Seminario di Studi “Societas. Strumento di organizzazione pubblica e privata”

Seminario di Studi
“Societas. Strumento di organizzazione pubblica e privata”
4-5 maggio 2012 (Sassari)

Desidero salutare a nome dell’Ateneo i relatori di questo Seminrio di studi su Societas, stumento di organizzazione pubblica e privata, promosso dall’ISPROM d’intesa con il Dipartimento di Giurisprudenza e il seminario di studi latino americani nel quadro dell’accordo di cooperzione con la Faculté de Droit et Science Politique de l’Université de Montpellier.

Saluto tanti colleghi e tanti amici che onorano il nostro Ateneo con la loro presenza e la loro partecipazione.

Il programma prevede solo un mio saluto di benveuto, ma consentite ad uno storico e ad un epigafista ormai a tempo ridotto come me di dire linteresse che il tema di questo incontro riveste anche per chi è lontano dagli studi di diritto, per la forza e la ricchezza di un modello, quello della societas che nell’antichità ha assunto profondi significati e che vediamo riflesso anche nella documentazione materiale, attraverso gli esiti operativi, con sullo sfondo sempre il diritto naturale, il diritto pubblico e quello privato. Volevo richiamare oggi soprattutto uno dei significati generali del termine societas: nel senso di communio, coniunxio, consociatio, koinonia, etairia, a significare una forma di sinergia, se volete di “consociativismo” che nel mondo romano trova forme di applicazione  sin dall’età arcaica con innovazioni e  variazioni nel tempo, dall’età repubblicana a quella imperiale sino al tardoantico.

Del resto ciò si coglie assai bene, a leggere i titoli di alcune delle comunicazioni che tra oggi e domani sicuramente ci offriranno un quadro dialettico e innovativo rispetto ad un argomento di fondamentale importanza, da una parte per il funzionamento dell’apparato produttivo e commerciale del mondo romano, dall’altra dei rapporti di diritto tra Roma e i populi, Roma e le civitates, Roma e le gentes, le nationes. Se volete dei rapporti trra l’urbs e l’orbis.

Voglio però, in questa sede così prestigiosa, con tanti illustri giuristi, sottolineare un aspetto storico che può essere, credo, di comune interesse per meglio affrontare in modo globale il tema della societas e delle societates: l’epigrafia infatti offre numerosi esempi che fanno riferimento soprattutto al mondo delle imprese private e a quello degli appalti pubblici, con inevitabili differenze nel corso del tempo relative ai rapporti tra soggetti pubblici e soggetti privati.

Com’è ben noto, ad esempio, il profilo dei soggetti delle societates legate al pubblico acquista una fisionomia più definita di pari passo con l’ascesa sociale del ceto equestre, a partire dalla fine dell’età repubblicana; anche l’aristocrazia fondiaria del resto diviene partecipe dell’incremento dell’attività delle cosiddette societates publicanorum, allorchè viene varato un programma di restaurazione latifondistica – al quale sono funzionali attività di nuovo accatastamento – dopo l’esperienza graccana, momento centrale dello sviluppo di un modello che si impone già in Asia a Pegamo con Tiberio Gracco e poi nelle province.

In Sardegna, questo si verifica proprio nell’ambito della restaurazione latifondista postgraccana, quando si procedette, attraverso societates publicanorum impiegate dall’amministrazione centrale nella definitio finium, ad un vero e proprio accatastamento presso il territorio di  Cornus a sud del Rio Mannu, per favorire lo sviluppo del latifondo senatorio gestito in loco spesso da intere popolazioni di origine italica: in Ogliastra il caso più noto è quello dei Patulcenses Campani della Tavola di Esterzili, trasferiti dalla Campania in occaione della seconda occupazione militare della Sardegna alla fine del II secolo a.C..

Accanto dovevano poi esistere societates di diritto privato come quella precocissima dei socii salarii delle saline di Karales, che utilizzavano personale di origine servile: Cleon, un servus dei socii salarii (sal(ariorum) soc(iorum) s(ervus)), a metà del II sec. a.C. in piena età repubbliicana dedica un’ arula bronzea, rinvenuta a San Nicolò Gerrei, utilizzando diverse lingue (latino, greco e punico) per ringraziare il dio salutifero Aesculapius-Asklepios-Eshmun, invocato come Merre.

Certo la situazione dovette trasformarsi e assumere dimensioni ancora più ampie  già all’inizio dell’età imperiale. All’Africa ci conduce la notissima iscrizione che riporta la carriera dell’accensus dell’Imperator Titus Sextius in Africa durante il secndo triumvirato, M(arcus) Caelius M. l. Phileros. Il testo, notissimo ai giuristi, fa riferimento al suo ruolo come praefectus iure dicundo a Cartagine per la concessione dell’appalto relativo alla riscossione dei vectigalia (vectigalibus quinquennalibus locandis) negli 83 castella della pertica di Cartagine che, dopo la vittoria sugli Antoniani, si andava organizzando secondo il nuovo modello imperiale, con un netto incremento del rapporto tra magistrati amministrativi e societates di appaltatori che appaltavano servizi per conto dell’amministrazione centrale.

Con i nostri studenti dell’Università di Sassari, abbiamo scavato uno di questi 83 castella, quello di Uchi Maius dove nel corso dei nostri scavi abbiamo ritrovato il cippo di Phileros, liberto esperto di questioni catastali: egli interviene direttamente (e non attraverso una societas) se divide lui stesso il territorio del castellum (cioè del centro fortificato) tra i nuovi coloni augustei e gli Uchitani e si incarica di controllare la messa in opera dei cippi di confine (castellum divisit inter colonos et Uchitanos terminosque constituit).

Nel linguaggio giuridico, come pure in quello epigrafico, il termine societas ha, come si è detto, una serie di significati, ma ciò che sorporende per la sua concretezza è il vitale aspetto organizzativo, nel pubblico e nel privato, della societas che senza dubbio trova elementi di contatto e di comunanza con altre forme associative. E allora mi limito a richiamare realtà come quelle dei collegia e delle corporazioni professionali (Ostia), come quelle degli argentarii o dei navicularii,  ma non escluderei ad esempio neppure le sodalitates. Del resto, nel caso dei collegia e delle sodalitates, esse appaiono inizialmente come una sorta di societates con finalità di tipo religioso, ma anche a livello epigrafico si dispiega poi una varietà di situazioni e di rapporti di tipo pubblico e privatistico che meritano attenzione per la ricchezza dei dati. Penso ads alcune sodalitates della Sardinia, il caso più vicino a noi è quello dei sodales Butuntini (di Bitonto, in Apulia), dell’iscrizione rinvenuta presso Alghero nella Nurra di Baratz: un’associazione che doveva pewrseguire  l’obiettivo di assicurare ai membri l’espletamento delle cerimonie e la contribuzione alle spese funerarie. Più abbondanti sono i dati relativi alle sodalitates africane: colpisce il ruolo sociale delle sodalitates studiate in Proconsolare da Azedine Beschaouch,con i  loro simboli contraddistintivi, i numeri, le spighe, il miglio, e il rapporto tra sodalitas e aristocrazie cittadine.

Penso di dovermi fernare. A me sembra che a partire dalla fine del II secolo d.C., l’evoluzione economica con un sempre maggior incremento di una economia di mercato determinata dai cambiamenti delle rotte commerciali e delle province esportatrici, come nel caso dell’Africa e della Penisola Iberica, promuove sempre più il ruolo delle societates private, specie quelle in contatto con l’organizzazione pubblica dell’annona: voglio qui ricordare il famoso piazzale delle Corporazioni ad Ostia, con i magnifici mosaici che introducevano agli uffici delle compagnie armatrici, ad esempio i naviculari Turritani, i naviculari et negotiantes Karalitani, e forse i navicularii Olbienses, per limitarci all’ambito della Sardegna).

Sono significativi i rapporti di collaborazione tra i gli imprenditori di diverse province, come mostra chiaramente l’iscrizione del 173 d.C., rinvenuta ad Ostia, che ricorda un gruppo di armatori (domini navium) di origine sarda ed africana, collegati insiene nei corpora curatorum navium marinarum, con propri patroni e propri organi.




Utilisation de l’eau en Afrique du Nord dans le passé.

Utilisation de l’eau en Afrique du Nord dans le passé
Attilio Mastino – Antonio Ibba*
Djerba, 24 mai 2012

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WADIS-MAR, Water harvesting and Agricultural techniques in Dry lands: an Integrated and Sustainable model in Maghreb Regions [Collecte des eaux et techniques agricoles dans les régions arides : un modèle intégré et durable dans les régions du Maghreb]

0. Je suis très honoré de représenter l’Université de Sassari et de revenir en Tunisie à l’occasion de  cette rencontre sur la rareté des ressources en eau, sur la gestion de l’eau et les processus de désertification, rencontre promue également par le NRD-Nucleo ricerca desertificazione [Unité de recherche sur la désertification] de l’Université di Sassari. Je suis particulièrement ému de revenir en Tunisie où me reviennent en mémoire tant d’occasions vécues et tant d’espoirs partagés, à Djerba également, lors du XVe Congrès sur L’Afrique Romaine. Mais, parmi tous ces souvenirs, je voudrais surtout évoquer ceux qui sont étroitement liés à nos recherches archéologiques à Dougga et Téboursouk à Henchir Douamis, la colline des souterrains, dont le nom rappelle la présence d’un grand nombre de citernes destinées à la récolte de l’eau au point d’arrivée d’un important aqueduc. J’espère que vous me pardonnerez si, durant un court moment, je vous convie à remonter le temps pour aller à la découverte des lieux qui gardent de nombreuses traces des techniques utilisées dans l’Antiquité classique pour la collecte de l’eau, précieuse ressource pour la survie dans les zones internes du Maghreb.

 

1. A la fin de l’époque coloniale, comparant la situation de l’Afrique méditerranéenne française avec celle de la France, Jean Despois, dans son ouvrage, désormais rangé au nombre des classiques,  intitulé L’Afrique du Nord et publié en 1963[1], résumait en un mot, à savoir le terme “inégalité”, l’aspect essentiel du climat nord-africain et mettait en évidence notamment la distribution irrégulière des précipitations en hiver, la rareté des pluies au printemps, les fortes variations pluviométriques d’une année sur l’autre, la sécheresse qui dure de 4 à 5 mois dans les régions dominées par la steppe.

« 300 millimètres de pluie bien réparties, affirmait Despois, suffisent à assurer une assez bonne récolte de céréales, alors que 400 ou 500 mal distribués donnent de médiocres résultats. Les pluies torrentielles sont en grande partie perdues pour l’agriculture, surtout si elles tombent sur un sol déjà saturé…. Les pluies torrentielles amènent des désastres par les ravinements et les inondations qu’elles provoquent, en particulier quand elles ont une violence inaccoutumée. Inversement on assiste souvent à des longs mois secs ou qui n’ont que des pluies faibles suivies de vents violents. Des pluies d’automne trop tardives ou rares empêchent ou gênent les labours et les semailles ; l’insuffisance des pluies de printemps compromet non seulement la récolte des céréales au point de la rendre nulle dans certains régions, mais aussi celles du raisin et des olives » [2].

Des averses intenses mais brèves empêchent l’eau de pénétrer en profondeur dans le terrain, dénudent violemment les surfaces en érodant les couches fertiles ; l’évaporation est très forte, notamment dans les zones internes, caractérisées par un ciel limpide et par des vents forts et chauds. Durant l’hiver, toutefois, une forte humidité dans des zones comme le sud-ouest marocain et la Tunisie orientale, en particulier dans la région de Gabès, permet la mise en place de différentes cultures. Selon ce chercheur, l’existence de cours d’eau temporaires (oueds, wadis), très rarement alimentés par les neiges et dépendant dans la plupart des cas de précipitations irrégulières, abondantes uniquement en hiver et quasiment inexistantes en été ‒ et donc peu efficaces dans la lutte contre la sécheresse et pour l’agriculture ‒ serait l’une des conséquences directes du climat[3].

Se basant sur une approche déterministe aujourd’hui inacceptable, Despois concluait que le climat avait des conséquences dévastatrices et irréversibles sur l’économie locale, sur l’organisation de la société berbère, voire même sur l’humeur des pauvres fellahs impuissants face à une nature cruelle et donc quasiment justifiés dans leur apparente indolence. Si cette lecture, fille de son temps, a désormais perdu l’essentiel de son crédit dans la communauté scientifique, force est de constater que les problèmes climatiques mis en évidence par ce chercheur caractérisent le Maghreb depuis la plus lointaine Antiquité : l’homme a tenté, au fil du temps, de remédier à ces difficultés objectives avec des solutions que les différentes disciplines historiques (en particulier l’archéologie et l’épigraphie) ont mises en évidence et qui, en partie, peuvent ou pourraient être appliquées aujourd’hui encore.

 

2. En effet, le problème de l’eau était fort bien connu dans l’Afrique romaine entre les colonnes d’Hercule sur l’Océan et les Arae Philenorum en Libye, aux confins entre la Tripolitaine et la Cyrénaïque, soit à cause de la force destructrice des crues subites[4], soit grâce à la force vivifiante de celles-ci qui favorise la naissance des établissements humains et les activités productives.

Nous pouvons rappeler quelques témoignages épigraphiques. A Zireg, au sud des Monts du Hodna,  sous le principat de Septime Sévère, des agri, pascua, fontes sont octroyés aux colons établis dans une région délicate de la frontière, une zone militaire et de passage des tribus : l’empereur africain est convaincu que l’eau est un élément indispensable pour la productivité et la mise en valeur de ces terres et il veut empêcher que ce bien ne soit réservé qu’à un nombre restreint de personnes favorisées par le sort[5]. Au contraire, voulant probablement frapper les domini de Lepcis Magna, qu’ils détestaient au plus haut point et qui les exploitaient comme ouvriers agricoles, les Berbères détruisirent, en 238, l’aqueduc qui permettait d’irriguer les terres situées au sud-est de la colonie, stratégie souvent utilisée au IVe siècle par les Austuriani[6].

Les installations d’adduction d’eau constituent le corollaire indispensable de la richesse d’un domaine. A Biha Bilta, dans la région du Haut Tell tunisien, tel propriétaire diligent se vante d’avoir construit un puits qui, à l’époque d’Aurélien, lui a permis d’améliorer son fundus et de créer de nouvelles richesses[7]. Ad Henchir El-Left, Florentius, procureur du patrimoine impérial dans la Proconsulaire, entre les années 321 et 324, dédie à Neptune un long canal qui du bassin d’adduction (ninfio!) amenait l’eau sur les praedia de Constantin[8]; à Albulae, Terentius Cutteus réalise sur ses terres avec sa femme et ses enfants un aquagium, un canal d’écoulement de toute évidence indispensable pour améliorer l’efficacité de sa ferme[9].

La nécessité quotidienne en eau est soulignée par les nombreuses dédicaces faites au genius qui protège la source (par exemple, les sources de l’Ampsaga, l’Oued Rhumel, la Ferme du Caïd à Batna, ou à  Hammam Sayala) ou à Neptunus, le dieu de la mer mais plus généralement des eaux, raison pour laquelle il est vénéré dans des établissements humains éloignés des côtes, comme par exemple dans le village de Tituli entre Haïdra et Le Kef, à Gafsa, à Lambaesis, probablement dans les montagnes de l’Ouarsenis en Algérie occidentale[10].

Les inscriptions datant des IIe-IVe siècles, en Libye et en Algérie, témoignent en général de l’attention particulière que suscitent l’eau, les sources et les installations d’adduction ou de distribution de l’eau : thermae, aquaeducti, fontes, putea, cisternae sont des termes récurrents dans l’épigraphie africaine (en vérité, quantitativement limitée à une quarantaine de textes traitant ce sujet). Autant d’installations essentielles pour le bon déroulement de la vie civile, qui permettent de distinguer un centre urbain d’un village, qui accroissent le prestige d’une agglomération et le bien-être de ses habitants, qui reflètent l’adhésion de la population à des modèles de vie romains. Ce sont des ouvrages qui ont un fort impact sur la collectivité ; c’est pourquoi ils sont réalisés soit par l’empereur ou par ses fonctionnaires (16 cas), soit pecunia publica par des magistrats locaux (14 exemples), soit enfin grâce à la contribution d’évergètes aisés en quête de consensus politique et électoral auprès de la communauté[11]: à Sabratha, Flavius Tullus aquam privatam induxit, construisit  12 bassins et versa deux cent mille sesterces pour l’entretien de l’installation offerte à la ville[12]. Nous reviendrons sur ces aspects mais il est intéressant, dès à présent, d’observer que les installations exploitaient une ou plusieurs sources situées dans les proches environs des établissements humains : en général, dans la Tunisie actuelle, les aqueducs les plus longs ne dépassent jamais les 10 kilomètres  (a milliario septimo rappelle un texte de Thugga) et dans la plupart des cas ils oscillent entre 4 et 5 kilomètres[13]. Ces structures avaient une grande importance stratégique, d’où l’intervention fréquente et non fortuite en Numidie de militaires mobilisés soit comme force de travail soit comme support technique ; en Libye et dans les oasis du prédésert, ce sont les esclaves qui étaient utilisés pour construire les canaux souterrains.

 

3. La documentation archéologique dont nous disposons est beaucoup plus vaste mais nettement moins homogène car ce secteur de la recherche a été partiellement négligé dans le passé. Au Maroc, les informations se concentrent sur les centres urbains dont certains, parmi lesquels Volubilis, ont été explorés de façon très ramifiée, alors que les sites ruraux n’ont fait l’objet que d’investigations limitées ; on ignore souvent à travers quel type de canalisations l’eau arrivait dans les centres urbains. Les prospections franco-marocaines dans le bassin de l’oued Sebou prouveraient d’ailleurs que pour les vici de la région, implantés généralement près des oueds, aucun ouvrage hydraulique pour la récolte ou la distribution de l’eau n’a été réalisé, mis à part quelques ouvrages à proximité des côtes (citernes, bassins, canaux) liés aux différents processus de préparation et de conservation du poisson, destiné en grande partie à l’exportation[14].

En Algérie, le Service des Antiquités et Stephan Gsell concentrèrent le programme de leurs investigations sur la viabilité de l’époque romaine, socle sur lequel construire le réseau de la viabilité moderne, nécessaire pour le contrôle d’un territoire  peu sûr. C’est au colonel Jean Baradez que revient le mérite d’avoir accompli un premier pas en avant ; en effet, recourant à la technique de la photographie aérienne, ce dernier parvint à repérer dans la région située tout près du massif de l’Aurès d’anciennes structures qui servaient à recueillir, à contrôler et à réguler les eaux, sans toutefois réussir à l’époque à en préciser la chronologie exacte. S’inscrivant et opérant dans le même sillage, Jean Birebent se livra, une dizaine d’années plus tard, à un ensemble d’enquêtes de terrain particulièrement approfondies et réalisa une série d’études spécifiques dont on peut toutefois regretter qu’elles ne concernent que les installations de l’Algérie orientale[15].

Par contre, les informations abondent en ce qui concerne la Tunisie, protectorat politiquement tranquille aux yeux du gouvernement français, bien disposé pour cette raison à y investir quelque ressource. Et, en effet, nous savons très bien que la Brigade Topographique tout comme les spécialistes des Antiquités qui parcouraient le pays, prêtaient une attention particulière aux installations hydrauliques, convaincus que ces informations pouvaient être encore utiles au XIXe siècle et se révéler un précieux volant pour l’économie de la nouvelle Tunisie ; une vision des choses qui transparaît encore dans les écrits de Despois et de Gilbert Picard à la moitié du XXe siècle. Toutes ces données furent rassemblées et commentées, dès 1897, par Paul Gauckler dans son Enquête sur les installations hydrauliques romaines en Tunisie. Ces travaux reflètent tous l’idée manifeste que seuls les Romains avaient réussi à exploiter de façon très ramifiée l’énorme potentiel agricole de l’Afrique et que seule la récupération de toutes ces connaissances aurait permis de remédier aux dommages provoqués par les Berbères qui pratiquaient le nomadisme et par les envahisseurs arabes, incapables selon eux de gérer ce patrimoine, voire même responsables de la destruction insensée d’installations indispensables au progrès du pays et à sa prospérité[16].

Les travaux de Gauckler étaient plutôt sommaires en ce qui concerne les installations rurales et négligeaient, à quelques exceptions près, les régions proches du désert et les oasis. Par contre, la recherche a été renforcée durant ces quarante dernières années grâce aux investigations systématiques que Pol Trousset a conduites entre Gafsa, el Djérid et Gabès[17]. Simple filon collatéral dans les enquêtes menées en Libye par les archéologues italiens et anglo-saxons durant la première moitié du XXe siècle, celui-ci a été repris plus récemment par l’équipe anglaise dirigée par Graeme Barker et David Mattingly dans le cadre du projet UNESCO Farming the Desert consacré aux établissements humains en milieu rural de la Tripolitaine[18]. Trousset et Mattingly ont délibérément orienté leurs recherches vers la redécouverte et la mise en valeur du patrimoine culturel, sans perdre de vue les éventuelles retombées pratiques sur l’économie locale ; ils ont attiré l’attention sur les techniques d’adduction des eaux dans la région du pré-désert et ont mis l’accent sur l’existence d’une ligne de continuité entre les mondes préromain, romain, byzantin, aglabide, voire contemporain, obtenant ainsi des résultats extraordinaires qui rendent justice à un monde qui, loin d’être sous-développé, est capable de produire un surplus de biens pour commercer avec les centres urbains de la côte.

Plus récemment encore, la perception au niveau social et politique de certains changements climatiques globaux a remis à l’honneur les études d’hydraulique et a remis au premier plan les solutions hydriques adoptées par les Romains pour fournir en eau les villes et les campagnes. C’est en 2008 que paraissent, à quelques mois près, certaines communications dans les Actes du  XVIIe colloque sur L’Afrique Romaine, consacrées aux foggaras et aux citernes de La Malga à Carthage[19] et surtout le répertoire de Massimo Casagrande, qui rassemble toute la bibliographie sur les installations hydriques de la Zeugitania et de la Byzacena ; ce dernier en recense 422 répandues sur 362 sites différents et fournit nombre d’observations intéressantes sur les techniques et les finalités de ces structures[20]. L’année suivante paraissent les Actes du colloque Contrôle et distribution de l’eau dans le Maghreb antique et médiéval qui, malgré leur caractère incomplet (certaines communications présentées à Tunis en 2002 ne sont pas comprises dans le recueil), offrent un panorama vaste et critique des études menées dans toute l’Afrique méditerranéenne sur un arc chronologique qui s’échelonne volontairement de l’époque punique à l’époque aglabide. Rappelons, enfin, les Actes du colloque de Cadix de 2009 Aquam perducendam curavit, publiés dès 2010, colloque consacré en particulier à la situation de la Baetica mais ouvert également à toute confrontation avec d’autres réalités de l’empire romain d’Occident, et notamment deux aperçus sur l’Afrique Proconsulaire et sur la Tingitania.

 

4. Le temps qui nous est imparti aujourd’hui ne nous permet pas d’entrer dans les détails de cette riche documentation ; aussi nous limiterons-nous à citer quelques exemples parmi les plus importants en mettant l’accent sur la pluralité des solutions face à un certain nombre de problèmes communs.

Les travaux de Trousset entre Gafsa, le Chott El-Djérid, Gabès, El Hamma, Arad, que nous avons évoqués plus haut, ont permis de saisir à quel point les installations hydrauliques ont conditionné la vie agricole et la naissance de sociétés fortement structurées et impliquées dans la gestion de l’eau. Les constructions présentes dans la région sont alimentées par les eaux qui descendent des derniers prolongements du massif du Tell saharien, captées par les aqueducs, ou par les eaux ramenées à la surface au moyen de puits artésiens comme c’est le cas dans le Jérid ou dans le Nefzaoua[21].

Dans la région sud-est, entre les montagnes de Matmata et Dehibat jusqu’au djebel Nefoussa, le relief tuniso-tripolitain constitue une zone intermédiaire entre les Steppes et le Sahara due à la hauteur des montagnes (715 m), à la pluviométrie (200 mm), à la proximité de la Méditerranée. Ici, la population sédentaire pratique l’arboriculture grâce à des méthodes d’irrigation très particulières qui puisent l’eau non pas dans les sources qui sont très rares mais grâce à un système de terrasses ou de digues (jessour) qui permettent de contrôler et de canaliser les eaux des alluvions ou des oueds Merteba, Seradou, El Hamma[22]. Des structures semblables ont été retrouvées en Libye[23], en Tunisie sud-orientale dans la plaine de Augarmi[24], entre Fériana et Kasserine dans la région des Hautes Steppes[25]. Les archéologues les ont très souvent confondues avec les clausurae, barrages linéaires situés le long des pistes sur lesquelles se déplaçaient jadis les hommes, les troupeaux et les marchandises, destinés à réguler les flux plutôt qu’à défendre ou à fermer hermétiquement le territoire provincial[26].

Les jessour sont, en effet, de petites digues partielles construites dans le lit des torrents et dans les vallons qui retiennent les eaux de reflux et les limons fertiles que celles-ci charrient, réduisant ainsi l’érosion hydrique. Les jessour sont agencés en séquences, à intervalles réguliers, dans le lit du torrent. Chaque jesr est constitué d’un barrage (tabia ou katra) perpendiculaire au vallon, et d’une aire de récolte des sédiments (fond du jesr) qui est une sorte de terrasse située en amont de la tabia sur laquelle sont installées les cultures et dont la base est parfois renforcée à l’aide de pierres ; chaque tabia a un ou deux déversoirs, appelés menfess pour indiquer les déversoirs latéraux et masraf pour indiquer les déversoirs centraux, qui permettent de faire défluer l’excédent d’eau vers le jesr situé en aval ; les eaux s’infiltrent progressivement dans le sol et ne s’évaporent pas, constituant ainsi une réserve vitale pour lutter contre la sécheresse. Certains experts estiment que grâce à cette méthode 200 mm de pluie sont aussi efficaces que 500 mm et que l’agriculture en tire de nets avantages[27].

Les jessour sont déjà connus au XIe siècle comme l’attestent certains documents mais il est fort probable que cette technique plonge ses racines dans des codes non écrits qui remontent à l’Antiquité. Ils supposent l’existence d’une organisation collective qui limite le droit subjectif au nom de l’intérêt de la collectivité. Chaque jesr, en effet, ne peut retenir qu’une certaine quantité d’eau et doit céder l’excédent d’eau au jesr situé en aval ; la hauteur de la tabia, la position et la largeur des déversoirs, l’inclinaison du jesr ne peuvent être modifiées qu’après accord entre les propriétaires de jessour contigus et ces derniers doivent en assurer l’entretien ; il est interdit d’obstruer les déversoirs pour retenir les eaux, ce qui causerait un tort au propriétaire voisin ; chaque propriétaire est responsable des dommages causés en aval par les eaux qui débordent de son  jesr.

L’usage des jessour a probablement favorisé la sédentarisation des tribus du désert dans le Djebel, où l’élite punico-libyque, romanisée par la suite, pratiquait depuis longtemps la culture de l’olivier : la nécessité d’accaparement de nouvelles parcelles de terre susceptibles grâce aux jessour d’assurer d’importants revenus pourrait être à l’origine de la violente rivalité entre Lepcis Magna et Oea, qui a explosé en 71 apr. J.-C. avec l’intervention armée du commandant de la légion. Il apparaît clairement que l’existence des jessour situés entre la Libye et la Tunisie est liée à celle d’une série de fermes nées parallèlement à la création d’un réseau serré de fortins érigés, à l’époque julio-claudienne, pour assurer le contrôle du territoire ; ce n’est probablement qu’au IVe siècle que ces fermes furent fortifiées et se transformèrent en ksour.  Le singulier ksar dérive sans doute du latin castra et les occupants mêmes aimaient qualifier ces fermes à l’aide de termes militaires comme turris, castra, oppidum : sous sa forme la plus classique, le ksar est une tour quadrangulaire aux murs épais qui abrite deux ou plusieurs dépôts, un puits et une étroite porte permettant d’y accéder[28].

 

5. Les ksour, isolés ou regroupés en petits noyaux de cinq ou six édifices, étaient entourés d’espaces circulaires identifiés comme d’anciennes cours, des greniers circulaires destinés au stockage des céréales, des pressoirs et surtout des citernes ou des puits qui captaient les eaux des oueds : les citernes (majen) étaient généralement placées au bord des oueds et les bassins étaient creusés dans la roche[29]. L’exemple le mieux conservé est celui de Tininai qui présente un petit puits quadrangulaire d’une profondeur de 7 mètres et dont chaque côté mesure 2 mètres sur 2 mètres, à la base duquel s’ouvrent quatre canaux croisés de 24 m  sur 4 m; l’eau était tirée à partir de puits plus petits et de bassins de décantation, selon des modèles fort bien décrits par Rebuffat lors de ses investigations sur les fermes de la Libye. Ce type d’installations pouvait recueillir de 50 à 200 m3 d’eau mais à Tininai la batterie de citernes arrivait à stocker 3000 m3. A Ain Merzak près de Bir Scedua, il y a quelques années encore, l’eau était captée d’une source pérenne grâce à un manège tiré par des animaux qui permettait de puiser l’eau jusqu’à une profondeur de 20 mètres. Mais le système le plus couramment utilisé était celui des bassins quadrangulaires creusés en surface, revêtus d’un enduit de chaux hydraulique et dotés d’une couverture voûtée ou plate dont la surface présente de petites ouvertures circulaires qui permettaient de puiser l’eau par le haut. L’eau était transportée vers la citerne grâce à des puits de captation et de petits bassins de décantation situés en amont de la citerne même[30].

 

6. Les foggaras, galeries souterraines capables de drainer les eaux de la nappe aquifère et de les convoyer vers les oasis, constituent une technique répandue dans les régions prédésertiques situées entre la Libye et l’Algérie ; au Maroc, ce système, sans doute introduit à partir des Aglabides, est connu sous le nom de khettara mais il est fort possible que cette technique soit originaire d’Iran (où ces galeries sont connues sous le nom de qanats), et qu’elle ait été introduite en Egypte au Ve siècle av. J.-C. par les Achéménides et transmise d’abord aux Garamantes du Fezzan et ensuite aux Romains ; les chercheurs ont retrouvé certaines traces de ce système en Andalousie (on parle alors de madjira ou de pozeria) et en Amérique du Sud où il a été récemment exporté.

Les foggaras sont des puits d’aération verticaux, creusés à intervalles réguliers, qui relient la galerie souterraine, située parfois à vingt mètres de profondeur, à la surface libre. Ces puits sont indispensables pour le creusement de la galerie et pour les opérations d’entretien et de nettoyage. Pour réaliser la galerie, il faut dans un premier temps procéder au creusement d’une série de puits, à intervalles réguliers et à profondeur constante ; on procède ensuite au creusement d’un tunnel à la partie basse de deux puits contigus jusqu’à ce que l’on parvienne à relier entre elles les deux excavations convergentes, et l’on obtient ainsi un tunnel hydraulique entre les deux puits de départ. En surface, à l’ouverture des puits, sont entassés les matériaux d’excavation ainsi récupérés, lesquels indiquent la présence et la direction des conduits souterrains. En aval, la galerie, caractérisée par une inclinaison douce, débouche sur un bassin situé dans l’oasis et relié ensuite à un réseau de canaux servant à irriguer les champs. Les opérations de creusement de la galerie commencent dans les  zones agricoles de l’oasis, pénètrent le sol des vallées alluviales et remontent les lits du réseau hydrographique pour finalement atteindre l’ensemble des strates perméables de la nappe phréatique. Grâce à ce système, il est possible d’utiliser à travers les strates perméables la nappe phréatique alimentée par les précipitations ou par les condensations nocturnes de l’humidité de surface, due aux fortes excursions thermiques. L’eau de captation et l’eau de condensation peuvent ainsi être canalisées et utilisées pour l’irrigation, sans dispersion inutile de liquides dans le terrain ou dans l’atmosphère. Plus la surface drainante de captation est grande, plus la quantité d’eau distribuée dans les champs en aval est importante[31].

Grâce aux foggaras, les Garamantes, installés entre l’Hamada el Jamra et le Tropique du Cancer, développèrent une forte agriculture dont les produits étaient en partie destinés au commerce avec les villes romaines de la côte libyenne. Leur capitale, Garama, centre de 20 hectares entouré de murs d’enceinte, parsemée de temples, de thermes, de quartiers habitatifs, de marchés, de vastes et riches nécropoles, peut être considérée comme une véritable ville. Leur territoire était doté d’un système d’irrigation fort bien structuré qui, aujourd’hui encore, compte des milliers de foggaras dont la longueur oscille entre 500 mètres et 2 kilomètres[32]. Les Garamantes ont probablement enseigné cette technique aux Gétules qui, à leur tour, la répandirent dans les régions sahariennes algériennes du Gourara, du Touat, du Tidikelt et de l’Ahaggar, entre Tébessa et Batna, régions où les galeries drainantes, environ un millier, constituent un long réseau oscillant entre 3000 et 6000 kilomètres[33]. En Algérie, la profondeur du drainage de la nappe phréatique est toujours limitée et la distance entre les puits d’aération varie entre 2 et 4 mètres à cause de la fragilité du terrain et aussi probablement pour ne rien perdre des précipitations occultes ; la longueur des canaux souterrains oscille entre 3 et 10 kilomètres ; les galeries étroites ne dépassent pas les 60-70 cm de largeur et atteignent une hauteur qui varie entre 1-1,50 m et 3-4 m, probablement à la suite d’un abaissement de la nappe phréatique qui, dans certains cas, a donné lieu à la réalisation d’une deuxième galerie creusée plus bas[34]. En Tunisie,  nous citerons les fameux tunnels drainants de la plaine d’El Soukra, à l’ouest de Carthage, ceux de  Sidi Nasseur Allah, situés à environ 80 km à l’ouest d’El Djem, entre Kairouan et Gafsa, dans l’oasis d’El Guettar, dans la région du Nefzaoua[35].

 

7. Les caractéristiques hydrogéologiques de la région située tout près des pentes septentrionales du massif de l’Aurès ont favorisé un fort peuplement à l’époque romaine et ont contribué à la naissance  de nombreux bourgs agricoles qui, grâce à un système d’approvisionnement hydrique bien structuré et diversifié, étaient capables d’exploiter au mieux les nappes phréatiques de surface[36]. La  foggara d’Inemarem située dans la région montagneuse du Bellezma, dans l’Aurès nord-occidental, était probablement l’une des sources de l’Aqua Claudiana de Lamasba. D’où le célèbre règlement  de aquis[37], rédigé sous le principat d’Elagabal suite à un arbitrage interne à la communauté qui disciplinait les coloni (pour la plupart des Numidae) installés sur les terres impériales. Ce texte établissait de façon précise, pour la période comprise entre le 25 septembre et le mois de décembre, les horaires et la durée d’irrigation de chaque lot en fonction de la position du terrain, de la faible ou de la forte évaporation durant la journée, du niveau du bassin de collecte de l’eau (aqua descendens ou ascendens). Un système d’écluses permettait probablement de contrôler le niveau de l’eau du bassin qui ne devait jamais aller au-delà ou en-deçà du niveau de sécurité. L’eau du bassin était distribuée à travers un canal central (matrix riganda) relié à des canaux secondaires qui débouchaient sur les différentes parcelles de terre, dont certaines étaient cultivées en terrasses (scalae). La quantité d’eau destinée à chaque parcelle était calculée sur la base d’un certain coefficient K, une sorte d’échelle de valeur garantissant impartialité et uniformité dans l’irrigation des terres. Le règlement de Lamasba naît de la rencontre pragmatique entre la tradition juridique italique et les systèmes de mesure puniques, encore répandus parmi la population locale au début du IIIe siècle.

L’application de ce règlement était probablement fort répandue si l’on tient compte du fait que l’on se référait encore à l’aqua ascendes ou descendes dans une des Tablettes Albertini, document extrait du fichier de Flavius Geminius Catullinus, riche propriétaire de la région de Tébessa, et rédigé en 494 : les parcelles vendues par Iulius Restitutus et son épouse Donata sont cultivées en terrasses (particellas agrorum id est aumas sivi coerentes), et leur valeur est déterminée en fonction des plantes qui y sont cultivées et des droits sur l’eau détenus par le propriétaire[38]. Pol Trousset établit un lien, et ce de façon très perspicace, entre ces mécanismes de distribution hydrique et les mécanismes relevés dans les oasis et dans les jessour tunisiens où, comme à Lamasba, ils ont donné naissance à une forme de propriété très parcellisée : par exemple, dans les oasis du Touat et du Gourara, à la sortie des foggaras, les eaux passent à travers un canal découvert dans un bassin de distribution et sont ensuite déversées dans les canaux (seguia) de chaque propriétaire, proportionnellement aux quotes-parts de propriété de celui-ci.

Bien qu’elles soient d’origine préromaine, les foggaras se sont répandues en Afrique à l’époque impériale et les Romains ont enrichi ce système en y apportant certaines améliorations techniques : par exemple, en revêtant le canal souterrain à l’aide de dalles ou de pierres, pratique que les Garamantes ignoraient, afin de réduire les fuites d’eau ; ou encore, en recourant à un autre expédient qui consistait à réaliser dans le canal une petite goulotte, également revêtue, pour faciliter l’écoulement de l’eau.  L’Aqua Paludensis de Thamugadi, construite dans les années 183-185, était probablement une foggara, mais elle utilisait également un grand nombre de puits et de citernes et exploitait les eaux de la source pérenne d’Ain Morris : en effet, l’inscription rappelle que cet ouvrage hydraulique était capable de drainer (conquirere) les eaux d’une nappe phréatique (aquae paludensis)[39].

 

8. Jessour, foggaras, puits, canaux et aqueducs constituent souvent les éléments d’un système intégré qui, aujourd’hui encore sur un même territoire, par exemple dans l’oasis d’El Guettar près de Gafsa, visent à exploiter les ressources hydriques présentes, luttent contre l’érosion des sols et contre les phénomènes de désertification, favorisent le rehaussement de la nappe phréatique[40]. Les effets de cette organisation sont décrits dans un célèbre passage de Pline l’Ancien, procureur fiscal en Afrique Proconsulaire entre l’année 70 et l’année 72, qui visita probablement l’oasis de Gabès, ancienne Tacape, et qui fut frappé par son extraordinaire fertilité : « il y a en Afrique, au milieu des sables, … une cité nommée Tacape, dont le territoire, bien irrigué est d’une fertilité miraculeuse. Dans un rayon d’environ trois mille pas, une source fournit une eau abondante sans doute, mais qu’on ne distribue pourtant  qu’à heures fixes aux habitants. Là, sous un immense palmier, pousse un olivier ; sous l’olivier, un figuier ; sous le figuier, un grenadier ; sous le grenadier, une vigne ; sous la vigne on sème le blé, puis des légumineuses, enfin des herbes potagères : tout cela la même année, tout cela se nourrissant à l’ombre du voisin. … Le plus étonnant c’est que la vigne y porte deux fois et qu’on fait la vendange deux fois par an. Et si la fécondité du sol n’était pas épuisée par des productions multiples, tous ses fruits périraient à cause de l’abondance elle-même. Le fait est que toute l’année on y récolte quelque chose, et il est certain que les hommes ne favorisent pas cette fertilité ». La source à laquelle Pline fait allusion est dans doute celle de Sed Reha, où les archéologues ont retrouvé les ruines d’un barrage datant probablement de l’époque romaine[41]. Pline est séduit par la richesse de l’oasis, où les parcelles de terre atteignent des prix très élevés mais qui sont justifiés par la rentabilité des terres ; il observe la méthode étrange que les habitants utilisent pour calculer les surfaces (Quaterna cubita eius soli in quadratum, nec ut a porrectis metiantur digitis, sed in pugnum contractis), méthode que le système de mesure romain ignorait totalement ; il souligne à quel point la nature a été généreuse avec l’homme en le récompensant au-delà de ses mérites mais reconnaît dans le même temps les capacités que déploient les habitants de l’oasis dans l’organisation et la distribution de cette richesse pour maximiser leur profit. Les représentations funéraires liées aux ksour les plus importants attestent également l’efficacité de ces systèmes d’adduction et leur impact sur l’économie : les scènes de guerre, de chasse, d’administration de la justice côtoient des scènes représentant des caravanes chargées de marchandises et des scènes de la vie agricole : la cueillette des dattes, les semailles et la récolte des céréales, les dromadaires qui labourent les champs, une image esthétique presque, pourrait-on dire, de ce que Pline avait pu observer à Gabès.

 

9. L’usage d’un bien précieux comme l’eau appelait l’application de normes. La source était souvent considérée comme un bien privé dont la disponibilité totale revenait au dominus du fundus où elle se trouvait, mais dans de nombreux cas l’intérêt de la communauté l’emportait sur l’intérêt privé, comme c’était le cas à Lamasba, dans les oasis du Touat et du Gourara, à Gabès. Les autorités provinciales favorisaient, par le biais de servitudes rurales, l’accès des hommes et des troupeaux aux sources, soit parce que la source était en tout état de fait fréquentée depuis des temps immémorables, soit parce qu’il était admis qu’une utilisation ininterrompue de la source échelonnée sur une dizaine d’années seulement suffisait pour y accéder. Dans d’autres cas (par exemple à Ain Sidi Mansour dans l’Ouarsenis, à l’époque de Probus), le gouverneur même créait un nouveau droit, en autorisant l’accès à la source, considérée comme un bien d’intérêt général, de certaines catégories et en transformant ce bien privé en bien public[42].

A Ammaedara, l’intervention de Caius Postumius l’Africain, sénateur et patron de la colonie entre les années 160 et les années 180, se révèlera nécessaire pour imposer les servitudes prédiales permettant de faire passer l’aqueduc destiné à alimenter la ville et les champs :  nous savons, en effet, que les techniciens chargés de réparer la structure pouvaient y accéder à tout moment et qu’ils pouvaient utiliser tout ce dont la propriété disposait pour effectuer les réparations ; de chaque côté sur une distance de 15 pieds, il était interdit de construire des habitations, d’ériger des tombes ou de planter des arbres. Cette limite imposée était une limite importante, surtout lorsque l’on approchait de la ville et que les surfaces constructibles prenaient plus de valeur, en particulier les surfaces situées à proximité d’une route, qui était souvent la directrice suivie par un aqueduc [43]. La nomination de l’Africain atteste de toute évidence la forte résistance qu’opposèrent les propriétaires à une construction qui en désavantageant un nombre restreint de personnes aurait profité à toute la collectivité : d’où la nécessité de choisir à cet effet un notable capable de convaincre les plus réticents à ne pas opposer de vétos qui auraient contraint l’administration à la mise en place de longues procédures et à la coûteuse prise en charge des modifications du projet. L’Africain agissait sur ordre du proconsul, en qualité de légat spécial, ou après avoir été autorisé par le procureur à traverser les terres impériales. A bien y regarder, les problèmes de ce genre ressemblent beaucoup à ceux que doivent affronter aujourd’hui nos responsables administratifs et cet aspect même contribue à rendre extraordinairement moderne à nos yeux cette approche de l’eau des anciens Romains.

 


* Nous remercions Messieurs M. Casagrande, M. B. Cocco, R. Zucca qui ont bien voulu nous assurer de leur collaboration et discuter avec les auteurs des différents thèmes abordés.

[1] Despois, 1963, 15-29, 97-110.

[2] Despois, 1963, 19.

[3] Despois, 1963, 26, 27-28, 98, 103.

[4] AE 1975, 880 de Ureu: … [aquam (?) corrup]/tam post diluviem [—]/to servato recte (?) [—] / propria liberalitate [ex]o[rnavit] …; CIL VIII, 2661 (p. 1739) = ILS 5788 da Lambaesis: Aquam Titulensem quam ante annos / plurimos Lambaesitana civitas in/terverso ductu vi torrentis amiserat / perforato monte instituto etiam a / solo novo ductu …; de Gherait el Garbia (Chiron, 2011, 276): Ab impetu aqu[arum —] / Multa loca ed[ucta(?) — / — pa]lude du[— per(?)] / [limi]tem Ten[theitanum — / —]I CVII m[ili(?)]

[5] Leschi, 1948, 103-116 = Etudes, pp. 75-79.

[6] IRT 896 = AE 1973, 573: [aquaeductu]m bell(o) dissi[patum] …. Sulla strategia degli Austuriani Felici, Munzi, Tantillo, 2008, 627-632.

[7] AE 1975, 883 = 1978, 835 = 1983, 975 = 2005, 1685: … praeter cetera bona q[uae] / in eodem f(undo) fecit steriles / qu[o]que oleastri surculo[s] / inserendo plurimas o[leas] / instituit puteum [iuxta] / viam pomarium cum tric[hilis] / post collectarium vin[eas] / novellas sub silva aequ[e in]/stituit …

[8] AE 1949, 49 cfr. CIL VIII, 23653 = 23673 = ILTun 565 = ILS 5732.

[9] CIL VIII, 21671 = ILS 5769: …. aquagium suis possessionibus / constituerun(t) et dedicaverunt.

[10] Salama, 1973, 344, notes 11-12; Bel Faïda, 2002, 1715-1728. Les dédicaces consacrées aux Nymphes, liées généralement à une installation thermale ou à un puits d’eau chaude, sont moins évidentes, cf. Arnaldi, 2004, 1355-1364.

[11] Cf. les différentes positions de di Shaw 1984, 121-173 ; Slim 1990, 169 ; Peyras 1991, 208-209 ; Wilson 1998, 91-92; Wilson 1999, 314.-331 ; Bel Faïda, 2000, 1589-1602 ; Bel Faïda, 2009, 123-141 ; Casagrande, 2010, 469. Cf. également Casagrande, 2008, passim.

[12] IRT 117.

[13] CIL VIII, 1480 (p. 2616) = 26534 = ILTun 1408  = AE 1966, 511 = DFH 36 = ZPE-175-288: [Pro salute Imp(eratoris) Caes(aris) M(arci) Aureli Commodi Antonini Aug(usti)] Pii Sarm[atici Ge]rmanici max[i]mi Britannici p(atris) p(atriae) civitas Aurelia Thugga [a]quam con[duxit e fonte M]occol[i]tano a milliario septimo [sua] pecunia induxi[t et] lacum fecit M(arcus) Antonius Zeno proc[o(n)s(ul) Africae dedic(avit) cur(atore) L(ucio) Terentio Romano] cf. Casagrande, 2010, 461-462, 469.

[14] Lenoir 2009, 41-83 ; Pons Pujol – Lagostena Barrios, 2010, 533-542; cf. Euzennat, 1989.

[15] Baradez, 1949, pp. 165-212 ; Birebent, 1964.

[16] Picard, 1959, 59-76 ; Despois 1963, 120.

[17] Trousset, 1986 ; Ben Ouezdou-Trousset, 2009, 1-16.

[18] Barker, 1996, passim ; Mattingly, 1996, passim.

[19] Baklouti, 2008, 811-856 ; Mosca-Di Stefano, 2008, 857-877 ; De Angelis-Finocchi, 2008, 2179-2196. Sur les installations de Carthage, cf. également Wilson, 1998, 65-102 ; Rossiter, 2009, 177-197 ; Di Stefano, 2009, 143-164.

[20] Casagrande, 2008, en particulier 249-260 : en Zeugitania, les chercheurs ont répertorié 249 installations réparties sur  202 sites (118 installations urbaines, 13 installations rurales, 17 installations privées), en Byzacena, on compte 173 installations réparties sur 163 sites (49 installations urbaines, 18 installations rurales, 8 installations privées).

[21] Ben Ouezdou-Trousset, 2009, 11.

[22] Ben Ouezdou-Trousset, 2009, 11-12.

[23] Supra; voir également Mattingly, 1995, 68-77.

[24] Trousset, 1974 ; Trousset, 1987 ; Mrabet, 1999 ; Mrabet, 2003.

[25] Hitchner, 1995, 143-158.

[26] Voir les différentes approches de Bénabou, 1976, 429-445 ; Whittaker, 1978, 332-337, 340-350 ; Trousset, 1980, 935-942 ; Trousset, 1984, 383-398 ; Casella, 2004, 211-238.

[27] Ben Ouezdou-Trousset, 2009, 3-4.

[28] Rebuffat, 1982, 193-195 ; Elmayer, 1985, 78-80 ; Rebuffat, 1988, 44-60 ; Mattingly, 1987, 75-83 ; Mattingly, 1989, 141-143 ; Mattingly, 1995, 202-209 ; Mattingly-Dore, 1996, 127-133 ; Mattingly, 1998, 168-173 ; Felici, Munzi, Tantillo, 2008, 647-650 ; Munzi, Felici, Cirelli, Schingo, Zocchi, 2010, 727-731, 737-739. Certains ksour ont été repérés dans la vallée du Wadi Bei el-Kébir et dans les bassins de l’oued Zem et de l’oued Soffegin, à la lisière du Grand Erg oriental, dans le couloir entre Gabès et le Chott El-Djérid.

[29] Mattingly-Dore, 1996, 133-158.

[30] Rebuffat, 1988, 38-40, 43, 46, 53-55.

[31] Mattingly-Wilson, 2003 ; De Angelis-Finocchi, 2008, 2179-2196 ; Wilson, 2009, 19-39.

[32] Mattingly-Wilson, 2003, 47-49.

[33] Mattingly-Wilson, 2003, 39, cf. Birebent, 1964, 51-58, 63-66, 81-83, 203-205, 213-215, 267-268, 387-389 : les chercheurs ont répertorié certaines foggaras à Souma el Kiata, Henchir Oukhmida et Fridju, sur le haut plateau du  Mahmel entre les monts Némentchas, à Ksar el Kelb (Vegesala), à Ain Ferhat, dans la plaine de Sbikra, à Ain Kharoubi, dans la plaine de Baghaï, Badias.

[34] De Angelis-Finocchi, 2008, 2189.

[35] De Angelis-Finocchi, 2008, 2190.

[36] Jacques, 1992, 125-139.

[37] CIL, VIII, 4440 = 18587 cf. Birebent, 1964, 341-343, 387-389 ; Trousset, 1986, 175-178, 192-193 ; voir également Picard 1959, 64; Shaw, 1982, 61-103 ; Meuret, 1996, 87-112 ; De Angelis-Finocchi, 2008, 2191; Casagrande, 2010, 468.

[38] AE 1952, 209 = 1954, 212 ; cf. Shaw, 1982, 81.

[39] AE 1934, 40 cf. Leschi (1934-1935) ; Birebent, 1964, 325-330 ; Fentress (1979), 168-70.

[40] De Angelis-Finocchi, 2008, 2188-2189.

[41] Plin. NH, XVIII, 188-189 : Civitas Africae in mediis harenis petentibus Syrtis Leptimque Magnam vocatur Tacape, felici super omne miraculum riguo solo. Ternis fere milibus passuum in omnem partem fons abundat, largus quidem, sed et certis horarum spatiis dispensatur inter incolas. Palmae ubi praegrandi subditur olea, huic ficus, fico punica, illi vitis, sub vite seritur frumentum, mox legumen, deinde olus, omnia eodem anno, omniaque aliena umbra aluntur. Quaterna cubita eius soli in quadratum, nec ut a porrectis metiantur digitis, sed in pugnum contractis, quaternis denariis venundantur. super omnia est bifera vite, bis anno vindemiare. Et nisi multiplici partu exinaniatur ubertas, pereunt luxuria singuli fructus. Nunc vero toto anno metitur aliquid, constatque fertilitati non occurrere homines. Cf. également Trousset, 1986, 169, 173-175.

[42] Salama, 1973, 339-349, cf. AE 1973, 652.

[43] AE 1988, 1119 : Amm[aed]ar[ae] Aug(ustae) s[acrum] / C(aius) Postu[miu]s C(ai) f(ilius) Qui[r(ina)] / Afr[icanus c(larissimus) v(ir)] / [I]IIvir ca[pital(is) tr]ib(unus) leg(ionis) VII Gem(inae) q(uaestor) urb(anus) [ab ac]/[tis] senatus aedil(is) curul(is) p[r]aet(or) [urb(anus)] / [leg(atus) p]ro pr(aetore) patronus col(oniae) aq[uae ductum] / [e legi]bus praediorum iuris su[scepit] / [cum] / [rivo a]quae [q]uae permissu p[roco(n)s(ulis) vel p[roc(uratoris) fluit]. Cf. Ben Abdallah, 1988, 236-251; Casagrande, 2010, 463-466.




Water Use in North Africa in the past.

Water Use in North Africa in the past
Attilio Mastino – Antonio Ibba*
Djerba, 24 maggio 2012

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WADIS-MAR, Water harvesting and Agricultural techniques in Dry lands: an Integrated and Sustainable model in Maghreb Regions

O. Sono onorato di rappresentare l’Università di Sassari, tornando in Tunisia in un incontro sulla scarsità della risorsa idrica, sulla gestione dell’acqua e i processi di desertificazione, promosso anche dal NRD Nucleo ricerca desertificazione dell’Università di Sassari: torno in Tunisia con emozione, ricordando tante occasioni e tante speranze, anche qui a Djerba, in occasione del XV Congresso de L’Africa Romana. Ma soprattutto voglio ricordare le nostre ricerche archeologiche presso Dougga e Theboursouk ad Henchir Douamis, la collina dei sotterranei, che nel nome ricorda la presenza di tante cisterne per la raccolta dell’acqua al punto di arrivo di un imponente acquedotto. Spero vorrete perdonarmi se per un m,omento vi porterò indietro nel tempo, alla scoperta di luoghi che conservano tracce delle tecnologie impiegate nell’antichità classica per la raccolta dell’acqua, preziosa risorsa per la sopravvivenza nelle aree interne del Maghreb.

 

1. Alla fine dell’età coloniale, confrontando la situazione dell’Africa Mediterranea francese con quella della Francia, Jean Despois nell’ormai classico volume intitolato “L’Afrique du Nord” pubblicato nel 1963[1] sintetizzava nel termine “inégalité” l’aspetto essenziale del clima nord-africano, evidenziando in particolare l’irregolare distribuzione delle precipitazioni invernali, la scarsità di quelle primaverili, le forti variazioni pluviometriche fra anni contigui, la siccità che dura 4-5 mesi nelle regioni dominate dalla steppa.

« 300 millimètres de pluie bien réparties, affermava Despois, suffisent à assurer un assez bon récolte de céréales, alors que 400 ou 500 mal distribués donnent de médiocres résultats. Les pluies torrentielles sont en grand partie perdues pour l’agriculture, surtout si elles tombent sur un sol déjà saturé…. Les pluies torrentielles amènent des désastres par les ravinements et les inondations qu’elles provoquent, en particulier quand elles ont une violence inaccoutumée. Inversement on assiste souvent à des longs mois secs ou qui n’ont que des pluies faibles suivies de vents violents. Des pluies d’automne trop tardives ou rares empêchent ou gênent les labours et les semailles ; l’insuffisance des pluies de printemps compromet non seulement la récolte des céréales au point de rendre nulle dans certains régions, mais aussi celles du raisin et des olives »[2].

Scrosci intensi ma brevi impediscono all’acqua di penetrare in profondità nel terreno, erodono violentemente le superfici asportando gli strati fertili; è fortissima l’evaporazione, in particolare nelle aree interne, caratterizzate da cieli limpidi e da venti forti e caldi. Durante l’inverno tuttavia una diffusa ed elevata umidità in aree come il Sud-Ovest marocchino e la Tunisia Orientale, in particolare nell’area di Gabès, permettono l’impianto di diverse coltivazioni. Diretta conseguenza del clima sarebbero per lo studioso i corsi d’acqua temporanei (oueds, wadis), solo raramente alimentati dalle nevi e dipendenti per lo più dalle irregolari precipitazioni, abbondanti solo in inverno e quasi aridi in estate e dunque poco efficaci nella lotta contro la siccità e in agricoltura[3].

Con un approccio deterministico oggi non più accettabile, Despois concludeva che il clima aveva influenze devastanti e irreversibili sull’economia locale, sull’organizzazione della società berbera, addirittura sull’umore dei poveri fellah impotenti di fronte a una natura matrigna e dunque quasi giustificati nella loro trasparente ignavia. Se questa lettura, figlia del suo tempo, oggi non trova più credito nel mondo scientific, è tuttavia indubbio che i problemi climatici evidenziati dallo studioso caratterizzano il Maghreb sin dall’antichità: a queste oggettive difficoltà l’uomo ha tentato nel tempo di porre rimedio con soluzioni individuate dalle varie discipline storiche (archeologia ed epigrafia in particolare) e che parzialmente trovano o potrebbero trovare applicazione ancora oggi.

 

2. Il problema dell’acqua era infatti ben noto nell’Africa romana fra le Colonne d’Ercole sull’Oceanoe le Arae Philenorum in Libia, al confine tra Triplitania e Cirenaica, sia per la forza distruttrice delle piene improvvise[4], sia per quella vivificatrice che permette la nascita degli insediamenti e le attvità produttive.

Possiamo ricordare alcune testimonianze epigrafiche. A Zireg, a Sud dei monti Hodna durante il principato di Settimio Severo vengono concessi agri, pascua, fontes ai coloni insediati in un settore delicato del confine, zona militare e di passaggio delle tribù: l’imperatore africano è convinto che l’acqua sarà un elemento indispensabile per la produttività e la valorizzazione di quelle terre e vuole impedire che questo bene sia disponibile solo per pochi fortunati[5]. Per converso, forse volendo colpire gli odiati domini di Lepcis Magna, che li sfruttavano come braccianti, nel 238 i Berberi distrussero l’acquedotto che permetteva di irrigare le terre a sud-est della colonia, una strategia spesso adottata nel IV secolo dagli Austuriani[6].

Gli impianti di adduzione sono corredo indispensabile di un ricco podere. A Biha Bilta, nell’Alto Tell Tunisino, il solerte proprietario si vanta di aver costruito un pozzo che al tempo di Aureliano gli ha permesso di apportare migliorie al suo fundus e di creare nuova ricchezza[7]. Ad Henchir El-Left, Florentius, procuratore del patrimonio imperiale in Proconsolare, fra il 321-324 dedica a Netturno un lungo canale che dal bacino di adduzione (ninfio!) portava l’acqua sui praedia di Costantino[8]; ad Albulae Terentius Cutteus realizza con i figli e la moglie sulle sue terre un aquagium, un canale di scolo evidentemente indispensabile per l’efficienza della sua fattoria[9].

La necessità quotidiana dell’acqua è sottolineata dalle numerose dediche al genius che protegge la fonte (per esempio alle sorgenti dell’Ampsaga, Oued Rummel, alla Ferme du Caid presso Batna, o ad Hammam Sayala) o a Neptunus, il dio del mare ma più in generale delle acque, per questo venerato in insediamenti lontani dalle coste come nel villaggio di Tituli fra Haidra e El Kef, a Gafsa, a Lambaesis, forse fra i monti dell’Ouarsenis nell’Algeria occidentale[10].

Più in generale nelle iscrizioni del II-IV secolo, fra Libia e Algeria, è diffusa l’attenzione per l’acqua, le sorgenti e gli impianti di adduzione o distribuzione: thermae, aquaeducti, fontes, putea, cisternae sono termini ricorrenti nell’epigrafia africana (invero non particolarmente prolifica su questo tema, una quarantina di testi), impianti essenziali per lo svolgimento della vita civile, che contribuiscono a distinguere un centro urbano da un villaggio, che aumentano il prestigio di un insediamento e gli agi dei suoi abitanti, che denunciano l’adesione della popolazione a modelli di vita romani. Sono opere che hanno una forte ricaduta sulla collettività e per questo sono realizzate sia dall’imperatore o dai suoi funzionari (16 casi), sia pecunia publica da magistrati locali (14 esempi), sia infine con il contributo di facoltosi evergeti alla ricerca del consenso politico ed elettorale nella comunità[11]: a Sabratha Flavius Tullus aquam privatam induxit, costruì bene 12 bacini e infine versò duecentomila sesterzi per la manutenzione dell’impianto che veniva donato alla città[12]. Ritorneremo in seguito su questi aspetti ma già ora è interessante osservare che gli impianti sfruttavano una o più sorgenti poste a non grande distanza dall’insediamento: in generale nell’attuale Tunisia gli aquedotti più lunghi non superano i 10 km (a milliario septimo ricorda un testo di Thugga) e di solito si attestano fra i 4-5 km[13]. La loro importanza era comunque strategica e non a caso è frequente in Numidia l’intervento dei militari, sia come forza lavoro sia come supporto tecnico; in Libia e nelle oasi del predeserto venivano usati gli schiavi per costruire i canali sotterranei.

 

3. Ben più ampia ma disomogenea la documentazione archeologica giacché questo settore della ricerca è stato parzialmente trascurato in passato. In Marocco le informazioni si concentrano sui centri urbani, alcuni dei quali come Volubilis indagati capillarmente, mentre i siti rurali sono stati poco esplorati; spesso non è noto attraverso quali canali l’acqua raggiungeva i centri abitati. Le prospezioni franco-marocchine nel bacino dell’oued Sebou d’altronde dimostrerebbero che per i vici dell’area, sorti generalmente in prossimità degli oueds, non fu realizzata nessuna importante opera idraulica per la raccolta o la distribuzione dell’acqua; farebbero eccezione alcune opere in prossimità delle coste (cisterne, bacini, canali) collegati ai processi di lavorazione e conservazione del pesce, in gran parte destinato all’esportazione[14].

In Algeria programmaticamente il Service des Antiquités e Stephan Gsell si concentrarono sulla viabilità di età Romana perché su quella si sarebbe potuta impiantare la viabilità moderna, necessaria al controllo di un territorio considerato insicuro. Un grosso passo in avanti lo si deve al colonello Jean Baradez che sfruttando la fotografia area poté individuare nella regione a ridosso dell’Aurès strutture antiche per raccogliere, controllare, regolare le acque pur non potendo allora chiarirne con precisione la cronologia. Sulla scia, ma con attente indagini sul terreno, si mosse un decennio dopo Jean Birebent, con studi specifici limitati tuttavia ai soli impianti dell’Algeria orientale[15].

Abbondano invece le informazioni sulla Tunisia, un protettorato considerato politicamente tranquillo e dove nella prospettiva del governo francese era possibile investire risorse. È infatti un dato di fatto che tanto la Brigade Topographique quanto i cultori delle Antiquità che percorrevano il paese, avevano un occhio particolarmente attento alle opere idrauliche nella convinzione che queste informazioni potevano essere ancora utili nel XIX secolo e fare da volano all’economia della nuova Tunisia, una visione che ancora traspare negli scritti di Despois e Gilbert Picard alla metà del XX secolo. Tutti questi dati furono radunati e commentati già nel 1897 da Paul Gauckler nel suo Enquête sur les installations hydrauliques romaines en Tunisie. In tutti questi lavori è manifesta l’idea che solo i Romani fossero riusciti a sfruttare in maniera capillare le enormi potenzialità agricole dell’Africa e che solo attraverso un recupero di queste conoscenze sarebbe stato possibile rimediare ai danni provocati dai Berberi dediti al nomadismo e dagli invasori arabi, a loro giudizio incapaci di gestire quel patrimonio ed anzi autori di un’insensata distruzione di impianti indispensabili al progresso del paese e alla sua prosperità[16].

Il lavoro di Gauckler era abbastanza sommario per quanto riguarda gli impianti rurali e spesso trascurava le regioni prossime al deserto e le oasi, se non in rari casi. Qui invece la ricerca è stata potenziata negli ultimi 40 anni dalle sistematica prospezioni di Pol Trousset fra Gafsa, il Jérid e Gabès[17]. Questo era stato un filone collaterale nelle indagini condotte in Libia dagli archeologi italiani ed anglosassoni nella prima parte del XX secolo, più recentemente ripreso dall’équipe inglese guidata da Graeme Barker e David Mattingly nell’ambito del progetto UNESCO Farming the Desert dedicato agli insediamenti rurali della Tripolitania[18]. Trousset e Mattingly hanno puntato alla riscoperta e valorizzazione del patrimonio culturale, senza perdere di vista le possibili ricadute pratiche sull’economia locale, hanno attirato l’attenzione sulle tecniche di adduzione delle acque nella regione del pre-deserto, sottolineando una continuità fra mondo pre-romano, romano, bizantino, aglabide, in alcuni casi sino ai giorni nostri, con risultati straordinari che rendono giustizia a un mondo tutt’altro che sottosviluppato e al contrario capace di produrre del surplus per il commercio con i centri urbani della costa.

In anni ancor più recenti, la percezione a livello sociale e politico di cambiamenti climatici globali, ha riportato in auge gli studi di idraulica e riacceso i riflettori sulle soluzioni idriche adoottate dai Romani rifornire città e campagne. Quasi in contemporanea escono nel 2008 fra gli altri alcuni contributi negli Atti del XVII convegno L’Africa Romana, dedicati alle foggaras e alle cisterne della Malga a Cartagine[19] e soprattutto il repertorio di Massimo Casagrande, che raccoglie tutta la bibliografia sugli impianti idrici della Zeugitania e della Byzacena e ne censisce 422 distribuiti in 362 siti differenti, fornendo interessanti osservazioni sulle tecniche e le finalità delle strutture individuate[20]. Sono solo dell’anno seguente gli Atti del Convegno Controle et distribution de l’eau dans le Maghreb antique et médiéval che pur nella loro incompletezza (mancano purtroppo alcune interessanti relazioni presentate a Tunisi nel 2002) offrono una rassegna molto ampia e critica sul progresso degli studi in tutta l’Africa Mediterranea per un arco cronologico che volutamente sfuma dall’età punica a quella aglabide. Infine si ricordano gli Atti del Convegno di Cadice 2009 Aquam perducendam curavit, editi già nel 2010, dedicato in particolare alla situazione della Baetica ma aperto al confronto con altre realtà dell’impero romano d’Occidente, in particolare con due panoramiche sulla Africa Proconsolare e sulla Tingitania.

 

4. È impossibile in questa sede entrare nei dettagli di questa ricca documentazione e ci limiteremo ad alcuni esempi fra i più diffusi e significativi, sottolineando differenti soluzioni di fronte a problemi comuni.

I già ricordati lavori di Trousset fra Gafsa, lo Chott Jérid, Gabès, El Hamma, Arad, hanno evidenziato come gli impianti idraulici abbiano condizionato la vita agricola e la nascita di società fortemente articolate ed impegnate nella gestione dell’acqua. Le strutture presenti nella regione sono alimentate dalle acque che discendono dalle ultime propaggini del Tell sahariano, captate dagli acquedotti, oppure da quelle portate in superficie con pozzi artesiane come nel Jérid o a Nefzaouna[21].

Nella regione di Sud-Est fra Matmata e Dehibat sino al Jebel Nefousa il rilievo tunisino-tripolitano costituisce invece una zona intermedia fra le Steppe e il Sahara per l’altezza dei monti (715 m), la pluviometria (200 mm), la vicinanza al Mediterraneo. Qui la popolazione sedentaria pratica l’arboricoltura grazie a metodi di irrigazione molto particolari che attingono l’acqua non tanto dalle rarissime fonti ma grazie a terrazze o sbarramenti (jessour) che controllano e incanalano le acque alluvionali o degli oueds Merteba, Seradou, El Hamma[22]. Strutture simili sono state individuate in Libia[23], nella Tunisia sud-orientale nella piana di Augarmi[24], fra Feriana e Kasserine nella regione delle Alte Steppe[25]. Spesso gli archeologi le hanno confuse con le clausurae, sbarramenti lineari lungo le piste in cui si spostavano in antico uomini, armenti e merci, destinati a regolare i flussi piuttosto che a difendere o chiudere ermeticamente il territorio provinciale[26].

I jessour sono infatti dei piccoli e parziali sbarramenti dei letti dei torrenti e nei valloni che trattengono le acque di deflusso e i fertili sedimenti che queste trasportano, riducendo l’erosione idrica. Più jessour sono disposti in sequenza, a distanze regolari, nel letto del torrente. Ogni jesr si compone di uno sbarramento (tabia o katra) perpendicolare al vallone, e di un’area di raccolta dei sedimenti (fondo del jesr) che è una sorta di terrazza a monte della tabia sulla quale si impiantano le coltivazioni e che talora è rafforzata alla base con pietre; ogni tabia ha uno o due scoli, quelli laterali detti menfess, quelli centrali masraf, che permettono di far defluire verso il jesr posto a valle l’acqua in eccesso; le acque si infiltrano progressivamente nel suolo e non evaporano, costituendo una riserva vitale per combattere la siccità. Si stima che con questo metodo 200 mm di pioggia abbiano l’efficacia di 500 mm con evidenti vantaggi per l’agricoltura[27].

I jessour sono noti già in documenti del secolo XI secolo ma è probabile che affondino le loro radici in codici non scritti rialenti al mondo antico. Presuppongono l’esistenza di un’organizzazione collettiva che limita il diritto soggettivo nel nome dell’interesse comune. Ogni jesr infatti non può che trattenere una certa quantità d’acqua e cedere il superfluo al jesr a valle; l’altezza della tabia, la posizione degli scoli, la loro larghezza, la pendenza del jesr non possono essere modificate se non con un accordo generale fra proprietari di jessour contigui e gli stessi proprietari devono garantirne la manutenzione; è vietato ostruire gli scoli per trattenere le acque, danneggiando di conseguenza il vicino; ogni proprietario è responsabile dei danni causati a valle dall’acqua che fuoriesce dal suo jesr.

L’uso dei jessour probabilmente favorì la sedentarizzazione delle tribù del deserto nel Jébel, dove l’élite punico-libica, poi romanizzata, praticava da tempo la coltivazione dell’olivo: la violenta rivalità fra Lepcis Magna e Oea, esplosa nel 71 d.C. con l’intervento armato del comandante della legione, potrebbe nascere dalla necessità di accaparrarsi nuove parcelle di terreno che grazie ai jessour potevano ora dare importanti rendite. È in ogni caso evidente che i jessour fra Libia e Tunisia sono collegati a una serie di fattorie costituitesi in contemporanea alla creazione di una fitta rete di fortini per il controllo del territorio in età giulio-claudia; queste fattorie, forse solo nel IV secolo, furono fortificate e presero la forma dei gsur: il singolare gasr forse deriva dal latino castra e gli stessi occupanti amavano definire queste fattorie con termini militari come turris, castra, oppidum: nella sua forma classica è una torre quadrangolare dalle mura massiccie, con all’interno con due o più magazzini, una pozzo, una stretta porta d’accesso[28].

 

5. Ai gsur, isolati o raggruppati in piccoli nuclei di cinque o sei edifici, erano annessi degli spazi circolari identificati come aie, silos circolari per lo stoccaggio dei cereali, frantoi e soprattutto cisterne o pozzi che captavano le acque degli oueds: le cisterne (majen) erano di solito sistemate sul bordo degli oueds e i bacini erano scavati nella roccia[29]. L’esempio meglio conservato è quello di Tininai, con pozzetto quadrangolare di circa 2 x 2 m profondo 7 m, alla cui base si aprono 4 canali a croce di 24 x 4 m; l’acqua era estratta con pozzi più piccoli e bacini di decantazione, secondo modelli ben studiati da Rebuffat nelle fattorie della Libia: impianti di questo genere potevano raccogliere dai 50 ai 200 m3 di acqua ma a Tininai la batteria di cisterne arriva a conservare 3000 m3. Ad Ain Merzak presso Bir Scedua sino a qualche anno fa ancora l’acqua veniva captata da una sorgente perenne con l’uso di animali che la pescavano a 20 m di profondità. Il sistema più frequente è però quello di bacini quadrangolari scavati in superficie, rivestiti da malta idraulica e ricoperti da volte o copertura piana, con piccoli fori che permettevano di pescare l’acqua dall’alto. L’acqua era trasportata verso la cisterna da pozzi di captazione e piccoli bacini di decantazione posti a monte della cisterna stessa[30].

 

6. Una tecnica diffusa nelle aree pre-desertiche fra Libia e Algeria è quella delle foggaras, le gallerie sotterranee capaci di drenare le acque della falda freatica e di condurle verso le oasi; in Marocco il sistema, forse introdotto solo dagli Aglabidi, prende il nome di khettara ma la sua origine è probabilmente iraniana (dove sono note come qanats), introdotta dagli Achemenidi in Egitto nel V secolo a.C. e da qui trasmessa prima ai Garamanti del Fezzan, poi ai Romani; tracce di questo sistema sono state individuate in Andalusia (madjira o pozeria) e più recentemente sono state esportate in Sud America.

Le foggaras sono pozzi di aerazione verticali, scavati a distanze regolari, che collegano con la superficie la galleria sotterranea, posta anche a venti metri di profondità. I pozzi sono indispensabili sia per lo scavo del condotto sia per le successive operazioni di pulizia. Per realizzare la galleria si scavano prima una serie di pozzi a intervalli regolari tra loro e con profondità costanti, poi viene eseguito uno scavo tra le basi di due pozzi contigui sino al congiungimento dei due scavi convergenti, ottenendo così il cunicolo idraulico tra i due pozzi di partenza. In superficie, alla bocca dei pozzi si accumulano i materiali di spurgo così recuperati che segnalano la presenza e la direzione dei condotti sottostanti. A valle la galleria, caratterizzata da una minima pendenza, sbocca in un bacino presso l’insediamento e da qui si diramano una serie di canali per irrigare i campi. Lo scavo inizia a partire dalle aree agricole delle oasi, penetra nel terreno delle vallate alluvionali e risale gli alvei della rete idrografica sino a raggiungere l’insieme degli strati permeabili della falda freatica. Con questo sistema è possibile emungere attraverso gli strati permeabili la falda freatica alimentata dalle normali precipitazioni o dalle condensazioni notturne dell’umidità di superficie, determinata dalle forti escursioni termiche. Acqua di captazione e acqua di condensazione può in questo modo essere convogliata ed utilizzata per l’irrigazione, impedendo un’inutile dispersione di liquidi nel terreno o nell’atmosfera. Maggiore è la superficie drenante di captazione e maggiore sarà l’acqua distribuita nei campi a valle[31].

Con le foggaras i Garamanti, stanziati fra l’Hamada el Jamra ed il Tropico del Cancro, svilupparono un’intensa agricoltura i cui prodotti erano in parte destinati al commercio con le città romane della costa libica. La loro capitale, Garama, con i suoi 20 ettari cinti da mura, i templi, i bagni, i quartieri abitativi, i mercati, le vaste e ricche necropoli, può essere considerata una vera e propria città. Sul loro territorio è stato individuato un articolato sistema di irrigazione, che conta ancora oggi migliaia di foggaras lunghe fra i 500 m e i 2 km[32]. Probabilmente i Garamanti insegnarono ai Getuli questa tecnica e furono questi utlimi a diffonderla nelle aree sahariane algerine di Gourara, Touat, Tidikelt e Ahaggar, fra Tebessa e Batna, regioni dove le gallerie drenanti, circa un migliaio, raggiungono uno sviluppo complessivo tra i 3000 e i 6000 km[33]. In Algeria il drenaggio della falda non avviene mai a grande profondità e i pozzi d’areazione sono realizzati a 2-4 m fra loro a causa della fragilità del terreno e forse anche per recuperare al massimo la precipitazione occulta; i canali sommersi variano fra i 3-10 km; le gallerie strette (60-70 cm) e con altezza variabile fra 1-1,50 m e i 3-4 m, probabilmente in seguito all’abbassamento della falda freatica, che in alcuni casi ha suggerito la realizzazione di una seconda galleria più in basso[34]. In Tunisia sono noti i tunnel drenanti della piana di El Soukra, a occidente di Cartagine, quelli di Sidi Nasseur Allah, a circa 80 km a ovest di El Djem, tra Kairouan e Gafsa, nell’oasi di El Guettar, nell’area di Nefzaoua[35].

 

7. Le caratteristiche idrogeologiche dell’area a ridosso dell’Aurès settentrionale hanno contribuito ad un forte popolamento in epoca romana, con la nascita di numerosi borghi agricoli che, tramite un articolato e differenziato sistema di approvvigionamento idrico, erano in grado di sfruttare al meglio le falde freatiche di superficie[36]. Probabilmente la foggara di Inemarem nella regione dei monti di Bellezma, nell’Aurès nord Occidentale, era una delle sorgenti dell’Aqua Claudiana di Lamasba. Da qui giunge il celebre regolamento de aquis[37], redatto durante il principato di Elagabalo in seguito a un arbitrato interno alla comunità che oppeva i coloni (in maggioranza dei Numidae) insediatisi sulle terre imperiali. Il testo, per il periodo compreso fra il 25 settembre e dicembre, stabilisce in maniera precisa orari e durata dell’irrigazione per i singoli lotti, in relazione alla posizione del terreno, alla maggiore o minore evaporazione nell’arco della giornata, al livello del bacino di raccolta (aqua descendens o ascendens). Un sistema di chiuse evitava probabilmente che il livello del bacino salisse o scendesse oltre i limiti di guardia. Dal bacino l’acqua era ridistribuita con un canale centrale (matrix riganda) a canali secondari connessi agli appezzamenti di terreno, alcuni organizzati a terrazze (scalae). La quantità d’acqua destinata ai singoli lotti era calcolata in base a un non meglio definibile coefficiente K, una scala di valori che permetteva di essere equanimi e uniformi nell’irrigazione dei terreni. Il regolamento di Lamasba nasce dal pragmatico incontro fra la tradizione giuridica italica e i sistemi di misurazione punici, diffusi fra la popolazione locale ancora agli inizi del III secolo.

La sua applicazione doveva essere diffusa se ancora all’ aqua ascendes o descendes si fa riferimeno in una delle Tablettes Albertini, documento tratto dallo schedario di Flavio Geminio Catullino, ricco possidente nella regione di Tébessa, e redatto nel 494: i lotti venduti da Iulius Restitutus e sua moglie Donata sono coltivati a terrazza (particellas agrorum id est aumas sivi coerentes), e il loro valore è determinato sia dalle piante coltivate sia dai diritti sull’acqua del proprietario[38]. Acutamente Pol Trousset raccorda questi meccanismi di distribuzione idrica con quelli presenti nelle oasi e nei jessour tunisini, dove, come a Lamasba, hanno dato vita a una proprietà molto parcellizzata: per esempio nelle oasi di Touat e Gourara le acque, una volta fuoriuscite dalle foggaras, sono condotte attraverso un canale scoperto in un bacino di distribuzione e da qui immesse nei canali (seguia) dei singoli proprietari, in quantità proporzionali alle quote di proprietà.

Pur di matrice pre-romana, le foggaras si diffusero in Africa in età imperiale e i Romani vi apportarono una serie di accorgimenti tecnici, per esempio l’uso di foderare il canale sommerso con con lastre o pietre, ignoto ai Garamanti, al fine di ridurre le perdite d’acqua; altro espediente era quello di realizzare nel condotto, una piccola canaletta, anch’essa rivestita, per facilitare lo scorrimento dell’acqua: era forse una foggara l’Aqua Paludensis di Thamugadi, costruita nel 183-185, che tuttavia si serviva anche di numerosi pozzi, cisterne e sfruttava le acque della fonte perenne di Ain Morris: l’iscrizione ricorda infatti che tale opera idraulica era in grado di drenare (conquirere) le acque di una falda freatica (aquae paludensis)[39].

 

8. Jessour, foggaras, pozzi, canali, acquedotti spesso sono i tasselli di un sistema integrato che ancora oggi in uno stesso territorio, per esempio nell’oasi di El Guettar presso Gafsa, puntano a sfruttare le risorse idriche presenti, combattono l’erosione delle terre e i fenomeni di desertificazione, favoriscono l’innalzamento della falda freatica[40]. Gli effetti di questa organizzazione sono descritti in un celebre passo di Plinio il Vecchio, che fu procuratore fiscale in Proconsolare fra il 70-72 e che probabilmente visitò l’oasi di Gabès, antica Tacape, rimanendo colpito dalla sua straordinaria fertilità: “il y a en Afrique, au milieu des sables, … une cité nommée Tacape, dont le territoire, bien irrigué est d’une fertilité miraculeuse. Dans un rayon d’environ trois mille pas, une source fournit une eau abondante sans doute, mais qu’on ne distribue pourtant  qu’à heures fixes aux habitants. Là sous un immense palmier, pousse un olivier ; sous l’olivier, un figuier ; sous le figuier, un grenadier ; sous le grenadier, une vigne ; sous la vigne on séme le blé, puis des légumineuses, enfin des herbes potagères : tout cela le meme année, tout cela se nouirrissant à l’ombre du voisin. … Le plus étonnant c’est que la vigne y porte deux fois et qu’on fait le vendange deux fois pour an. Et si il n’épuisait pas la fécondité du sol par des production multiples, l’exubérance ferait périr chaque récolte. Le fait que toute l’année on y recolte quelque chose, et il est certain que les hommes ne favorisent pas cette fertilité”. La sorgente a cui allude Plinio è forse quella di Sed Reha, dove gli archeologi hanno rinvenuto i resti di uno sbarrammento probabilmente di età romana[41]. Plinio è rapito dall’abbondanza dell’oasi, dove i piccoli lotti raggiungono prezzi elevatissimi giustificati tuttavia dalla resa della terra, registra il curioso metodo per calcolare le superfici (Quaterna cubita eius soli in quadratum, nec ut a porrectis metiantur digitis, sed in pugnum contractis), estraneo al sistema agrimensorio romano; sottolinea come la natura abbia premiato l’uomo oltre i suoi meriti ma nel contempo non può che riconoscere agli abitanti dell’oasi la capacità di organizzare e distribuire questa ricchezza per creare maggiore profitto. L’efficienza di questi sistemi di adduzione e la loro incidenza sull’economia è indirettamente provata anche dai rilievi funerari legati ai gsur più importanti: accanto alle scene di guerra, caccia, amministrazione della giustizia, vengono rappresentate carovane cariche di merci e scene di vita agricola: la raccolta dei datteri, la semina e il raccolto dei cereali, i dromedari che arano i campi, quasi una fotografia plastica di quanto Plinio aveva potuto osservare a Gabès.

 

9. L’uso di un bene prezioso come l’acqua non poteva che essere normato. Se spesso la fonte era considerata un bene privato nella totale disponibilità del dominus del fundus in cui questa si trovava, tuttavia in molti altri casi era l’interesse collettivo ad essere prevalente, come a Lamasba, nelle oasi di Touat e Gourara, a Gabès. Le autorità provinciali favorivano con lo strumento delle servitù rurali l’accesso alle fonte agli uomini e agli armenti, sia constando una frequentazione della sorgente da tempo immemorabile sia ammettendone l’uso ininterrotto da soli dieci anni; in altri casi (per esempio ad Ain Sidi Mansour in Ouarsenis al tempo di Probo) il governatore stesso creava un nuovo diritto, aprendo l’uso della fonte, considerata di interesse generale, a particolari categorie e trasformando il quel bene da privato in pubblico[42].

Ad Ammaedara è necessario l’intervento di Caio Postumio Africano, senatore e patrono della colonia fra il 160-180 per imporre le servitù prediali necessarie a far passare l’acquedotto destinato ad alimentare la città e i campi: sappiamo infatti che i tecnici incaricati di riparare la struttura vi potevano accedere in qualsiasi momento e che potevano utilizzare quanto disponibile nella proprietà per effetture le riparazioni; sino a 15 piedi per lato era vietato costruire case o tombe o piantare alberi e questo era un limite importante, soprattutto quando ci si approssimava alla città e le aree edificabili acquisivano un valore maggiore, soprattutto quelle poste nei pressi di una strada e la strada era spesso la direttrice seguita da un acquedotto[43]. La nomina di Africano denota evidentemente una resistenza dei proprietari ad accogliere un’opera che con lo svantaggio di pochi avrebbe beneficato all’intera collettività: da qui la necessità di scegliere per questa impresa un notabile capace di convincere i più riottosi a non porre veti che avrebbero costretto l’amministrazione a lunghi procedimenti e a costose varianti di progetto. Africano agiva per ordine del proconsole, come suo legato speciale, o dopo aver ottenuto l’autorizzazione del procuratore ad attraversare le terre imperiali. In fondo problemi di questo genere sono gli stessi che i nostri amministratori devono affrontare ai giorni nostri e anche questo aspetto ci rende straordinariamente moderno l’approccio degli antichi Romani all’acqua.

 


* Si ringraziano per il supporto e per aver voluto discutere con gli autori i vari temi, M. Casagrande, M. B. Cocco, R. Zucca.

[1] Despois 1963, 15-29, 97-110.

[2] Despois 1963, 19.

[3] Despois 1963, 26, 27-28, 98, 103.

[4] AE 1975, 880 da Ureu: … [aquam (?) corrup]/tam post diluviem [—]/to servato recte (?) [—] / propria liberalitate [ex]o[rnavit] …; CIL VIII, 2661 (p. 1739) = ILS 5788 da Lambaesis: Aquam Titulensem quam ante annos / plurimos Lambaesitana civitas in/terverso ductu vi torrentis amiserat / perforato monte instituto etiam a / solo novo ductu …; da Gherait el Garbia (Chiron 2011, 276): Ab impetu aqu[arum —] / Multa loca ed[ucta(?) — / — pa]lude du[— per(?)] / [limi]tem Ten[theitanum — / —]I CVII m[ili(?)] …

[5] Leschi, 1948, 103-116 = Etudes, pp. 75-79.

[6] IRT 896 = AE 1973, 573: [aquaeductu]m bell(o) dissi[patum] …. Sulla strategia degli Austuriani Felici, Munzi, Tantillo, 2008, 627-632.

[7] AE 1975, 883 = 1978, 835 = 1983, 975 = 2005, 1685: … praeter cetera bona q[uae] / in eodem f(undo) fecit steriles / qu[o]que oleastri surculo[s] / inserendo plurimas o[leas] / instituit puteum [iuxta] / viam pomarium cum tric[hilis] / post collectarium vin[eas] / novellas sub silva aequ[e in]/stituit …

[8] AE 1949, 49 cfr. CIL VIII, 23653 = 23673 = ILTun 565 = ILS 5732.

[9] CIL VIII, 21671 = ILS 5769: …. aquagium suis possessionibus / constituerun(t) et dedicaverunt.

[10] Salama, 1973, 344 note 11-12; BEL FAÏDA, 2002, 1715-1728. Meno probanti le dediche alle Ninfe, legate di solito a un impianto termale o a pozze di acqua calda, cfr. Arnaldi, 2004, 1355-1364.

[11] Cfr. le diverse posizioni di Shaw 1984, 121-173; Slim 1990, 169; Peyras 1991, 208-209; Wilson 1998, 91-92; Wilson 1999, 314.-331; BEL FAÏDA, 2000, 1589-1602 ; BEL FAÏDA, 2009, 123-141; Casagrande 2010, 469. Cfr. anche Casagrande 2008, passim.

[12] IRT 117.

[13] CIL VIII, 1480 (p. 2616) = 26534 = ILTun 1408  = AE 1966, 511 = DFH 36 = ZPE-175-288: [Pro salute Imp(eratoris) Caes(aris) M(arci) Aureli Commodi Antonini Aug(usti)] Pii Sarm[atici Ge]rmanici max[i]mi Britannici p(atris) p(atriae) civitas Aurelia Thugga [a]quam con[duxit e fonte M]occol[i]tano a milliario septimo [sua] pecunia induxi[t et] lacum fecit M(arcus) Antonius Zeno proc[o(n)s(ul) Africae dedic(avit) cur(atore) L(ucio) Terentio Romano] cfr. Casagrande 2010, 461-462, 469.

[14] Lenoir 2009, 41-83; Pons Pujol – Lagostena Barrios 2010, 533-542; cfr. Euzennat 1989.

[15] Baradez, 1949, pp. 165-212; Birebent 1964.

[16] Picard 1959, 59-76; Despois 1963, 120.

[17] Trousset 1986; Ben Ouezdou – Trousset 2009, 1-16.

[18] Barker 1996, passim. Mattingly 1996, passim.

[19] Baklouti 2008. 811-856; Mosca – Di Stefano, 2008, 857-877; De Angelis – Finocchi, 2008, 2179-2196. Sugli impianti di Cartagine, cfr. anche Wilson 1998, 65-102; Rossiter, 2009, 177-197; Di Stefano 2009, 143-164.

[20] Casagrande 2008, in particolare 249-260: in Zeugitania sono stati individuati 249 impianti in 202 siti (118 urbani, 13 rurali, 17 privati), in Byzacena abbiamo 173 impianti in 163 siti (49 urbani, 18 rurali, 8 privati).

[21] Ben Ouezdou – Trousset, 2009, 11.

[22] Ben Ouezdou – Trousset, 2009, 11-12.

[23] Supra; vd. anche Mattingly 1995, 68-77.

[24] Trousset 1974; Trousset 1987; Mrabet 1999; Mrabet 2003.

[25] Hitchner 1995, 143-158.

[26] Pur con differenti impostazioni, Bénabou, 1976, 429-445; Whittaker, 1978, 332-337, 340-350; Trousset, 1980, 935-942; Trousset, 1984, 383-398; Casella, 2004, 211-238.

[27] Ben Ouezdou – Trousset, 2009, 3-4.

[28] Rebuffat, 1982, 193-195; Elmayer, 1985, 78-80; Rebuffat, 1988, 44-60; Mattingly, 1987, 75-83; Mattingly, 1989, 141-143; Mattingly, 1995, 202-209; Mattingly – Dore, 1996, 127-133; Mattingly, 1998, 168-173; Felici, Munzi, Tantillo, 2008, 647-650; Munzi, Felici, Cirelli, Schingo, Zocchi, 2010, 727-731, 737-739. Gsur sono stati localizzati nella valle dell’Wadi Bei el-Kebir e nei bacini del Zem Zem e del Soffegin, ai bordi del Grande Erg Orientale, nel corridoio fra Gabès e lo Chott el Djérid.

[29] Mattingly – Dore, 1996, 133-158.

[30] Rebuffat 1988, 38-40, 43, 46, 53-55.

[31] Mattingly – Wilson 2003; De Angelis – Finocchi, 2008, 2179-2196; Wilson 2009, 19-39.

[32] Mattingly – Wilson 2003, 47-49.

[33] Mattingly – Wilson 2003, 39, cfr. Birebent, 1964, 51-58, 63-66, 81-83, 203-205, 213-215, 267-268, 387-389: foggaras sono note a Souma el Kiata, Henchir Oukhmida e Fridju, nell’altopiano del Mahmel fra i monti Nementchas, a Ksar el Kelb (Vegesala), ad Ain Ferhat, nella valle della Sbikra, Ain Kharoubi, nella piana di Baghai, Badias.

[34] De Angelis – Finocchi, 2008, 2189.

[35] De Angelis – Finocchi, 2008, 2190.

[36] Jacques, 1992, 125-139.

[37] CIL, VIII, 4440 = 18587 cfr. Birebent, 1964, 341-343, 387-389; Trousset 1986, 175-178, 192-193, vd. anche Picard 1959, 64; Shaw, 1982, 61-103; Meuret 1996, 87-112; De Angelis – Finocchi, 2008, 2191; Casagrande 2010, 468.

[38] AE 1952, 209 = 1954, 212 cfr. Shaw 1982, 81.

[39] AE 1934, 40 cfr. Leschi (1934-1935); Birebent, 1964, 325-330; Fentress (1979), 168-70.

[40] De Angelis – Finocchi, 2008, 2188-2189.

[41] Plin. NH, XVIII, 188-189: Civitas Africae in mediis harenis petentibus Syrtis Leptimque Magnam vocatur Tacape, felici super omne miraculum riguo solo. Ternis fere milibus passuum in omnem partem fons abundat, largus quidem, sed et certis horarum spatiis dispensatur inter incolas. Palmae ubi praegrandi subditur olea, huic ficus, fico punica, illi vitis, sub vite seritur frumentum, mox legumen, deinde olus, omnia eodem anno, omniaque aliena umbra aluntur. Quaterna cubita eius soli in quadratum, nec ut a porrectis metiantur digitis, sed in pugnum contractis, quaternis denariis venundantur. super omnia est bifera vite, bis anno vindemiare. Et nisi multiplici partu exinaniatur ubertas, pereunt luxuria singuli fructus. Nunc vero toto anno metitur aliquid, constatque fertilitati non occurrere homines. Cfr. anche Trousset 1986, 169, 173-175.

[42] Salama, 1973, 339-349, cfr. AE 1973, 652.

[43] AE 1988, 1119: Amm[aed]ar[ae] Aug(ustae) s[acrum] / C(aius) Postu[miu]s C(ai) f(ilius) Qui[r(ina)] / Afr[icanus c(larissimus) v(ir)] / [I]IIvir ca[pital(is) tr]ib(unus) leg(ionis) VII Gem(inae) q(uaestor) urb(anus) [ab ac]/[tis] senatus aedil(is) curul(is) p[r]aet(or) [urb(anus)] / [leg(atus) p]ro pr(aetore) patronus col(oniae) aq[uae ductum] / [e legi]bus praediorum iuris su[scepit] / [cum] / [rivo a]quae [q]uae permissu p[roco(n)s(ulis) vel p[roc(uratoris) fluit]. Cfr. Ben Abdallah, 1988, 236-251; Casagrande 2010, 463-466.




Oristano dalle origini alla IV provincia.

Oristano dalle origini alla IV provincia
Lunedì 2 Aprile 2012
Sala del Consiglio Provinciale d’Oristano

Attilio Mastino

La nascita d’un libro deve essere salutata con entusiasmo, in un tempo, come questo che vede ridursi continuamente i finanziamenti destinati alla Cultura.

In particolare salutiamo oggi la nascita di un ponderoso primo tomo di una Storia, quella di Oristano dalle Origini alla Quarta Provincia, che corona, mercé l’intervento finanziario della stessa Provincia d’Oristano e della nostra Università, la celebrazione di un congresso solennemente voluto dalla provincia di Oristano, allora retta dall’onorevole Mario Diana, e dal Comune d’Oristano, allora retto dal Sindaco Tonino Barberio, per la celebrazione del trentennale della IV Provincia (1974-2004) con Capoluogo Oristano.

La scelta dell’Amministrazione Provinciale d’Oristano, oggi retta dall’On. Massimiliano De Seneen, di solennizzare la Festa statutaria della Provincia d’oristano, che cade il Lunedì Santo d’ogni anno in ricordo della Carta De Logu, con la presentazione del I tomo di questa Storia d’Oristano e del suo territorio, curata da Pier Giorgio Spanu e Raimondo Zucca, sottolinea l’attenzione di questa Provincia alle tematiche culturali e al recupero dell’identità storica del territorio.

Prima di incamminarci nella disamina di questo I Volume vorrei auspicare che questa Amministrazione possa far seguire la immediata pubblicazione del II ed ultimo tomo della Storia, che è ormai definito dai colleghi Antonello Mattone e Pinuccia Simbula, con l’intervento di diecine di studiosi italiani e dell’Estero, e che attende solo di essere trasmesso all’Editore Carocci di Roma che assicura una distribuzione internazionale delle opere prodotte.

Le biblioteche hanno un settore destinato alle Storie di città: opere collettive, in numerosi volumi, organizzate da Fondazioni, Istituti Editoriali, Università: dalla Storia di Milano, dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, alla Storia di Napoli della Società Editrice omonima, alla Storia di Venezia edita dall’ Enciclopedia Italiana, alla Storia di Torino di Giulio Einaudi.

La Sardegna possiede nel proprio patrimonio librario una serie di volumi su singole Città: in particolare i volumi sugli Statuti Sassaresi, su Alghero, su Olbia, su Castelsardo, curati dall’Università di Sassari, ma frutto del contributo intellettuale di Docenti e Ricercatori di Università e Istituti culturali italiani e esteri.

Fra il  20  e il 24 ottobre  2004 il dibattito scientifico sulla storia urbana della Sardegna si era spostato ad Oristano, nella sede dell’ Amministrazione Provinciale, nella Sala Consiliare neoclassica del Comune di Oristano e nel Monastero del Carmine,  con un Convegno Internazionale, organizzato da Antonello Mattone, allora Direttore del Dipartimento di Storia dell’Ateneo sassarese, diretto poi da Alberto Moravetti, che oggi è con noi, e ora dopo la riforma confluito nel Dipartimento di storia scienze dell’uomo e della formazione, oggi  diretto da Maria Margherita Satta. E anche per impulso delle Amministrazioni Provinciale e Comunale di Oristano, al compimento del trentennale dell’istituzione della IV provincia sarda.

Questo impulso si configura attraverso la sinergia interistituzionale  fra la provincia di Oristano e il comune capoluogo, sperimentata in numerose occasioni  insieme alle istituzioni scientifiche, ed in particolare le Università.

Gli Amministratori della Provincia di Oristano, gli On.li Mario Diana, Pasquale Onida e Massimiliano De Seneen, e i Sindaci di Oristano, il Dott. Tonino Barberio, l’ On. Angela Nonnis. e l’attuale Commissario Straordinario Dott. Antonello Ghiani, si sono prodigati, con lo staff del Dottor Giuliano Nocco e successivamente dell’Ing.  Piero Dau,  nel corso degli anni, dapprima per la preparazione del Convegno “Oristano dalle origini alla IV Provincia”, quindi per la sua celebrazione, infine per la edizione degli Atti, cui compartecipa l’Ateneo Sassarese.

Protagonisti del Convegno internazionale oristanese furono 146 studiosi di varia estrazione provenienti dalle università italiane ed estere, ma anche da soprintendenze, biblioteche, archivi.

Dal convegno sono scaturiti due ponderosi volumi con oltre 100 articoli, nella Collana del Dipartimento di Storia, curati dall’ anima di questo Convegno, Antonello Mattone, con i suoi collaboratori Pinuccia Simbula, Pier Giorgio Spanu e Raimondo Zucca, editi, con il consueto nitore e professionalità, dall’Editore Carocci di Roma,  di cui quest’ anno si pubblica il primo,  che propongono la dialettica, spesso accesa, sui temi storiografici lungo il percorso millenario di Oristano e il suo territorio provinciale, dal Neolitico del VI millennio a.C. al XX secolo.

Il tema cruciale dell’ incontro è stato quello della civitas, intesa come comunità di cittadini  che, nelle varie temperie storiche, organizza il proprio spazio urbano e lo spazio di relazione.

Non casualmente è stato scelto per il manifesto del Convegno la visione assonometrica di Giorgio Cireddu della torre gotica di San Cristoforo del 1290, simbolo della città murata di Oristano giudicale, unita alla torre razionalista della Casa del Fascio di Mussolinia-Arborea, seguendo una lettura di Giorgio Pellegrini del progetto dell’ Architetto Ceas, ispirato alle linee della torre medievale di Oristano. Le due torri sono state poi riscritte, dallo studio grafico di Valter Mulas, nei colori di una città futurista alla Ferdinando Depero.

Apre il primo volume degli Atti un profondo saggio storico della collega On.le  Maria Rosa Cardia “Per una storia delle amministrazioni provinciali in Sardegna: la nascita della quarta provincia”, che abbraccia in un rigoroso affresco storico e documentale il cammino dell’idea autonomistica del territorio di Oristano, cui in giovinezza aderimmo con acuta convinzione a partire dal territorio della mia terra, la Planargia di Bosa.

Consentitemi però di superare la formalità dell’occasione e di entrare nel tema con una prospettiva un poco locale, esprimendo la soddisfazione di un vostro conterraneo per la riunificazione otto anni fa della Planargia nella IV provincia, proprio in occasione delle celebrazioni trentennali. Credo di essere uno dei testimoni dei sentimenti di amarezza di Bosa e della Planargia in occasione della approvazione Legge 16 luglio 1974 che definiva un territorio ridotto rispetto alla proposta di legge originaria, corredata – mi ricordo – delle delibere di un centinaio di consigli comunali adottate alla fine degli anni 50: la delibera del consiglio comunale di Bosa ricordo era firmata da mio padre.

La gioia degli Oristanesi per la nascita della provincia e per l’arrivo del primo prefetto, fu allora velata di tristezza dei  cittadini esclusi e lasciati ai margini;  voglio dare atto ai politici oristanesi di aver raccolto il sentimento della gente di Bosa con una serie di prese di posizione culminate nell’assemblea svoltasi nella città del Temo nel gennaio 1975 promossa da me e dall’onorevole Pietrino Riccio, con la partecipazione di diverse centinaia di amministratori locali, ma anche consiglieri regionali e parlamentari, tutti impegnati come Alessandro Ghinami a proporre iniziative legislative per l’allargamento della circoscrizione provinciale di Oristano a Bosa ed alla Planargia.

Negli anni successivi tutto si arenò con il sequestro e la morte di Pietrino Riccio. Eppure continuarono ad esserci vicini il Sen. Lucio Abis e Pietro Pinna, i Consiglieri Regionali Alessandro Ghinami e  Mario Puddu

Finalmente  il 7 maggio 1990, promossa dal sindaco di Bosa Giovanni Cuccuru e da me stesso, si svolse una consultazione popolare per acquisire un parere in merito al riaccorpamento dei comuni della Planargia e del Basso Montiferru in un unico ambito provinciale.

Il risultato di quella consultazione popolare sono noti e si trattò di un vero trionfo per Oristano, che ottenne l’83% dei voti, a fronte del 5% per Nuoro e del 2,4 % per Sassari.

Forse il volume che oggi presentiamo recupera una storia e riapre un percorso, al quale Bosa e la Planargia partecipano finalmente a pieno diritto.

La soppressione della provincia, istituita per decreto o per legge costituzionale sarebbe anche un tradimento, una minaccia non solo per il territorio ma anche per la Sardegna, che sarebbe condannata ad un nuovo centralismo, ad un’inarrestabile desertificazione. Non vogliamo che Cagliari diventi il centro burocratico di una sterminata periferia.

La chiave di lettura proposta della civitas percorre le undici sezioni in cui si è stato  articolato il convegno: nello stesso ambito preistorico e protostorico, precedente l’ avvio del fenomeno urbano, gli studiosi Maria Grazia Melis, Alessandro Usai, Salvatore Sebis, Sebastiano e Lucia  Demurtas hanno proposto, attraverso innovative metodologie, lo studio paleoecologico del territorio che consente di definire l’ importanza delle risorse economiche alla base delle scelte insediative dall’età del rame all’età nuragica.

La storia della formazione di lungo periodo delle città nasce dall’ interazione fra Sardi e Fenici  nelle acque del golfo di Oristano,  in questo golfo “emporico”, lungo il quale si scaglionano tre centri urbani, Tharros, Othoca, Neapolis, cui si aggiunge  alla fine del VI sec. a.C. Cornus, illustrati con novità di dati da Piero Bartoloni, Sandro Filippo Bondì, Paolo Bernardini e Alfonso Stiglitz.

La dialettica fra le città e il territorio viene illustrata in vari contributi, tra i quali si segnala la ricerca di Marco Rendeli sui kolossoi, le bianche statue di Monte Prama, lo studio sulle statuine bronzee femminili di Elisabetta Alba e quello di Emina Usai e di altri su santuari indigeni dell’ area del Monte Arci con continuità (o ripresa)  di culto in età cartaginese, segnata da deposizioni anche di oreficerie.

I giganti di Monte Prama oggi restaurati a Li Punti, in attesa della loro sede definitiva, e della ripresa degli scavi, ci narrano una vicenda di un popolo che immaginava i suoi eroi come lottatori, pugili, arcieri, e che esaltava la virtus della giovane generazione.

La storia delle città del territorio prosegue in età romana, quando si ebbe, nel territorio oristanese, la più alta concentrazione urbana di tutta la Sardegna: alle urbes fenicie e puniche si aggiungono le città di Uselis e di Forum Traiani, cui si dedica un contributo di chi scrive e di Raimondo Zucca, lo studio rilevante di Antonio Ibba sulla tribus cui erano di preferenza inscritti i Tarrenses, e l’ampia ricerca sull’ architettura romana delle città dell’ oristanese dovuta al nostro caro amico e collega, che purtroppo ci ha lasciati troppo presto, Giuseppe Nieddu.

L’ alta urbanizzazione prosegue nell’ alto medioevo, con la costituzione delle tre diocesi (su un totale di sette) di Forum Traiani, Cornus e Tharros, cui si dedicano fra gli altri  Pier Giorgio Spanu, Rossana Martorelli, Donatella Mureddu.

Con l’ XI secolo il quadro ci appare profondamente mutato: le città antiche sono tutte destrutturate o scomparse e al loro posto si afferma una civitas unica, Aristianis, l’ odierna Oristano, sede dell’ Arcivescovo e del Giudice Arborense.

I territori con le loro risorse funzionali ad almeno sei città nell’ evo antico sono da allora al servizio di un’ unica realtà urbana.

Il primo volume di Atti del nostro Convegno è dunque il laboratorio privilegiato della passione umana di storici di mestiere, armati dello strumentario del metodo, che restituiscono alla comunità di cui scrivono la storia la riconquista dell’ eredità dei padri, strumento di analisi del presente e di costruzione dell’ avvenire.

Qualche anno fa, Giovanni Palmieri citava un episodio che mi è caro, con le parole che avevo trovato per l’occasione. C’è una pagina straordinaria scritta in pieno medioevo da un viaggiatore arabo diretto verso La Mecca, una pagina che costituisce un documento eccezionale per la storia di Tharros, del giudicato di Arborea e della stessa Orisatano: è la descrizione del porto e delle rovine di Tharros, che l’arabo Djobaìr scrisse nel 1183, in navigazione tra Ceuta ed Alessandria, su una nave genovese. Dopo una tremenda tempesta, l’8 marzo la nave di Djobaìr gettò l’ancora in un porto sardo formato da un promontorio eccezionalmente allungato, detto Kù-smrka (Capo San Marco), (meglio dei Fenici). Qui presero acqua, legna e viveri. Un musulmano che comprendeva la lingua dei Rum (italiana) e qualche genovese discesero dalla nave e si recarono a quanto pare ad Oristano, dove videro più di 80 prigionieri musulmani d’ambo i sessi venduti al mercato, catturati di recente sulle coste del Nord Africa.

In questa processione giudicale di uomini a cavallo sul percorso tra Tharros e Oristano, in questa processione guidata da Barisone d’Arborea, che tanto colpì la fantasia dello scrittore arabo, mi piace vedere un po’ il simbolo di una continuità culturale che credo debba essere letta anche nella sntoria della Sardegna costiera: Tharros fu per lungo tempo, e a maggior ragione credo lo sia ancora oggi, un punto di riferimento essenziale per la cultura oristanese, il luogo mitico al quale tornare per riscoprire le radici di una storia straordinariaa, che è innanzi tutto storia urbana di una civiltà mediterranea.

Questa che presentiamo oggi è la complessa premessa delle vicende del giudicato di Arborea, della terra di Mariano e di Eleonora, che nell’immaginario collettivo rappresentano il momento più alto di una storia che è insieme storia di relazioni e storia tutta interna ad un territorio che ha avuto una sua omogeneità, una sua identità, una sua configurazione civile.

Un territorio che ha ancora tante ragioni per rinnovare vincoli di solidarietà., consapevolezza di una propria originalità, progetti e obiettivi comuni.

Allo sviluppo di questo territorio anche l’Università di Sassari vuole contribuire attraverso i corsi di laurea e le scuole di specializzazione sostenute presso il Consorzio Uno dal Comune e dalla provincia di Oristano.

L’ Ateneo di Cagliari e quello di Sassari, hanno cooperato con il ConsorzioUno per lo sviluppo dell’ Università in Oristano, dapprima con l’avvio di Diplomi Universitari nell’ Anno Accademico 1996-1997, nella prestigiosa sede settecentesca del Monastero del Carmine, di proprietà provinciale e destinata ai corsi universitari dall’ allora Presidente della Provincia di Oristano, On.le Gian Valerio Sanna, successivamente con l’ attivazione di Corsi di Laurea triennali in Biotecnologie Industriali ed Economia e Gestione dei Servizi Turistici e la Laurea specialistica in Economia Manageriale dell’ ateneo cagliaritano ed i Corsi triennali in Tecnologie Alimentari e in Viticoltura ed Enologia, di Scienze Ambientali  delle acque interne e lagunari, di Restauro e Conservazione dei Beni Culturali,  di Scienze dei Beni Culturali (curriculum di Archeologia Subacquea) dell’Università di Sassari. Le varie fasi della Riforma Universitaria non hanno consentito la conservazione di tutti i Corsi di Laurea, ma sia l’ Ateneo di Cagliari, sia quello Turritano, mantengono in Oristano sia le Lauree triennali in Biotecnologie industriali ed Economia e Gestione dei servizi turistici (Università di Cagliari), e in Tecnologie Viticole  Enologiche Alimentari (Università di Sassari), sia la prima Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici dell’Ateneo di Sassari, in rapporto all’ Archeologia subacquea e dei Paesaggi Costieri e alle isole mediterranee (Nesiotikà).

Altro capitolo che vede congiunti gli Atenei della Sardegna e gli enti Pubblici Territoriali provinciale e comunale di Oristano sono le Esposizioni museali, in collegamento con l’Antiquarium Arborense, fondato da Doro Levi e diretto con autorevolezza e amore dall’ indimenticato Professor Peppetto Pau, e i Convegni Internazionali, in primis quelli curati dall’ISTAR, l’Istituto Storico Arborense, del Comune di Oristano, diretto con eccellente cura dal nostro caro collega dell’Ateneo Sassaraese, Professore Giampaolo Mele.




Presentazione del volume Studi sul paesaggio della Sardegna romana.

Sassari 14 maggio, Facoltà di Lettere
Presentazione del volume Studi sul paesaggio della Sardegna romana
a cura di Giampiero Pianu e Nadia Canu

Giampiero Pianu e Nadia Canu presentano questi studi sul paesaggio della Sardegna romana, un volume pubblicato dalla Nuova stampacolor con i fondi della legge regionale sulla ricerca.

Dopo un’indigestione di toponimi, di informazioni, di dati, di coordinate geografiche, di carte non tutte in scala, debbo dire che trovo difficoltà a riassumere un’opera che comunque rappresenta un passo in avanti significativo sulle ricerche che si concentrano su una nuova disciplina accademica, la archeologia dei paesaggi e che hanno l’obiettivo di ricostruire la viabilità romana in Sardegna, soprattutto nella Sardegna centro settentrionale, utilizzando una molteplicità di dati, con un’integrazione di informazioni diverse che è tipica della disciplina. Non è detto che i limiti dell’indagine non debbano essere in futuro estesi, se l’archeologia dei paesaggi si estendesse come pare doveroso anche agli aspetti ambientali, agrari e naturalistici nell’antichità.

Questo progetto unitario sulle strade e i ponti romani in Sardegna tiene sullo sfondo  il tema del rapporto tra città e campagna, dell’occupazione del territorio, delle diverse anime di una provincia come la Sardinia nella quale i Romani hanno dovuto fare i conti con la presenza di popolazioni locali insediate su un territorio interno, la Barbaria, che comunque conserva un paesaggio trasformato dall’uomo, marchiato dai nuraghi di età preistorica, spesso rioccupati in età romana, con processi di continuità, discontinuità, con rifunzionalizzazioni che non possono essere schematicamente descritti una volta per tutte.

Il tema della resistenza alla romanizzazione è connesso a queste indagini, perché gli ultimi studi confermano una presenza romana profonda e pervasiva anche nel Nuorese, basti pensare ai risultati dei recenti scavi di Sant’Efis ad Orune. Nell’introduzione il tema fa infuriare Giampiero Pianu, che condanna la becera politica di chi favoleggia sulla libertà e l’identità dei sardi. Eppure il tema è presente dalla prima all’ultima pagina di questo libro, anche se se ne deve precisare la complessità, l’articolazione nel tempo e nello spazio, la necessità di una riflessione non ideologica ma fondata sui dati.

Nell’introduzione Giampiero Pianu traccia un bilancio della ricerca ma che è anche un bilancio di un lungo fortunato e io credo felice periodo della sua vita, fatto di collaborazioni e di un fervido impegno che ha coinvolto tanti di noi e di cui gli siamo grati.

Nadia Canu ci presenta la metodologia di un progetto che si è esteso per oltre dieci anni attraverso accurate indagini territoriali che riscattano in qualche modo la condizione ancillare che l’archeologia rischiava  forzatamente di assumere a causa dell’invadenza – lo vediamo anche oggi – degli storici e degli epigrafisti, quelli che Nadia Canu chiama anche gli esponenti del metodo antiquistico-antiquario eredi della scuola di Piero Meloni e di Guido Clemente, che però è stato anche un appassionato indagatore della viabilità in particolare attorno a Bonorva.

Eppure, nonosdtante le polemiche occorre partire da:

-geografi e itinerari antichi

It. Antoniniano, Anonimo Ravennate Tabula Peutingeriana Tolomeo

-bibliografia moderna

-documentazione itineraria miliari stradali, tracce di glareatio, di crepidines, modine, di massicciata con forna a schiena d’asino, di infrastrutture stradali, come le mansiones o i praetoria di Muru Is Bangius a Marrubiu, di Rebeccu

-cartografia storica e cartografia attuale, carte catastali a partire dall’età piemontese, il Catasto De Candia

– Toponimi prediali e itinerari: su caminu osincu, s’istriscia, ottava, strada romana di Medaus presso Fordongianus, via de carru o carrucaria, s’immattonadu, Sosteri di Bonnanaro, S’arcu ‘e milli Fonni, Simaxis, Siamanna, Siapiccia, Siamaggiore

-ricognizioni archeologiche, ancora insufficienti, in particolare azioni di survey territoriale con riferimento ai tratti di massicciata, ai ponti, ai guadi, alle dighe, agli acquedotti, alle ville, alle terme, alle necropoli, ai templi, agli insediamenti rurali, pagi, vici, più in generale ai siti datati attraverso le forme ceramiche, le monete, le iscrizioni, le testimonianze di cultura materiale

-georeferenziazione, ovvero la localizzazione univoca finalmente del bene sul territorio di riferimento attraverso l’attribuzione delle relative coordinate geografiche,  geolocalizzazione delle migliaia di siti archeologici rilevati

-documentazione fotografica e aerofotografica con indicazione di quelle che i topografi chiamano le anomalie, gli allineamenti, i percorsi stradali, le tracce di centuriazione, le strutture stradali

– Quadro che rivela una conoscenza completa della bibliografia fino alle ultime scoperte, compreso il miliario trovato a 4 miglia da Cornus M Cornuficius Oratiddo, per quanto alcuni articoli appaiano purtroppo datati, siano frutto di tesi di laurea discusse più di dieci anni fa e oggi non risultano più accettabili.

Infine la tradizione orale.

Rosita Giannottu pone il problema del rapporto tra viabilità e suddivisione agraria nella pertica della colonia di Turris Libisonis: fondata da Cesare o più probabilmente durante i primi anni del triumvirato Antonio Ottaviano Lepido, Turris Libisonis fu dedotta tra il 46 e il 42 a.C.  attraverso forme di inauguratio accompagnate da una definizione catastale che doveva essere documentata nel tabularium nell’archivio cittadino e nell’archivio provinciale, con una delimitazione che troviamo riflessa nel giudicato medioevale, nelle curatorie di Nurra, Fulmenargia e Romangia, nella diocesi turritana, negli stessi confini comunali di oggi. Ben prima dell’editto delle chiudente che ha rivoluzionato la geografia del paesaggio, le proprietà registrate nei condaghi medioevali possono in qualche modo orientarci sulla consistenza del demanio giudicale erede del latifondo imperiale e repubblicano: le terras de fune del condaghe di San Pietro de Silki sarebbero la più lontana testimonianza dell’innovazione introdotta in età vandala con l’utilizzo di funiculi per la misurazione delle terre. Le foto aeree ci consentono di ipotizzare l’orientamento dei terreni sulla base di muri, recinzioni, sentieri, che sembra essere eterogeneo a Sorso Sennori rispetto alla Nurra tra Palmadula e Tottubella. L’esame delle carte dell’IGM talora consente di identificare le tracce di centuriazione, con lotti che assomigliano molto ad una centuria classica  suddivisa sulla base di una unità di misura: l’actus quadratus o acnua, agnua: 120×120 piedi (35,5×35,5 metri).

Più che prove conclusive si indicano ipotesi o vere e proprie piste per future ricerche che testimoniano le varianti possibili, con una maggiore consapevolezza per la complessità di una questione che è certamente tecnica ma che ha profondi riflessi storici. La regolarità del sistema non è in discussione e la dimensione delle singole centurie sarebbe definibile tra i 15 e i 14 actus, con riferimento alle articolazioni di un territorio che è spesso collinare e che costringe gli agrimensori ad adattarsi al percorso dei corsi d’acqua.

Vengono presentati e collocati quasi 200 siti, necropoli, aree di frammenti, aree produttive, infrastrutture, luoghi di culto, monumenti preistorici e protostorici riutilizzati, rilevamenti sporadici, infine veri e propri insediamenti. Sorprende l’altro numero di villaggi, 46, molti lungo l’asta del Rio Mannu o lungo la strada a Turre Karales, mentre l’area di Ad Herculem Stintino appare pressocché deserta.

Il percorso tra la foce del Riu Mannu e Sassari della Via Turresa Maiore come è definita nei condaghi  viene descritto partendo dal pons maximus di età giulio claudia che però è sulla costiera occidentale, toccando il miliario di Predda longa,  la cava di Li Prediazzi,  Su Crucifissu Mannu, verso Ottava Adu de Ottau, Crucca, Sassari Corso Vittorio, Serra Secca, Carlo Felice, Iuschala de Clocha Scala di Giocca con il miliario di Nerone sul rio Mascari, Campo Mela, Codrongianus, Florinas nuraghe Punta ‘e Onossi, Sa Tanchitta di Siligo, Bonnannaro, Scala Carrugas, Prunaiola, Campu Giavesu, Bonorva. Il tema è ovviamente tra i più delicati e viene ripreso in numerosi altri articoli di questo volume: il ritrovamento della base onoraria di un duoviro in Piazza Tola continua ad essere un punto di riferimento obbligato così come la necropoli di via Cagliari presso Piazza Castello, ma sono molte le testimonianze archeologiche che suggeriscono un percorso che viene ripetutamente messo in discussione: voglio solo ricordare i resti di sarcofago in marmo ritrovati vent’anni fa nel parcheggio ANAS a Mulini a Vento a due passi da qui, da me consegnati in Soprintendenza.

Sullo sfondo c’è il tema del progetto del Carbonazzi della nuova Carlo Felice e delle novità introdotte dai Savoia rispetto al percorso romano.

Non mi sembra coronato da successo il tentativo di spostare il percorso principale sulla variante Li Punti-Funtana di Lu colbu-Sant’anatolia-Molafa- Predda Niedda- Tissi, Muros, Cargeghe.

Il tema della prima parte del tracciato a Turre è del resto ripreso da Nadia Canu con una straordinaria competenza che testimonia come ci siano ancora tante questioni aperte sulle quali è possibile indagare con successo, trattando le dinamiche insediative del territorio, il riuso delle domus e dei nuraghi,

Marilena Sechi discute con molte novità e competenza i percorsi nel Logudoro e nel Meilogu, con attenzione per il cruciale territorio di Bonorva, a Nord della Campeda, affrontando il tema della biforcazione della a Karalibus Olbiam dalla a Karalibus Turrem, ribaltando il percorso e partendo dall’enigmatico villaggio abbandonato di Padru Mannu a S del punto culminante della Campeda tra il miglio 109 e il 118: il lavoro che si presenta è veramente straordinario e il ritrovamento dei miliari di Monte Cujaru e Mura Menteda, Mura Ispuntones consente di indicare meglio il percorso in direzione di Olbia lungo la piana paludosa di Santa Lucia a valle di Rebeccu e del praetorium di Sas Presones con lo stabilimento termale  che riutilizza i miliari di III secolo raccolti forse presso l’officina lapidaria. La Sechi pensa a dei divertuicula che aggiravano la piana toccando S. Andrea Priu, Su Terranzu con la necropoli romana scavata nella roccia, Montiju e lacana, Mura Ispuntones, per poi arrivare a monte Cujaru.

Rimangono problematiche le strutture militari di San Simeone e sono significativi i nuovi dati sulle produzioni di ceramica sigillata di Claudia Atte.

Mauro Mariani affronta la viabilità nella media valle del Temo, tra Pozzomaggiore, Padria e Mara e presenta le indagini territoriali che aggiornano i lavori della Galli attorno a Gurulis Vetus, con il Ponte Ettori sul Temo, il Ponte Enas sul Crabolu e il Ponte Oinu tra Sindia e Pozzomaggiore sul Rio Badu e Crabolu al confine provinciale.  Debbo dire francamente che è deludente la conoscenza delle fonti storiche, se una delle stazioni stradali a occidente del territorio in esame  viene chiamata con il nome di Calmedia che non si trova nell’Itinerario Antoniniano e ci è conservato solo dalle false carte d’Arborea e dal manoscritto seicentesco della Relacion de la antigua ciutat de Calmedia. Di qualche interesse è il toponimo Via Grekisca o Via de Grecos o S’istrada de sos padres documentata dai condaghi sette secoli prima dell’arrivo dei Greci a Montresta.  Una attestazione analoga è la Biaregus di Fonni Sorabile.

Andrea Mesina studia i territori di Monteleone Roccadoria e Romana, illustrando la funzione di polo attrattivo rappresentata dalla vallata del fiume Temo e richiamando le testimonianze di preistorici riti ordalici come nella spelonca di San Lussorio di Romana o a Funtana Sansa nella Piana di Santa Lucia. Come vedremo analoghi problemi si pongono per il fiume Tirso e in particolare per le stazioni ternali di Aquae Lesitanae, Oddini Orotelli nel territorio dei Nurritani e Aquae Hypsitanae presso Forum Traiani, Significativi i resti di mura di epoca classica a Monteleone RD sull’altopiano che si affaccia sul lago e le strutture presso il nuraghe Pibirra di Romana.

Rita Fantasia riprende i lavori di Lucrezia Campus su Ozieri e aggiorna i dati sui monumentali resti conosciutissimi del Pont’ezzu sul Rio Mannu in località Punta de Navole, il Ponte di Iscia Ulumu in comune di Romana e di Badu Sa Feminedda, con attenzione per i percorsi stradali testimoniati anche dai miliari come quello di Dalmazio.

Meno felice il secondo articolo di Rosita Giannottu sulla viabilità gallurese, che riprende i risultati delle indagini compiute per la tesi di laurea del 2001 discussa col prof. Zucca: sostanzialmente fedele alle ipotesi di Piero Meloni, la Giannottu è incerta sulla localizzazione di Tibula e di Portus Tibulae, mentre fornisce informazioni preziose sulla viabilità, con i resti della strada a Monti di Deu presso il nuraghe Agnu, con il ponte romano di Vena Longa a Tisiennari e di Diana sul lago Coghinas presso Luguido.

Stefano Giuliani allarga il discorso alla Gallura meridionale, elencando 44 insediamenti che aggiornano gli studi del Tamponi alle porte di Olbia, con i celebri punti miliari di Putzolu Sbrangatu, Traissoli, ecc. A San Salvatore di Nulvara, sul Rio Scorraboes iniziava il territorio dei Balari e finiva il territorio del municipio romano: l’impressione è quella di una potente romanizzazione e di un’attenzione straordinaria per la viabilità diretta al porto di Olbia soprattutto nel III e IV secolo, con interventi che arrivano al 388 al tempo di Magno Massimo e Flavio Vittore, i più tardi in assoluto.  Accanto alla viabilità principale, la a Karalibus Olbiam, la per mediterranea, la costiera, esisteva una rete di strade, che documenta una viabilità secondaria meno nota, anche per il concentrarsi dell’attenzione degli studiosi intorno alla viabilità principale.

La strategica posizione di Telti suggerisce molti interrogativi sui percorsi interni, che dovettero svilupparsi alle spalle di Feronia già in piena età repubblicana.

Luisangela Sulas studia Lesa e le Aquae Lesitanae, affrontando la viabilità tra Benetutti e Bultei lungo l’alto corso del Tirso, presso le sorgenti termali e le strutture romane, riprendendo alcuni passaggi conservati nella relazione di Martin Carrillo p. 163. Il culto di Esculapio a Lesa documentato da un’ara votiva poco nota ha un perfetto corrispondente con quello di Esculapio e delle ninfe a Fordongianus.

Maria Antonietta Mele procede lungo la via per mediterrranea arrivando fino a Sorabile-Fonni, dove sorgeva il santuario sacro a Diana e Silvano entro il nemus Sorabense: anche in questo caso si parte dalle indagini precedenti, quelle di Filippo Nissardi, Antonio Taramelli e di Antonio Mereu, Raimondo Zucca, ma l’aggiornamento riguarda alcuni percorsi di transumanza che testimoniano la profonda penetrazione romana in età imperiale in uno dei punti più alti, 1000 metri della Sardegna. Ovviamente si riprende il tema di come collegare la viabilità storica alla posizione decentrata dei ponti di Govosoleo Fonni o su vicariu e di Gusana Gavoi, detto anche ponte vetzu sommerso dopo la costruzione della diga. Nelle vicinanze la stazione preistorica con i menir. Luoghi straordinari sono il nuraghe Dronnoro dal quale proviene il diploma del classiario e di Soroeni Lodine, obbligato punto di passaggio.  Infine, a proposito dei collegamenti secondari, emerge il tema delle relazioni tra Barbagia e Ogliastra attraverso i valichi di Correboi o di Caravai.

Stefania Atzori conferma le sue qualità e la sua capacità di leggere il territorio con questo lucido intrevento sulla pertica di Forum Traiani, le antiche Aquae Hypsitanae, attraverso i territori di Ollastra Simaxis Villanovatruschedu, Fordongianus, Siapiccia ecc, con una parte del comune di Allai dove viene studiato il celebre ponte a 7 arcate restaurato in età medioevale ed ora più di recente.

Alla strada di San Giovanni ed alla mansio di San Cromazio ci conduce Giampiero Pianu, che mette a frutto le osservazioni compiute nel corso degli scavi da lui diretti a Villaspeciosa: rimane sullo sfondo il tema della viabilità lungo la vallata del fiume Cixerri e la possibilità di identificare una delle stazioni. La terma mosaicata era una struttura pubblica funzionale ad un abitato, di incerta connotazione giuridica, forse un vicus, magari un capoluogo di un pagus rurale, più probabilmente una mansio o una statio presso la via a Karalibus Sulcos, poco oltre la stazione di ad Decimum, al X miglio da Karales.

Piera Brandi si spinge in mare e cerca  (debbo dire con non molte novità) di portare il discorso sulle vie del mare, i percorsi della flotta romana, i traffici marittimi, i commerci.

A conclusione di questa veloce carrellata, posso dire che pur con una qualche eterogeneità di fondo, emergono da queste pagine tante informazioni nuove e si suscitano riflessioni nuove sul rapporto dei territori in bilico tra relazioni e isolamento, sull’economia agropastorale, sulle caratteristiche dell’insediamento rurale, sullo sviluppo nel tempo e le variazioni diacroniche, sula cronologia.

Grazie a Giampiero Pianu e a Nadia Canu per questo impegno e per questa passione.




Presentazione del volume Antiles di Mario Medde

Presentazione del volume Antiles di Mario Medde
Università di Sassari, 17 maggio ore 17

Attilio Mastino

Cari amici,

L’amicizia  con il segretario della CISL Sarda Mario Medde, soprattutto l’ammirazione per il suo impegno sindacale, ma anche per le sue battaglie a favore dello sviluppo e del lavoro e per la sua sensibilità civile, mi hanno portato ad accettare un invito. Quello di presentare questo libretto inusuale, queste pagine luminose che ci consentono di varcare una porta, di cogliere e toccare con mano un mondo intero sospeso tra presente e passato che ha una sua coerenza, una sua logica, un suo ordine interno. E questo con un itinerario di sentimenti e di emozioni che toccano il cuore.

Anche se non è mai citato, sullo sfondo c’è innanzi tutto un paese amato, Norghiddo- Norbello, nel cuore del Barigadu, tra Marghine e Oristanese nella vallata del Tirso, visto attraverso i monumenti, le chiese, la rete urbanistica medioevale, la strada di Sas Benas che porta a Domus, soprattutto la sua gente, la sua economia, la sua cultura agricola e pastorale che ha iniziato a fare i conti prima con lo sviluppo industriale e poi con la crisi di oggi. Un paese di confine, collocato in passato al margine del Giudicato d’Arborea, della curatoria del Guilcier e dell’antica diocesi di Bosa, oggi al margine settentrionale della provincia e della diocesi di Oristano.

Nell’ultima pagina di questo volume c’è una spiegazione per questo ritorno al proprio paese, se valgono le  parole  di Cesare Pavese citate alla fine del volume (La luna e i falò): <<Chi può dire di che carne sono fatto ? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e pese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione>>.

Antiles sono gli stipiti in basalto, gli architravi, le porte che occorre varcare e che immettono ad un territorio, ma anche ad una cultura, ad un ambiente sociale, ad un momento della nostra vita, che conserva intatto il sapore della vita vera, il senso delle cose che ci sono care, il profumo della casa che continuiamo ad amare anche quando ne siamo stati sradicati e viviamo in una grande città.

E Iskra oltre che l’Editore di Ghilarza è anche un luogo simbolo sul Tirso, a breve distanza dalle ciminiere spente di Ottana, in direzione del colle dove sgorgano le sorgenti termali di Oddini tra Orotelli e Orani, il rifugio dei Nurritani liberi della Barbaria di età antica.

Dunque innanzi tutto il fiume, come punto di contatto tra geografie diverse. Ma anche il fiume come porta che non si chiude mai tra realtà e fantasia, tra il dolore della violenza subita e l’amore per la propria gente, tra la fede e la ragione, tra le parole e le cose.

Questo è il senso vero di una riflessione che in modo inusuale parte dal De magistro di Agostino di Ippona (il santo sepolto a Karales fino al 721 d.C.): il tema – modernissimo – del rapporto tra segni e significati, verso una nuova frontiera tracciata oggi dalla filosofia dei linguaggi. In realtà la questione è una sola: Agostino intende definire come e da chi l’uomo possa apprendere la verità che dà la felicità: dagli altri uomini attraverso i loro discorsi, le parole? Dalla esperienza sensibile? La risposta a queste ipotesi è negativa. Il maestro vero è soltanto quello interiore, la verità non può essere appresa dal mondo esterno, fatto di parole e di segni che rimandano sempre ad altre parole e ad altri segni, ma deve essere appresa dal mondo interiore. E questo richiede un approccio diverso rispetto all’universo dei segni che utilizziamo quando entriamo in relazione con altri uomini e con le cose.

Per vedere davvero non bastano i suoni, i segni, neppure i fatti: noi non possiamo parlare delle cose, ma delle immagini impresse e affidate alla memoria, perché noi portiamo quelle immagini nella profondità della nostra memoria, come documenti di cose percepite precedentemente. Ma sono documenti davvero solo per ciascuno di noi. Perché chi ascolta – sostiene Agostino -, se le ha percepite direttamente, non impara dalle nostre parole ma riconosce come proprie, perché anch’egli ha costruito dentro di se delle immagini. Se invece non ha percepito quelle cose, chi non capirebbe che anziché imparare crede a delle parole ? Il passo del De Magistro che apre questo volume è difficile e duro e il rapporto tra fatti e cose ritorna irrisolto in tanti filosofi contemporanei.

Ma allora il Norghiddo di questo volume esiste solo per l’autore che ricorda una fanciullezza luminosa e colorata, che si può rivivere non attraverso le cose ma solo partendo dai luoghi che suscitano emozioni, non quei luoghi di oggi tanto diversi, ma quelli della memoria, che evocano le mille immagini di allora, lampi di luce, flash che illuminano i fatti che hai vissuto e persino quelli di chi ti ha preceduto. Questi li senti tuoi e non ti lasciano mai. Vivono lì gli spiriti del tempo, fantasmi temibili e figure amate, e quelli che ti appartengono davvero.

Dunque si può partire dalla primavera insanguinata del 1922, dall’immagine dei mozziconi delle orecchie delle pecore rubate e mutilate, recisi e abbandonati lungo Sa Bia de Cotzula, a Sas Benas verso Domus.  Segni della proprietà del bestiame recisi con la mutilazione delle pecore. Segni come quelli della lontana lezione di S. Agostino che proiettano nella memoria quasi in un film la corsa disperata della nonna incinta di 7 mesi  verso la chiesa della Madonna delle Grazie ad Orracu, per ritrovare alla fine sconvolta il corpo insanguinato del compagno ucciso su questo caminu de sa fura che conduceva ad Otzana ed ai monti della Barbagia dove transitava il bestiame rubato nella valle. Un’ingiustizia, l’uccisione di un testimone scomodo, che i pastori specialisti de s’arrastu, alla ricerca delle orme degli abigeatari, non avrebbero saputo vendicare.

Un altro sentiero, quello che da Pranzu ‘e lampadas portava a Sa Serra, riporta alla mente il tragico ricordo della morte, nel 1953, 31 anni dopo, dell’altro nonno, quello paterno, colpito da una roncolata inferta da un altro pastore: Mario Medde scrive commosso che per anni le pietre insanguinate sul punto dove cadde il nonno restarono così disposte e macchiate, mute testimoni di un delitto orrendo, di una violenza gratuita, di un abuso non più comprensibile.

Altri furti di bestiame come quello del Natale del 1960 sarebbero stati regolati più civilmente, faccia a faccia, con la rabbia di chi ha subito un’ingiustizia e sente di poter essere protetto dalle autorità, senza rassegnarsi all’arroganza dei prepotenti. Alla periferia del paese ci introduce Sa Jenna de Nadale che ci racconta del coraggio del padre, della sua determinazione, anche del suo successo, quando finalmente gli atti delinquenziali iniziarono ad essere puniti.

C’è in queste pagine la voglia di capire il passato più doloroso, di riconciliarsi con se stesso, di tonare a volare come Massimo Gramellini nel recente bestseller Fai bei sogni: la memoria di una morte tragica è impressa nel cuore e diventa occasione di dolore e evento indimenticabile, condiziona ogni istante della vita di chi ha voluto bene alla persona scomparsa, i figli, i nipoti colpiti dall’ingiustizia e dall’abbandono. Forse scriverne è anche un modo nuovo per dire che oggi finalmente il trauma può essere superato, può essere collocato nella storia, può essere spiegato in relazione alla violenza, all’abigeato, al delitto nell’arcaico mondo pastorale che conosce la transumanza di Sos Costerinos, i pastori perennemente in contrasto con gli agricoltori locali.

La violenza,  frutto dell’ingiustizia e della prevaricazione in una Sardegna arcaica, in una società agropastorale ormai al tramonto, in un territorio di frontiera. Quando finalmente i modi di produzione ereditati dall’età feudale impersonata dagli eredi del marchese vengono a cessare.

Ancora più indietro nel tempo, la piaga delle cavallette in età fascista e nel 1946, con la processione che da Norbello giungeva fino alla chiesa di Bonarcado, con il carro a buoi cerimoniale costruito per l’occasione: un santuario che testimonia una devozione popolare profonda, verso la statua di Bonacattu nel senso di Buona accoglienza, buon ritrovo, luogo di devozione dall’età giudicale. Mi piace il costante riferimento alla storia del territorio, lungo l’antica strada romana a Turre Karales, dove in località Caddharis è possibile scorgere i mullones come sul Gennargentu, i mucchi di pietra segno dei confini delle proprietà del regno eredi del demanio imperiale romano, cedute da Costantino di Lacon all’ordine camaldolese per la Madonna di Bonacattu. Pochi mesi dopo la processione del settembre 46, le cavallette, su pibintzili, scomparvero dal territorio di Norbello,  forse segno dell’efficacia di una devozione e di una cultura.

Ma altre porte, antiles, jennas, jannas, introducono ad altra scene, di gioia e di gioco come presso la casa disabitata di Massidda sul cortile dove i ragazzi impegnati in una partitella di calcio si contendevano lo spazio con le galline di Tzia Adalgisa protette dalla roncola di Tziu Nicu; oppure giocavano con i tappi della spuma Bartali o della birra. Il ricordo si fa più sereno, rivedendo Sa Idda coi suoi mille abitanti e le sue 5000 pecore, le case con gli spazi per gli animali, il maiale, le galline, la cucina. Appartamenti spesso senza acqua, senza la vasca da bagno, addirittura senza il gabinetto, magari con uno spazio nascosto, riservato alla vista nel giardino. E poi l’assenza della rete fognaria, le cunette dove scorrevano le acque bianche e le acque nere. La piazza centrale, su carruzzu, dove si svolgevano le feste, i balli per il carnevale arcaico del Barigadu. Il Monte Granatico, espressione primitiva di una solidarietà verso i contadini poveri.

Sono i luoghi che fanno tornare alla memorie emozioni e scene che non si possono dimenticare: Sa pratza de Tzia Maria Licheri evoca il dolore della separazione, la partenza degli amici, i cugini emigrati per sempre a Torino, che lasciano la casa che, come tante altre nel paese, all’improvviso cessa di vivere. Una diaspora che fa ancora sanguinare il cuore.  Come non pensare alle drammatiche pagine dedicate da Gavino Ledda agli emigranti che partono per l’Australia: la miseria, il dolore, ma anche la rabbia di chi parte e di chi resta, in quello che l’autore descrive come un funerale doppio, dove i morti sono ancora vivi e dove gli abitanti di Siligo che rimangono accompagnano all’autobus, come al camposanto, i parenti che partono per sempre; e dove gli emigranti pensano di partecipare al funerale di quelli che restano, condannati ad una miseria senza scampo.

Ancora luoghi che evocano ricordi: la chiesa medioevale di San Giovanni Battista, con un sapore antico che sembra testimoniare che c’è qualcosa che continua a vivere nel tempo e nelle generazioni, una sorta di genius loci che dà sacralità all’ambiente, che suscita ricordi e rinnova vincoli che continuano oltre la morte. Ho confrontato le pagine di questo volume con i più recenti studi di storia dell’arte, con i risultati degli scavi archeologici che confermano l’interesse storico di questo lembo  del territorio comunale, lungo sos caminos de Corrighinu verso i mitici frutteti di Sa Corte e di S’Ena verso Domus, una sorta di Giardino delle Esperidi mitizzato nella memoria, associato con emozione anche al ricordo di Libera, una ragazza deliziosa dagli occhi azzurri desiderata e amata dai timidi studentelli di un tempo lontano.

Ma sono i vicini ruderi della chiesa cimiteriale dell’Angelo Custode eretta nel 500 in occasione di una straordinaria pestilenza, che evocano le immagini più forti, attraverso i ruderi smozzicati e l’enigmatica epigrafe in latino che invoca l’assistenza dell’angelo per i defunti uccisi dalla peste. E qui l’emozione per il mistero che si respira davvero, di fronte alle sepolture scavate nel pavimento della chiesa e nel vicino cimitero abbandonato: i lastroni di basalto che oscillano sotto il peso dei visitatori intimoriti, ragazzi spaventati, che immaginano crepe, gallerie sotterranee, pericoli nascosti, potenze infernali. Un mistero che affascina e atterrisce ancora.

E poi la società pastorale, la sapienza antica dei contadini e dei pastori, il mondo della magia e della medicina popolare, le competenze di Tzia Maria Licheri, una donna dolce e disponibile, eccezionale nel mettere a posto ossa e muscoli, come quella che io stesso ho conosciuto a Scano Montiferro forse negli stessi anni. Le pozioni per combattere il malocchio.

Si inizia con la scuola elementare, con i bambini che indossavano un grembiule nero con il fiocco rosso, come in tante fotografie di quegli anni. Le cartelle di cartone, la mensa scolastica malamente gestita dalla Opera Pontificia, i sapori del formaggio arancione o della minestra. Inavvertitamente sto mischiando i miei ricordi a quelli di Mario Medde. I banchi con il contenitore per l’inchiostro, i solchi per riporre penne e pennini, la lavagna, i rimedi contro il freddo come il barattolo per conservare le braci e la cenere del caminetto.

Ricordo nitidamente anch’io il 1956, l’anno della neve, che rimane in una foto di mia madre a Bosa, davanti alla giardinetta di mio padre, con le campagne del Marrargiu completamente innevate: ricorda Mario Medde che fu un disastro per il bestiame e per i pastori dell’interno, mentre rimane fortissima l’immagine dei sos candelabros, enormi stalattiti che scendevano dai tetti delle case di un paese inconsueto che si stenta a riconoscere.

Questo libro è anche la storia di una maturazione, in famiglia, grazie al coraggio del padre, a scuola, nell’amministrazione, nello sport, nella politica, nel partito socialista in un ambiente fortemente condizionato da un notabilato locale democristiano poco aperto alle novità, anche da un partito comunista che progressivamente rinnega l’ortodossia. Infine nel sindacato, fino ai vertici regionali e nazionali. L’imbarazzo dei comunisti per la rivolta di Budapest ed i carri armati sovietici in Ungheria. E poi l’impegno nell’Umanitaria, nel Centro dei servizi culturali de l’Unla come in tanti altri paesi della Sardegna, nell’Arci, attraverso le letture più diverse, il vangelo di Giovanni, Don Milani, Hemingway, Sagan, Sartre, Wittgenstein. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi di Pavese rimane ancora oggi un libro letto ed amato.

C’è serenità e coscienza di se in queste pagine che raccontano di un personaggio che capisce a fondo la Sardegna, sa usare una lingua e raccontare una cultura, conserva dentro di se la storia lunga della sua famiglia e della sua terra, con un angolo visuale del tutto originale, che parte da un territorio e da uno spazio geografico poco frequentato nella letteratura sarda.

Mi è piaciuta molto la riflessione sulla parola, il dubbio che la parola possa ancora raccontare qualcosa, promuovere la speranza e il cambiamento, proteggere dall’abuso e dal profluvio della politica.

Mi è piaciuta la citazione del futurista Ezra Pound <<La parola è morta>>.  Mi è piaciuto il commento di Mario Medde, sindacalista impegnato proprio sul versante della parola, per il quale la parola oggi certamente soffre, e tanto, di credibilità e non solo come sostiene qualcuno per la <<colonizzazione della parola da parte della politica>>, ma per il vuoto di ideali e di narrazioni.

Il senso del libro è allora quello di ritrovare un equilibrio, di riscoprire il valore dell’introspezione e del silenzio: e la ricerca dentro se stessi non può essere finalizzata a recuperare e tenere in vita i fantasmi del passato, ma si deve cercare almeno – sono le ultime parole di questo volume –, con sobrietà e costanza la verità.




Convegno Internazionale di Studi “Daedaleia. Le torri nuraghiche oltre l’Età del Bronzo

Convegno Internazionale di Studi“Daedaleia.
Le torri nuraghiche oltre l’Età del Bronzo”.
Cagliari, 19 aprile 2012
Attilio Mastino

Introduzione

Nel classico “La civiltà dei Sardi dal paleolitico all’età dei nuraghi” Giovanni Lilliu scriveva: <<Gli Achei mostrano un grande dinamismo in direzione del Mediterraneo occidentale sino in Sicilia, oltre che verso le isole dell’Egeo e dell’Asia minore. Una eco di tali movimenti di popoli è nella leggenda di Dedalo, costruttore in Sardegna di daidàleia (cioè di da-da-reio, l’anàctoron, il santurio identificabile col nuraghe), dopo che vi ebbe rifugio, fuggito da Camico di Sicilia>>[1].

Il nostro convegno si intitola con la forma latina, con lo sguardo di Properzio, Daedaleìa,  ma rimanda, indubbiamente, ai Daidàleia, questi erga pollà kai megàla mèchri tòn nyn kairòn diamènonta, strutture grandi e numerose, opere restate fino al nostro tempo, edificate da Dedalo in Sardegna, secondo il passo della Biblioteca Storica di Diodoro, IV, 30, 1.

Fu Iolao e non Aristeo, come pure risultava da una tradizione nota a Sallustio e a Pausania, a far venire Dedalo dalla Sicilia: l’artista cretese costruì numerose e grandi opere, che da lui si chiamarono dedalee, ancora conservate al tempo di Diodoro. Anche l’anonimo autore del De mirabilibus auscultationibus, uno scritto pseudo-aristotelico forse dell’età di Adriano, ricorda come Iolao e i Tespiadi fecero edificare costruzioni realizzate secondo «l’arcaico modo dei Greci» e tra esse edifici a volta di straordinarie proporzioni.

Questo Convegno, d’altro canto, si apre alla prospettiva delle rifunzionalizzazioni  dei Daidàleia, i nuraghi, in età arcaica, nel periodo punico, romano e altomedievale, ossia nei tempi in cui gli erga pollà kai megàla che contrassegnavano il paesaggio trasformato dall’uomoal tempo della fonte (timaica) di Diodoro, ma ancora all’epoca in cui scriveva Diodoro Siculo, così come marchiano il paesaggio della Sardegna attuale.

Ho parlato di rifunzionalizzazioni al plurale, poiché, se è ora documentato dagli scavi stratigrafici che l’edificazione dei nuraghi si era arrestata con l’età del Bronzo Finale, presumibilmente in una fase alta dello stesso, indubbiamente i riusi del nuraghe sono variati sia sul piano diacronico, sia sul piano geografico. Essenziale è definire il punto di vista della tradizione confluita in Diodoro, ovviamente di origine siceliota, e nel De mirabilibus auscultationibus.

Ritornando al titolo del Convegno osserverò che la riflessione da parte di filologi, storici, archeologi si è concentrata sul tema di Dedalo i Daidaleia e la Sardegna.

Dagli apporti di Ettore Pais nella memoria lincea sulla Sardegna prima del dominio romano del 1881, ai lavori di Piero Meloni del 1945, di Giovanni Lilliu, di Giovanni Ugas, di Ignazio Didu, al mio intervento del 1980 e del 2002, fino al recente saggio di Francesco Neri, Dedalo, i “Daidaleia” e Aristeo: considerazioni sulla presenza mitica di Dedalo in Sardegna, pubblicato negli Annali dell’Istituto italiano per gli Studi Storici nel 2005[2].

Giovanni Ugas ha da molti anni incentrato la sua attenzione sul rapporto fra la cronologia mitica di Dedalo e la costruzione dei nuraghi.

Scrive Ugas nell’Alba dei Nuraghi, (Cagliari 2005):

(Una serie di osservazioni indurrebbe) a pensare che fossero del tutto inventate le tradizioni letterarie antiche concernenti la costruzione dei nuraghi e delle altre coeve opere dell’architettura protosarda ad opera di artisti riconducibili ad ambito egeo minoico e miceneo. Tuttavia è palese il valore simbolico di Dedalo, l’architetto scultore operante in Creta, chiamatop nell’isola, stando a Diodoro, Pausania e tanti altri autori della letteratura classica, da eroi greci di origine beota, vale a dire da Aristeo a Iolao, ascritti rispettivamente al XVI-XV  e al XIII secolo a. C. dalle sequenze genealogiche delle città micenee tra loro intrecciate. La tradizione letteraria greca riporta al XVI-XV secolo, dunque al tempo dei protonuraghi, il primo avvento in Sardegna di un daidalos, un architetto di scuola cretese o ateniese, al seguito dell’eroe Aristeus, genero di Cadmo, avendo sposato la figlia Autonoe, collegandolo a un processo culturale che dal continente greco (la Beozia) conduce in Sardegna attraverso una rotta marittima che tocca Keos nelle Cicladi, Creta e l’Africa settentrionale (Cirene).

Il Dedalo che accompagnava Iolao, invece, era attribuito al XIII secolo poiché era considerato figlio di Ificle, fratello dell’Eracle di Tirinto e contemporaneo di Edipo. (…) Implicitamente le notizie di Diodoro Siculo e dello pseudo Aristotele, oltre a riconoscere  la perizia degli architetti protosardi nell’edificare <le> tholoi e le connessioni dell’architettura sarda con quella egea, offrono una datazione pienamente coerente con le ricerche archeologiche attuali[3].

Anche io in passato ho osservato inoltre come i materiali archeologici citati consentano di riportare al XIII-XII secolo a.C. i rapporti tra i Micenei e la Sardegna. Si deve di conseguenza notare un sorprendente sostanziale sincronismo tra i dati archeologici relativi ai Micenei in Sardegna e la cronologia fissata dagli antichi per la saga degli Eraclidi e di Dedalo.

Il mito di Eracle si situa cronologicamente a una generazione di distanza rispetto a quello di Minosse e Dedalo. Quest’ultima vicenda mitica si sarebbe svolta tre generazioni prima della guerra di Troia, quindi nella prima metà del XIV secolo a.C. (per la cronologia erodotea della guerra di Troia) o all’inizio del XIII secolo a.C. (per la cronologia troiana più comune). La saga di Eracle ci riporterebbe dunque al XIII secolo a.C., quando Iolao avrebbe chiamato Dedalo dalla Sicilia. La fonte siceliota è significativa.

L’interesse per i mirabilia sardi è tipico della storiografia siceliota, come ha ben messo in evidenza

Emilio Galvagno, che ha sottolineato il richiamo al mito di Dedalo, che si localizza a Camico alla corte di Kokalos. Ed in Sicilia i Palìci, figli gemelli di Zeus o del dio locale Adrano e della ninfa Talia, sono divinità ctonie protettrici della zona vulcanica della piana di Catania, che professavano l’arte degli indovini: nei pressi del tempio dove rendevano i loro oracoli e dove in epoca storica si rifugiavano gli schiavi fuggitivi sgorgavano acque sulfuree che perennemente ribollivano: qui la tradizione voleva fosse stata la culla dei gemelli. Sulle sponde del lago di Naftia presso Palagonia o presso Salinelle di Paternò, quando sorgeva qualche lite tra gli abitanti del luogo, si usava asseverare con giuramento i termini della controversia; e lo spergiuro era perseguitato dal castigo degli dei, la morte o la cecità.

Il quadro mitografico appare condizionato come è noto da una molteplicità di fattori, che testimoniano l’interesse del mondo greco, in particolare degli Ioni nel corso del VI secolo a.C., verso la Sardegna. In passato sono state ben rilevate anche le componenti euboiche del mito, ma in questa sede desidero sottolineare un aspetto specifico, quello siceliota, collegato all’arrivo di Dedalo dalla Sicilia, alla fondazione di Olbia, al ritorno di Iolao in Sicilia: temi che tendono a giustificare miticamente dapprima la supremazia commerciale di Corinto nel Tirreno per tutto il VII secolo a.C., e poi la potenza marittima che per tutto il V ed il

IV secolo a.C. esercitò Siracusa. Una politica che poteva essere rafforzata richiamando immaginari precedenti mitici.

Oggi ritengo però che il tema dei daidaleia della Sardegna va inquadrato, come già vide Giovanni Lilliu, nell’ambito più vasto delle attestazioni di Daidaleia in area egea, e al problematico rapporto tra il termine da-da-re-jo di due tavolette in lineare B di Cnosso e  il lessema daidaleion.

Vorrei qui rimandare al capitolo II – Daidalos and Kadmos- di Sarah P. Morris del suo Daidalos and the Origins of Greek Art in cui discute ampiamente il problema  risalendo sino al celebre intervento di K. Kerenyi al Primo Congresso Internazionale  di Micenologia di Roma, nel 1967, relativo ai di-wo-nu-so-jo e da-da-re-jo-de, dove il suffisso de è locativo. Secondo Kerenyi, infatti, da-da-re-jo può derivare da un toponimo e non da un elemento onomastico, un Dedalo, del Tardo Elladico.

Forse è rilevante che la fonte siceliota di Diodoro riutilizzi un termine Daidaleion che si adatta al tempo coloniale e non all’ambito dell’età del bronzo. Torniamo al tema del punto di vista e dell’orizzonte di riferimento.

Mi spiego meglio: com’è noto una tendenza degli studi ha privilegiato nei filoni mitografici di ambientazione occidentale una loro codificazione storica in ambito dell’età del bronzo, ritenendoli eco esile di reali rapporti del tipo dello scambio fra indigeni e elementi achei.

Oggi tendiamo a ricontestualizzare nella cultura mitografica di un autore e delle sue fonti il dato tramandato, che, in tale caso non può travalicare l’età geometrica.

Ovvero i daidaleia indicano le opere nuragiche così come osservate da una tradizione mitografica di età storica.

In questo senso appare assai pregevole la scelta degli organizzatori di questo convegno di utilizzare il termine diodoreo Daidaleia come fil-rouge delle analisi sui monumenti nuragici nell’età del ferro e nell’età successive.

Non c’è dubbio, infatti, che in età romana i nuraghi, ossia i daidaleia, erano presi in considerazioni, anche come elementi fissi del paesaggio, da piegare all’uso di termini, veri e propri cippi di confine.

E’ questo il caso esplicito del protonuraghe Aidu Entos di Bortigali- Mulargia, studiato per la sua architettura da Alberto Moravetti, e per il suo arricchimento epigrafico latino da me e dal compianto Lidio Gasperini:

Sull’architrave del nuraghe abbiamo il riferimento ad uno dei celeberrimi populi della sardinia, gli Ili(enses) in nurac Sessar, ossia come ha spiegato Giulio Paulis, nel nuraghe di Sessar, dove la forma nurac, ci offre ancora l’esito del paleosardo, non dotato del suffisso della desinenza in ablativo del latino preteso dalla preposizione in, per la denominazione del nuraghe.


[1] G. Lilliu, La civiltà dei Sardi dal Paleolitico all’ewtà dei nuraghi, Rorino 1988, p. 397.

[2] F. Neri, Dedalo, i “Daidaleia” e Aristeo: considerazioni sulla presenza mitica di Dedalo in Sardegna, Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici, XIX, 2002 (2005).

[3] G. Ugas, L’alba dei nuraghi, Cagliari 2005, p. 31.




L’Università di Sassari tra passato e futuro.

Intervento del Rettore Prof. Attilio Mastino
L’Università di Sassari tra passato e futuro.
Sassari, 24 marzo 2012

Signor Presidente, autorità, colleghi, cari studenti,

ho il piacere di accogliere a nome dell’Università di Sassari in questa solenne cerimonia tanti Rettori ospiti, tante autorità, tanti colleghi, tanti studenti, con un abbraccio ideale col quale vogliamo rinnovare in questo stesso Teatro Verdi il faustissimus eventus di 50 anni fa, che ci riporta al 30 maggio 1962 quando furono celebrati i 400 anni del nostro Ateneo, l’Alma in Sardinia mater studiorum.

Erano allora pervenuti molti messaggi da parte dei Rettori di numerose Università, che guardando alla nostra storia formulavano voti augurali che oggi rinnoviamo. Il Rettore di Lovanio così si esprimeva: <<vota igitur suscipimus (…) ut vestra Universitas Turritana Sacerensis quater saeculari sua gloria freta, ita deinceps humanitatis cultu ac scientiis excolendis et provehendis ad maiorem laudem suam omniumque magistrorum atque alumnorum et crescere et florere et in dies uberiores fructus facere pergat>>.

È un augurio che oggi facciamo nostro, perché i frutti del nostro impegno siano ancora più ricchi e abbondanti. La presenza oggi a Sassari del Presidente della Camera on.le Gianranco Fini, del Presidente della Conferenza dei Rettori Marco Mancini, del Presidente della Regione Sarda Ugo Cappellacci, della Presidente del Consiglio Regionale Claudia Lombardo, oltre che di tante altre autorità è il segno di una attenzione e di un’attesa vera.

Alla vigilia di questo nostro incontro, la visita il 21 febbraio scorso del Signor Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è stata l’occasione per sottolineare con emozione <<un così imponente anniversario>>. Il Presidente ha soprattutto riconosciuto il senso di una storia lunga, di un vero e proprio <<retroterra culturale>>,  e ha anche ricordato alcuni protagonisti che ci sono molto cari, l’ex Rettore poi Presidente della Repubblica Antonio Segni, i professori Francesco Cossiga, Giovanni e Luigi Berlinguer, ma anche tanti altri. Sui banner che in questi giorni abbiamo collocato davanti ai nuovi Dipartimenti abbiamo voluto ricordare anche il premio Nobel Daniel Bovet, Carlo Gastaldi, Giovanni Manunta, Antonio Milella, Lorenzo Mossa, Antonio Pigliaru, Paolo Sylos Labini, Marco Tangheroni, Achille Terracciano.  Sono solo alcuni nomi che ricordano i tanti personaggi di prestigio che hanno frequentato il nostro Ateneo, come i Presidenti della Corte costituzionale Ugo De Siervo, Valerio Onida, Gustavo Zagrebelsky. Tanti altri ci sono ugualmente cari, ma vorrei ricordare almeno, a partire dal 1971, gli anni sassaresi di Roberto Ruffilli, vittima del terrorismo.

Il Presidente Napolitano nei giorni scorsi si è chiesto: <<ma che cosa significa il fatto che si siano potuti esprimere questi uomini politici, uomini di governo, poi diventati uomini di Stato fino al più alto livello di rappresentanza istituzionale qui a Sassari ?>> Probabilmente ciò significa che a Sassari si è affermata – nel corso del tempo e in particolare dopo la nascita dell’Italia repubblicana e di una democrazia parlamentare fondata su una carta costituzionale moderna –  si è affermata una visione alta della politica e insieme con essa un sentimento forte della responsabilità nazionale delle classi dirigenti sarde.

Questo è solo uno degli aspetti centrali del nostro Ateneo di cui siamo orgogliosi: per il Presidente Napolitano la nostra è <<un’Università che si è rinnovata e molto si sta rinnovando: io credo che sia importante lo sforzo compiuto, l’aver dato vita ad un nuovo statuto dell’Università, l’aver proceduto su alcune linee di riforma che erano assolutamente indispensabili>>. Il Presidente ha aggiunto: <<sono sempre stato ostile alle sentenze liquidatorie sul sistema universitario italiano, sommarie ed ingiuste, però sono egualmente convinto che non si tratti di contrapporre a quelle sentenze sommarie un idoleggiamento acritico della condizione delle nostre università>>.

Noi non mitizzeremo la nostra storia, che stiamo ricostruendo partendo dai documenti, dagli archivi, dai musei. Presentiamo oggi la ristampa del classico articolo del gesuita catalano Miguel Batllori, professore ordinario di storia moderna nella Pontificia Università Gregoriana di Roma, che 50 anni fa tracciò un nitido quadro di sintesi dell’iter istitutivo del Collegio turritano. Le tappe del processo che ha portato alla nascita della nostra Università possono essere compendiate in queste date: nel 1558, grazie al testamento del funzionario della cancelleria di Carlo V il magnificus Alexius Fontanus che lasciò i suoi beni alla municipalità, venne istituito il Collegio gesuitico (che si badi bene non era un’università ma, come si potrebbe affermare oggi, un istituto superiore); nel 1562 nell’ultimo anno del Concilio di Trento iniziarono i corsi; nel 1612 una bolla pontificia concesse alla Compagnia di Gesù la possibilità di conferire i gradi accademici – le lauree – in Filosofia e Teologia; nel 1617 il Collegio venne trasformato in università di diritto regio solo per la facoltà di Filosofia e Teologia; nel 1632 una carta reale permise la concessione dei gradi in Diritto e Medicina. È nel Seicento che nasce la convinzione della priorità dell’Ateneo Sassarese su quello Cagliaritano nell’ambito della polemica municipalistica barocca, mentre l’Università venne “restaurata” nel 1765, all’interno del disegno riformatore del governo sabaudo volto all’integrazione politica e alla formazione culturale delle élites dirigenti locali.

La storia dell’Università di Sassari è stata caratterizzata da ripetuti tentativi di soppressione a cui le classi dirigenti locali si sono sempre opposte per difendere quello che veniva non a torto considerato un bene prezioso per la crescita civile e culturale della città: dalla Legge Casati del 1859 a quella Gentile del 1923, l’Ateneo turritano ha dovuto spesso combattere per garantirsi la sopravvivenza. Il Comune e la Provincia, per tutto l’Ottocento e per i primi decenni del Novecento, hanno sostenuto finanziariamente l’università, garantendone la vita e lo sviluppo.

In questi ultimi anni il nostro Ateneo dispone di un gran numero di pubblicazioni scientifiche che documentano la sua storia istituzionale e quella delle diverse tradizioni scientifiche. La monumentale Storia dell’Università di Sassari, a cura di Antonello Mattone, pubblicata in due volumi dall’editore Ilisso di Nuoro, rappresenta un’importante premessa per le celebrazioni di questi giorni e dà conto del ruolo che il nostro Ateneo ha efficacemente svolto in Sardegna e nel Mediterraneo. Per i prossimi mesi prepariamo con l’Editore CLUEB altre pubblicazioni, che completeranno la ricostruzione storica: La documentazione relativa alla “restaurazione” dell’Università di Sassari, a cura di Emanuela Verzella; Le relazioni dei Rettori alle inaugurazioni dell’anno accademico (XIX-XXI secolo), a cura di Giuseppina Fois, a partire da quella del Rettore Giuseppe Silvestrini del 1882 fino ad oggi; La Storia della Facoltà di Giurisprudenza dal 1632 al 1950, di Antonello Mattone; infine Le scienze all’Università 1632-1950, di Stefania Bagella.

Raimondo Turtas e Mauro Sanna preparano per noi un volume sui documenti istitutivi del Collegio e dello Studio Generale, sotto il profilo economico e finanziario. Tutti questi lavori consentiranno di ricostruire lucidamente una storia lunga, i profili istituzionali, le tradizioni scientifiche, le Scuole, consolidando un’interpretazione, un giudizio sul passato, un bilancio veritiero di una vicenda complessa e ricchissima di contenuti, che fa emergere il ruolo attivo svolto dal Comune di Sassari, con le sue relazioni con la monarchia ispanica, con la Compagnia di Gesù già ai tempi di Ignazio di Loyola, con il Papato.

Infine, il Convegno internazionale su <<Le origini dello Studio Generale sassarese nel mondo universitario europeo dell’età moderna>> (22-23 marzo 2012), svoltosi negli ultimi due giorni, ha rappresentato un momento alto di dibattito, promosso in accordo con il CISUI nell’ambito delle celebrazioni centenarie. A questo proposito vorrei ringraziare tutti gli uffici dell’Ateneo di Sassari che hanno contribuito alla realizzazione delle tante iniziative in corso ed in particolare di queste due manifestazioni.

Ora vediamo con maggiore chiarezza il valore del patrimonio storico che ereditiamo, nella sua complessità e nella sua ricchezza di contenuti umani e scientifici, dal quale partire per costruire un Ateneo nuovo, capace di misurarsi in un confronto internazionale ma fortemente ancorato a un’identità e a una storia speciali. Siamo orgogliosi di assumere questa eredità e insieme siamo convinti che sia necessario un forte impegno di innovazione e di modernizzazione, un deciso cambiamento, che richiede determinazione e fantasia, creatività e capacità operative, perché occorre accelerare gli interventi, per dare spazio ai giovani, alle donne, a tutti coloro che abbiano talento, valorizzando le competenze di ciascuno e il merito.

Vorrei allora cogliere questa occasione per guardare al futuro, pensando a come dobbiamo completare la rifondazione del nostro Ateneo, in esecuzione di una riforma universitaria che non vogliamo espressione del mito dell’aziendalizzazione delle università e del valore commerciale del sapere. Nonostante sia il risultato di una tendenza iper-regolatrice, la legge 240 paradossalmente oggi deve diventare la nuova frontiera per difendere l’autonomia universitaria protetta dall’articolo 33 della Costituzione. Siamo consapevoli che saremo giudicati per quello che non saremo stati capaci di fare, soprattutto se non affronteremo alcuni problemi centrali e alcune minacce: la spaventosa diminuzione delle risorse che rischia di avere gravi ricadute sul sistema socio-economico specie nel Mezzogiorno, la caotica riprogettazione dell’intera struttura degli Atenei e la ricomposizione dei Dipartimenti su nuove basi, la riduzione delle rappresentanze, l’impoverimento dei momenti di democrazia e di confronto, l’ulteriore precarizzazione dei ricercatori dopo anni di duro apprendistato, il dibattito sui ruoli, i compiti, gli obiettivi di una Università europea inserita in una competizione internazionale che premia qualità e merito; elementi che richiedono politiche di integrazione che correggano il modello centralistico di base e combattano il rischio di un’ulteriore stretta oligarchica, confermata dalla rimozione dei ricercatori sia dalle commissioni di concorso sia dai requisiti per i dottorati.

E ciò all’indomani dell’adozione da parte dei due Governi che si sono succeduti di severe misure per il risanamento del bilancio dello Stato che hanno bloccato gli aumenti retributivi del personale universitario e gli scatti di anzianità, provvedimenti che colpiscono soprattutto i più giovani; per non parlare delle limitazioni al turn over, del blocco dei concorsi con la conseguente riduzione dell’organico in tutte le fasce (gli ordinari  sono passati da 218 a 191 negli ultimi 3 anni, gli associati da 244 a 230, i ricercatori da 256 a 239, gli assistenti da 10 a 4, in totale da 728 docenti a 664; il personale tecnico amministrativo è passato da 663 a 580 unità) e della prospettiva drammatica di circa un centinaio di cessazioni all’orizzonte, dell’aumento del numero degli studenti per singolo docente (fino ai 47 studenti di Economia), del taglio del fondo di finanziamento ordinario degli Atenei con la minaccia dell’introduzione del penalizzante costo standard per studente; la possibile cancellazione del valore legale dei titoli di studio per la selezione della classe dirigente, che colpirebbe pesantemente anche il nostro Ateneo; ancora la nuova formula dei Progetti di ricerca PRIN che privilegia le università specialistiche e i grandi gruppi di ricerca (l’Ateneo ha intercettato nell’ultimo triennio circa 3,5 milioni di euro), per quanto vorrei dare atto al Ministro Profumo di aver sboccato in tempi rapidissimi le procedure. Nessuno riuscirà a convincerci che per innalzare la qualità del sistema universitario italiano sia necessario tagliare in tre anni del 13% le risorse, già spaventosamente insufficienti nel confronto europeo, cancellando il computo delle retribuzioni del personale sanitario (il FFO dell’Università di Sassari è passato nel triennio da 82 a 72 milioni di euro); la loro ulteriore riduzione è una minaccia per quegli Atenei che intendono recuperare situazioni di svantaggio e che non possono utilizzare la leva della tassazione studentesca in una regione nella quale garantire il diritto allo studio significa innanzi tutto prendere atto delle distanze fisiche e delle debolezze economiche delle comunità locali. Le generose idoneità ERSU in Sardegna hanno un pesante riflesso sui bilanci delle Università, con una miriade di esenzioni e rimborsi per oltre 2000 studenti e una significativa riduzione del gettito. Al momento il rapporto FFO e tasse studenti è comunque salito al 12%,  passando nel triennio da 7,5 milioni a circa 9.

Elementi di svantaggio che sembrano totalmente ignorati nel recente schema di decreto legislativo per la programmazione, il monitoraggio e la valutazione delle politiche di bilancio e di reclutamento degli atenei. Infine ci preoccupa il ritardo nell’assegnazione dei fondi FAS, che potrebbero dare una soluzione all’edilizia dell’intero Ateneo, nell’ambito della Programmazione Triennale, con la conclusione di molte incompiute e l’avvio di numerosi cantieri finanziati.

Vogliamo ripetere che non ci sottraiamo alla valutazione, chiediamo la modifica di alcuni indicatori ministeriali, l’impianto di un sistema premiante, rigoroso, trasparente, condiviso e pubblicamente rendicontabile, che consideri le specificità disciplinari e i contesti territoriali in cui opera ciascuna università. Non si cambia senza investire.

Con i suoi 665 docenti, con i suoi 583 tecnici, amministrativi, bibliotecari, con i suoi 15.561 studenti (1700 in meno di tre anni fa, 8972 per le triennali, 3767 a ciclo unico, 1487 per le lauree magistrali, 1239 per il vecchio ordinamento) e oltre 400 dottorandi e 700 specializzandi, l’Università di Sassari è una risorsa e non un peso. Gli investimenti in conoscenza sono necessari; in Sardegna il compito dell’Università è cruciale ed è necessario arrivare alla nascita di un sistema regionale integrato in piena sinergia tra i due Atenei, con un modello di università a rete aperta ad una dimensione internazionale.

Siamo consapevoli della crisi economica, finanziaria e anche morale che il Paese attraversa e non ci sottraiamo all’obbligo di dare un contributo efficace per superarla, perseguendo obiettivi di risparmio, di efficienza, di efficacia, di legalità, affrontando i sacrifici richiesti a tutto il Paese. Ci mettiamo al servizio di un Ateneo che ha una storia e una dignità da difendere, un’immagine da tutelare, con l’esigenza di assolvere ad un munus, dando esempi di comportamenti virtuosi, basati sulla necessità di mettere al primo posto gli interessi della res publica. Siamo dalla parte innanzi tutto dei ricercatori e degli studenti, in particolare degli studenti lavoratori e degli studenti effettivamente attivi; ogni nostro sforzo sarà indirizzato a difendere i loro diritti, chiedendo loro, allo stesso tempo, impegno e responsabilità, decisi a valutare il lavoro di ciascuno e noi a rispondere dei nostri limiti, con il rigore che dovrebbe accompagnare sempre l’autonomia e l’autogoverno.

L’elezione del nuovo Senato Accademico nei giorni scorsi ha visto una partecipazione straordinaria degli elettori e una competizione vera tra tanti candidati. A breve valuteremo i curricula per la nomina del nuovo Consiglio di Amministrazione, del Nucleo di Valutazione, del Collegio dei revisori dei conti, del Comitato unico di garanzia, del Consiglio degli Studenti, del Consiglio del Personale tecnico e amministrativo, degli altri organi accademici. Sono nati i 13 nuovi dipartimenti, ne sono stati eletti i direttori, nominati i vicedirettori, costituite le sezioni e le giunte, designati i segretari amministrativi. È stato nominato il direttore generale dell’Ateneo. Infine riprogettiamo l’offerta formativa, con le strutture di raccordo, i corsi di laurea, i master, le scuole di specializzazione, i dottorati, guardando a nuove proposte anche in campo informatico, tecnologico, scientifico.

La pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 23 dicembre 2011 del nuovo Statuto dell’Autonomia non è stata un’occasione perduta e siamo orgogliosi del risultato raggiunto, perché lo Statuto ha finito per essere veramente opera di tutto il corpo accademico: e questo spiega la sua consistenza, il suo peso, la sua anima profonda, che orienta la nascita degli organi accademici e indirizza efficacemente l’azione del Senato, della Giunta e del Consiglio di Amministrazione. Nonostante le tensioni, forse ci eravamo sbagliati due anni fa a dire che la riforma poteva essere una bomba gettata dentro l’Università per scardinarla, a valle di una ingenerosa campagna mediatica di cui si continuano a vedere gli strascichi come a proposito della fantasiosa graduatoria sul nepotismo negli Atenei, che vedrebbe i due atenei sardi ai vertici delle graduatorie nazionali.

Nel nuovo statuto la comunità universitaria si dichiara solennemente consapevole della ricchezza e complessità delle tradizioni accademiche e del valore delle diverse identità. Si dà un ordinamento stabile, afferma il metodo democratico nella elezione degli organi, si dichiara attenta al tema della formazione delle giovani generazioni e alle esigenze del diritto allo studio; colloca lo studente al centro delle politiche accademiche e promuove la cultura come bene comune. Rivendica i valori costituzionali, previsti per le «istituzioni di alta cultura», della libertà di scelta degli studi, di ricerca e di insegnamento, assicurando tutte le condizioni adeguate e necessarie per renderla effettiva. Si impegna a promuovere, d’intesa con le altre istituzioni autonomistiche, lo sviluppo sostenibile della Sardegna e a trasferire le conoscenze nel territorio, operando per il progresso culturale, civile, economico e sociale. Senza dimenticare l’identità e la lingua. Siamo impegnati a lavorare intensamente con senso di responsabilità e consapevolezza delle attese che ora ci accompagnano e che non possiamo deludere. Col dovere di rispondere alla fiducia accordataci. Anche con orgoglio e rivendicando una storia, una tradizione scientifica di eccellenza, una nostra cifra originale.

Nasce la comunità degli alumni all’interno dell’associazione Alauniss. Si progetta la fondazione della sezione ADI, l’Associazione dei dottorandi e dottori di ricerca, operano attivamente il CUS ed il CRUS.

Quella che stiamo vivendo è anche un’occasione decisiva per definire obiettivi di sistema e strategie di sviluppo e di modernizzazione in un momento che è di crescita per l’Ateneo ma anche di obiettive difficoltà per il Paese. Dobbiamo contribuire a valorizzare le nostre risorse (materiali, professionali e umane), per stimolare processi virtuosi e per far crescere la nostra Università: un Ateneo europeo che si proietta nel Mediterraneo in virtù della sua posizione, al centro del mare interno, crocevia di incontri e di scambi di uomini, merci saperi e culture, un Ateneo di qualità, capace di misurarsi in un confronto internazionale ma fortemente radicato in quest’isola. Noi non abbiamo di fronte soltanto un problema banalmente quantitativo, di indicatori da rispettare. Quella che abbiamo di fronte è innanzi tutto una grande sfida culturale, fatta di passione civile e di impegno personale: abbiamo fortissimo il senso del limite delle azioni dei singoli e sentiamo vivissima la necessità di costruire alleanze e di trovare sinergie, di ascoltare il parere di tutti, di collegare tra loro i territori e le esperienze della Sardegna.

Abbiamo posto al centro del nostro mandato l’impegno di suscitare le forze vive e favorire lo sviluppo di un processo virtuoso che stimoli la creatività dei ricercatori e la nascita di un sistema che riconosca nella trasparenza l’autonomia di Dipartimenti, Centri, Laboratori, Aziende, con un forte principio di sussidiarietà; intendiamo lavorare per trovare soluzioni concrete ai problemi della ricerca, della didattica, dell’alta formazione, dell’assistenza sanitaria, soprattutto per rendere altamente competitiva l’Azienda Ospedaliera Universitaria; rimuovere ostacoli, alleggerire e accelerare le procedure contro inutili impacci burocratici, estendendo a cascata la cultura della responsabilità; garantire un processo di valutazione equilibrato, indirizzato al giusto riconoscimento delle molte e qualificate professionalità che operano nel nostro Ateneo; affermare l’orgoglio di un’appartenenza e di un patrimonio; avviare un confronto e uno stretto rapporto con le Istituzioni e in particolare con il Governo Regionale per difendere un nuovo modello di Università pubblica, che deve rimanere un bene pubblico e una pubblica responsabilità, il “presidio fondamentale” del sistema democratico; far diventare l’Ateneo il punto di riferimento centrale per un territorio del Nord dell’Isola che vuole continuare a crescere, mettendo in relazione dialettica la ricerca umanistica e la ricerca sperimentale con applicazioni e trasferimenti a favore del territorio; creare una continuità tra l’Università, la città che ci ospita e la cultura della Sardegna; infine, fissare obiettivi alti di un forte rinnovamento generazionale e di internazionalizzazione, perché non vogliamo ridurre l’Ateneo a un mero erogatore di prestazioni didattiche, un’Università di servizio destinata a svolgere un ruolo circoscritto e poco significativo nel contesto nazionale e internazionale.

Per costruire il futuro dell’Università, mentre andiamo incontro a un periodo di restrizioni, occorre anche trovare il coraggio di praticare scelte che implicano rigore e senso di responsabilità, costruendo il consenso ed evitando strappi e disagi, facendoci carico anche degli ultimi. Occorre allora riaffermare alcuni valori centrali, come quello della libertà di insegnamento e di ricerca, della possibilità reale di accesso agli studi universitari per gli studenti, della promozione culturale e sociale per i meritevoli, qualunque sia la loro provenienza sociale, geografica o culturale.

Dobbiamo avere un occhio rivolto al progetto, alla visione generale, ai princìpi e con uno sforzo di analisi e di riflessione critica; ma soprattutto dobbiamo guardare al futuro con una prospettiva operativa, indicando obiettivi, priorità, strumenti e, dove possibile, risorse disponibili.

Dobbiamo discutere del futuro della nostra Università, tenendo presente la triplice missione dell’alta formazione, della ricerca scientifica e del servizio a favore del territorio sul piano tecnologico, sanitario, economico, sociale e culturale, che deve convergere in un’azione unitaria. I nostri Dipartimenti possono veramente diventare un elemento di forza sul quale costruire un futuro diverso per un Ateneo di diritti e di doveri: di diritti, a iniziare dalla possibilità reale di accesso agli studi universitari, dalla libertà di insegnamento e di ricerca, dal miglioramento dell’ambiente di lavoro, dai riconoscimenti per l’impegno e la produttività nei dipartimenti, ma anche nei corsi di laurea e nella missione a favore del territorio nelle prestazioni in conto terzi, con forme riconosciute di premialità.

Doveri, a partire dalla presenza in sede, dalla responsabilità personale e dalla serena disponibilità a sottoporsi a una valutazione, anche con riferimento all’adempimento dei compiti didattici. Richiamando le azioni che abbiamo definito nei documenti programmatici, intendiamo riaffermare i principi di trasparenza, rigore, serietà professionale, passione civile, imparzialità dell’azione amministrativa, merito, lotta al clientelismo, sussidiarietà tra Dipartimenti, Scuole, Uffici, semplificazione amministrativa, promozione culturale e sociale per tutti i meritevoli, valutazione, rinnovamento generazionale, apertura al mondo.

Con la cerimonia di oggi emergeranno i 50 ricercatori più attivi e più produttivi del nostro Ateneo, misurati sulla base di criteri rigorosi: è una prima esperienza che per l’area umanistica richiede sicuramente più di una messa a punto. Voglio dire subito che dal nostro osservatorio cogliamo tanti segnali di speranza, tanto impegno, tante aree di eccellenza: abbiamo aperto le celebrazioni per i 450 anni incontrando e premiando con un tablet i nostri 450 migliori studenti, che sono veramente al centro dei nostri progetti. Voglio ricordare anche il recente premio nazionale consegnato dal Ministro della gioventù a Francesca Speranza Piga, laureata in Economia, nell’ambito del progetto Campus mentis 2011. Per non parlare, proprio nelle scorse settimane, del premio Unesco assegnato alla nostra chimica Valeria Alzari, per la sintesi diretta di materiali nanocomposti. E al nostro Marco Masia, per la chimica nel Sud Est europeo, per un lavoro svolto in collaborazione con un ricercatore turco in materia di comprensione delle reazioni chimiche a bassa temperatura. Nei giorni scorsi Francesco Lippi ha vinto per la seconda volta il premio internazionale della Fondation Banque de France per uno studio sulle origini microeconomiche e gli effetti macro della rigidità dei prezzi. Infine vorrei ricordare un anno fa il Premio Nazionale per l’innovazione conferito al giovane allievo Luca Ruiu nella Start Cup. Riconoscimenti insieme per una scuola scientifica e per un impegno personale.

E poi gli straordinari risultati dei nostri studenti in mobilità, i tanti progetti in corso, le tante idee che emergono anche dalle proposte di finanziamento presentate agli Enti pubblici ed alla Fondazione Banco di Sardegna.  La selezione di tanti nostri colleghi per i Comitati tecnici dell’ANVUR arriva alla vigilia del complesso processo che rinnova la valutazione CIVR nella quale gli economisti si erano classificati in prima posizione. Le valutazioni CENSIS Repubblica pongono il nostro Ateneo al terzo posto tra le medie università.

Impegno specifico dobbiamo dedicare a Sassari città della conoscenza e al sistema delle autonomie: occorre rivedere il rapporto con la città e il territorio, verso una politica globale indirizzata allo sviluppo del Nord Sardegna in collaborazione con gli Enti locali, oggi rappresentati da tanti Sindaci. L’Università in Città o la Città universitaria deve fondarsi su una continuità urbanistica tra Ateneo e Città, su una reciproca accettazione di valori e di legami identitari, su un impegno comune per migliorare la qualità della vita dei cittadini. L’Università deve sentire il dovere di giustificare e difendere pubblicamente le proprie scelte strategiche, ad esempio sul piano urbanistico, ma anche sull’organizzazione interna, sulle strutture didattiche, sul decentramento. Anche la Città deve crescere più velocemente e sentire la responsabilità di ospitare l’Università, elevando la qualità della vita, che riverberi i suoi effetti sulla popolazione studentesca.

Il ruolo dell’Università è cruciale per orientare le politiche di sviluppo della Sardegna valorizzando l’identità locale e contribuendo alla crescita delle strutture produttive nella nuova economia della conoscenza. Occorre combattere l’emarginazione dalle scelte regionali più significative, attraverso un confronto con le Istituzioni per definire strategie di sviluppo dell’Università e del territorio, basate sulla convergenza della programmazione. Bisogna arrivare rapidamente alla firma di una nuova Intesa Regione-Università con una visione moderna e internazionale del ruolo e della funzione universitaria, con forti investimenti per una adeguata dotazione infrastrutturale, la definizione di meccanismi competitivi e un ripensamento delle modalità organizzative.

Non vogliamo sorvolare sul dibattito, alimentato stancamente negli ultimi mesi, sul tema dell’Università unica in Sardegna, come ricetta facile facile per combattere gli sprechi e per rispondere alla crisi: quella che il Paese sta attraversando purtroppo è soprattutto una profonda crisi culturale, che richiede più investimenti in conoscenza, in ricerca e innovazione, per superare il gap che ci divide dall’Europa; soprattutto più sinergie e più impegno. Lo smantellamento di una delle due università isolane, magari di una delle Università più antiche del Mezzogiorno, va in direzione contraria rispetto all’esigenza di promuovere il capitale umano, di aumentare il numero dei laureati in Sardegna, specie dei laureati in ambito scientifico, di favorire l’ingresso di studenti stranieri, di aprire alla collaborazione internazionale i nuovi dipartimenti, i laboratori, i centri di ricerca, i reparti ospedalieri. Non vogliamo sentire parlare di tagli dopo che stiamo assistendo alla chiusura di tutte le Facoltà e di metà dei dipartimenti grazie alla discussa riforma. La soppressione dell’Università di Sassari non è all’ordine del giorno, anzi intendiamo collocarci in un orizzonte di sviluppo e di crescita, certo con più responsabilità, nel momento in cui nel Paese oggi si discutono, anche negativamente, il prestigio e il ruolo della scuola e dell’università pubblica, che pure svolgono una missione strategica nel Mezzogiorno, perché gli interventi innovativi in conoscenza avranno sicuramente riflessi positivi sull’intera società. Senza l’università non c’è futuro per la Sardegna e per il Paese.

Non ci è sfuggita la forte e generosa presa di posizione recentemente assunta dal Consiglio Comunale di Sassari e dal Consiglio Provinciale, in difesa dell’Università, con i documenti adottati all’unanimità dalle due assemblee, che hanno confermato pieno sostegno politico e amministrativo per contrastare in tutte le sedi politiche e istituzionali qualsiasi proposta di ridimensionamento o soppressione di una delle due università storiche della Sardegna. Concentrare le strutture universitarie tutte in un’unica sede comporterebbe gravissimi problemi di funzionalità e una desertificazione ulteriore della Sardegna, che invece ha necessità di vedere radicate anche al suo interno le infrastrutture della cultura: intanto perché i due Atenei storici vivono grazie ad una feconda competizione che garantisce una crescita più rapida; inoltre perché il rapporto di prossimità è solo una delle facce di una medaglia che deve innanzi tutto proiettare gli Atenei non più in una dimensione regionale, ma in una dimensione europea e mediterranea, interpretando vocazioni, risorse, strumenti di sviluppo, senza perdere contatto con il territorio.

Certo è necessario un accordo di federazione, espressamente previsto nell’articolo 57 del nuovo statuto dell’Università di Sassari: stiamo discutendo con il Rettore dell’Università di Cagliari il testo di una convenzione per la nascita di un sistema integrato delle due Università della Sardegna, che preveda una consultazione periodica tra i Senati Accademici e che riduca il numero dei corsi di laurea, eviti le duplicazioni, programmi le attività formative e di ricerca, favorisca le novità e l’arrivo di nuove idee anche sul piano tecnologico. L’università svolgerà un ruolo strategico di protagonista in Sardegna e nel Mediterraneo soprattutto se saprà stabilire rapporti con grandi centri di eccellenza, a livello europeo, innalzando la qualità dei suoi prodotti e dei suoi servizi e legando trasversalmente l’alta formazione alla ricerca avanzata, al tempo libero, allo sport. E ciò senza rinunciare ad una cooperazione però con la riva sud del Mediterraneo che favorisca un confronto culturale, che abbatta vecchi e nuovi steccati, che combatta la divaricazione che quasi inesorabilmente il mondo sta drammaticamente vivendo ancora oggi ad un decennio dall’11 settembre, con tante speranze come quelle alimentate dalle primavere arabe e dalla imbarazzante fuga di quegli esponenti che sono stati gli osannati rappresentanti delle élites autoproclamatesi nel Maghreb dopo la fine del colonialismo europeo.

Siamo consapevoli che oggi rischiano la sopravvivenza molti Atenei. Ci troviamo di fronte a un bivio, dove si giocherà la partita più importante della storia di molte Università di medie e piccole dimensioni che potrebbero a breve essere in difficoltà e addirittura in liquidazione, anche attraverso imprudenti formule di fusioni e di straordinarie trasformazioni. Rischiamo di assistere  ad una vera e propria lotta nella jungla dove, per una darwiniana legge non scritta, periranno sotto i colpi dei vincoli economici sempre più capestro gli Atenei con forze minori senza alcuna considerazione della loro storia, del loro ruolo nel territorio, della loro attività di formazione e di ricerca.

Eppure noi ci muoviamo nella società della conoscenza e puntiamo alla valorizzazione del patrimonio culturale immateriale e del capitale umano, con uno sguardo che deve riuscire a spingersi più lontano in un processo di produzione della conoscenza, di trasmissione del sapere, della cultura come risorsa: in Sardegna difendere l’Università significa garantire la crescita della società civile facendo leva su una tradizione secolare, su una rete di rapporti e di conoscenze, su un patrimonio materiale e immateriale ereditato dal passato; soprattutto difendere il motore strategico, lo strumento principe per lo sviluppo dell’Isola, garantendo il capitale fondamentale per il domani, trovando strade nuove per fare dell’insularità una risorsa e non un condizionamento; più ancora difendere una profonda, radicata e consapevole cultura autonomista che ha conosciuto e conosce concrete ricadute sul piano della programmazione e dell’azione amministrativa e politica.

In questo quadro i giovani hanno diritto di ricevere dalle due università sarde non soltanto una formazione che consenta loro di confrontarsi ad armi pari in Europa con i loro coetanei, ma soprattutto devono ricevere stimoli, suggestioni, curiosità, passioni che motivino il loro impegno futuro. Essi devono essere in grado di declinare con originalità i grandi temi dei nostri giorni, la globalizzazione, il confronto tra culture, le identità plurali del Mediterraneo, partendo dalla nostra forte significativa e originale appartenenza sarda.

Con la loro storia che supera i quattro secoli di vita, le Università di Cagliari e di Sassari possono davvero essere una risorsa e non un peso per la Sardegna, un formidabile strumento di sviluppo, una finestra per far arrivare nell’isola idee innovative, per creare relazioni, per costruire sinergie, per collegarci ai grandi centri di ricerca, per organizzare la mobilità internazionale. I recenti accordi con l’Accademia di Belle Arti “Mario Sironi” e con il Conservatorio di Musica “Luigi Canepa” aprono prospettive e strade totalmente nuove.

La Regione ha investito molto in questi anni per le Università attraverso il fondo unico (23 milioni l’anno, di cui circa 8 per Sassari), che compensa i tagli disastrosi effettuati a danno degli Atenei sul fondo di funzionamento ordinario nazionale ed ha evitato che le due Università vedessero compromesso lo sforzo di crescita, fossero condannate al blocco del turn over e costrette ad aumentare le tasse studentesche. Imponente è stato lo sforzo sui laboratori, sul trasferimento tecnologico, sui finanziamenti per la ricerca.

Le Università stanno cambiando, attraverso la mobilità studentesca che ha raggiunto risultati straordinari in entrata e in uscita, i visiting professors (nell’ultimo anno l’Università di Sassari ha ospitato 131 docenti stranieri, di cui 96 per visite brevi, 35 per visite fino a 6 mesi), il rientro dei cervelli, i premi di produttività, la premialità per i progetti di ricerca. E poi il fondo europeo di sviluppo regionale, che ha consentito di finanziare dottorati di ricerca, sempre più vicini e calibrati sul mondo delle imprese, premiando i progetti dei giovani ricercatori; i bandi della legge regionale nr. 7, un’ottima legge sulla ricerca che molte regioni ci invidiano, in particolare per progetti di ricerca di base e orientati (per un totale di oltre 7 milioni di euro nel 2010), risorse che ci hanno dato le potenzialità e le opportunità per raggiungere livelli di ricerca adeguati ad una scala internazionale, premiando qualità e merito; i posti di nuovi assegnisti (148 nell’ultimo anno, di cui 38 a carico della Fondazione Banco di Sardegna) e di ricercatori a tempo determinato. E poi i finanziamenti europei del VII programma quadro (oltre 3 milioni di euro), la biblioteca scientifica regionale e infine la nuova anagrafe della ricerca che rende trasparente e valutabile la ricerca universitaria. Tutto ciò ha contribuito a sostenere la produttività scientifica, che nel triennio supera i 5400 prodotti, compresi 23 brevetti, 2745 articoli, 280 libri.

Dobbiamo rivendicare con orgoglio i risultati raggiunti, le punte di eccellenza, il concentrarsi di nuclei di ricercatori. Guardiamo con speranza verso la biomedicina, le biologie marine, la genetica, le neuroscienze, l’agroalimentare, l’agroindustria, le nanotecnologie, l’ICT, le biotecnologie, l’energia verde, i nuovi materiali, la ricerca di base, le scienze del management, i beni culturali. Voglio ricordare la chimica verde anche con riferimento all’impegno che le università assumono nei confronti del territorio per valutare la validità di alcune iniziative industriali. In Sardegna la ricerca scientifica è insieme espressione di una tradizione di studi secolare, di reti di rapporti stabiliti nel tempo, ma verso il futuro si inserisce sempre di più in una grande comunità internazionale, costituisce le fondamenta per quella che è ormai la terza missione dell’università: il servizio a favore del territorio e del trasferimento tecnologico a favore delle aziende. Senza dimenticare i tanti progetti europei a base competitiva che supportano l’internazionalizzazione, inclusi quelli di cooperazione internazionale, con una strategia destinata a stimolare i docenti universitari ad occuparsi di ricerca finalizzata a sostenere le azioni strategiche di supporto allo sviluppo soprattutto nei paesi del sud del Mediterraneo.

Salutare è anche la verifica in corso sulla qualità della didattica nelle sedi gemmate e sulla nuova certificazione delle sedi, anche se è evidente che ci sono da fare molti passi in avanti significativi per rendere la Sardegna l’isola della ricerca, un modello anche per altre regioni, per creare reti, per aprire, per essere capaci di accogliere e non di respingere al centro del Mediterraneo, per evitare di essere chiusi e ripiegati su noi stessi.

Le Università stanno rapidamente rinnovandosi cogliendo tutti gli spazi di democrazia e di partecipazione, ribadendo i principi delle pari opportunità, del diritto allo studio, della dignità del lavoro e del contrasto al precariato, della promozione del merito e delle competenze, della programmazione e della valutazione, della trasparenza. Vorremmo raggiungere un obiettivo ambizioso, aumentare la produttività, innalzare il numero degli iscritti e in particolare degli studenti regolari e degli studenti attivi, dunque il numero dei laureati specie nelle discipline scientifiche, degli specializzati, dei dottori di ricerca, migliorare le competenze linguistiche, informatiche, matematiche dei nostri studenti. Ridurre il numero dei falsi studenti, promuovere l’internazionalizzazione, gli scambi Erasmus, la mobilità, lo sviluppo dell’ICT, la conoscenza delle lingue straniere, combattere nuove forme di analfabetismo e introdurre una formazione più lunga. Soprattutto sostenere la ricerca di eccellenza capace di introdurre innovazioni nei diversi campi del sapere. Il quadro disegnato dalla legge di riforma e dallo Statuto alla ricerca dell’efficienza degli Atenei si dovrà comunque confrontare con la capacità di coinvolgimento delle persone, con la adozione partecipata degli obiettivi prioritari da raggiungere, con politiche di integrazione che correggano il modello centralistico di base.

C’è ovviamente un limite alla nostra azione e ne abbiamo parlato qualche giorno fa col Presidente Napolitano: il limite di un territorio che conosce una grave crisi economica, un grave fenomeno di desertificazione, una progressiva chiusura di aziende. Gli operai della Vinyls e dell’Alcoa sono solo la punta di un’avanguardia consapevole di lavoratori decisi a salvare la Sardegna dal naufragio, di fronte alle oltre mille aziende in crisi, agli oltre 4000 posti di lavoro persi nell’industria, all’incremento della disoccupazione giovanile, alle dimensioni spaventose assunte dalla cassa integrazione, alle 350.000 persone sotto la soglia di povertà.  Un crisi che in parte trae origine nei debiti sovrani  ma anche nel capitale finanziario speculativo che gioca sulla pelle delle persone, con il risultato di sostituirsi alle legge e farsi esso stesso Stato. E nessun economista ha saputo prevedere la crisi. Gli ultimi dati evidenziano in Sardegna un calo del PIL del 3,9% (il PIL pro capite non supera i 16 mila euro), i consumi delle famiglie sono tornati al livello del 1999, la capacità di esportare delle imprese sarde non supera il 10% rispetto al 23% nazionale.

I nostri 2000 laureati ogni anno affrontano enormi difficoltà nel trovare un lavoro vero. Uno sbocco. Un posto di lavoro che non sia inadeguato, precario o sottopagato. E che permetta loro di affrontare la vita in maniera dignitosa e serena.  Il lavoro – ha detto il Presidente Napolitano – non deve essere un privilegio. Nei giorni scorsi il XIV rapporto Almalaurea ha confermato drammaticamente l’incremento della disoccupazione giovanile, arrivata al 31%, ed in particolare della disoccupazione tra i laureati specie nel Mezzogiorno.

Il tasso di occupazione per i neolaureati di I livello della nostra Università è pari al 37%, 7 punti meno della media italiana.  A un anno dalla laurea solo il 38% dei laureati specialistici del nostro ateneo risultano occupati; a livello nazionale il dato supera il 56%, 18 punti in più, anche se i nostri laureati sono meno precari e ottengono nel 36% un lavoro stabile, rispetto al 33% della media nazionale. A 5 anni dalla laurea gli occupati sono il 68%, con un guadagno mensile che non si discosta dalla media nazionale.

È a questi giovani che guarda oggi l’Ateneo perché dobbiamo legare formazione e lavoro, immaginare nuovi scenari per il futuro, costruire un sistema di orientamento al lavoro, operare attivamente insieme alla classe politica e alle imprese per cambiare la Sardegna.

Consentitemi in chiusura di tornare indietro di un secolo, per cogliere con emozione una distanza e soprattutto una speranza. L’Ateneo di oggi è veramente diverso da quello che un secolo fa si dibatteva in una tremenda crisi di identità. In un polemico memoriale Pro Atheneo Sassarese indirizzato a S.E. il Ministro della pubblica istruzione del Regno d’Italia Leonardo Bianchi, il 7 aprile 1905 gli studenti universitari di Giurisprudenza, Medicina e Farmacia protestavano contro il falso pareggiamento dell’Università: <<Il decoro del nostro Ateneo, la serietà degli studi e la base civile della nostra vita avvenire, il risentimento giusto contro soprusi colpevoli da parte delle autorità politiche, che ci fanno immeritatamente inferiori rispetto agli altri colleghi del continente, spingono oggi noi, Studenti Universitari, ad una dignitosa protesta, la quale, nel campo della verità e nel limite del possibile, vuole le sue soddisfazioni>>.

E, al termine di una serie di osservazioni critiche <<provvederà il Governo alle nostre giuste richieste ? Noi lo speriamo, perché la nobiltà degli studi è tale questione civile che non può essere disconosciuta o risolta con mezzi termini. L’istruzione, idealmente intesa, è la forza e la vita delle genti, e le vittorie del pensiero, perché non hanno, come le altre, l’ebrezza sanguinosa dell’eccidio, sono veramente sante e belle. Noi vogliamo istruirci e questa nostra volontà non è violenza, ma dovere e diritto incontrastabile. Chè, se il desiderio e il vero pareggiamento fosse ancora di là da venire, noi vorremmo che i battenti del nostro Ateneo rimanessero eternamente chiusi, ed a caratteri di fuoco avessero scolpiti i versi del grande Michelangelo:

Caro m’è il sonno e più l’esser di sasso

Mentre che il danno e la vergogna dura

Non veder, non sentir m’è gran ventura,

però non mi destare, deh! parla basso>>.

Quei battenti del nostro palazzo oggi sono spalancati. La chiusura della nostra Università non è all’ordine del giorno e i rottamatori verranno sconfitti..

Abissale mi pare oggi la distanza tra quegli studenti combattivi ma delusi e i nostri studenti che non hanno complessi di inferiorità e guadano davvero all’Europa.

Il compito che ci viene affidato è innanzi tutto quello di accompagnare i giovani sardi in una competizione internazionale dalla quale possono veramente uscire vincenti.

È una responsabilità, un impegno, una promessa.




La scomparsa di Giulio Girardi.

La scomparsa di Giulio Girardi
(Il Cairo, 23 febbraio 1926 – Rocca di Papa, 26 febbraio 2012)

Cari amici,

con dolore desidero informarVi che domenica 26 febbraio Giulio Girardi è scomparso dopo una lunga malattia. Aveva appena compiuto ottantasei anni di un’esistenza straordinaria di studioso, di militante e di educatore.

Per quasi vent’anni, dal 1978 al 1996, aveva insegnato Filosofia politica nella Facoltà di Magistero dell’Università di Sassari a compimento di una vicenda personale e di un percorso intellettuale orientato agli studi filosofici e teologici che già nel 1962 lo vedeva impegnato come esperto nei lavori del Concilio Vaticano II, per le sue conoscenze sul marxismo e sui rapporti con i “non credenti”. E proprio il problema del dialogo fra marxismo e cristianesimo, a partire dalle concrete esperienze nel continente americano, è stato uno dei punti centrali della sua riflessione teorica e uno dei temi ricorrenti del suo impegno militante, che lo avevano legato agli interessi scientifici di Sandro Schipani, di Marcello Lelli, di Alberto Merler, di Giovanni Lobrano, di tanti di noi, anche nell’ambito del Seminario di studi latino-americani del nostro Ateneo.

Con il rigore teoretico e metodologico del filosofo e del teologo e con la passione di chi ha sempre dichiarato con limpidezza la propria scelta di campo al fianco degli oppressi e dei più svantaggiati, Girardi è stato una delle coscienze critiche più acute della vicenda dell’America Latina nella seconda metà del XX secolo. Protagonista egli stesso di quella vicenda, è stato tra i fondatori della teologia della liberazione, interpretando la fede cristiana e l’impegno per la giustizia e per l’equità sociale come strumenti attraverso cui perseguire la liberazione degli esseri umani e l’autodeterminazione dei popoli.

Camillo Tidore lo commemora per noi con queste parole: <<chi ha seguito i suoi corsi universitari ne ricorda la disponibilità al dialogo e la ricerca costante del confronto, che si esprimeva in una non comune capacità di prendere in considerazione gli argomenti degli altri e di mettersi in ascolto, chiunque fosse il suo interlocutore. Chi lo ha conosciuto personalmente ne ha apprezzato la ferma mitezza nel sostenere le proprie idee e l’entusiasmo travolgente, spesso contagioso, nel desiderio di trasmetterle agli altri>>.

In quest’anno in cui, come Ateneo, siamo particolarmente impegnati a riflettere sul nostro passato, che il quattrocentocinquantennale ci stimola a ricostruire, e sul nostro futuro, che le sfide aperte dalle trasformazioni in atto ci impongono come comunità scientifica sempre più aperta al mondo, pensare a Giulio Girardi ci fa vedere in lui una delle figure più eminenti della nostra storia.

Attilio Mastino
Rettore dell’Università di Sassari




Incontro con il Presidente della Repubblica Sen. Giorgio Napolitano.

Intervento del Rettore prof. Attilio Mastino
Senza l’Università non c’è futuro per la Sardegna e per il Paese
Incontro con il Presidente della Repubblica Sen. Giorgio Napolitano

Sassari, 21 febbraio 2011

Signor Presidente, Autorità, cari amici,

è un grande onore per l’Università di Sassari, per gli studenti, i professori e il personale, aprire le celebrazioni per i 450 anni dell’Ateneo, l’Alma in Sardinia mater studiorum, alla presenza del signor Presidente della Repubblica sen. Giorgio Napolitano, accompagnati da centinaia di messaggi augurali provenienti da tanti Atenei. Siamo commossi per una così alta presenza che rende omaggio alla nostra storia. Si ripete, a distanza di 50 anni, il faustissimus eventus delle celebrazioni centenarie dell’Universitas Turritana Sacerensis, aperte il 30 maggio 1962 da un altro Presidente, il sen. Antonio Segni.

In quella solenne giornata si erano concentrate le speranze per il futuro di un’università in pulcherrima insula sita che traeva origine 400 anni prima dal testamento di Alessio Fontana funzionario di cancelleria di Carlo V ma che guardava lontano: <>.

Oggi guardiamo ai decenni formativi dell’Ateneo Sassarese, alla nascita del Collegio gesuitico nel 1562, ricordando l’avvio nel 1612 dei corsi di Filosofia e Teologia e vent’anni dopo alla trasformazione del Collegio in Università di diritto regio.

Lo facciamo pensando alla nuova università che insieme stiamo rifondando, dando esecuzione ad una legge, la n. 240 del 30 dicembre 2010, che non vogliamo espressione del mito dell’aziendalizzazione delle università e del valore commerciale del sapere. Nonostante sia la espressione di una tendenza iper-regolatrice, la legge 240 paradossalmente oggi deve diventare la nuova frontiera per difendere l’autonomia universitaria protetta dall’articolo 33 della Costituzione, per valorizzare il merito, per conservare un patrimonio che ereditiamo con emozione, consapevoli che saremo giudicati per quello che non saremo stati capaci di fare, soprattutto se non affronteremo alcuni problemi centrali e alcune minacce: la spaventosa diminuzione delle risorse specie nel Mezzogiorno, la caotica riprogettazione dell’intera struttura degli Atenei e la ricomposizione dei Dipartimenti su nuove basi, la riduzione delle rappresentanze, l’impoverimento dei momenti di democrazia e di confronto, l’ulteriore precarizzazione dei ricercatori dopo anni di duro apprendistato, il dibattito sui ruoli, i compiti, gli obiettivi di una Università europea inserita in una competizione internazionale che premia qualità e merito; elementi che richiedono politiche di integrazione che correggano il modello centralistico di base e combattano il rischio di un’ulteriore stretta oligarchica, confermata dalla rimozione dei ricercatori sia dalle commissioni di concorso sia dai requisiti per i dottorati.

E ciò all’indomani dell’adozione da parte dei due Governi che si sono succeduti di severe misure per il risanamento del bilancio dello Stato che hanno bloccato gli aumenti retributivi del personale universitario e gli scatti di anzianità, provvedimenti che colpiscono soprattutto i più giovani; per non parlare delle limitazioni al turn over, del blocco dei concorsi, del taglio del fondo di finanziamento ordinario degli Atenei con la minaccia dell’introduzione del penalizzante costo standard per studente; la possibile cancellazione del valore legale dei titoli di studio per la selezione della classe dirigente, che colpirebbe pesantemente anche il nostro Ateneo; ancora la nuova formula dei Progetti di ricerca PRIN che privilegia le università specialistiche e i grandi gruppi di ricerca. Nessuno riuscirà a convincerci che per innalzare la qualità del sistema universitario italiano sia necessario tagliare in tre anni del 13% le risorse, già spaventosamente insufficienti nel confronto europeo; la loro ulteriore riduzione è una minaccia per quegli Atenei che intendono recuperare situazioni di svantaggio e che non possono utilizzare la leva della tassazione studentesca in una regione nella quale garantire il diritto allo studio significa innanzi tutto prendere atto delle distanze fisiche e delle debolezze economiche delle comunità locali.

Siamo consapevoli della crisi economica, finanziaria e anche morale che il Paese attraversa e non ci sottraiamo all’obbligo di dare un contributo efficace per superarla, perseguendo obiettivi di risparmio, di efficienza, di efficacia, di legalità, affrontando i sacrifici richiesti a tutto il Paese. Ci mettiamo al servizio di un Ateneo che ha una storia e una dignità da difendere, un’immagine da tutelare, con l’esigenza di portare avanti un munus, dando esempi di comportamenti virtuosi, basati sulla necessità di mettere al primo posto gli interessi della res publica. Siamo dalla parte innanzi tutto dei ricercatori e degli studenti, in particolare degli studenti lavoratori e ogni nostro sforzo sarà indirizzato a difendere i loro diritti, ma anche a chiedere impegno e responsabilità, decisi a valutare il lavoro di ciascuno e noi a rispondere dei nostri limiti, in un quadro di rigore e responsabilità che dovrebbero accompagnare sempre l’autonomia e l’autogoverno.

Chiediamo metodi nuovi di valutazione che fondino un sistema premiante rigoroso, che consideri le specificità disciplinari e i contesti territoriali in cui opera ciascuna università attraverso indicatori di contesto relativi alle condizioni di sviluppo regionali. Ci richiamiamo all’art. 119 della Costituzione, che impone risorse aggiuntive ed interventi speciali, per promuovere la coesione nazionale e la solidarietà sociale e per rimuovere gli squilibri economici. Nel nostro caso anche l’insularità, riconosciuta nel trattato di Amsterdam del 1997 come oggettivo svantaggio che va compensato. Non si cambia senza investire. Occorre lavorare per reperire nuove risorse, in questa sorta di competizione globale nella quale ci muoviamo, che non può distrarci dalla necessità di interpretare la ricerca scientifica il più possibile liberata dai vincoli burocratici, che spesso ci sfiancano e distraggono i giovani dal vero compito che è quello di pensare e di crescere insieme.

L’Università vuole aprire e non chiudere la Sardegna, ma richiamiamo le radici e le esperienze dei padri dell’autonomia speciale, ai quali riconosciamo una profondità e un rigore che vanno ben oltre la superficialità di alcune teorie federaliste dell’oggi, fondate su prepotenti egoismi e incapaci di farsi carico dei problemi di tutti.

Con i suoi 665 docenti, con i suoi 583 tecnici, amministrativi, bibliotecari, con i suoi 15.561 studenti e oltre mille dottorandi e specializzandi, l’Università di Sassari è una risorsa e non un peso. Gli investimenti in conoscenza sono necessari; in Sardegna il compito dell’Università è cruciale ed è necessario arrivare alla nascita di un sistema regionale integrato in piena sinergia tra i due Atenei, con un modello di università a rete aperta ad una dimensione internazionale.

Troviamo ragioni nuove per una convergenza con l’Università di Cagliari: stiamo scrivendo il testo dell’accordo di federazione previsto dal nostro statuto e garantiremo la consultazione dei due Senati Accademici, all’interno di un Sistema universitario unitario che mantenga ben distinte le due università storiche con il loro patrimonio di relazioni. Eppure non riteniamo che il rapporto di prossimità possa assorbire tutto l’orizzonte di iniziative che invece debbono orientarsi su un piano europeo, mediterraneo e internazionale, facendo leva sui rapporti avviati entro la rete delle 21 università catalane, il coordinamento tra le Università insulari, l’Unione delle Università del Mediterraneo e l’Università Euro-mediterranea. Saranno avviate numerose iniziative nuove per potenziare rapporti di collaborazione, con singole Università, con reti universitarie e con centri di promozione culturale, in particolare con il Centro russo di scienza e cultura e l’istituto cinese “Confucio” attraverso Uni-Italia. Vogliamo guardare al Mediterraneo e al mondo, pensando ai nostri ricercatori impegnati in difficili missioni internazionali di cooperazione. Consentitemi di esprimere la solidarietà dell’Ateneo per la giovane cooperante Rossella Urru, da quattro mesi prigioniera dei suoi rapitori in Algeria.

L’orizzonte che abbiamo di fronte è quello dell’Europa 2020, un’Europa che si definisce intelligente, sostenibile, inclusiva, nella quale entreremo con il nostro capitale umano e intellettuale, con le nostre risorse materiali e immateriali, con le nostre tecnologie. Anche con i nostri problemi, se è vero che stiamo attraversando il cuore di una crisi che tocca innanzi tutto il mondo del lavoro giovanile: gli operai della Vinyls e dell’Alcoa sono solo la punta di un’avanguardia consapevole di lavoratori decisi a salvare la Sardegna dal naufragio, di fronte alle oltre mille aziende in crisi, agli oltre 4000 posti di lavoro persi nell’industria, all’incremento della disoccupazione giovanile, alle dimensioni spaventose assunte dalla cassa integrazione, alle 350.000 persone sotto la soglia di povertà.  Un crisi che in parte trae origine nei debiti sovrani  ma in massima parte nel capitale finanziario speculativo che gioca sulla pelle delle persone, con il risultato di sostituirsi alle legge e farsi esso stesso stato. E nessun economista ha saputo prevedere la crisi.

Voglio dire subito che dal nostro osservatorio cogliamo tanti segnali di speranza, tanto impegno, tante aree di eccellenza: abbiamo aperto questo anno accademico premiando con un tablet i nostri 450 migliori studenti, che sono veramente al centro dei nostri progetti.

L’Ateneo ha conseguito risultati positivi nelle tante classifiche nazionali, come quelle del Ministero e di CENSIS Repubblica che ci vede al terzo posto tra i medi atenei. Il buon risultato è stato ottenuto grazie alle strutture, alle borse di studio, al sito web di Ateneo. Fra le Facoltà, Architettura si colloca ai vertici della classifica italiana al secondo posto.

Vorrei volgere uno sguardo ai tanti impegni che ci aspettano fin dai prossimi mesi, convinti come siamo che soprattutto nei momenti di crisi sia compito degli amministratori pubblici accelerare il passo, mettere a disposizione progetti, indicare soluzioni, dare risposte alle esigenze, evitare di far dormire per decenni le risorse.

Portiamo avanti la riforma della struttura stessa dell’Università, avviata con la costituzione dei nuovi 13 dipartimenti, che rappresenteranno la cellula di base nella quale didattica, ricerca, trasferimento a favore del territorio si incontrano, come è previsto nel nuovo statuto pubblicato il 23 dicembre sulla Gazzetta Ufficiale. Non è stata un’occasione perduta e siamo orgogliosi del risultato raggiunto, perché lo statuto ha finito per essere veramente opera di tutto il corpo accademico: e questo spiega la sua consistenza, il suo peso, la sua anima profonda, che orienta la nascita delle strutture di raccordo e degli organi accademici, il Senato e il Consiglio di amministrazione eletti a partire da giovedì prossimo. I nuovi direttori di dipartimento hanno preso servizio solo poche settimane fa.  In questi giorni sono stati disattivati i 27 vecchi dipartimenti e progressivamente scompariranno le 11 Facoltà.

C’è un compito che ci aspetta, quello di superare i tanti ritardi che si sono accumulati specialmente in un Ateneo come il nostro che celebra i suoi 450 anni di vita, rivendicando una dimensione internazionale originaria. Nel richiamare le proprie radici storiche, l’Ateneo sta avviando un percorso di rifondazione come Università pubblica, all’interno di un sistema internazionale più competitivo e globale, ispirandosi ai principi di autonomia e di responsabilità; nel nuovo statuto la comunità universitaria si dichiara solennemente consapevole della ricchezza e complessità delle tradizioni accademiche e del valore delle diverse identità. Si dà un ordinamento stabile, afferma il metodo democratico nella elezione degli organi, si dichiara attenta al tema della formazione delle giovani generazioni e alle esigenze del diritto allo studio; colloca lo studente al centro delle politiche accademiche e promuove la cultura come bene comune. Rivendica i valori costituzionali, previsti per le «istituzioni di alta cultura», della libertà di scelta degli studi, di ricerca e di insegnamento, assicurando tutte le condizioni adeguate e necessarie per renderla effettiva. Si impegna a promuovere, d’intesa con le altre istituzioni autonomistiche, lo sviluppo sostenibile della Sardegna e a trasferire le conoscenze nel territorio, operando per il progresso culturale, civile, economico e sociale. Senza dimenticare l’identità e la lingua.

Siamo impegnati a lavorare intensamente con senso di responsabilità e consapevolezza delle attese che ora ci accompagnano e che non possiamo deludere. Col dovere di rispondere alla fiducia accordataci. Anche con orgoglio e rivendicando una storia, una tradizione scientifica di eccellenza, una nostra cifra originale.

L’Università che vogliamo darà un ulteriore, deciso sviluppo alle mobilità studentesche internazionali, sia in ambito europeo con il programma Erasmus, sia in ambito extraeuropeo con il programma Ulisse. Intendiamo orientare i nostri sforzi non solo per moltiplicare le opportunità di confronto e di scambio, ma anche per migliorare la qualità e l’efficienza delle esperienze di formazione di tutti gli studenti in mobilità: rafforzeremo i servizi di tutorato e gli sportelli Erasmus presso i nuovi Dipartimenti; miglioreremo il monitoraggio e la valorizzazione dei percorsi di studio all’estero e il loro pieno e tempestivo riconoscimento nelle carriere studentesche; consolideremo il sistema delle “borse-premio”.

In collaborazione con il Centro Linguistico estenderemo l’offerta di corsi gratuiti di lingua per i nostri studenti e per gli studenti stranieri; metteremo a frutto la convenzione per le locazioni universitarie recentemente stipulata con il Comune; potenzieremo il sostegno alle attività di accoglienza svolte dalle associazioni studentesche; punteremo a migliorare la capacità di attrazione del nostro Ateneo all’estero. In particolare vareremo il nuovo progetto-pilota sui tirocini, che le imprese vorranno riservare a studenti universitari europei, con le borse Erasmus-Placement.

Continueremo ad investire nelle collaborazioni studentesche, che hanno rappresentato in questi anni un canale significativo per far entrare una ventata di novità nelle Facoltà e nei Dipartimenti. Confermeremo i contributi alle associazioni per le attività ricreative, culturali e sociali autogestite dagli studenti.

La nascita dei nuovi dipartimenti collegherà strettamente l’offerta formativa all’attività di ricerca scientifica, che si svilupperà nel territorio, con una vigorosa messa  punto dell’organizzazione della didattica e dei servizi agli studenti. I risultati fin qui raggiunti segnalano un deciso miglioramento con la riduzione del numero degli studenti fuori corso e con l’aumento del numero dei laureati.

Riprogettiamo le scuole di dottorato, i master, le scuole di specializzazione. La digitalizzazione dei servizi permetterà di gestire le operazioni di prenotazione e verbalizzazione on line degli esami; nascerà il fascicolo digitale dello studente. Il rilevamento delle opinioni degli studenti avverrà per via informatica. Continueremo a promuovere una solenne cerimonia per la premiazione dei migliori studenti, sostenendo la politica del merito; daremo impulso all’attività a favore dei disabili, costituiremo il Comitato Unico di garanzia; sono destinate ad estendersi le attività sportive, musicali, del tempo libero offerte agli studenti. Investiamo sul Centro Linguistico di Ateneo, sul Sistema Bibliotecario, sull’informatica, sulla didattica on line, sulla ricerca con i grandi progetti di Ateneo, sui laboratori, i Centri interdisciplinari, il Museo Scientifico, l’Orto Botanico, le Grandi attrezzature scientifiche e sanitarie. E poi il trasferimento tecnologico, l’organizzazione dell’Azienda Ospedaliera Universitaria, che appare in forte ritardo sul piano delle strutture e delle tecnologie, anche per l’assenza del Comitato di indirizzo e per la mancata approvazione dell’Atto Aziendale. Sollecitiamo il completamento del Palazzo di Piazza Fiume destinato ad ospitare i 300 mila volumi della Biblioteca Universitaria.

Lavoriamo nei programmi europei, il VII programma quadro, il Programma “Marittimo”, il Programma ENPI. Pubblichiamo i risultati della valutazione della ricerca di tutti i docenti, sottolineando i punti di forza e le criticità che scaturiscono da questa severa analisi, che comunque ha fatto emergere almeno 36 studiosi ai vertici del panorama nazionale. Il programma Visiting Professor permetterà di assicurare una significativa presenza di studiosi stranieri, contribuendo positivamente non solo al processo di internazionalizzazione e al consolidamento delle relazioni con la comunità scientifica ma anche alla realizzazione di prodotti della ricerca e di attività formative di notevole impatto.

Se allarghiamo lo sguardo all’edilizia dell’intero Ateneo, ci muoviamo ormai nell’ambito della Programmazione Triennale e prevediamo la conclusione di molte incompiute e l’avvio di numerosi cantieri finanziati con i fondi FAS che speriamo in arrivo.

Tra il 22 ed il 24 marzo con il Convegno sulle origini dello studio generale sassarese nel mondo universitario europeo dell’età moderna promosso d’intesa con il centro interuniversitario di storia dell’università concluderemo le celebrazioni dei nostri 450 anni, con la partecipazione di molti rettori provenienti da numerose università italiane e straniere convenzionate con noi.  Siamo orgogliosi di assumere questa eredità, ma insieme convinti che è necessario un forte impegno di innovazione e di modernizzazione, un deciso cambiamento, che richiede determinazione e fantasia, creatività e capacità operative, perché occorre accelerare gli interventi, con una spinta riformista, dando spazio ai giovani, alle donne, a tutti coloro che abbiano talento, valorizzando le competenze di ciascuno ed il merito.

Il I maggio 1919 Antonio Gramsci (nel giornale socialista L’Ordine Nuovo) scrisse rivolgendosi ai giovani: «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza». E’ un insegnamento che i nostri studenti hanno preso alla lettera se il numero dei laureati in Sardegna va crescendo in maniera esponenziale: Pensate che qui all’Università di Sassari, nel 1975, si laurearono in poco più di 300 studenti. Nel 1992, vent’anni fa, i laureati non furono più di 650. Lo scorso anno i laureati sono stati oltre 2000, rispetto ai 300 mila dell’intero Paese. Una crescita costante che si è potuta osservare in parallelo anche nell’Ateneo cagliaritano, anche se il numero dei laureati nell’isola continua ad essere basso. Eppure, grazie a questi dati si può affermare che quella attuale è sicuramente la classe giovanile più preparata che la Sardegna abbia mai avuto.  Sono ragazzi fortunati. Perché hanno potuto frequentare un corso di laurea. Hanno potuto specializzarsi. Confrontarsi con i loro colleghi di tutta Europa attraverso l’Erasmus. E crescere. Ma nonostante questo incontrano ora enormi difficoltà nel trovare un lavoro vero. Uno sbocco. Un posto di lavoro che non sia inadeguato, precario o sottopagato. E che permetta loro di affrontare la vita in maniera dignitosa e serena.  Il lavoro – ha detto altre volte Lei, signor Presidente – non deve essere un privilegio. E’ a questi giovani che guarda oggi l’Ateneo perché dobbiamo legare formazione e lavoro, immaginare nuovi scenari per il futuro, costruire un sistema di orientamento al lavoro, operare attivamente insieme alla classe politica e alle imprese per cambiare quella che un commentatore di Platone chiamava verso il 360 a.C.  e arguròfleps nésos, l’isola dalle vene d’argento.

Vorrei concludere con l’augurio fatto 50 anni fa dal Rettore dell’Universitas Vesontina, l’odierna Besançon, rinnovando i vota saecularia della studiorum universitas turritana sacerensis: possa essere decus, ornamentum e gloria della Sardorum inclita tellus: <<Atheneum nostrum cum antiquissimum tum gloriosissimum vivat, crescat, floreat>>.