Delogu, che ha anticipato su Rinascita il dibattito sull’autonomia della Sardegna vista da sinistra.

Giornalista, critico d’arte, regista, traduttore, grande affabulatore lo ha definito Manlio Brigaglia ieri su La Nuova Sardegna, richiamando giustamente la definizione di poligrafo, nel senso migliore del termine, cioè di chi possiede una passione culturale inquieta e talvolta indipendente che supera d’un balzo gli angusti steccati disciplinari tipici del mondo accademico. Lui che era laureato in Storia del Risorgimento a Roma, insegnò poi a Pescara, Bari, Sassari Letteratura ispano-americana. Dal 1993 è stato titolare della cattedra di Lingua e letteratura spagnola alla Facoltà di Lettere e poi a Lingue di Lingua e letteratura catalana e filologia romanza.

Socio di numerose Società scientifiche e Accademie, direttore di collane di pubblicazioni, Ignazio ha continuato a scrivere fino all’ultimo, a coltivare i suoi autori preferiti, ci ha lasciato manoscritti che l’Università oggi per mio tramite si impegna a pubblicare.

Ora che ascoltando la notte il tempo si avvolge all’infinito, ora che c’è stanchezza e magia in questo disfarsi delle ore, ora che il fogliame dei desideri è ormai sfiorito, Ignazio scompare a 83 anni e lascia in lutto con un senso forte di perdita  le nostre Facoltà di Lingue e Letterature straniere e di Lettere, il nostro Ateneo e la Sardegna.

Eppure, scriveva ieri Franco Fresi, oggi scopriamo tutti la profondità dell’uomo, con le sue qualità, le sue gioie, le sue sofferenze, capace di emozionarsi e di emozionarci. Forse è il momento di iniziare a capirlo davvero.

Sit tibi terra levis, caro Ignazio.




Stintino tra terra e mare, a cura di Salvatore Rubino ed Esmeralda Ughi

Stintino tra terra e mare, a cura di Salvatore Rubino ed Esmeralda Ughi

Saluto introduttivo di Attilio Mastino, Rettore dell’Università di Sassari


Mentre scrivo questa nota per presentare gli Atti del Convegno “Stintino tra terra e mare”, svoltosi l’anno scorso, sollecitato dall’amichevole insistenza dell’amico Salvatore Rubino, contemporaneamente rileggo per l’ennesima volta la bozza conclusiva del nuovo statuto dell’Università di Sassari, che tra breve sarà sottoposto all’approvazione definitiva del Senato Accademico, con tante speranze e  tante emozioni, anche con qualche preoccupazione per il futuro: il nostro Ateneo dichiara che pone al centro delle politiche accademiche il libero confronto delle idee e la diffusione dei risultati scientifici anche allo scopo di contribuire al progresso culturale, civile, sociale ed economico della Sardegna, favorendo lo sviluppo sostenibile e la tutela dell’ambiente, inteso come sistema di risorse naturali, sociali ed economiche.

L’Ateneo ritiene che la conoscenza sia un bene comune e favorisce  la più ampia diffusione delle informazioni e delle pubblicazioni scientifiche. Partecipa alla definizione delle politiche pubbliche e delle scelte fondamentali relative allo sviluppo territoriale e agisce in accordo con gli operatori economici, il mondo produttivo, gli ordini professionali, i sindacati e le altre espressioni del mondo della cooperazione, del volontariato e del terzo settore.

Credo che l’Università debba sostenere lo sviluppo di relazioni con il territorio e promuovere il dialogo, l’interazione e la collaborazione con gli interlocutori locali, con specifico riferimento al contesto regionale. Le attività cui l’Ateneo vuol dare impulso prioritario sono finalizzate all’innovazione e allo sviluppo locale potenziando così la funzione di servizio dell’Università rispetto al territorio.

In questa direzione si colloca l’attiva collaborazione con il “Centro Studi sulla Civiltà del mare e per la Valorizzazione del Golfo e del Parco dell’Asinara” e il Comune di Stintino, a cominciare proprio dal Convegno “Stintino tra terra e mare“: con la pubblicazione di questi Atti curati da Salvatore Rubino ed Esmeralda Ughi,  il Centro Studi e il Comune riaffermano la volontà di valorizzare il patrimonio paesaggistico, storico e identitario, materiale e immateriale, suscitando un rinnovato interesse per Stintino, quale “laboratorio” privilegiato per iniziative di carattere scientifico e culturale.

Attraverso una serie di contributi, frutto di un rigoroso lavoro scientifico, suddivisi in differenti aree tematiche, molti dei quali redatti da studiosi della nostra Università, il volume traccia un percorso “tra terra e mare” che ci consegna una visione inedita del paese di Stintino non più inteso nella sua dimensione da brochure turistica di luogo marino di svago o di stereotipato “paese di pescatori” ma inserito in un contesto socio culturale e territoriale ben preciso e nella più vasta dimensione del suo entroterra: la Nurra, studiata nella profondità della sua storia e ne.

Scopo non tanto recondito di chi ha voluto questo volume è quello di mischiare le storie, di Stintino, dell’Asinara, della Nurra. La vita di Stintino è inestricabilmente legata all’Asinara, alla quale il paese è unito da una sorta di cordone ombelicale, che più che geografico è innanzi tutto affettivo, fatto di ricordi e di memorie, un legame che recupera il vuoto creato nell’isola che non c’è ma che vorremmo che in futuro ci sia: credo che questo rapporto così intenso, esclusivo ed identitario, rappresenti un valore aggiunto, un antidoto prezioso per un territorio attualmente investito dal vento dello sviluppo edilizio che rischia di travolgere, a distanza di venti anni dalla nascita del Comune, una comunità ancora fragile e desiderosa di riconoscimento e di legittimazione.

Un paese che non ha perduto il senso della memoria, che coltiva le relazioni con un tempo passato che ancora ci appartiene, con il suo carico di nostalgie, di rimpianti, di risentimenti: un paese costretto a superare disagi e difficoltà dopo il lento processo di travaso urbano dall’isola amata alla terraferma.

C’è in queste pagine un percorso che si sviluppa tra storia, archeologia, antropologia, archivistica e modelli contemporanei di sviluppo economico legati all’offerta culturale del territorio: attraverso un itinerario avvincente tra emergenze archeologiche nascoste, testimonianze materiali anche delle saline e documenti degli archivi pubblici e privati, in parte sconosciuti, questo territorio scopre di avere un’anima antica e una storia più che millenaria che ben si inserisce nel contesto socio culturale e nella memoria del paese di pescatori e di tonnarotti, memoria che sino a oggi ha trovato la sua massima espressione nel Museo della Tonnara.

Si avverte chiaramente il processo di inarrestabile trasformazione ambientale che stiamo conoscendo, col rischio di una perdita irrevocabile di un intero patrimonio a causa dell’aggressività di un turismo pervasivo e dilagante, che rappresenta una risorsa ma anche un pericolo di cui dobbiamo essere consapevoli.

Con questi Atti si pongono le basi storiche e scientifiche che porteranno alla delineazione di un progetto multidisciplinare in grado di qualificare al meglio dunque anche quell’offerta turistica che costituisce uno degli obiettivi strategici dello sviluppo del territorio e apre la strada alla realizzazione del Nuovo Museo di Stintino, che sarà testimone attivo del rapporto della collettività con la propria eredità culturale e della valorizzazione dell’identità del territorio ma anche vivace centro di ricerca, formazione e promozione culturale, economica e produttiva.

L’Università ci sarà e tenterà di dare un contributo costruttivo e convinto.