Saluto introduttivo al XX Convegno de L’Africa Romana.

Attilio Mastino
Saluto introduttivo al XX Convegno de L’Africa Romana
Alghero, 26 settembre 2013

Trent’anni fa!

Giovedì 16 e Venerdì 17 dicembre 1983, in Sassari, nel salone della Camera di Commercio, in via Roma, si svolgeva il I Convegno dell’Africa romana.

Era il 1404 del calendario dei nostri amici dell’Africa maghrebina.

Il mondo era diverso eppure così uguale a quello di oggi.

Scrivevamo faticosamente le circolari ancora con le nostre macchine da scrivere meccaniche. Internet nasceva il I gennaio e il 19 gennaio si annunziava il personal computer Apple Lisa. Il 25 ottobre Microsoft propone la prima versione di Word per DOS.

Nel 1983 veniva messo in circolazione il primo telefono cellulare.

I conservatori Ronald Reagan e Margareth Teatcher reggevano le sorti degli Stati Uniti e della Gran Bretagna.

L’URSS era retta da Yuri Andropov  e Reagan proponeva, in una rinnovata stagione della Guerra Fredda, lo “Scudo spaziale”. A dicembre il premio Nobel per la pace veniva assegnato al creatore del sindacato polacco Solidarność, Lech Wałęsa.

Giovanni Paolo II, il papa venuto da lontano, proprio dalla Polonia comunista sedeva sulla cattedra di Pietro da cinque anni.

In Italia era presidente della repubblica il socialista Sandro Pertini. Nel 1983 cadeva il governo Fanfani, il parlamento veniva sciolto e dopo le elezioni Bettino Caraxi, socialista, guidava il primo governo pentapartito.

Nel Maghreb la Tunisia era retta dall’eroe dell’Indipendenza Habib Bourguiba, Chadli Benjedid era già presidente dell’Algeria, in Marocco il re Hassan II regnava da 22 anni e aveva condotto la Marcia verde anticolonialista. Dal settembre 1969 Mu’ammar Gheddafi era Comandante della Rivoluzione della Grande Jamāhīriyya Araba Libica. In Egitto dal 1981 era presidente Hosni Mubarak.

Ma torniamo al microcosmo dell’Università di Sassari.

Nel luglio 1983 era sorto il primo Dipartimento dell’Ateneo, quello di Storia, che aggregava docenti  della Facoltà di Magistero, presieduta da Pasqualino Brandis, e della Facoltà di Giurisprudenza-Corso di laurea in Scienze politiche.

Insieme al collega Sandro Schipani si organizzò un convegno sull’Africa romana: 29 i partecipanti, tra cui sette docenti dell’università di Sassari (oltre a chi parla, Brandis, Schipani, Cicu, Vismara, Brigaglia, Moravetti), una dell’ateneo cagliaritano (la cara maestra Giovanna Sotgiu), due dell’Alma Mater studiorum di Bologna (il preside di Lettere Giancarlo Susini e la collega di Epigrafia latina Angela Donati), uno dell’Ateneo di Pisa (Giorgio Bejor), 14 delle soprintendenze archeologiche sarde e dell’Assessorato alla cultura della Regione sarda ed ancora tre valorosi colleghi tunisini, Hedi e Latifa Slim e Ammar Mahjoubi, cui si sarebbe aggiunto il contributo scritto della Naidè Ferchiou, purtroppo strappata al mondo degli studi e degli affetti qualche settimana addietro. Finalmente il professor Marcel Le Glay, cattedratico della Sorbonne-Paris IV, uno dei più eminenti studiosi del XX secolo dell’Africa romana, in particolare con i suoi tre volumi del Saturne Africain.

Mi sono proposto di evitare qualsiasi atmosfera di Amarcord, né, d’altro canto, spetta a chi parla di tracciare un qualsiasi bilancio su questi venti convegni dell’Africa romana, che sarà invece presentato, tra breve, dall’amico e maestro Guido Clemente.

Eppure volgendoci con emozione a guardare indietro, a considerare la strada percorsa, constatiamo con qualche rimpianto e forse anche con un po’ di nostalgia che è trascorso un lungo periodo di studi, di ricerche, di attività, che è stato anche un lungo periodo della vita di ciascuno di noi, un percorso fatto soprattutto di curiosità e di passioni vere.

L’iniziativa dell’Università di Sassari si è sviluppata ben al di là di quanto noi stessi potessimo allora immaginare: anche l’incontro di questi giorni documenta la crescita collettiva, il coinvolgimento sempre più ampio di specialisti, l’attenzione con la quale la comunità scientifica internazionale ha seguito la nostra attività, che ha finito per colmare uno spazio importante negli studi classici. Dai nostri convegni è derivata così una rete di rapporti, di relazioni, di amicizie, di informazioni, che crediamo sia il risultato più importante dell’esperienza che abbiamo vissuto in questi anni, con il sostegno e l’incoraggiamento delle autorità e di tanti amici, i nostri amici del Magreb, i nostri amici della riva nord del Mediterraneo, i nostri amici dei nuovi continenti, i nostri studenti, gli studenti impegnati nelle imprese dell’Africa romana.

Grazie per questi legami che oggi si rinnovano e che intendiamo continuare a coltivare in futuro. Tutti insieme, abbiamo costruito uno spazio di cultura, abbiamo prosciugato gli stagni, abbiamo schiuso un nuovo territorio ai nostri studenti, senza alcuna differenza per la loro fede, la loro appartenenza a questo o a quel paese: abbiamo lavorato insieme.

Non ci illudiamo di aver creato l’ortus conclusus della scientia: esso non esiste.  Abbiamo patito il dolore delle guerre e delle violenze che hanno arso nei territori da noi tanto amati, abbiamo gioito della forza giovanile delle rivoluzioni fiorite, lontano dal male della violenza e della sopraffazione, abbiamo trepidato affinché la nostra comune costruzione proseguisse, mattone dopo mattone.

Ma non ci siamo arresi: tutti noi, anche nelle condizioni difficili e terribili di questi trent’anni e in particolare di questo inizio di XXI secolo, abbiamo proseguito il nostro impegno di costruire ponti fra le due rive del Mediterraneo: come posso dimenticarmi dell’amicizia caldissima, affettuosa, gratuita riservatami da tutti i cari colleghi in terra d’Africa a partire da quel 1982, d quel dolce mese di settembre che mi rivelò d’incanto le filigrane della storia dell’Africa romana dall’alto dell’Hotel Reine Didon sulla collina Byrsa? Le impronte toponomastiche, archeologiche, filologiche, epigrafiche che consentivano di leggere il mosaico composito e ricchissimo di tradizioni, libiche, fenicie, puniche, romane, vandale, bizantine, islamiche che mi si parava di fronte: la cultura romana che assemblava le mille storie africane e che veniva accolta nella civiltà berbero-islamica dal volgere del VII secolo d.C.

Come posso dimenticare il denso caffè turco offertomi a Cartagine dal nostro maestro Azedine Beschaouch, nel palazzo cinto di gelsomini sul mare, in quella nuova Carthage, che eredita in filigrana tutte le civiltà?

Mi scorderò mai la lunga e appassionata storia dei nostri scavi di Uchi Maius, offertici dall’ Institut National du Patrimoine di Tunis insieme all’amicizia del caro Mustapha Khanoussi, nelle colline di Henchir ed Douamis? E Numlulis, Agbia, la Uthina di Habib Ben Hassen e Antonio Corda.

O gli scavi di Zama Regia, di Piero Bartoloni  e Ahmed Ferjaoui, a dominio della vallata che vide nel 202 a.C.  le truppe di Annibale e di Scipione confrontarsi in un prodigioso duello ?

O la scoperta della città sommersa di Neapolis, presso Nabeul, con il caro Mounir Fantar e tutta l’équipe tunisino-oristanese? E poi l’isola delle Sirene, Djerba e il deserto di Tozeur.

Potrò dimenticarmi di Lixus, nella Mauritania Tingitana, e le ricerche generosamente condotte grazie ai nostri amici Aomar Akherraz e Ahmed Siraj? E l’arco di Caracalla a Volubilis che abbiamo voluto sui nostri manifesti nella foto di Piero Bartoloni ? L’emozionante scoperta assieme a Geza Alfoeldy sull’epigrafe di Tetouan che ci ha conservato il nome inedito del castellum tamudense ?

Ho lasciato per ultimi due grandi paesi dell’immenso Maghreb: l’Algeria e la Libia. La conoscenza dei paesaggi urbani e rurali di queste nazioni, le ribollenti acque di Hammam Essalihine nel castello fortificato delle Aquae Flavianae, Mascula, l’attuale Kenchela, Hippona e Tagaste, le città dell’africano Sant’Agostino mi ritornano alla mente. E poi Theveste, Lambaesis, Diana Veteranorum, Cuicul, luoghi incredibilmente evocativi e ricchi di storie che ancora ci parlano.

Infine il gigantesco circo di Lepcis Magna sul Mare Mediterraneo, il porto severiano che conserva l’impronta incandescente del potere degli imperatori africani, la basilica; la villa marittima di Tagiura: il tempio di Iside di Sabratha, erto ancora sul mare in cui si svolgeva annualmente al rifiorire della primavera il navigium Isidis.

Fino a Cirene, alle grotte che per gli antichi hanno ospitato gli amori di Apollo e della sua ninfa, prima della nascita di Aristeo, il dio delle cose migliori.

Non sono queste elencazioni di un viaggiatore ottocentesco nelle terre della Barberia. Sono invece viaggi di studio, ricerche archeologiche epigrafiche, compiute in tanti anni con i nostri giovani, lasciatemi dire “i nostri giovani” in tutta la pregnanza del termine, quelli del Maghreb e quelli delle nostre Università.

Nei nostri convegni si sono incontrate tante storie diverse, sono state condensate tante esperienze, tante straordinarie imprese internazionali che hanno coinvolto tanti colleghi di tante altre università. Insieme abbiamo percorso l’Africa romana, intesa come raccordo e scambio di culture diverse: quelle anteriori dagli autoctoni berberi e numidi la cui parlata risuona ancora, e dei fenici, quelle posteriori fino ad oggi.

Raimondo Zucca mi ha raccontato un episodio avvenuto pochi giorni fa, una sera di questo mese di settembre nella Grande Moschea di Nabeul in Tunisia, quando  sono entrati, privi di calzature, i nostri studenti tunisini e sassaresi nell’ora serale della preghiera.

Un giovane di Nabeul ha lasciato la sala della preghiera e si è fatto incontro ai nostri. Li accoglieva e offriva loro un rametto profumato di basilico, dalle foglie piccole, come quelli dei monasteri ortodossi. Si è voluto intrattenere con loro per spiegare che Dio era il padre di tutti musulmani, ebrei e cristiani e che tutti erano fratelli. Riecheggiavano in quei pensieri le parole che papa Francesco (che abbiamo incontrato a Cagliari la settimana scorsa) aveva rivolto ai musulmani “nostri fratelli”. Quel giovane islamico ci consegna con quel rametto profumato il senso profondo della nostra costruzione comune dell’Africa romana, il senso di un’attenzione e di un rispetto che vogliamo affermare, il desiderio di un incontro e di una speranza. Benvenuti in Sardegna.




Intervento del Rettore dell’Università di Sassari prof. Attilio Mastino in occasione della visita di Papa Francesco a Cagliari.

Intervento del Rettore dell’Università di Sassari prof. Attilio Mastino
in occasione della visita di Papa Francesco
Cagliari, Facoltà teologica della Sardegna, 22 settembre 2013

Santità,

è un grande onore per me rappresentare qui oggi l’Università di Sassari, gli studenti, i professori e il personale, in occasione di questa Sua prima visita in Sardegna, in quella terra che un commentatore di Platone chiamava e argurofleps nesos, l’isola dalle vene d’argento, Ichnussa e Sandaliotis.

Siamo commossi per una così alta presenza che rende omaggio alla Pontificia Facoltà Teologica e insieme alla storia e alla funzione educativa delle due Almae Universitates in Sardinia, che hanno alle spalle quattro secoli di vita a partire dall’età spagnola.

Alle origini dell’Università di Sassari c’è l’accettazione nel 1559 da parte del Generale della Compagnia di Gesù padre Diego Laínez del testamento del cav. Alessio Fontana, funzionario della cancelleria di Carlo V e in relazione con Ignazio di Loyola: Nel 1562, durante il regno di Filippo II, nell’ultimo anno del Concilio di Trento, iniziavano a Sassari  le lezioni  nel Collegio gesuitico. I primi docenti che incominciarono ad insegnare a Sassari grammatica, umanità e retorica dal martedì 1° settembre 1562 furono: Juan Olmeda, di Cuenca (Castiglia), classe di mayores, poco più di 20 studenti; Juan Naval, spagnolo, classe di medianos, circa 50 studenti; Antonio Bosch, diocesi di Barcellona, classe di menores, circa 80 studenti Nei primi anni un fratello laico venne designato a insegnare a leggere e scrivere a circa 200 ragazzi.

La mortalità tra i gesuiti non abituati alla malaria fu alta: dei primi tre, solo uno sopravvisse entro i primi tre anni; nel secondo anno insegnò straordinariamente grammatica anche il portoghese Francisco Antonio, che sarebbe diventato celebre. .

Pio IV aveva concesso al generale della Compagnia e ai rettori di collegi da lui designati il potere di conferire tutti i gradi accademici in filosofia e teologia anche a studenti non gesuiti, a condizione che negli stessi collegi si svolgessero i corsi di quelle facoltà, gli studenti ne avessero frequentato i corsi e ne avessero superato gli esami. Entro la fine degli anni Sessanta del 1500 a Sassari si svolgevano già quei corsi ma il generale non autorizzò il conferimento di gradi accademici se non nel 1612.

Nel corso degli anni successivi il Collegio gesuitico di Sassari, nel quadro dell’ordinamento spagnolo del tempo, ha contribuito a formare un certo numero di studiosi e intellettuali che hanno cominciato a porsi la particolare specificità storico-culturale dell’Isola; è il momento in cui si sviluppano le grandi tradizioni di pietà popolare: il culto di origine greco-bizantina della processione del 15 di agosto della Madonna domiente (Koimesis) insieme a quelli dedicati a santi del menologio greco (S. Costantino imperatore, Santi Cosma e Damiano, Sant’Antioco, la Madonna d’Itria, ecc.), ancora le barocche processioni penitenziali della Settimana Santa di tradizione iberica. Proprio alla metà di agosto attraverso i Gremi iniziò a svilupparsi a Sassari la festa dei Candelieri, che abbiamo celebrato anche quest’anno in onore di Maria di Betlem, quando per un momento si sono incontrate quattro storie lunghe, quattro storie parallele, la storia della chiesa, la storia dell’Università, la storia della città di Sassari e la storia della Sardegna. Una tradizione religiosa imperniata sul culto della Madonna, rinnovato nei momenti di crisi: i Gremi scioglievano il voto dopo una pestilenza e lo facevano gioiosamente, con la goliardia e lo spirito ironico sassarese, riprendendo le più antiche tradizioni pisane. Una tradizione, quella delle macchine a spalla, per la quale attendiamo il riconoscimento dell’UNESCO.

Solo il 10 luglio 1612, quattrocento anni fa,  un altro Generale della Compagnia di Gesù Claudio Acquaviva autorizzò il rettore del collegio turritano (riconosciuto come università di diritto pontificio) a conferire i gradi accademici di <<bachiller, licenciado y doctor>>.

Il riconoscimento del valore regio dei diplomi arrivò più tardi, solo con la carta reale dell’8 febbraio 1617, quando Filippo III trasformava il collegio di Sassari in università di diritto regio con le facoltà di filosofia e teologia, con tutte le prerogative e i privilegi degli studi generali della Corona d’Aragona.  Nel 1632 Filippo IV concesse la facoltà di graduare anche in diritto civile e medicina.

Cinquanta anni fa il celebre gesuita Padre Miquel Batllori è stato il primo a porre  le basi per una storia scientifica dell’Università di Sassari, poi tracciata da Raimondo Turtas, Giampaolo Brizzi, Antonello Mattone ed ha ricostruito questa lunga vicenda che è fondata sulla naturale competizione barocca tra i due Atenei sardi, che si concluse con la rinuncia dell’Universitas turritana al titolo di primaria, passò per la vicenda della restaurazione voluta dai Savoia da parte di Carlo Emanuele III nel 1765, si rinnovò profondamente nell’Ottocento dopo la legge Casati, per arrivare fino ai giorni nostri dopo la contestazione del 1968 e la recente riforma.

Il solenne sigillo storico del nostro Ateneo rimanda alle radici cristiane della Sardegna, alla colonia di Turris Libisonis fondata da Giulio Cesare nel golfo dell’isola d’Eracle (l’Asinara) e al martirio sotto Diocleziano e Massimiano del soldato palatino Gavino, del presbitero Proto, del diacono Gianuario. Negli anni immediatamente successivi alla persecuzione, un’iscrizione latina ricorda che il vulgus e il populus di Turris Libisonis era concorde,. forse sotto l’autorità del suo vescovo, nell’apprezzare gli operatori di giustizia e nel definire la nobile Matera auxilium peregrinorum saepe quem censuit vulgus; ed esisteva un culto dei martiri, se per la Puella dulcia inmaculata Ad[e]odata si diceva che era stata accolta presso le tombe dei santi martiri, a sanctis marturibus suscepta.

L’immagine dei martiri testimoni della fede non è solo un lontano richiamo privo di significato, ha il senso di una storia che attraversa quasi duemila anni, che passa attraverso i pontefici di origine sarda Ilaro e Simmaco, tocca il sardo Eusebio di Vercelli e il caralitano Lucifero. Ma anche la vicenda delle spoglie di Agostino di Ippona tra Karales e Pavia in età longobarda rimanda ad una storia lunga che in qualche modo è patrimonio dell’intera Sardegna, passando dopo la parentesi bizantina, per l’autonomia dei quattro regni giudicali, l’arrivo dei catalano aragonesi, i legami con la chiesa di Roma.

Nel richiamare la vitalità delle proprie radici storiche, l’Ateneo ha avviato negli ultimi anni un percorso di rifondazione come Università pubblica, all’interno di un sistema internazionale più competitivo e globale, ispirandosi ai principi di autonomia e di responsabilità, nella consapevolezza della ricca complessità delle tradizioni accademiche e del valore delle diverse identità. Attraverso il nuovo statuto si è dato un ordinamento stabile, ha affermato il metodo democratico nella elezione degli organi, si è dichiarato attento al tema della formazione delle giovani generazioni e alle esigenze del diritto allo studio; ha collocato lo studente al centro delle politiche accademiche e ha dichiarato di voler promuovere la cultura come bene comune. Ha rivendicato i valori costituzionali – previsti per le «istituzioni di alta cultura» – della libertà degli studi, di ricerca e di insegnamento, assicurando tutte le condizioni adeguate e necessarie per renderla effettiva. Si è impegnato a promuovere, d’intesa con le altre istituzioni autonomistiche, lo sviluppo sostenibile della Sardegna e a trasferire le conoscenze nel territorio, operando per il progresso culturale, civile, economico e sociale. Allora i nuovi servizi, l’orientamento, i corsi di riallineamento e di recupero dei crediti formativi, il riconoscimento del merito, la certificazione di qualità dei corsi di studio, la mobilità internazionale Erasmus, l’assistenza sanitaria per gli studenti fuori sede, le attività sportive come necessarie nella formazione della persona..

Abbiamo evidenziato nello statuto il carattere laico e pluralista dell’istituzione universitaria, che garantisce condizioni di uguale dignità, parità e pari opportunità, contrastando ogni forma di discriminazione, diretta e indiretta, relativa ad esempio al genere, all’età, all’orientamento sessuale, all’origine etnica, alla disabilità, alla religione, alla lingua, alle opinioni politiche e alle condizioni personali e sociali.

Con i suoi 644 docenti, con i suoi 661 tecnici, amministrativi, bibliotecari, con i suoi 14400 studenti e oltre mille dottorandi e specializzandi, 150 assegnisti, 104 visiting professors,  l’Università di Sassari è una risorsa per il nostro Paese. Dopo la riforma ha istituito 13 dipartimenti, una Facoltà (quella di Medicina e Chirurgia), 11 Scuole di dottorato, oltre 30 scuole di specializzazione, numerosi master internazionali anche interamente in lingua inglese, molti Centri di ricerca di eccellenza, laboratori, biblioteche, con una forte spinta di innovazione e grandi investimenti in attrezzature grazie all’impegno della Regione Sarda.  Gli investimenti in conoscenza sono necessari soprattutto in questo momento di crisi. In Sardegna  lamentiamo un basso numero di laureati, il compito delle Università è cruciale ed è necessario arrivare presto alla nascita di un sistema regionale integrato in piena sinergia tra i due Atenei, con un modello di università a rete aperta a una dimensione internazionale. Mi lasci ricordare le numerose iniziative che intendiamo portare avanti assieme a centri di ricerca latinoamericani.

Troviamo ragioni nuove per una convergenza con l’Università di Cagliari: stiamo rivedendo il testo dell’accordo di federazione previsto dal nostro statuto e garantiremo la consultazione dei due Senati Accademici, all’interno di un Sistema universitario unitario che mantenga ben distinte le due università storiche con il loro patrimonio di relazioni.

Nel nostro Ateneo un’epigrafe collocata presso l’Aula Magna ricorda la visita a Sassari di Giovanni Paolo Magno il 28 maggio 1985, quando il Papa esortò la comunità universitaria ad operare sempre a favore dei grandi valori dell’uomo, affinché alla luce della scienza e della fede il suo cammino sia illuminato da profonda e vera sapienza. Papa Wojtyla affermò che la ricerca scientifica (nella dichiarazione di Bologna la scientiae pervestigatio) deve essere il primo e fondamentale compito dell’Università, che può ampliare sempre di più gli orizzonti della conoscenza nei vari ambiti del sapere, con un approccio interdisciplinare in rapporto anche ad altri centri culturali. Il ruolo dell’Università, riconosceva Giovanni Paolo II, può essere essenziale per l’edificazione dell’uomo, saggio e addestrato nel retto uso della volontà. Gli studenti debbono uscire dall’Università non solo con l’intelletto ricco di nozioni, ma con la volontà guidata da salde convinzioni morali e da ferme e operanti buone intenzioni. Di conseguenza solo l’impegno didattico dei docenti (la docendi ratio) consente che le acquisizioni scientifiche vengano partecipate alle nuove generazioni, avide di sapere, ma con vivo senso di responsabilità, rispettando la scala di valori morali, spirituali e religiosi, tutti incentrati nell’uomo, che nel mondo costituisce il valore supremo. Tutto il resto, concludeva Giovanni Paolo II,  – scienza, tecnica, cultura e società – deve essere al servizio della persona e l’Università non può esimersi da questa finalità altamente pedagogica di rendere l’uomo capace di volere e di amare.

Mi pare che quel messaggio possa essere declinato oggi anche laicamente e rappresentare la vocazione alla formazione e alla ricerca propria dell’università pubblica, entrambe libere da condizionamenti, rispettose del pluralismo, attente al futuro dell’umanità.

A distanza di quasi trent’anni da quell’evento, mi perdoni, ne approfitto, Santità, per invitarLa a visitare presto l’Università di Sassari, che sono certo l’accoglierà con emozione e gratitudine per il luminoso messaggio che ha diffuso già a partire dal 19 marzo nell’omelia della Messa per l’inizio del suo pontificato, nell’invito a tutti gli uomini di buona volontà di essere <<custodi della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, dell’altro e dell’ambiente>>.




La scomparsa del dott. Francesco Farace.

La scomparsa del dott. Francesco Farace
Intervento del Rettore Attilio Mastino al Senato Accademico del 12 settembre.

Il 16 agosto scorso, a 42 anni di età, dopo una lunga malattia contro un male implacabile, è scomparso il  dott. Francesco Farace, il nostro giovane chirurgo plastico, ricercatore da dieci anni nella clinica diretta da Nanni Campus. Lui stesso era stato nominato un anno fa dirigente con incarico di responsabile della struttura complessa di chirurgia plastica ricostruttiva ed estetica presso l’AOU di Sassari..

In occasione dei funerali, ho portato le condoglianze dell’Ateneo assieme al Direttore del Dipartimento di Scienze Chirurgiche Mario Trignano e all’ex Direttore della clinica di chirurgia plastica il nostro Corrado Rubino che ci ha raggiunto per piangere con noi.

Lo abbiamo ricordato nella chiesa della Sacra Famiglia assieme ai suoi colleghi, ai suoi maestri, alla sua famiglia, alla moglie Valeria, ai figli Davide e Zoe, al padre Antonio.

Il caso ha voluto che la vita di Francesco venisse stroncata dal male contro il quale aveva dedicato tutte le sue energie di studioso, nell’assistenza, nella ricerca scientifica, nella didattica.

Ho visto nell’anagrafe i suoi principali prodotti della ricerca, circa 60 titoli, che si occupano di neoplasie maligne, di carcinomi, della loro risoluzione chirurgica attraverso interventi demolitivi mirati. Dunque la microchirurgia, la chirurgia ricostruttiva della mammella, il lipofilling, il trasporto di adipociti autologhi, le ricostruzioni del distretto della testa, del collo e degli arti. Tra i suoi interessi scientifici anche gli aspetti psicologici nei soggetti folgorati,

Francesco Farace si è dedicato generosamente a ridurre i viaggi della speranza fuori della Sardegna per tante donne sarde, ha intensificato la sua attività operatoria dopo il trasferimento a Salerno di Corrado Rubino, si è speso su tanti altri versanti, con una straordinaria sensibilità per il dolore e la sofferenza dei pazienti. L’ho potuto constatare io stesso, quando ho accompagnato in ospedale una parente col braccio lacerato dai morsi di un cane: ci aveva accolto con una partecipazione vera, con attenzione sincera, con una capacità professionale davvero grande.

Con me aveva lavorato negli ultimi anni per organizzare in aula magna corsi di aggiornamento in tema di ricostruzione mammaria, i simposi della Società italiana di microchirurgia, i dibattiti sulla demolizione post oncologica della mammella, col ripristino delle catene linfatiche, gli interventi nel cavo orofaringeo e agli arti inferiori.

Tutti eventi scientifici e a carattere informativo brillantissimi,, da lui diretti, ai quali avevano partecipato tanti medici, tanti specializzandi, tanti studenti. Allora mi aveva aiutato a scrivere il mio intervento introduttivo, spiegandomi gli obiettivi scientifici delle diverse iniziative.

Francesco Farace era nato a Napoli il 17 Marzo 1971 e aveva conseguito la Maturità Classica col massimo dei voti, presso il Liceo-Ginnasio V. Alfieri – P. D’ Arco di Napoli nel 1989. Dopo la laurea presso la Seconda Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Napoli (3 aprile 1997) si era specializzato con lode in Chirurgia Plastica Ricostruttiva ed Estetica proprio a Sassari il 18 Novembre 2002.

Dal 26 aprile 2002, aveva preso servizio in qualità di Ricercatore  MED/19 presso la Cattedra di  Chirurgia Plastica dell’Università degli Studi di Sassari diretta dal  Nanni Campus prendendo parte anche all’attività assistenziale sia dell’ U.O.C. di Chirurgia Plastica che del Centro Grandi Ustionati ad essa annesso. Ricercatore Confermato presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia, poi  professore  Aggregato e  Dirigente Medico specialista in Chirurgia Plastica presso l’ Azienda Ospedaliera Universitaria di Sassari.

Nel 2011 ha conseguito il Master di II livello in Chirurgia Ricostruttiva della mammella presso l’Università degli Studi di Roma “Sapienza”.

Nel corso della sua formazione aveva frequentato per diversi periodi numerosi dipartimenti di Chirurgia Plastica in Italia all’estero tra i quali: il Dipartimento di Chirurgia Plastica del “Queen Victoria Hospital” a East Grinstead e il Northwick Park Hospital a Londra, nel Regno Unito, L’Institut de la Main con sede a Parigi, l’Università di Goteborg, l’Istituto Nazionale dei Tumori a Milano.

Dal conseguimento della laurea in avanti aveva preso parte con continuità alle attività della Cattedra di Chirurgia Plastica della Seconda Università di Napoli ed in seguito della Cattedra di Chirurgia Plastica Ricostruttiva dell’Università degli Studi di Sassari collaborando alla preparazione delle lezioni e delle tesi di laurea per gli studenti del Corso di laurea e di Specializzazione;

E’ stato docente nei corsi di Laurea di Medicina e Chirurgia, Fisioterapia, Ostetricia e Odontoiatria dell’Università degli Studi di Sassari.

Ha partecipato a molti congressi di Chirurgia Plastica in qualità relatore e moderatore in Italia e all’estero.

Nel corso della sua carriera, presso l’Unita Operativa Complessa di Chirurgia Plastica di Sassari  Francesco Farace ha operato più di duemila pazienti, principalmente affetti da patologia tumorale cutanea e mammaria, facendo ricorso anche a tecniche avanzate di microchirurgia.

Mi ha molto colpito il modo di affrontare la malattia negli ultimi mesi, continuando a lavorare per i suoi pazienti e dedicandosi alla sua famiglia ad Alghero, un breve luminoso periodo di ferie e di serenità che voleva lasciare come ricordo ai suoi due figli, ancora troppo piccoli e indifesi.

Grazie per quello che hai fatto in questi anni con generosità e impegno.




Nota del Rettore sulla situazione finanziaria dell’Ateneo.

Nota del Rettore sulla situazione finanziaria dell’Ateneo
Sassari, 8 luglio 2013

A tutto il personale
dell’Università degli studi di SASSARI

Cari amici,

l’approvazione del bilancio consuntivo 2012 da parte del Consiglio di Amministrazione, avvenuta nei giorni scorsi, ha fornito una prima conferma del successo conseguito nel reperire nuove risorse, pur nel quadro di una generale difficoltà degli Atenei italiani sul piano economico e finanziario. Il Collegio dei Revisori ha apprezzato l’impegno con il quale si è proceduto a dare adempimento al nuovo sistema con l’introduzione del bilancio unico di Ateneo e la contabilità economico-patrimoniale, mentre si sta rapidamente portando avanti la ricognizione patrimoniale.

In sintesi, nell’anno appena trascorso si sono registrate entrate per 187 milioni, superiori di quasi il 10% all’esercizio precedente, nonostante la riduzione della contribuzione studentesca e del Fondo di funzionamento ordinario (passato negli ultimi anni da 83 a 71 milioni); uscite in diminuzione rispetto all’anno precedente (172 milioni a fronte di 181milioni circa), soprattutto per un contenimento degli oneri per il personale docente, ricercatore e tecnico amministrativo. Riaccertati i residui attivi e passivi, il risultato finale di esercizio è un avanzo di amministrazione pari a ben 103 milioni di euro, in gran parte vincolato.

L’avanzo di competenza passa da -5,9 milioni di euro a +15,6 milioni di euro, risultato influenzato dai maggiori fondi regionali a destinazione vincolata. Una parte dell’avanzo libero effettivamente utilizzabile nella misura di dieci milioni consentirà di garantire l’equilibrio del bilancio 2013, che comunque sarà più positivo del previsto in sede di assestamento in relazione all’esatto calcolo del Fondo di funzionamento ordinario, al consistente aumento del Fondo unico regionale (arrivato a 7,7 milioni di euro) e alla recente riforma della tassazione studentesca.

È molto positivo l’indicatore di indebitamento pari al 2,4% (inferiore rispetto al tetto del 10%). Sono invece da monitorare l’indicatore di sostenibilità economico-finanziaria pari allo 0,95% (rispetto all’1%) e l’indicatore delle spese per il personale arrivato due anni fa all’85% (rispetto al tetto dell’80%). Quest’ultimo indicatore sta comunque migliorando.

Soprattutto questo indicatore ha consigliato prudenza e spiega la ragione per la quale il Senato – esaminate le singole posizioni – non ha ritenuto di concedere il biennio aggiuntivo ai ricercatori, associati e ordinari che l’hanno richiesto, pur riconoscendo l’azione appassionata e significativa svolta dagli otto colleghi che hanno presentato domanda di permanenza in servizio.

Il Collegio dei revisori ha riconosciuto un maggior grado di realizzazione di riscossioni e di pagamenti e un minor grado di accumulo dei residui.

Il 16 luglio saremo a Roma per ritirare in diretta i risultati della Valutazione quinquennale della ricerca dell’ANVUR e a ottobre conosceremo i risultati delle abilitazioni: sono personalmente persuaso che dovere dell’Ateneo sarà quello di trovare risorse per consentire ai nostri colleghi di prendere rapidamente servizio come professori associati o ordinari, con una priorità che dovrà partire da una valutazione delle performances dell’Ateneo, dalle prospettive di sviluppo in nuove aree disciplinari, dalla copertura dei corsi di studio e degli insegnamenti. Ma penso anche alla necessità di garantire progressioni verticali al nostro personale tecnico, amministrativo e bibliotecario, sempre sulla base della disponibilità di punti organico che attendiamo di conoscere dal Governo.

Nei giorni scorsi l’Azienda Ospedaliera Universitaria, l’ASL n. 1 e l’Assessorato Regionale alla Sanità hanno riconosciuto i crediti vantati dall’Università nei confronti del Servizio sanitario e espresso la volontà di liquidare le indennità assistenziali a favore del personale universitario convenzionato a partire dal 2001, con il pagamento degli arretrati che è già iniziato da alcune settimane.

Approveremo a breve il bilancio triennale che prevede un equilibrio finanziario per il 2014 e il 2015, mentre il livello di liquidità resterà soddisfacente per tutto l’anno. Nei prossimi giorni avvieremo la spendita dei consistenti fondi del Piano per il Sud (Fondi Fas) con un impegno che supererà i 70 milioni di euro, cui vanno aggiunti i 95 milioni per il nuovo ospedale dell’AOU e i fondi dell’ERSU.

Rimangono molte criticità e preoccupazioni, sulle quali ci confrontiamo quotidianamente con i sindacati e il personale dell’Area bilancio e politiche finanziarie, con l’obiettivo di garantire una solida sostenibilità nel medio periodo.

Ritengo che questi risultati siano la risposta migliore alle malevole insinuazioni (sulle quali è in corso un’indagine che prevediamo risolutiva) sul futuro del nostro Ateneo, diffuse paradossalmente attraverso le caselle postali dell’Amministrazione.

Eppure, con serenità, tutti dobbiamo sottoporci umilmente e con senso dell’istituzione ad una valutazione che ci consenta di rendere conto dei risultati raggiunti, anche dei nostri errori e dei nostri ritardi. Affettuosi auguri per il prossimo periodo di ferie.




Presentazione della mostra antologica “Sentimenti e colori d’oriente”

Attilio Mastino
Presentazione della mostra antologica
Sentimenti e colori d’oriente di Leokdia Sas Buffoni
Sassari, 14 giugno 2013

Attraverso le opere di Leokadia Sas Buffoni riscopriamo oggi sentimenti e colori d’oriente, con i profumi, i sapori, le sensazioni di un mondo lontano che amiamo soprattutto per il mistero. Complessivamente questi 25 pezzi (un paravento, 6 rotoli, molte altre opere su carta di riso e in seta) ci presentano una visione della vita che è innanzi tutto fondata sulla serenità, sull’equilibrio, sulla pace: il primo pannello contiene un richiamo ai principi della filosofia Tao, che ci rimanda al vecchio maestro Lao Tzou e al VI secolo a.C., per i quale la via per comprendere il sistema del Taoismo passa su un’armonia del mondo fondata su tre diverse prospettive, che incanalano desideri e risonanze, l’universo, la terra, l’uomo.

L’universo con questo cielo straordinario che sovrasta ogni cosa con le nubi, con le nebbie ma anche con i colori delle stagioni; i fiori come i narcisi della primavera o i crisantemi colorati dell’autunno, e poi i paesaggi orientali, le lagune incantate, i dirupi, le colline, gli alberi, l’ambiente naturale ma anche il paesaggio trasformato dall’uomo con i ponticelli per attraversare con eleganza gli specchi d’acqua, le case, gli spazi sempre misurati attraverso la figura umana. Non c’è paesaggio che non sia dimensionato all’uomo protagonista, perché l’uomo è la misura di tutte le cose, anche dell’universo e della terra, è il punto di riferimento costante per la pittrice così come per il filosofo.

La figura del filosofo compare più volte, certo con una ripresa di maniera che recupera un retroterra di esperienze e di letture precedenti, ma che pure viene reinterpretata con il viso di una persona cara. Se c’è un tema di fondo in questa mostra è quello del rapporto che Leokadia Sas Buffoni istituisce  tra una tradizione antica e vitale e un’interpretazione originale che ci porta il sapore fresco della novità e della vita vera. Attraverso i suoi maestri, in particolare attraverso l’insegnamento del prof. Chen Bing Sun, la pittrice si riconosce in un genere, si colloca nel quadro di un’arte raffinata ma anche irrigidita e standardizzata in un canone come quella cinese. Eppure riesce a parlare con originalità e con gusto.

Dunque la pittura che diventa pretesto per riflettere sui principi, la libertà rappresentata dai cavalli al galoppo, la consonanza di affetti, la sinergia, la fedeltà coniugale (come quella rappresentata dalle coppie di pavoni o di fagiani), la saggezza (quando si richiamano i poeti o i filosofi), la gioia (attraverso i crisantemi colorati), la ammirazione per la longevità (rappresenta dal pino), la purezza e l’innocenza (simbolizzata dal fiore di loto).

Basta guardare la vetrinetta degli attrezzi, i pennelli, i timbri,  per capire le difficoltà tecniche di una pittura come questa, questi acquarelli su carta di riso o su seta, con le lettere che fanno immaginare studi di calligrafia, con soggetti ripesi dalla tradizione culturale cinese ma originale per tante suggestioni nuove, con i colori straordinari delle stagioni. Eppure apprezziamo particolarmente  i lavori in bianco e nero, che con pochi tratti riescono a creare un’atmosfera, un ambiente, un rapporto intenso.

Anche la prospettiva sul piano tecnico non ha nulla di occidentale, ma rimanda a un’arte millenaria, ad una dimensione artistica nobile, se le tecniche più antiche risalgono al XII secolo, alla dinasti a Sung prima dell’arrivo in Cina dei Mongoli. E se è vero che gli imperatori cinesi amavano la pittura. Con le sue belle espressioni Antonio Debidda parla di una padronanza tecnica che sorprende, perché Leokadia ha introiettato in modo prodigioso tecniche e sensibilità orientali, anche modi di vivere, di osservare l’orizzonte, di leggere il mondo, di sognare partendo da nostalgie e da rimpianti, che ci conducono in Cina, ma toccano il Giappone, la Corea, il Regno Unito, per tornare in Polonia e giungere infine in Sardegna: con una dimensione internazionale che è veramente il senso ultimo di queste immagini dolci e delicate.

Vorrei concludere con il quadro che raffigura il fiore di Loto, che collega insieme tradizioni diverse, quella cinese per la quale il loto è simbolo di purezza e di innocenza e . quella greca, che immagina il Loto come una droga che fa dimenticare la patria e il ritorno.

Omero nel IX libro dell’Odissea racconta la leggenda della terra dei Lotofagi, terra alla quale Ulisse accompagnato da tutti i suoi compagni riesce ad approdare dopo un tremendo uragano e una terrificante tempesta, durata nove giorni, che ha trasportato la flotta spinta dal vento Borea lontano dalla terra dei Ciconi e dal pericolosissimo Capo Malea (a Sud del Peloponneso), fin verso il fondo dl Mediterraneo, il favoloso “muchòs” dal quale le navi arenate nella Grande Sirte non riescono più a partire.

Qui abitavano i lotofagi, il leggendario popolo di pacifici mangiatori di loto, un cibo delizioso che dava l’oblio: è un itinerario tempestoso collocato nel tempo mitico nel quale Apollonio Rodio immagina la rotta degli Argonauti, così come Virgilio rappresenta il viaggio di Enea e dei Troiani, prima di giungere alla Cartagine di Didone.

Strabone identificava la terra dei lotofagi con l’isola di Meninx, l’attuale Djerba, nella Piccola Sirte, dove alcuni compagni di Ulisse per aver assaggiato i frutti del fiore di loto, i frutti dolci e piacevoli dalle virtù leggendarie, dimenticarono la patria e il ritorno.

Chi di essi mangiava il dolcissimo frutto del loto – narra Omero – non aveva più voglia di tornare e di raccontare ciò che aveva visto, ma preferiva restare là tra i lotofagi e cibarsi di loto, e obliare il ritorno. Ritorno a cui l’eroe Ulisse a forza dovette costringerli – piangenti – prima di partire per l’isola dei Ciclopi, forse la Sardegna.

A Djerba all’epoca di Augusto ancora si mostravano le prove del viaggio di Ulisse e un altare all’eroe a ricordo di quei frutti ospitali che seducevano tanto gli stranieri e i viaggiatori da far loro dimenticare la patria.

Ulisse rappresenta il prototipo dell’esploratore, il viaggiatore per eccellenza. E ciò sia nell’interpretazione classica come nell’interpretazione medioevale e moderna. Dante Alighieri descrive l’Ulisse che è in noi, l’uomo destinato a seguir virtute e canoscenza, che egli ammira perché un eroe insaziabile di sapere e di conoscere sa rischiare la sua vita per fare esperienza.

I viaggi di Leokadias Sas Buffoni non sono stati forse altrettanto  avventurosi:  eppure i suoi quadri ci parlano di un mondo lontano, sintetizzato nel fiore di loto o in un paesaggio, temi che rimandano a un ordine interiore, al desiderio di pace e di serenità, ad una dimensione che segna anche una pausa di riflessione, a un legame che non si spezza neppure con il tempo.

In questi colori d’oriente c’è però anche la Polonia di un tempo lontano, come nei panorami innevati dell’inverno.

C’è persino la Sardegna, come con i cavalli al galoppo simbolo di libertà o nei melograni di Bancali.

C’è infine il legame forte e intenso con Nando Buffoni che si scorge nelle fattezze di un filosofo amico.




Isole e arcipelaghi. Apertura del Symposium RETI I mari delle isole

Attilio Mastino
Isole e arcipelaghi
Apertura del Symposium RETI

I mari delle isole
Réseau d’excellence des territoires insulaires
Alghero, Porto Conte Ricerche, 20 giugno 2013

Cari amici,

è con emozione e vivo interesse che a nome dell’Università di Sassari accogliamo a Porto Conte il Réseau d’excellence des territoires insulaires in occasione dell’assemblea generale e del Symposium I mari delle isole.

Saranno rappresentate 26 università insulari di tutto il mondo, dal Mediterraneo alle isole oceaniche, per una riflessione non convenzionale sul tema dell’insularità, con i suoi svantaggi specifici ma anche con le sue potenzialità e con la sua profondità identitaria sul piano storico, archeologico, geografico, ambientale, naturalisticop, marino.

Vogliamo cogliere questa occasione per stimolare lo sviluppo di rapporti di collaborazione fra le istituzioni universitarie coinvolte, partenariati Erasmus, scambi scientifici e formativi.

L’Università di Sassari ha recentemente celebrato l’anniversario dei 450 anni dalla nascita del Collegio Gesuitico e si è andata organizzando a seguito della riforma in 13 dipartimenti.

In quest’area di ricerca di Porto Conte a Tramariglio lavorano ogni giorno i nostri colleghi di alcuni Centri di ricerca e di alcuni Dipartimenti scientifici.

All’inizio del mio mandato ho partecipato all’Assemblea generale RETI svoltasi a Corte, ma lasciatemi dire che il lavoro fatto da RETI, in particolare da Antoine Aiello e ora da Paul-Marie Romani in questi anni è stato sempre più significativo e coinvolgente.

C’è un’isola a due passi da qui, oltre la falesia di Capo Caccia, che il geografo Tolomeo nel II secolo d.C. chiamava Numphaion nesos, l’isola delle ninfe, oggi Foradada, collocata a 30gradi di longitudine est rispetto alla lontanissima isola delle Canarie El Ierro, l’antica Capraria, una delle Isole Fortunate o delle Isole dei beati, dove il geografo alessandrino faceva passare il meridiano fondamentale. Visiteremo in barca domani l’isola calcarea che ha preso il nome dalla grotta nella quale si svolgevano i riti sacri in onore delle ninfe protettrici della navigazione così come visiteremo l’antico golfo del Portus Nimpharum, il luogo che l’immaginario collettivo degli antichi considerava l’angolo più pittoresco dell’isola dalle vene d’argento, Ichnussa, Sandaliotis.

Come le Canarie, anche la Sardinia è considerata nell’antichità isola d’occidente, collocata sulle rotte che – attraverso il canale che la separa dalla Corsica – collegavano le Baleari alle colonne e all’Atlantico. Un’isola collocata fuori dal tempo e dallo spazio, sede di miti greci, nota per la sua eudaimonia, felice per le produzioni e per l’abbondanza di metalli. La Sardegna appare dal mito classico, in particolare in ambiente ionico, come un’isola eudaimon felice, che per grandezza e prosperità eguaglia le isole più celebri del Mediterraneo: le pianure sono bellissime, i terreni fertili, mancano i serpenti e i lupi, non vi si trovano erbe velenose (tranne quella che provoca il riso sardonio).

La Sardegna, isola di occidente, appare notevolmente idealizzata, soprattutto a causa della leggendaria lontananza e collocata fuori dalla dimensione del tempo storico. Eppure i Greci avevano informazioni precise sulla reale situazione dell’isola: già Diodoro Siculo, confrontando il mito con le condizioni di arretratezza e di barbarie dei Sardi suoi contemporanei, osservava come essi erano riusciti a mantenere la libertà promessa da Apollo ad Eracle, dopo le ripetute aggressioni esterne. I discendenti del dio erano riusciti ad evitare, nonostante le dure condizioni di vita, le sofferenze del lavoro. Si aggiunga che gli autori greci e latini avevano una notevole conoscenza, più o meno diretta, dell’esistenza in Sardegna di una civiltà evoluta come quella nuragica, caratterizzata da un lato dall’assenza di veri e propri insediamenti urbani, dall’altro da uno sviluppo notevole dell’architettura, dell’agricoltura e della pastorizia. Questa consapevolezza si esprime, per l’età del mito, nella saga degli Eraclidi, di Dedalo costruttore dei nuraghi e di Aristeo il dio del vino, del miele, del latte e del formaggio, che avrebbero determinato quello sviluppo, prima dell’evoluzione urbana miticamente attribuita a Norace.

Domani pranzeremo a due passi da qui presso il nuraghe Sant’Imbenia nella piazza del villaggio nuragico dove si svolgono gli scavi diretti da Marco Rendeli.

Molte isole circumsarde conservano il ricordo di divinità fondatrici e benefiche, come l’Isola di Eracle (l’alluce del piede di Ichnussa, l’Asinara), sulla rotta che Eracle padre dei Tespiadi fondatori di Olbia percorse per raggiungere le colonne.

Oppure come Ermaia nesos, l’isola di Mercurio, collocata all’ingresso del porto di Olbia (Tavolara).

A parte i teonimi, i 9 nesonimi della geografia tolemaica riferita alle isole circumsarde si articolano in zoonimi (Ierákon per l’isola di San Pietro, nell’antichità l’isola degli sparvieri, Enosim, Accipitrum insula, nido di pirati e di uccelli rapaci), fitonimi (Fikaría, con riferimento agli alberi di fico), antroponimi (Fíntonos, l’isola che prende il nome dal marinaio naufrago ricordato nel cenotafio eretto sulla spiaggia di Caprera), nomi di qualità (Diabate, isola del passaggio, Isola Piana e Molibòdes, isola del piombo, Sant’Antioco); a parte deve essere considerata Iloúa, La Maddalena, la cui dichiarata pertinenza ad ambito ligure ed il sicuro rapporto con l’ ethnos degli Ilvates non consente un inquadramento del nome nell’ ambito degli etnonimi.

La prevalenza teonomastica delle denominazioni insulari delle isole circumsarde è in perfetta linea con la ricchezza dei teonimi di tante altre isole non solo mediterranee. Anche l’unico zoonimo, d’altro canto, deve riferirsi all’ ambito sacro, in quanto un testo punico dichiara la pertinenza degli NSM «sparvieri», che sono alla base del nesonimo punico, reso in calco greco da Tolomeo, con B‘LSHMM «il Signore dei Cieli», il Baal venerato in quell’ isola. Il fitonimo Fikaría rappresenta l’unico caso, tra le isole sarde, di traslitterazione in greco di un nesonimo latino, segno forse nella recenziorità della denominazione. L’antroponimo greco Fínton, come è stato proposto da Paola Ruggeri, è alla base del nesonimo Fíntonos, che sarebbe stato determinato da un naufragio di cui è forse eco in un epigramma di Leonida nell’ Anthologia Palatina.

Diabate appartiene ad un novero di denominazioni di carattere geografico riferibili al ruolo «di passaggio» assolto dalle isole in rapporto alla terraferma o ad altre formazioni insulari.

Il nesonimo più interessante della serie tolemaica appare Molibòdes riferito all’ isola di Sant’Antioco, che nella versione latina del testo tolelmaico è Plumbaria.

Come già osservato da vari autori l’assenza nell’ isola di filoni metalliferi di una reale consistenza impone di credere che il nesonimo sia stato determinato dall’attività del commercio del piombo e della galena argentifera nell’ insediamento di Sulci .

Appare rilevante la forma del nesonimo attestata nei principali codici tolemaici.

Plinio il Vecchio, oltre a serbare un frammento di un perduto isolario greco relativo alle Bocche di Bonifacio, già analizzato tra le fonti greche, segnala alle estremità nord occidentale, sud occidentale e sud orientale della Sardegna quattro isole, dell’ Asinara e Piana, dette entrambe Herculis insula, dell’ isola di San Pietro (Enosis) e dell’ isola dei Cavoli (Ficaria).

A proposito delle isole delle Bocche di Bonifacio Plinio indica la presenza di piccole isole che riducono la già esigua distanza tra Sardinia e Corsica, benché la precisa corrispondenza tra nesonimi antichi e moderni non possa dirsi accertata: etiamnum angustias eas (scil. inter Corsicam et Sardiniam ) artantibus insulis parvis,quae Cuniculariae appellantur itemque Phintonis et Fossae, a quibus fretum ipsum Taphros nominatur.

Alla Sardegna era stato concesso il primato assoluto nel “canone delle isole” del Mediterraneo riferito al V secolo a.C. e ad ambito greco, sulla base non della superficie (non calcolabile nell’ età arcaica), ma per il suo maggiore effettivo sviluppo costiero rispetto alla Sicilia. Faceva bene Erodoto allora a ricordare la Sardegna come l’isola più grande del mondo, nésos megìste: il presunto errore di Erodoto, variamente ripreso dagli scrittori antichi, in particolare da Timeo e quindi da Pausania, era stato considerato in passato come una prova della scarsa conoscenza che dell’isola avevano i Greci, esclusi alla fine del VI secolo a.C. dalle rotte occidentali dalla vincente talassocrazia cartaginese all’indomani della battaglia navale combattuta nel Mare Sardo per il controllo di Alalia, della Corsica e della Sardegna. Una tale interpretazione va comunque rettificata e va rilevato che il calcolo di Erodoto è stato effettuato non in termini di superficie ma di sviluppo costiero delle diverse isole del Mediterraneo: il litorale della Sardegna è lungo circa 1.385km. ed è dunque nettamente superiore al perimetro costiero della Sicilia, che ha uno sviluppo di 1.039 km.

Pertanto se ne può dedurre viceversa una buona conoscenza del litorale sardo da parte dei marinai greci già nel V secolo a.C., come testimoniano i nomi di “Isola dalle vene d’argento”, “Ichnussa”, “Sandaliotis”, con riferimento in particolare alla forma cartografica dell’isola. Del resto il significato della battaglia di Alalia – che alcuni ritenevano il momento finale della colonizzazione greca nel Mediterraneo occidentale – viene oggi notevolmente ridimensionato. Tuttavia c’è da presumere che le caratteristiche della costa e dei fondali, le correnti e l’andamento prevalente dei venti siano stati oggetto di successive esperienze durante la dominazione cartaginese; dopo il 238 a.C. e quindi nell’intervallo tra la prima e la seconda guerra punica, in età romana.

Il canone delle isole, attestato nel Periplo dello Pseudo Scilace, in Timeo, Alexis, Pseudo Aristotele, Diodoro, Strabone, Anonimo della Geographia compendiaria, Tolomeo, ed in epigramma ellenistico di Chio, comprendeva, originariamente, sette isole, il cui elenco, seppure non sempre nello stesso ordine, è il seguente: Sardegna, Sicilia, Creta, Cipro, Lesbo, Corsica, Eubea. È sintomatico del processo di formazione di questo canone il fatto che l’isola più occidentale dell’elenco sia la Sardegna e che il più antico aggiornamento del canone, contenuto nel Periplo di Scilace, forse ancora del VI secolo a.C., annoveri esclusivamente isole del Mediterraneo orientale.

L’ Occidente, ossia lo spazio del buio, dopo il tramonto del sole, è evocato nella rotta di Odisseo, ma la codificazione occidentale della geografia dell’ Odissea è del tutto ignorata da Omero, mentre le avventure di Odisseo principiano ad avere una loro localizzazione occidentale solo nella Theogonia di Esiodo.

Con Lorenzo Braccesi dobbiamo ribadire che «la critica ha riconosciuto la prima codificazione della geografia dell’ Odissea a una matrice euboica, sottolineando come le tappe delle peregrinazioni di Ulisse, nella loro localizzazione occidentale, si accompagnino all’evolversi della grande avventura coloniaria di Calcide e di Eretria».

A questo medesimo quadro storico potremmo, dunque, proporre di attribuire una serie di filoni mitografici greci ambientati in isole occidentali, pur rendendoci conto che il mito è un sistema semiologico che impone la individuazione «dei meccanismi delle sue letture e riletture successive, dall’ antichità fino ad oggi».

L’isola più grande del mondo, la Sardegna, nelle fonti è sempre associata alla Corsica, sesta tra le isole Mediterranee nel Periplo di Scilace, come in Dionigi il Periegeta, per il quale l’amplissima Sardegna (Sardò eurutàte) e la deliziosa Corsica (eperatos Kurnos) erano unite nello stesso mare d’occidente.

Ed Eustazio parlando delle isole del mare Ligustico, conferma che la più estesa è la Sardegna, mentre la Corsica prende il nome dalla serva Corsa oppure dalla sommità dei suoi monti e il suo paesaggio è caratterizzato da uno straordinario manto boschivo, innhorrens Corsica silvis per Avieno. Il paesaggio era dominato da quegli alberi fittissimi che impedirono la colonizzazione romano-etrusca ricordata da Teofrasto nel IV secolo a.C., quando sull’isola non riuscirono a sbarcare i 25 battelli, che ebbero i pennoni danneggiati dai rami degli alberi di una foresta sterminata. Niceforo chiamava la Corsica anche kefalé, testa irta di capelli, per via delle tante cime montagnose e la ricchezza di boschi.

Gli Oracula Sibyllina annunciavano per Cyrno e per la Sardegna uno stesso destino tragico, una sorta di apocalisse incombente, «sia a cagione di grandi procelle invernali, sia per le sciagure inflitte dal supremo dio, quando le due isole nel profondo del pelago penetreranno, sotto i flutti marini».

Vi è infine da evidenziare due nuclei di tradizioni mitiche che localizzano la sede del re Phòrkus nello stretto fra Sardò, la Sardegna, e Kyrnos, la Corsica e la sede di Gerione, l’ avversario di Herakles nella sua decima fatica, nelle tre maggiori isole baleariche, le tre isole su cui regnavano le figlie di Phòrkus, al di là dello stretto fra

Sardegna e Corsica, da identificarsi con le tres insulae adiacenti all’ Hispania, Baliarica maior, Baliarica minor ed Ebusus.

 

Non vorrei andare troppo oltre, preferisco affrontare il tema delle isole partendo dalla Sardegna per raggiungere una dimensioni più vasta.

Le isole godono nel pensiero antico di una profonda ambivalenza: da un lato esse rappresentano un ‘punto di passaggio’ lungo le rotte percorse dall’uomo, dall’ altro, per la loro stessa natura, sono luoghi ‘remoti’ e ‘isolati’, e, in quanto tali, possono trasformarsi in luoghi utopici. Il rapporto delle isole è anzitutto con il mare, il pelagos dei marnai greci: è questo rapporto che spiega da un lato chiusure e resistenze ma anche aperture culturali e dimensioni legate a traffici transmarini. Per Montale la <<legge rischiosa>> del mare è quella di <<essere vasto e diverso / e insieme fisso>>. Le vie del mare congiungono ma insieme anche separano.

Il grande storico delle “Annales” Lucien Febvre assunse paradigmaticamente la Sicilia e la Sardegna come espressione rispettiva dell’ «île carrefour» e dell’ «île conservatoire». Al di là dello schematismo febvriano non c’è dubbio che la Sicilia partecipi di un maggiore dinamismo culturale ed economico rispetto alla Sardegna in tutte le fasi della storia.

Le isole, urbanizzate o meno, sono soggette ad un utilizzo economico in relazione sia al loro ruolo nella navigazione antica, come approdi e luoghi di approvvigionamento dei navigli, sia e soprattutto per lo sfruttamento delle risorse minerarie (ad esempio i filoni ferrosi di Ilva, le cave di granito di Planaria, l’argilla di Aenaria-Ischia, l’allume di Lipara), agricole (la messa a coltura delle Stoikádes da parte dei Massalioti, la coltivazione comunitaria delle isole Lipari), della silvicoltura (con la connessa attività dei cantieri navali), dell’allevamento, della pesca e della raccolta di molluschi e di corallo, con le manifatture ad esse collegate.

Dall’ antichità ai nostri giorni le isole (e le coste) hanno frequentemente offerto un’ottima base alle attività piratiche. Come lucidamente notato da Federico Borca: <<Le isole procuravano porti sicuri, basi logistiche da cui partire per effettuare ruberie e saccheggi sulla vicina terraferma, infine nascondigli dove potersi rifugiare in caso di pericolo, ovvero dove tendere un agguato a un ignaro mercante di passaggio con la sua nave. Avevano reputazione di essere frequentate da pirati o comunque legate ad attività predatorie non soltanto le Baleari, ma anche numerose altre isole tra cui la Corsica e la Sardegna, le isole del mare Tirreno e l’arcipelago delle Eolie (…)>>.

Benché la pirateria abbia costituito un fenomeno endemico lungo tutta la storia del Mediterraneo le campagne militari contro i pirati sviluppate dai Romani, ed in particolare il bellum condotto da Pompeo con i suoi legati nel 67 a.C. e le iniziative di Augusto contro la risorgente pirateria consentirono lo sviluppo tra l’età tardo repubblicana e l’Alto Impero di residenze di lusso nelle isole.

Tali residenze, in corrispondenza spesso di proprietà imperiali delle stesse isole, poterono servire anche da esilio dorato per i membri della domus Augusta che si macchiarono di colpe sanzionate con la relegazione in insulam, mentre altre isole servirono per la deportazione. Nel Mediterraneo Occidentale le insulae per le quali è attestata, nelle nostre fonti, la relegatio o la deportatio (a parte la Sardinia e la Corsica) furono le Baliares, Planasia, Pontia, Pandateria nel Tirreno, Cercina e le Aegrimuritanae insulae presso le coste dell’ Africa.

Infine, con la tarda antichità e, successivamente, nell’alto medioevo, talora con continuità nel tardo medioevo, le desertae insulae, spesso di dimensioni ridottissime, costituiscono il luogo extra mundum dove i monachi trovano l’ horror solitudinis, che diviene nell’ esperienza eremitica del monasterium un paradisus, pur non restando esclusa l’esigenza di trovare nelle insulae un perfugium, pro necessitate feritatis barbaricae.

Nella pars Occidentis sono documentati monasteria insulari a Capraria (Maiorica), nelle Stoechades, nelle insulae del Ligusticum mare (Lero, Lerina, Gallinaria, Palmaria, Noli, Tino e Tinetto), nelle isole dell’ Etruscum mare e in particolare Gorgona, Capraia, Montecristo ma anche dirimpetto alla costa campana (insula Eumorfia). Il fenomeno monastico riguardò anche, come si è già osservato, le piccole insulae della Sicilia e dell’ Africa.

Rutilio Namaziano, in una sorta di day after descrive il litorale etrusco e le isole dell’arcipelago abitate dai monaci rifugiatisi nelle grotte per sfuggire all’avanzata di Alarico: gente che per il terrore della misera era diventata volontariamente miserabile e come in passato Circe trasformata i corpi dei compagni di Ulisse in maiali, così ora il cristianesimo rendeva mostruosi e deformava gli animi dei fedeli: tunc mutabantur corpora, nunc animi.

E allora la maledizione, il risentimento dei pagani verso i cristiani: Atque utinam numquam Iudaea subasta fuisset, mai Gerusalemme fosse stata conquistata sotto il comando di Pompeo o l’impero di Tito. Espressioni che sono quanto mai lontane dalla comprensione di un fenomeno, lo sviluppo dell’esperienza monastica, che invece rappresentò per l’Africa e per la Sardegna un momento di straordinaria fioritura culturale e di profonda spiritualità.

I nomi che i greci davano al mare sono significativi: thalassa, ovviamente, ma anche pontos e pelagos, per Omero infecondo perché non arabile, ma multisonante, canuto, del colore del vino. Pontos nel senso di ponte, <<il più necessario e arrischiato dei ponti, così come il ponte è il più arrischiato e necessario dei sentieri tracciati dall’uomo>>.

Per Massimo Cacciari <<questo non è Mare infecondo anzitutto perché ricco di isole. Anche quando appare in tutta la sua immensità, non vien meno la fiducia che un che un cammino vi sia, che ad una di esse conduca. Dal Mare non nascono né vite né ulivo, ma le isole, che danno la loro radice. Questo Mare non è, dunque, astrattamente separato dalla Terra>>, ma è fecondo di isole.

Anzi il Mare per eccellenza è l’archi-pelagos, che diventa luogo della relazione, del dialogo, <<del confronto tra le molteplici isole che lo abitano: tutte dal Mare distinte e tutte dal Mare intrecciate; tutte dal Mare nutrite e tutte nel Mare arrischiate>>.

Dall’Arcipelago procede il Mare nel senso del tramonto, verso quel limite che dovrà oltrepassare. <<La nostalgia di quelle voci che scrosciano dall’agorà non può arrestarsi alla circumnavigazione dell’arcipelago>>. <<E da tutti i viaggi nell’Arcipelago (per raccogliere, connettere, trascegliere: sempre il senso di logos risuona) nascerà l’idea del Viaggio, o dell’agòn éschatos, della gara, della lotta suprema, il Viaggio verso il Logos a tutti comune, verso quell’unità che il molteplice mostra, sì, ma come perduta; rivela, sì, ma nella sua assenza>>.

Arcipelaghi sono anche i vari mari, le diverse città, i diversi topoi, per Cacciari <<quei luoghi, quelle forme, quelle domande, cioè, che vi rimbalzano da epoca a epoca, da nazione a nazione, che ne intrecciano spazi e momenti, dall’Antichità al Medioevo, dalle lettere classiche a quelle romanze, che si richiamano inaspettatamente da autore ad autore, attraverso le più grandi lontananze>>. E questo perché <<nell’Arcipelago città davvero autonome vivono in perenne navigazione le une versus – contra le altre, in inseparabile distinzione>>. <<Non v’è cammino nell’Arcipelago senza Scilla e Cariddi, senza rupi Simplegadi>>, perché fare esperienza <<comporta distaccarsi, dipartire – affrontare il tramonto>>, in qualche modo affrontare con Ulisse l’ira degli dei e dimenticare la casa, la patria d’origine, per mescolarsi con gli altri, per affrontare le ombre del tramonto, per rischiare sul Mare.

La geografia storica della Sardegna e delle isole del Mediterraneo e degli altri mari è innanzitutto uno spazio di intersezioni, di stratificazioni culturali, di contatti, di rapporti, di connessioni, di scelte: il mito antico esprime con vivacità le emozioni dei marinai e degli uomini di ieri e di oggi che operano in quel mare che innanzi tutto è una via che unisce popoli e mondi diversi.

Grazie per questa occasione di confronto: l’assemblea di RETI deve contribuire a trasformare le nostre isole solitarie in un Arcipelago ricco di contatti e di relazioni, anche di confronti e di competizioni. Benvenuti in Sardegna.




Saluto a Giovanni Palmieri

Intervento del prof. Attilio Mastino
Chiesa di San Paolo, Sassari, 8 giugno 2013
Saluto a Giovanni Palmieri

Per volontà dell’Arcivescovo e della famiglia, ho l’onore di intervenire a nome dei colleghi, del personale e degli studenti dell’Università di Sassari per accogliere con emozione e con affetto vero il nostro Rettore emerito Giovanni Palmieri che ci lascia per sempre. Il coro ICNVSS lo ha salutato all’ingresso con il Gaudeamus igitur, che spesso cantava a squarciagola per farci sorridere.

Sentiamo il senso di una perdita irreparabile, di un distacco doloroso, ma anche la gratitudine per quanto ha fatto per la sua Università e per la Sardegna e  poi per ciascuno di noi, per me personalmente fino agli ultimi giorni.

Due mesi fa aveva svolto per un gruppo di amici una sorta di stranissima conferenza sulla sua malattia, ricordando a memoria – come era solito – tutte le date, tutte le fasi di una lotta che ha combattuto a viso aperto, a Sassari ma anche in altri ospedali, considerandosi un fortunato per aver strappato un anno e mezzo di vita al suo male, parlando di sé come al passato e come guardando la sua vicenda a distanza, a mente fredda, quasi con gioia pur sapendo che presto sarebbe tutto finito. Intanto era riuscito a vivere, a viaggiare, a incontrare gli amici e le persone care,  a conoscere altre cose, a togliersi curiosità e desideri profondi.

Allora eravamo intervenuti, io e Andrea Montella, per dire quanto ci avessero colpito l’ottimismo, la lucidità e la competenza, perché aveva saputo esprimersi meglio di un luminare di medicina. Ma anche noi iniziavamo a parlarne al passato.

Nelle ultime settimane mi aveva commosso questo uomo ruvido e schietto, che si era addolcito e ora sentiva il desiderio di tenermi informato sulla sua salute, attraverso gli amici comuni come Vittorio Anania, mi abbracciava senza più pudori, gradiva le mie visite, voleva che l’Università sapesse quanto lui era grato a Pinotto Dettori, Corrado Rubino, Pietro Pirina, e agli altri medici che l’hanno seguito nel corso di tutti questi anni.

Già ieri, dopo aver sentito Alessandra, ho voluto rileggere le sei relazioni svolte da Giovanni Palmieri  in occasione dell’inaugurazione degli  anni accademici che vanno dal 1991 al 1997, dal 430° al 435° anno dell’Ateneo facendo partire il calcolo dalla nascita del collegio gesuitico. Più di quanto non ricordassi, quegli interventi rimangono ricchissimi, fanno ritrovare un uomo deciso, che non perdonava gli errori altrui, che assumeva un atteggiamento critico con il suo spirito ironico un poco corrosivo e irridente, ma che era pieno di desideri e di speranze, un democratico capace di ascoltare e di costruire, indicando a tutti obiettivi chiari.

Il primo anno parlando davanti al suo amico il Ministro Antonio Ruberti, aveva criticato la politica delle gemmazioni a costo zero che per lui rispecchiava le discutibili ambizioni municipalistiche a cui prestavano fin troppo credito i politici locali. Aveva denunciato il rischio del sotto finanziamento delle Università e della cancellazione dei fondi Fio 86 che avrebbe determinato il blocco dei programmi edilizi dell’Ateneo. Aveva attaccato la città di Sassari, che pure amava, ritenendola distratta e poco attrezzata, di fatto inospitale verso gli studenti, condannati a un devastante pendolarismo. In questo campo pesavano le esperienze fatte come delegato rettorale per l’opera universitaria. Proprio nel suo primo anno mi aveva generosamente chiamato a svolgere la prolusione di apertura, sul tema antico dell’analfabetismo nella Sardegna romana. Per gli studenti era intervenuto Gavino Mariotti.

Il secondo anno, davanti a molti rettori stranieri e ai direttori Giovanni D’Addona e Antonello Masia, aveva richiamato tutti alla tolleranza e al pluralismo contro i gravi episodi di razzismo e di antisemitismo, affermando i valori della democrazia, della libertà e della tolleranza. Aveva commentato la minaccia della chiusura delle fabbriche sarde e l’ulteriore smantellamento dell’apparato industriale.

L’11dicembre 1993, parlando davanti al Ministro Umberto Colombo, aveva illustrato i risultati di un triennio duro, piero di ansie e di preoccupazioni e aveva criticato le pietose bugie del numero programmato, dell’università usata come parcheggio, della distribuzione del Fondo di funzionamento ordinario in attuazione di una politica di riequilibrio fatto alla rovescia tra Nord e Sud, sognando una Università nuova capace di stare al passo con i tempi ma soprattutto che anteponga gli interessi dello studente agli affari di bottega e alle piccole battaglie personali.

Il quinto anno alla presenza del Presidente del CNR Enrico Garaci aveva ammesso di aver vissuto molti momenti di fatica e di sofferenza, di aver masticato amaro e di aver dovuto deglutire bocconi indigesti, ricevendo accuse solo perché aveva inteso far prevalere l’interesse generale dell’ateneo su quello personale o di piccoli gruppi, con una zampata ad alcuni politici che sfoggiavano l’incarico universitario una volta alla settimana, che snobbavano gli studiosi o li degnavano di sguardi di sufficienza.

L’ultimo anno, il 16 novembre 1996, davanti al sottosegretario Giuseppe Tognon, aveva presentato un bilancio delle realizzazioni portate avanti senza nascondere insoddisfazioni profonde e pure conflitti. Egli aveva ben chiaro che l’Istituzione che aveva avuto il privilegio di governare doveva confrontarsi ogni giorno di più con le grandi questioni che turbavano la società civile. In quell’occasione, aveva fatto piazza pulita di ogni polemica e aveva escluso una sua disponibilità per un terzo mandato.

Mi sono ispirato a lui nel recente confronto per le indennità assistenziali dei nostri medici, che vent’anni fa lo avevano fatto strillare nei corridoi del Consiglio Regionale.

Giovanni Palmieri è stato il Rettore del nuovo statuto dell’Autonomia, dei nuovi Dipartimenti, delle nuove Facoltà, di Lettere, di Lingue, di Scienze Politiche, di Economia e Commercio. E’ stato il Rettore che ha completato gli impianti sportivi di Ottava, ha ristrutturato gli uffici di Largo Macao, ha realizzato il quadrilatero, il complesso biologico-didattico della Facoltà di Medicina, avviando i primi lotti e i diversi moduli dell’edificio di malattie infettive e degli altri reparti sanitari, con i finanziamenti CIPE per il polo naturalistico e l’orto botanico, collegandosi ai programmi di Antonio Milella. Sarebbe stato Alessandro Maida più tardi a portare a compimento e ad estendere non poco quelle iniziative.

Palmieri è stato l’autore dell’accordo col Comune per Largo Porta Nuova, i Bagni popolari e l’Hotel Turritania.

Ha avuto il coraggio di assumere posizioni impopolari come per la cessione all’Istituto Zooprofilattico dell’area di Monserrato e per i rapporti col Corisa per Porto Conte Ricerche.

Ci ha colpito la sua fedeltà al maestro Ruggero Bortolami, invitato costantemente a Sassari. Rimangono i risultati scientifici delle sue originali ricerche condotte con gli allievi a Medicina Veterinaria e ad Agraria nel campo dell’anatomia e della fisiologia degli animali domestici e in molte altre discipline, con attenzione per gli uccelli, i rettili, i mammiferi, i pesci teleostei.

A riposo dal 2007, l’Ateneo gli aveva dedicato una giornata di studi, con il commosso e ironico intervento del suo Prorettore di sempre Giuseppe Paglietti, che ha ricordato il contributo di Palmieri per la crescita della sua Università e della Sardegna. Dopo anni di frenetica attività,. aveva trovato un equilibrio più che nel Banco di Sardegna e nella Fondazione che pure aveva trasformato profondamente, nell’artistico ufficio della sua piccola Banca di Sassari, un cantuccio delizioso e sereno dove mi ha ricevuto due settimane fa, circondato dall’affetto di tutti e come sempre divertito per quello straordinario rapporto con il Presidente Ivano Spallanzani.

Lascia tra quanti l’hanno conosciuto e qualche volta anche un poco temuto, un ricordo indelebile, di persona volitiva e coraggiosa come ci ha dimostrato alla fine, anche nella malattia.

Se veramente la morte non è niente, perché sei solo passato dall’altra parte come scrive Henry Scott Holland, asciughiamo le lacrime di Ines, di Alessandra e di Marco, e ti lasciamo andare in pace con le parole antiche di una grande poetessa, Alda Merini, <<Che la terra ti sia finalmente lieve>>.




Visita del Ministro Francesco Profumo all’Università di Sassari.

Intervento del Rettore prof. Attilio Mastino
Visita del Ministro Francesco Profumo all’Università di Sassari
Sassari, 15 aprile 2013

Signor Ministro,

l’accogliamo con emozione e simpatia in questa aula magna, a pochi mesi dalla conclusione delle celebrazioni per i 450 anni dalla nascita del Collegio Gesuitico che si sono svolte tra l’altro con la visita del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e del Presidente della Camera allora in carica Gianfranco Fini.

Ai sentimenti della comunità accademica si unisce la mia personale gratitudine per il sostegno ricevuto a fine anno, in un momento difficile del mio mandato, quando le prospettai per le vie brevi la fatica quotidiana di un rettore impegnato in una politica di sviluppo e di modernizzazione del proprio Ateneo ma condizionato dalla drastica riduzione delle risorse. Grazie al Conservatorio per averci aiutato ad organizzare questo incontro.

Ci legavano, del resto, cordiali rapporti sviluppatisi nella Conferenza dei Rettori e rinsaldatisi in più occasioni già a partire dalla sensibile e proficua collaborazione assicurataci con la partecipazione del Politecnico di Torino al nostro incontro sulle energie rinnovabili di due anni fa, proposte dal Prof. Giuseppe Menga che penso Le sia caro.

Con l‘insediamento dei Revisori dei conti la settimana prossima si completa il lungo processo di adeguamento del nostro Ateneo alla legge 240: una legge di riforma che avevamo definito una bomba gettata all’interno dell’Università italiana dopo una campagna giornalistica di delegittimazione e che ancora oggi consideriamo punitiva e poco generosa,  piena di ombre e di minacce, indirizzata a ridurre l’autonomia degli atenei, a imporre un rigido centralismo, a distrarre i docenti dai compiti della didattica e della ricerca per svolgere ingrate funzioni burocratiche sotto la minaccia dell’ANVUR. Una legge che avevamo subìto con la speranza che gli impegni presi dal Ministro Tremonti per un aumento del FFO potessero essere mantenuti: così purtroppo non è stato e ora riemergiamo dal caos con molte preoccupazioni.  Il nodo centrale è dunque quello dell’autonomia, di ciò che oggi è diventata: un fantasma che s’aggira sopra e dentro il sistema universitario. Una parola d’ordine logora, un contenitore ormai vuoto.

Eppure voglio garantire che qui a Sassari abbiamo colto l’occasione per costruire un modello di università nuovo, per fondare la nuova governance su un’idea più moderna, creando opportunità per tutti e spazi di flessibilità. Abbiamo attraversato anni difficili, duri, pieni di contrasti: li abbiamo affrontati con animo aperto, con la volontà di ascoltare e di capire le esigenze di tutti, senza cedere alla facile tentazione di usare la scure bensì costruendo proposte sostenibili nel tempo, che incoraggino sinergie e aggregazioni scientifiche razionali. Siamo stati innanzi tutto dalla parte dei nostri studenti e dei ricercatori: ogni nostro sforzo è stato indirizzato a difendere i loro diritti, ma anche a chiedere impegno, responsabilità, decisi a valutare il lavoro di ciascuno e noi a rispondere dei nostri limiti e delle nostre incapacità.

Desidero consegnarLe oggi una copia del nuovo statuto dell’autonomia pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 23 dicembre 2011: non è stata un’occasione perduta e siamo orgogliosi del risultato raggiunto, perché lo Statuto ha finito per essere veramente opera di tutto il corpo accademico: e questo spiega la sua consistenza, il suo peso, la sua anima profonda, che orienta la nascita degli organi accademici e indirizza efficacemente l’azione del Senato, della Giunta e del Consiglio di Amministrazione.

Nel nuovo statuto la comunità universitaria si dichiara solennemente consapevole della ricchezza e della complessità delle tradizioni accademiche e del valore delle diverse identità, promuove le pari opportunità. Si dà un ordinamento stabile, afferma il metodo democratico nella elezione degli organi, si dichiara attenta al tema della formazione delle giovani generazioni e alle esigenze del diritto allo studio; colloca lo studente al centro delle politiche accademiche e promuove la cultura come bene comune. Rivendica i valori costituzionali, previsti per le «istituzioni di alta cultura», della libertà di scelta degli studi, di ricerca e di insegnamento, assicurando tutte le condizioni adeguate e necessarie per renderla effettiva. Si impegna a promuovere, d’intesa con le altre istituzioni autonomistiche, lo sviluppo sostenibile della Sardegna e a trasferire le conoscenze nel territorio, operando per il progresso culturale, civile, economico e sociale. Senza dimenticare l’identità e la lingua. Siamo impegnati a lavorare intensamente con senso di responsabilità e consapevolezza delle attese che ora ci accompagnano e che non possiamo deludere. Col dovere di rispondere alla fiducia accordataci. Anche con orgoglio e rivendicando una storia, una tradizione scientifica di eccellenza, una nostra cifra originale. Vogliamo proseguire un’azione avviata dai Rettori che mi hanno preceduto, Giovanni Palmieri e Alessandro Maida

Siamo consapevoli che oggi molti Atenei rischiano la sopravvivenza. Ci troviamo di fronte a un bivio, dove si giocherà la partita più importante della storia di molte Università di medie e piccole dimensioni che potrebbero a breve essere in difficoltà e addirittura in liquidazione, anche attraverso imprudenti formule di fusioni e di straordinarie trasformazioni. Eppure speravamo di poter vedere approvato dal Ministero l’accordo di federazione con Cagliari, per un processo di integrazione federativa dei due Atenei attraverso la formalizzazione delle attività svolte in collaborazione in settori strategici per lo sviluppo culturale, sociale ed economico della Sardegna, anche attraverso forme di mobilità incrociata. Porto oggi i saluti dell’amico Rettore Giovanni Melis col quale programmiamo  iniziative di interesse comune nell’ambito delle aree della didattica e dei servizi agli studenti, della ricerca e dei rapporti con il territorio, delle relazioni internazionali e dei servizi, delle opere pubbliche e della gestione finanziaria. Checché ne pensi ora l’ANVUR, vorremmo far nascere il Sistema universitario regionale, che deve partire dal rispetto assoluto per l’identità e l’autonomia irrinunciabile di ciascun Ateneo storico. Le due università della Sardegna hanno oltre quattro secoli di vita, duecento venti chilometri di distanza tra loro e non intendono fondersi per poter mantenere il loro prezioso patrimonio di relazioni.

Del resto non riteniamo che il rapporto di prossimità possa assorbire tutto l’orizzonte di iniziative che invece debbono orientarsi su un piano europeo, mediterraneo e internazionale, facendo leva sui rapporti avviati entro la rete delle 21 università catalane, il raggruppamento RETI tra le Università insulari che si riuniranno ad Alghero il prossimo 21 giugno, l’Unione delle Università del Mediterraneo, l’EMUNI, l’Associazione Uni-Italia per i rapporti con la Cina. Abbiamo avviato numerose iniziative per instaurare o potenziare rapporti di collaborazione, con singole Università, con reti universitarie.

Ho partecipato a Gent nei giorni scorsi all’Assemblea generale dell’EUA, la Associazione delle quasi mille Università Europee e ho contributo alla elezione di Stefano Paleari segretario della CRUI e rettore di Bergamo più votato nel consiglio dell’Associazione, un piccola testimonianza di quello che l’Italia deve fare per esser sempre più presente in Europa.

In questo senso stiamo sviluppando l’internazionalizzazione dell’offerta formativa e intensificando la mobilità internazionale sia con i visiting professors sia con gli scambi ERASMUS e con il nuovo programma di ateneo Ulisse per le mobilità extraeuropee. In collaborazione con il Centro Linguistico d’Ateneo estendiamo l’offerta di corsi gratuiti di lingua straniera per gli studenti che si preparano ad affrontare l’importante esperienza della formazione integrativa all’estero e parallelamente offriamo corsi gratuiti di lingua e cultura italiana agli studenti Erasmus che in numero crescente vengono a studiare a Sassari. Siamo ai primi posti nelle graduatorie degli atenei italiani per la mobilità internazionale studentesca sia per studio sia per tirocini. Pensiamo allo sviluppo dell’informatica e delle scienze di base. Il Dipartimento di Medicina Veterinaria nelle prossime settimane si presenterà alla valutazione europea completamente rinnovato e potenziato con l’ospedale veterinario.  Non sempre ci è parso che il Ministero riesca a valutare questi risultati e arrivi a concepire che Sassari possa svolgere un ruolo strategico nel campo della cooperazione internazionale. In particolare dobbiamo sviluppare strumenti amministrativi gestionali ad hoc che facilitino la gestione di fondi per le specificità dei progetti che si svolgono in paesi in via di sviluppo.

Abbiamo avuto il piacere di visitare con Lei questo pomeriggio a Piandanna le giornate dell’orientamento 2013 “Destinazione Uniss: Un biglietto per il futuro”, inaugurate stamane con l’arrivo di oltre 5000 diplomandi provenienti da tutta la Sardegna. La nostra idea di orientamento in questi ultimi anni si è trasformata e lo statuto considera l’orientamento come processo continuo, volto a favorire l’acquisizione di competenze lungo tutto l’arco della vita e la piena realizzazione della persona, garantendo durante la carriera universitaria servizi e adeguate competenze di sostegno e di indirizzo per i percorsi formativi e di inserimento lavorativo, e promuovendo collaborazioni con il sistema dell’istruzione scolastica e della formazione professionale, con le istituzioni e gli enti territoriali, con i sistemi del mondo del lavoro e delle professioni.

Domani premieremo i nostri migliori 200 studenti, i più meritevoli di tutti i 51 corsi di studio divisi nei 13 nuovi dipartimenti. La loro nascita ha dovuto tener conto delle strategie generali e delle scelte individuali: ne deriverà a breve il problema della possibile mancanza di copertura di alcuni SSD in molti corsi di laurea. Con conseguenze gravissime sull’accreditamento dei corsi e delle sedi da parte dell’ANVUR.

Abbiamo in servizio 177 professori ordinari, 212 associati, 255 ricercatori a tempo indeterminato, 60 ricercatori a tempo determinato, 18 collaboratori linguistici, 662 amministrativi, tecnici, bibliotecari.

In questo quadro le preoccupazioni riguardano i giovani. Entro pochi anni ci saranno molti più ricercatori a tempo determinato che avranno finito il contratto e non avranno prospettive di ingresso nel mondo universitario se non saranno garantiti i fondi per coprire i ruoli di associato. Nella migliore delle ipotesi entreranno in conflitto con i ricercatori a tempo indeterminato. Avvertiamo un rischio, quello che le università del Nord del paese possano abbiano ancora la possibilità di reclutare i giovani, spina dorsale del nostro Sistema universitario, a scapito del Mezzogiorno, aumentando ancora di più il divario socio-economico. Rinasce la tentazione delle gabbie territoriali ad esempio per le borse di studio per gli studenti.  Bisogna arrestare l’emorragia crescente dei giovani(i più brillanti) che decidono di spendere il bagaglio di conoscenze acquisite all’interno dell’Università Italiana all’estero. Se non ci si attiva con strumenti concreti, semplici e trasparenti si rischia di parlare dell’importanza dell’innovazione e ricerca senza gli attori principali.

La popolazione studentesca si è ridotta fino ai 14400 studenti di questo anno accademico, ma stiamo smaltendo i fuori corso (scesi a 5814) e siamo riusciti  a portare alla laurea quest’anno 2192 studenti, un numero che è superiore di un centinaio di unità rispetto agli immatricolati.  Gli specializzati sono circa 200 ogni anno, gli iscritti alle scuole di dottorato oltre 400, molti stranieri. La prossima riforma dei dottorati creerà non pochi problemi in relazione al numero delle borse che un Ateneo come il nostro potrà finanziare: senza fondazioni e imprese.

Aumenta il numero degli studenti attivi, che sono però solo il 75% del totale degli studenti iscritti, migliorano i servizi, la pratica sportiva entra progressivamente nella formazione dello studente.

Oltre il 15% degli studenti sono esonerati dal pagamento delle tasse. Molti sono studenti lavoratori. Il livello della contribuzione studentesca continua ad essere basso ma dovrà essere progressivamente innalzato, con grandissimo disagio per le famiglie, visto che in Sardegna stiamo attraversando il cuore di una crisi che tocca innanzi tutto il mondo del lavoro giovanile, con oltre 350.000 persone che si collocano sotto la soglia di povertà.

Pur a fronte della consistente riduzione dello stanziamento nazionale, ottimi sono i risultati dei PRIN con 18 progetti approvati per 1,3 milioni di euro. Vorrei lamentare il fatto che ogni anno però cambiano le modalità di presentazione dei progetti bilingui in italiano e in inglese con una costante rappresentata dal progressivo taglio dei fondi, con un contingentamento dei progetti, mentre i costi delle valutazioni sono stati riversati sugli Atenei. Le valutazioni sono sacrosante, ma troppo lente (penso al VQR), farraginose e sempre con criteri definiti ex post. Il passato non si può cambiare e le politiche di sviluppo implicano investimenti che richiedono certezze nella valutazione futura. Ci si dovrebbe dire in anticipo i criteri e noi ci adegueremmo. L’indicatore della ricerca B3 per il calcolo del FFO è ancora paradossalmente basato sul CIVR 2001-03.

La Regione ha investito molto in questi anni per le Università attraverso il fondo unico (23 milioni l’anno, di cui circa 8 per Sassari), i progetti di ricerca regionali, i tender, i Progetti grandi attrezzature, i posti per assegnisti di ricerca, i finanziamenti per la mobilità internazionale studentesca. Voglio ricordare i 9,4 milioni del Fondo Sociale Europeo e la nascita di una decina di Spin off sull’energia, l’ICT turismo, l’ingegneria, le nanotecnologie, le biotecnologie, la ricerca socio economica.

I dati occupazionali dei nostri laureati sono notevolmente più bassi della media italiana in particolare per le lauree magistrali, dato che solo il 46% dei laureati lavorano rispetto al 73% nazionale. Questo non è certo colpa dell’Università.

Sono stati compiuti in questi quattro anni sforzi organizzativi straordinari, sostenuti dalla passione dei tanti delegati che hanno voluto aiutarmi con spirito di servizio e impegno personale vero. Abbiamo recuperato nuove risorse dal Fondo unico regionale che discuteremo mercoledì in Commissione regionale bilancio e dai fondi FAS che ci consentiranno di completare tutte le incompiute e costruire il nuovo ospedale dell’AOU. L’ERSU progetta nuove residenze universitarie per complessivi 40 milioni.  Dismettiamo tutte le locazioni, riduciamo l’indice di indebitamento, mettiamo sul mercato il patrimonio inutilizzato. Abbiamo bloccato quasi completamente il turn over tanto che le spese del personale sono scese dagli 80 milioni del 2010 ai 72 milioni del 2012. La curva è destinata a scendere ulteriormente, anche se le abilitazioni richiedono forti investimenti per collocare i nuovi associati e i nuovi ordinari.

Vorrei soffermarmi però su quello che è il dato più preoccupante nazionale, la dinamica del FFO italiano passato dai 7,3 miliardi di euro del 2008 ai 6,5 ai euro del 2012, con un trend negativo che non accenna a fermarsi neanche nel 2013 e nel biennio successivo.  In questo quadro Sassari e molte università del Mezzogiorno perdono posizioni:  assistiamo ad un trasferimento di risorse a favore delle Università del settentrione. Per il nostro Ateneo i tagli hanno comportato una contrazione ancora maggiore in considerazione della “perdita” di risorse sulla parte premiale. Dagli 82 milioni del FFO del 2008 siamo scesi ai previsti 67,7 milioni di euro del 2013, un dato calcolato in via molto prudenziale in occasione dell’approvazione del bilancio di previsione e comunque insostenibile tenendo conto degli oneri per la retribuzione del personale dipendente gravanti sul bilancio dell’Ateneo. Il limite dell’80% è stato “sfondato” non solo della drastica riduzione del FFO negli ultimi anni ma anche a causa del sistema di calcolo e degli indicatori utilizzati. Sono penalizzate le Università con Facoltà di medicina come la nostra che non hanno più benefici dallo scorporo di quota parte degli stipendi. In questo campo ci preoccupa la recente condanna dell’Ateneo al Consiglio di Stato e quindi al TAR in fase esecutiva per le indennità assistenziali dovute dal servizio sanitario regionale in base alla legge 517 mai applicata in Sardegna a distanza di 13 anni. E’ vero che l’accordo sottoscritto con il Direttore Generale dell’AOU risolve questo problema per il futuro, a partire dal 2011. Eppure dal 2001 enormi somme vengono richieste all’Università di Sassari. Deve essere chiaro che i pagamenti saranno a carico dell’AOU e dell’ASL.

Siamo consapevoli della gravità della crisi economica, finanziaria e anche morale che il Paese attraversa; e non ci sottraiamo all’obbligo di dare un contributo efficace per superarla, perseguendo obiettivi di risparmio, di efficienza, di efficacia, e non sottraendoci ai sacrifici richiesti a tutto il Paese.

L’Ateneo ha, naturalmente avviato tempestivamente azioni indirizzate al miglioramento delle proprie performances, anche in relazione agli indicatori ministeriali, ovvero tenendo conto dei risultati sulla base dei quali verremo “valutati”, tuttavia appare del tutto evidente che gli investimenti fatti oggi non potranno che tradursi in risultati di medio e lungo periodo.

Del resto se parliamo degli indici di efficienza didattica, va osservato che gran parte degli studenti sono residenti in Sardegna. E non è una sorpresa data la distanza dalla penisola italiana al di là di un grande mare. L’insularità è uno svantaggio anche per noi. Il contesto incide non poco e troviamo grande difficoltà a confrontarci alla pari con realtà del continente dove è radicata una rete di scuole superiori decisamente più efficienti, come dimostrano le statistiche e i test di medicina tra breve a carattere nazionale; e non sempre disponiamo delle risorse per progetti strategici di tutorato. Eppure gli straordinari risultati da noi ottenuti nella ricerca testimoniano la qualità e in qualche caso l’eccellenza dei nostri docenti, che hanno ottenuto nell’ultimo anno una serie di prestigiosi riconoscimenti.  Spesso ci chiediamo come superare la condizione oggettiva di isolamento che ostacola l’iscrizione di studenti provenienti dal continente. Questa è una realtà che sta dividendo l’Italia in due. Vorremmo delineare allora l’orizzonte della possibile missione per un ateneo come quello di Sassari.

Nell’attesa di “raccogliere” i primi risultati non si può nascondere la preoccupazione per gli equilibri di bilancio, resi ancora più visibili dopo l’adozione del bilancio unico e da quest’anno della contabilità economico-patrimoniale, che ha comportato disagi e ritardi nei pagamenti, nonostante l’impegno costante del personale tecnico-amministrativo. I forti tagli subiti in questi anni sono stati “riassorbiti” grazie a politiche di contenimento delle spese di personale (con esclusione dell’investimento sui giovani ricercatori e del piano straordinario degli associati), nonché grazie ai “risparmi” accantonati prudenzialmente nel corso degli anni. In una prospettiva di medio periodo abbiamo chiaro che la situazione potrà non essere più sostenibile. I forti vincoli di bilancio legati alle spese di personale e all’impossibilità di incidere sulla contribuzione studentesca comporteranno il rischio di vanificare tutti gli sforzi posti in essere in questi anni per rinnovare il nostro Ateneo.

Ci preoccupano gli interventi normativi che si sono susseguiti in questi anni i quali lasciano, di fatto, immaginare una nuova cornice di criteri di ripartizione delle risorse per il funzionamento ordinario del Sistema universitario pubblico. La forte attenzione del Ministero nei confronti della programmazione e della valutazione ha impegnato le singole università a porre sempre maggiore attenzione alle proprie linee strategiche di indirizzo e all’impatto che le stesse avranno in termini di valutazione dei risultati, intesi come miglioramento della qualità della didattica e della ricerca, nonché di mantenimento degli equilibri di bilancio di medio-lungo periodo. Aspettiamo il decreto per il nuovo calcolo del fondo di finanziamento ordinario sulla base del costo standard per studente, dei risultati della didattica e della ricerca, nonché delle politiche di reclutamento. Da una prima lettura scompare dai criteri di ripartizione la “quota base”, ovvero la “quota storica”. Pertanto, nella piena consapevolezza che qualsiasi “modello” utilizzato per il finanziamento contiene sempre “un’idea di università”, occorre porre in essere ogni azione volta al miglioramento delle performances in un quadro nazionale di risorse sempre più scarse per il Sistema universitario.

Il Ministero, nella definizione del costo standard, ci pare debba necessariamente tener conto della dimensione e del contesto economico e territoriale dei singoli atenei. Attenzione dovrà essere posta anche su corsi aventi particolari specificità, come ad esempio il corso di laurea in medicina, tenendo conto del carico assistenziale a favore del Servizio sanitario nazionale. Fondamentale sarà un’analisi delle esperienza europee in materia e una condivisione delle modalità di calcolo del costo standard, prevedendo una fase sperimentale dell’applicazione.

Il modello unico applicato nel corso dell’ultimo triennio necessita di alcune riflessioni. Premiare le università sulla base dei crediti acquisiti dagli studenti può incentivare, se non si prevedono opportuni “contrappesi”, i docenti a promuovere gli studenti causando la dequalificazione dei corsi di studio. Gli occupati a tre anni dal conseguimento del titolo, ferma restando l’implementazione della banca dati di riferimento, dipendono non solo dai comportamenti degli atenei ma anche dal contesto territoriale di riferimento e dalle relative capacità produttive. I nostri numerosi studenti in mobilità internazionale fanno registrare delle performance di profitto nettamente superiori alle medie degli altri studenti, ma per l’FFO contano solo le mobilità effettuate dagli studenti regolari.

La parte premiale dovrebbe misurare non tanto i valori assoluti ma le dinamiche di miglioramento e di peggioramento della qualità dei singoli Atenei.

Il nuovo quadro di riforma dell’FFO si deve proporre di rafforzare l’autonomia, la cultura della valutazione e l’assicurazione della qualità, in un contesto di risorse sempre più scarse. Tuttavia, investire sull’istruzione, puntando ad un miglioramento continuo della sua qualità, è investire sul futuro del Paese.

Signor Ministro,

credo che oggi sia tempo di pensare ad un piano strategico di rilancio delle due università della Sardegna, con il sostegno del Governo per rispondere agli specifici svantaggi dell’isola: siamo pronti a contribuire con idee, proposte, con un elenco di priorità da chiedere con forza e sulle quali trovare alleanze e solidarietà vere. Senza Università, senza investimenti in conoscenza e in ricerca, senza infrastrutture per fare della cultura una risorsa, partendo dall’identità profonda dell’isola ma favorendo una nuova dimensione internazionale, non c’è futuro per la Sardegna.




Stimoli e delusioni nel post-Concilio. Facoltà Teologica della Sardegna.

Stimoli e delusioni nel post-Concilio
Facoltà Teologica della Sardegna
Intervento del prof. Attilio Mastino
Sassari, 12 aprile 2013

Cari amici,

cinquanta anni fa, l’11 ottobre 1962 all’immediata vigilia della crisi per i missili sovietici a Cuba, con il discorso Gaudet Mater Ecclesia Giovanni XXIII apriva a Roma il XXI Concilio Ecumenico, il Vaticano II, l’evento più notevole della chiesa del secolo scorso, quasi un vessillo innalzato tra le nazioni, un evento di profezia e di resurrezione: il Papa chiedeva che la Chiesa  riprendesse a parlare con il mondo, anziché arroccarsi su posizioni difensive e interpretasse positivamente i “segni dei tempi”, riprendendo la polemica di Cristo con Farisei e Sadducei riferita da Matteo 16,3: <<Quando si fa sera, voi dite: “Bel tempo, perché il cielo rosseggia!” e la mattina dite: “Oggi tempesta, perché il cielo rosseggia cupo!” L’aspetto del cielo lo sapete dunque discernere, e i segni dei tempi non riuscite a discernerli?>>. Nella stessa serata, forse ispirandosi proprio al vangelo di Matteo, Giovanni XXIII improvvisava quel discorso della luna che ci è rimasto nel cuore e che rende bene l’offerta di amore al mondo che stava dietro la convocazione del Concilio.

Temi che Paolo VI nel suo primo radiomessaggio del 22 giugno 1963 avrebbe poi interpretato a suo modo, ponendo tra i principali obiettivi del Concilio il rinnovamento della chiesa cattolica e il dialogo della Chiesa con il mondo contemporaneo. Pochi mesi dopo, il 22 novembre successivo sarebbe stato ucciso a Dallas il Presidente Kennedy.

La mia età mi consente di ricostruire a distanza di tanti anni l’emozione di quei giorni e di tentare di recuperare alla memoria qualche ricordo di quegli straordinari resoconti sul Concilio che dal pulpito in Cattedrale faceva costantemente il vescovo Francesco Spanedda, arrivato a Bosa nel 1956: il vescovo era stato chiamato a far parte della Commissione teologica internazionale ed era nella Commissione De doctrina fidei et mororum e ci raccontava il Concilio con lo stupore di chi assisteva ad un evento storico, osservava commosso le nuove aperture di una teologia troppo chiusa come quella italiana, entrava in contatto per la prima volta con i teologi francesi e tedeschi,  istituiva rapporti e legami con decine di altri vescovi in particolare di oltrecortina, che si sarebbero sviluppati nel tempo. C’era nelle sue parole il sapore fresco di un avvenimento che in qualche modo settimana dopo settimana egli riusciva a farci vivere insieme con lui, soprattutto nell’Azione Cattolica, nel Centro Sportivo Italiano, in parrocchia, sul settimanale Libertà. Un avvenimento che per tre anni ci avrebbe riguardato tutti.

Ho visto che Raimondo Turtas  nel volume sulla Storia della Chiesa in Sardegna ridimensiona severamente il ruolo svolto dai vescovi sardi al Concilio, mi sembra con la sola eccezione di Mons. Giovanni Pirastru, di Iglesias, impegnato a sollecitare interventi convergenti dei vescovi sardi sul versante della dignità umana e dei diritti della persona. Eppure sono convinto che nessun altro vescovo sardo come Spanedda ebbe in quegli anni una dimensione internazionale e un ascolto altrettanto ampio. Ho visto citati da Tonino Cabizzosu i numerosi interventi scritti di mons. Spanedda, uno dei quali intitolato ad finem Concilii, gli emendamenti e le sue adesioni agli interventi di colleghi sui temi de apostolatu laicorum e De sacrorum alumnis formanndis. Infine la sua firna su molte costituzioni conciliari, penso a quella sulle chiese orientali (penso al culto di San Costantino), sull’ecumenismo, ancora sull’apostolato dei laici.

Era del resto il vescovo nel cui territorio operava da cinquanta anni a Cuglieri il Pontificio Seminario tridentino regionale,  la Facoltà di teologia e filosofia, che  costituì una delle preoccupazioni dei vescovi isolani, che certo si riflettono in alcune pagine del Concilio. Mio nonno risiedeva del resto proprio a Cuglieri. Infine le sue origini sassaresi (era nato a Ploaghe) e il suo ministero lo portavano a enfatizzare con noi il ruolo del Collegium, Mazzotti e la casa di accoglienza di La Madonnina di Santulussurgiu, che allora frequentavamo spesso sotto la guida del compianto don Giuseppe Budroni.

Chiuso il Concilio il 7 dicembre 1965, fui invitato dal vescovo a partecipare, e lo feci con successo, al Concorso nazionale di borse di studio Veritas sul tema “Gli studenti e la chiesa”. La parte del diavolo fu affidata allora a Mons. Giovanni Pes, particolarmente critico nei confronti del mio elaborato ma ciò non impedì al vescovo di pubblicare a puntate su Libertà il mio testo. Ero in I liceo classico ed ho ritrovato tra le mie carte una oscura relazione dattiloscritta di oltre 30 pagine, datata Bosa 12 luglio 1966, scritta a 6 mesi dalla cerimonia con la quale Paolo VI aveva chiuso il Concilio con la celebre allocuzione e con gli otto messaggi al mondo: ai padri conciliari, ai governanti, agli intellettuali (consegnato simbolicamente a Jacques Maritain), agli artisti, alle donne, ai lavoratori, ai poveri, agli ammalati, ai giovani.  Avevo messo a frutto l’insegnamento del vescovo Spanedda con l’aiuto di Mons. Antonio Francesco Spada, che mi aveva seguito nella ricerca partendo dall’antologia sui documenti del Concilio Vaticano II pubblicati dalle Edizioni Dehoniane, un volume analogo a quello edito dalle Paoline che Mons. Antonio Loriga mi ha  donato nei mesi scorsi.

Avevo commentato i capitoli sul Popolo di Dio e sui laici della Costituzione sinodale Lumen Gentium del 21 novembre 1964, soprattutto avevo letto la citatissima Costituzione pastorale Gaudium et Spes dell’anno successivo, con riferimento al capitolo dedicato alla promozione del progresso della cultura e ai doveri dei giovani e dei genitori. E poi il tema vitale dell’Ecumenismo del Decreto Conciliare Unitatis Redintegratio, del 21 novembre 1964. Ancora l’apostolato dei laici nel Decreto Conciliare Apostolicam Actuositatem del 18 novembre 1965, con i capitoli dedicati ai giovani e all’Azione Cattolica. Infine la Dichiarazione conciliare Gravissimum educationis del 28 ottobre 1965 sull’educazione cristiana, con le pagine dedicate alla scuola e all’Università.  Sotto quest’ultimo aspetto, mi ero permesso anche qualche critica al rapporto effettivamente un poco squilibrato tra scuola non cattolica e scuola cattolica – la bizzarra distinzione è conciliare -, per l’insistenza sui convitti e i centri universitari cattolici, sul coordinamento delle scuole cattoliche e sulle facoltà di teologia. Eppure oggi a distanza di 50 anni sorprendono le aperture del Concilio sulle scuole superiori e sull’università, se si ribadisce che le diverse discipline debbono essere <<coltivate secondo i propri principi e il proprio metodo, con la libertà propria della ricerca scientifica>>.

Infastidisce oggi in quelle mie pagine troppo acerbe un commento talvolta pretenzioso e saccente, qualche bigotteria, l’accettazione acritica di una realtà di fatto che il Concilio ci avrebbe costretto a superare, come la marcata divisione tra studenti e lavoratori e tra maschi e femmine in Azione Cattolica, nel CSI e nella FARI. C’era ancora in molti di noi inconsapevolmente il senso orgoglioso di una superiorità degli studenti rispetto ai giovani lavoratori, la convinzione che i giovani della GIAC, la Gioventù maschile di Azione Cattolica, fossero dei privilegiati capaci di scorgere più di altri una strada, forse anche meglio – il pensiero sotterraneo qua e là riemerge – rispetto alle colleghe della Gioventù Femminile, rigorosamente separate in parrocchia anche se frequentate a scuola.  Forse è la stessa superiorità che i tesserati di Azione Cattolica e della FUCI avrebbero mostrato negli anni successivi  verso gli amici di Comunione e Liberazione.

In realtà prendevo lo spunto da alcune affermazioni conciliari, perché “lo studente è dei giovani il più rettamente formato, quello che avrà più orgoglio per la posizione acquistata”, con la sua maturità, anche perché, recita la Gaudium et Spes “lo scopo della Scuola è quello di suscitare uomini e donne non tanto raffinati intellettualmente, ma di forte personalità, come è richiesto fortemente dal nostro tempo”.

Sentivamo in quei giorni la novità di un tempo nuovo, la gioia per la rinnovata dimensione universale della Chiesa, ancora il desiderio di una rinascita etica, il senso della fine di una storia,  se chiudendo la mia ricerca dedicata agli studenti osservavo: <<Vorrei terminare qui con le ultime parole che il Concilio, chiudendo la sua opera, ha rivolto ai giovani: “Siate generosi, puri, rispettosi, sinceri… La Chiesa vi guarda con fiducia e con amore… Guardatela, e voi ritroverete in essa il volto di Cristo, il vero eroe, umile e saggio, il profeta della verità e dell’amore, il compagno e l’amico dei giovani. Ed è appunto in nome di Cristo che noi vi salutiamo, che noi vi esortiamo, che noi vi benediciamo”>>. E aggiungevo, dando il senso di una frattura, di una fine, forse anche di una perdita irreparabile, con parole che oggi mi sembrano eccessive e anche retoriche: <<Così il concilio muore, così si spegne. Ma no, l’opera sua rimane, lo fa rivivere, lo fa rinascere. Il Concilio non è finito, incomincia ad essere solo ora>>.

Sarebbe arrivata due anni dopo l’Università a Cagliari, le speranze del 68, l’impegno in Azione Cattolica a livello regionale, i Campi scuola, il CSI, l’esperienza politica, poi forse anche qualche dubbio e qualche tradimento e infedeltà. Eppure quelle letture sono rimaste sullo sfondo, quella esperienza è stata in qualche modo una luce e un punto di riferimento, anche a proposito di un tema che continua a dividere ma di fronte al quale non possiamo fare passi indietro, quello del diritto alla vita e della condanna dell’aborto. Il dato rivelato nei giorni scorsi degli oltre 300 milioni di aborti in Cina rimane sulle coscienze di tutti noi.

Poi negli anni 80 avremmo celebrato il Sinodo diocesano con Mons. Giovanni Pes impegnato nelle quattro sessioni di Cuglieri, Alghero, Bosa e Macomer, più tardi a partire dal 1986 ebbi l’onore di esser chiamato a partecipare alle commissioni antepreparatorie del Concilio plenario sardo concluso solo nel 1999: occasione  che  avrebbe rappresentato un primo bilancio ancora forse prematuro sulla attuazione del Vaticano II in Sardegna.

Chiedo scusa se ho pensato di aprire questo mio intervento dando una dimensione autobiografica troppo limitata ad un evento storico che ha cambiato la Chiesa e la vita di milioni di persone, – uso le parole del Cardinale Cicognani –  <<per l’immagine splendente dell’universalità della Chiesa, per i ponti lanciati verso una nuova comprensione di rispetto e di stima verso i fratelli separati, per il palpito di amore e di comprensione rivolto al mondo d’oggi, alle sue ansie e speranze>>. Ma il Concilio è stato innanzi tutto – per dirla con Paolo VI – una sorgente dalla quale scaturisce un fiume; <<la sorgente può essere lontana, la corrente del fiume ci segue>> perché <<il Concilio lascia qualche cosa dietro di sé che dura e continua ad agire>>.

Definire oggi i confini, dire il peso che concretamente il Concilio ha avuto nella vita di ciascuno di noi, indicare le tante delusioni è certo difficile: ma personalmente sono convinto che senza il Concilio non avremmo avuto il grande papa Giovanni Paolo Magno, e poi Benedetto XVI e il nostro Francesco, e la Chiesa avrebbe avuto una dimensione più provinciale e meno ecumenica.  Il Concilio ci ha rivelato la giovinezza della Chiesa – scrivevo 45 anni fa – e la sua fiducia in tutti i giovani del mondo: la nostra è l’età che il mondo deve ascoltare e la nostra risposta non è solo gratitudine, gioia e fierezza di appartenere a questa Chiesa che per Paolo VI “non ha mai cessato di nascere: è anche l’impegno di battere le strade che il Concilio ha aperto”.

Il tema centrale ruota attorno al senso della responsabilità che gli educatori debbono indicare ai giovani, per sviluppare generosità, altruismo, impegno personale. E poi il desiderio di dialogo, di confronto, di adesione convinta, perché anche il dubbio ha diritto di cittadinanza, contro ogni dogma e ogni imposizione dall’alto. Dunque la formazione all’apostolato dei laici con una flessibilità e una tolleranza nuova, cui il Concilio ha dato un impulso straordinario.

Insomma, percepivamo il senso di un’opportunità che ci veniva offerta, sentivamo di agire in uno scenario più ampio, avvertivamo che tante barriere sarebbero state abbattute, anche con riferimento all’impegno ambientale.

Le parole che il nostro Papa Francesco il 19 marzo ha usato nell’omelia della Messa per l’inizio del suo pontificato sono in questa linea, nell’invito a tutti gli uomini di buona volontà di essere <<custodi della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, dell’altro e dell’ambiente>>.

Avevo allora tentato di presentare un quadro dell’associazionismo cattolico in diocesi, indicando i dati sulla partecipazione alla messa domenicale, i sacramenti, il peccato, la fede, l’adesione alle attività caritative. Avevo pensato di distinguere gli studenti appartenenti all’Azione Cattolica dagli studenti cattolici non praticanti, dagli studenti senza alcuna ideologia religiosa (così mi esprimevo), dagli studenti appartenenti ad associazioni filocomuniste (penso alle foto che mons. Pietro Meloni ci faceva vedere negli anni 70 con le file dei clienti in una macelleria polacca sotto la neve nella notte). Anche questa quadripartizione la dice lunga sull’immaturità di chi scriveva con un linguaggio ancora inadeguato, tentando di presentare una storia lunga, uno sviluppo nel tempo, una novità e insieme una preoccupazione, quella di una volontà debole, di un falso rispetto umano, di un facile compromesso con la propria coscienza.

Eppure si scorge in quelle pagine un’impressione profonda che ancora oggi sopravvive, forse una preoccupazione, cioè che le organizzazioni cattoliche effettivamente avevano sentito una violentissima scossa, quando il Concilio aveva proposto loro nuovi metodi, nuovi interessi, nuove responsabilità e autonomie sulla strada dell’evangelizzazione  e dell’ascolto della Parola di Dio. Allora mi ero dichiarato convinto che il Concilio avrebbe segnato una ripresa straordinaria, perché le organizzazioni di Azione Cattolica <<hanno voluto seguire il Concilio, hanno rivoluzionato tutto quello su cui fino a quel momento avevano lavorato e hanno incominciato tutto di nuovo. Esse hanno capito che quello che il Concilio esigeva lo volevano i tempi, lo volevano gli uomini>>, anche perché l’Azione Cattolica nel dopoguerra in Italia aveva in qualche modo preparato la via al Concilio.

Ora il Concilio apriva in maniera sconfinata la porta all’apostolato dei laici che i sacerdoti avrebbero dovuto sostenere e incoraggiare, invitava i giovani a farsi testimoni di verità, responsabilizzava gli studenti cattolici ad operare tra i compagni e nell’ambiente a favore del bene comune, anche nello sport e nel tempo libero, li invitava ad associarsi in cellule, in gruppi, in comunità cittadine e diocesane, diventando “pasta lievitata nella pasta”. Il Concilio aveva mostrato come la Chiesa sappia adeguarsi alle esigenze dei tempi, pur restando sempre fedele e vicina all’insegnamento del Cristo.

In quei mesi il Digest religioso (da “Teologia e Vita”) scriveva alcune frasi di sintesi che avevo voluto riprendere: <<L’entusiasmo giovanile è uno slancio naturale verso la perfezione, che deve essere orientato verso il bene. Allora i giovani scopriranno nel Messaggio Evangelico lo sbocco naturale, il solo possibile, del dinamismo che portano in sé. In caso contrario, il loro orrore per la mediocrità, il loro desiderio di valorizzare la loro vita, li spingerà ad allontanarsi dalla Chiesa e a cercare altrove un ideale di bontà e di grandezza capace di appagare il loro cuore>>.

Oggi tornano in mente le straordinarie parole della costituzione “Apostolicam Actuositatem”, che appaiono attualissime: <<I giovani esercitano un influsso di somma importanza sulla società odierna. Le circostanze della loro vita, le mentalità e gli stessi rapporti con la propria famiglia sono grandemente mutati. Essi passano spesso troppo rapidamente ad una nuova condizione sociale ed economica. Mentre cresce sempre di più la loro importanza sociale ed anche politica, appaiono quasi impari ad affrontare adeguatamente i loro nuovi compiti>>.  <<L’accresciuto loro peso nella società esige da essi una corrispondente attività apostolica: del resto lo stesso carattere naturale li dispone a questo. Col maturare della coscienza della propria personalità, spinti dall’ardore della vita e dalla loro esuberanza, assumono le proprie responsabilità e desiderano prendere il loro posto nella vita sociale e culturale: zelo questo che, se è impregnato dallo spirito di Cristo e animato da obbedienza e amore verso i pastori della Chiesa, fa sperare abbondantissimi frutti>>, perché <<i giovani debbono divenire i primi e immediati apostoli dei giovani>>.

Ritorna allora il carattere missionario della Chiesa proiettato verso il mondo giovanile attraverso l’apostolato dei laici, messaggeri della buona novella.

Come non pensare alla prima lettera di Giovanni che avevo messo in testa alla mia relazione ? <<Ho scritto a voi, giovani, che siete forti e dimora in voi la parola di Dio, e avete vinto il malvagio. Non amate il mondo né le cose del mondo. Se uno ama il mondo non è in lui l’amore del Padre; perché tutte le cose del mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, e il fasto della vita, non provengono dal Padre ma dal mondo. Passa il mondo e anche la concupiscenza di lui; ma chi fa la volontà di Dio dura in eterno>>.  Avevamo ripeso alcuni di questi concetti in una relazione di gruppo sull’Amicizia e l’Amore tra giovani che avevamo scritto a Bau Mela in Ogliastra in un ritiro della GIAC regionale, dove ero stato spedito dal vescovo per accompagnare un gruppo di adolescenti.

L’8 dicembre 1965, Paolo VI trasmetteva l’ultimo messaggio del Concilio, indirizzandolo ai Giovani, veri destinatari ultimi della <<revisione di vita>> che la Chiesa aveva avviato accendendo la luce che doveva rischiarare l’avvenire: << Perché siete voi che raccoglierete la fiaccola dalle mani dei vostri padri e vivrete nel mondo nel momento delle più gigantesche trasformazioni della sua storia. Siete voi che, raccogliendo il meglio dell’esempio e dell’insegnamento dei vostri genitori e dei vostri maestri, formerete la società di domani: voi vi salverete o perirete con essa. La Chiesa è desiderosa che la società che voi vi accingete a costruire rispetti la dignità, la libertà, il diritto delle persone: e queste persone siete voi. … Lottate contro ogni egoismo. Rifiutate, di dar libero corso agli istinti della violenza e dell’odio, che generano le guerre e il loro triste corteo di miserie. Siate: generosi, puri, rispettosi, sinceri. E costruite nell’entusiasmo un mondo migliore di quello attuale>>.

A distanza di quasi cinquanta anni quelle parole emozionano ancora, anche se resta forte l’impressione di tante occasioni perdute, di tante premesse rimaste solo virtuali, di tanti impegni non mantenuti da parte di ciascuno di noi e di tutti.

Molti furono gli effetti concreti del Concilio, primo tra tutti per quanto ci riguarda l’unificazione della Azione cattolica, la scomparsa della GIAC di cui fui l’ultimo presidente o meglio propresidente diocesano, le votazioni democratiche che portarono ad un’organizzazione unitaria, dove uomini e donne dovevano confrontarsi e interagire.

Un’altra conseguenza mi pare sia stata anche la chiusura del Seminario tridentino di Cuglieri, nel 1970, il trasferimento a Cagliari, un evento drammatico, difficile, inizialmente frainteso,  che avevo contestato su “Libertà” interpretando i sentimenti di molti sardi e di molti diocesani, criticando l’isolamento dei seminaristi nel contesto cittadino cagliaritano, l’iniziale dispersione degli allievi tra il Seminario Regionale di Via Parragues (una traversa di Via Cadello) e altre sedi, fino alla Facoltà Teologica di Via Sanjust, gli scarsi rapporti proprio della Facoltà Teologica con le Università storiche statali di Cagliari e Sassari fondate dai Gesuiti. Sarebbe stato il nostro amato Padre Natalino Spaccapelo a raccogliere quella protesta, a colmare quella divaricazione e a dare molti segnali di collaborazione che ancora continuano con Maurizio Teani, partendo dal volume su Eusebio di Vercelli alla fine degli anni 90, poi con Simmaco, Fulgenzio e Gregorio Magno e la straordinaria rivista Teologica & Historica aperta ai laici.

Ho letto in occasione della pausa pasquale gli Atti del convegno ecclesiale della diocesi  di Alghero-Bosa dell’ottobre 2011, con il volumetto intitolato “Dio educa il suo popolo con la parola”, dove compaiono sintetizzati in una prospettiva di stretta attualità i problemi del “mondo giovani” in alcune schede che utilizzano un linguaggio nuovo, partendo da tre prospettive, i giovani con i loro vissuti, il dono della Parola di Dio narrata nella storia delle giovani generazioni, le comunità cristiane quali luoghi di accoglienza, accompagnamento e formazione. Sono rimasto stupito e in qualche modo impreparato di fronte a questo nuovo linguaggio, che testimonia un salto culturale e una profondità nuova nella chiesa di oggi. Eppure, i nuovi modelli di evangelizzazione tanto collegati in modo essenziale con il vissuto dei nostri giovani, non possono non partire dalla lezione del Concilio Vaticano II, dalla profonda riflessione di 50 anni fa, che rimane vitale anche per noi uomini d’oggi alla ricerca di una possibile riconciliazione.




Convegno Sardegna e Tunisia: un patrimonio comune verso uno sviluppo condiviso.

Attilio Mastino
Le relazioni storiche della Sardegna con la Tunisia
Convegno Sardegna e Tunisia: un patrimonio comune verso uno sviluppo condiviso
Cagliari, 12 aprile 2013

La riflessione  sulle relazioni storiche tra Africa e Sardegna in età antica in questi ultimi trenta anni è stata quanto mai estesa e ricca di risultati: i convegni internazionali di studi su «L’Africa Romana», promossi annualmente a partire dal 1983 dal Centro di studi interdisciplinari sulle province romane dell’Università di Sassari anche a Tunisi, Cartagine, Djerba e Tozeur, hanno consentito di mettere a confronto le esperienze di archeologi, storici, epigrafisti, al fine di individuare gli apporti regionali e nazionali al complesso fenomeno della romanizzazione e insieme di mettere a fuoco le relazioni tra le diverse province mediterranee. Abbiamo affrontato il rapporto tra centro e periferia per valorizzare gli apporti specifici delle diverse province, per indicare, sul piano culturale, artistico, religioso, linguistico, le articolazioni locali ed il contributo delle singole aree.

Andando oltre la storia di Roma, che privilegia una concezione unitaria, abbiamo affrontato il tema delle persistenze indigene e del contributo che le differenti realtà nazionali e locali hanno dato al processo di romanizzazione. In questo senso lo studio della storia delle provincie africane può diventare un indispensabile complemento della Storia Romana tradizionale vista esclusivamente sotto il profilo istituzionale ed organizzativo ed intesa come ricostruzione di quella corrente che provocò un processo di livellamento che introdusse anche sul piano culturale e sociale unitari elementi romani.

Abbiamo in sostanza voluto ribaltare la visione coloniale che perseguiva l’obiettivo romantico di ripercorrere le strade di una civiltà perduta, di ritrovare le radici dell’anima europea del Nord Africa travolto dagli Arabi, perché nella visione coloniale europea della prima metà del secolo scorso la civiltà classica in Nord Africa non morì di morte naturale, ma fu assassinata con l’occupazione araba di Cartagine nel 698, quando il comando bizantino dell’esarcato fu trasferito a Karales. Le scoperte archeologiche furono effettuate nella Tunisia di fine Ottocento inizialmente dagli ufficiali dell’esercito di occupazione francese, dopo il trattato del Bardo del 1881: così ad esempio a Dougga ed ad Uchi Maius, dove operarono l’aiutante maggiore medico de Balthazar, il capitano De Proudomme ed il capitano Gondouin, tutti in rapporto con l’Academie des inscriptions et belles lettres e con la Société des Antiquaires de France.

Più tardi arrivarono gli archeologi, gli storici e gli epigrafisti, alcuni di altissimo livello come P. Gaukler, René Cagnat, Alfred Merlin, J. Poinssot, maestri della nutrita e apprezzata serie degli archeologi tunisini. Intanto all’incrocio del cardo e del decumanus maximus della colonia cesariana di Cartagine, sulla collina Byrsa, i francesi costruivano la cattedrale del card. Charles Martial Allemand Lavigerie, recentemente trasformata in un Acropolium laico per turisti. A fianco fu consacrato il cenotafio di San Luigi, le cui ossa durante la VIII crociata erano state ricondotte a Parigi.

Con la colonizzazione si affermava una nuova cultura egemone e restò ormai fissata nell’immaginario collettivo dei popoli del Maghreb l’idea di una forzatura, di una strumentalizzazione del mondo classico al servizio della prospettiva coloniale francese in Algeria e Tunisia, ma anche italiana in Libia e spagnola iun Marocco.

Nel momento in cui i paesi del Maghreb ritrovavano, dopo la II guerra mondiale, una loro sovranità nazionale, la conseguenza inevitabile fu una reazione contraria, una sostanziale sottovalutazione delle radici classiche e una enfatizzazione, in realtà purtroppo spesso solo teorica,  delle fasi islamiche della storia del Nord Africa. Teorica perché se è vero che sullo sfondo c’è il convinto apprezzamento per la grande cultura araba arrivata anche ad influenzare l’Europa cristiana; di fatto però le fasi medievali del primo insediamento arabo in Ifriqya non sono mai state studiate davvero scientificamente e la cultura materiale islamica delle origini non ha fin qui avuto una presentazione adeguata. Nel quadro della  progressiva indifferenza per il patrimonio pre-islamico, indubbiamente la Tunisia tra il 1956 con Bourghiba e il 1986 con Ben Ali ha rappresentato un’eccezione nel panorama dei paesi del Maghreb,  grazie all’impegno dell’Institut National d’Archéologie et d’art, da quindici anni trasformato in Institut National du Patrimoine al quale si affianca l’azione dell’Agence National du Patrimonie che ha la specifica missione di gestire monumenti e musei archeologici. Enti che hanno sostenuto molte grandi imprese internazionali in particolare europee, che spesso però furono costrette a cambiare decisamente i loro obiettivi. Rimane sullo sfondo il nuovo tema della “resistenza” alla romanizzazione, che, se si è manifestata con clamorosi fenomeni militari come a Zama, spesso si è svolta in modo sotterraneo ma non per questo meno significativo. Essa è interpretata da figure come Annibale o Giugurta valorizzate anche sulle monete ufficiali del nuovo stato tunisino.

Con la primavera araba, con la fuga di Ben Ali il 14 gennaio 2011, si è fin qui evitato  il pericolo che i lunghi e brillanti periodi preislamici del Maghreb potessero rappresentare una minaccia per il progetto di panarabismo dominante.  Si rende dunque sempre più necessario riprendere un cammino che sarà possibile solo partendo dalla consapevolezza che il patrimonio rappresenta una ricchezza anche per l’identità della Tunisia di oggi, superando nel rispetto dovuto la strumentalizzazione del passato per scopi politici o religiosi.

La strada è quella di arrivare scientificamente ad una ricostruzione storica complessiva, fondata su un’indagine interdisciplinare, indirizzata verso una valutazione globale del mondo antico e tardo antico: dalle indagini più recenti emergono le nuove linee del processo di organizzazione municipale romana, nelle sue stratificazioni storiche e nei suoi condizionamenti determinati da precedenti realtà regionali; è così possibile un approfondimento del tema delle civitates indigene, tribù e popolazioni non urbanizzate, nomadi, seminomadi e sedentarie, raccolte intorno a re e principi indigeni, in un rapporto di collaborazione o di conflitto con l’autorità romana.  La persistenza di istituzioni, abitudini, usi e costumi arcaici all’interno dell’impero romano è una delle ragioni della convivenza tra diritto romano classico e diritti locali, anche se spesso improvvise innovazioni sono entrate in contrasto con antiche consuetudini. Solo così si spiega come, accanto all’affermarsi di nuove forme di produzione, di organizzazione sociale, di scambio, in alcune aree siano sopravvissute le istituzioni locali, il nomadismo, la transumanza, l’organizzazione gentilizia, mentre la vita religiosa e l’onomastica testimoniano spesso la persistenza di una cultura tradizionale e di una lingua indigena come ad Uchi Maius. Altre problematiche di estremo interesse riguardano il paesaggio agrario, le dimensioni della  proprietà, la pastorizia nomade, le produzioni, i commerci di minerali e di marmi come a Chemtou-Simittus, i dazi, i mercati, l’attività dei negotiatores italici o africani comme a Sullectum, la dinamica di classe,  l’evergetismo, la condizione dei lavoratori salariati, degli schiavi e dei liberti: temi che ora possono essere affrontati con metodi e strumenti rinnovati, grazie anche alle nuove tecniche di indagine, come l’archeologia sottomarina, da noi praticata a Nabeul.

Alla vigilia del XX Convegno de L’Africa Romana che organizziamo a settembre ad Alghero grazie alla collaborazione con l’Università di Sousse, la Sardegna può aspirare  ad essere il laboratorio ideale per nuovi  studi sulle province africane, intese come ambiti territoriali di incontro tra culture e civiltà. All’interno del bacino occidentale del Mediterraneo, la Sardegna ha ancora oggi una posizione centrale significativa; per l’età antica l’isola, periferica da un punto di vista culturale ma collocata geograficamente al centro dell’impero, fu arricchita immensamente dagli scambi mediterranei, partecipando essa stessa alla costruzione di una nuova cultura unitaria, mantenendo tuttavia nei secoli una specificità propria. Esplorare il confine tra romanizzazione e continuità culturale, tra change e continuity,  è compito che deve essere ancora affrontato, al di là della facile tentazione di impossibili soluzioni unitarie.

I rapporti tra Africa e Sardegna dovettero essere intensi anche in epoca preistorica, se appunto ad un libico, all’eroe Sardus, figlio di Maceride (nome dato dai Libii ad Eracle-Melqart), i mitografi greci attribuivano la primitiva colonizzazione dell’isola. Ancora in età storica Sardus era venerato in Sardegna con l’attributo di Pater, per essere stato il primo a guidare per mare una schiera di colonizzatori giunti dall’Africa e per aver dato il nome all’isola, in precedenza denominata ‘l’isola dalle vene d’argento’, con riferimento alla ricchezza delle sue miniere: a questo eroe-dio, identificato con il Sid Babi punico e con Iolao patér greco, il condottiero dei Tespiadi, fu dedicato un tempio presso Metalla, restaurato all’inizio del III d.C., mentre la sua immagine ritorna propagandisticamente sulle enigmatiche monete di M. Atius Balbus.

Gli apporti etnici africani erano ben noti, se i mitografi classici registravano un nuovo arrivo di popoli libici, evidentemente via mare, dopo Aristeo (passato da Cirene), Norace, Dedalo ed i Troiani: infatti una moltitudine di Libii avrebbe raggiunto l’isola con una forte flotta, sterminando quasi completamente i Greci che vi si trovavano e costringendo i Troiani a ritirarsi sui monti dell’interno ed a proteggersi in zone quasi inaccessibili. Ancora nel II secolo d.C. essi si chiamavano Iliei, «assai simili nell’aspetto e nell’apparato delle armi ed in tutto il tenore di vita ai Libii».

Al di là del mito, può essere sostanzialmente condivisa la realtà di forti e significativi contatti tra l’Africa numida e la Sardegna nuragica: queste relazioni indubbiamente si intensificarono con l’arrivo dei Fenici e, in epoca ormai storica, con la dominazione cartaginese, per la quale si pongono problemi d’interpretazione più facilmente risolvibili da archeologi e storici.

L’integrazione culturale tra Africa e Sardegna continuò in maniera notevole nei secoli successivi: la romanizzazione della grande isola mediterranea conobbe indubbiamente fasi comuni rispetto alle province africane, in relazione – se non si vuole pensare ad una simile matrice etnica – alla situazione geografica e soprattutto all’uguale esperienza punica, vissuta rispettivamente su un sostrato nuragico e libio-numida.

Un capitolo importante in questa problematica è rappresentato dalla sopravvivenza di modelli costituzionali cartaginesi e di tradizioni puniche nell’organizzazione delle città della Sardegna romana, durante gli ultimi secoli della repubblica e dell’impero: sappiamo che le promozioni giuridiche delle civitates indigene dell’isola non datano ad epoca precedente a Cesare; è da presumere che tutte le città e le popolazioni rurali abbiano dunque continuato ad amministrarsi secondo le norme del diritto pubblico punico, che sopravvisse in alcuni casi fino al II-III secolo d.C. se non oltre.

Il caso più significativo è dato dalle attestazioni (quasi esclusivamente in iscrizioni puniche o neo-puniche) della magistratura dei sufeti in numerose città sarde anche molti anni dopo la costituzione della provincia romana, a tre-quattro secoli dalla distruzione di Cartagine: citeremo in particolare i casi di Karales, di Sulci, di Neapolis, di Tharros e di Bitia.

L’unica attestazione non epigrafica ed in lingua latina è quella della moneta di bronzo con la rappresentazione al diritto di due ritratti (Cesare ed Ottaviano ?) con la leggenda Aristo Mutumbal Ricoce suf(etes); al rovescio compare un tempio con la scritta Veneris Kar(ales). In passato il documento è stato riferito a Kar(thago) ed utilizzato per supporre che nella colonia fondata da Cesare accanto ai duoviri romani operassero i sufeti, a capo di una comunità indigena subito aggregatasi alla città dedotta nel 44 a.C. e poi rinforzata da Ottaviano nel 29 a.C.; in questo senso si è parlato, anche per Cartagine, di un’improbabile doppia comunità romano-punica; il collegamento con Cesare e poi con Ottaviano parrebbe assicurato dal riferimento a Venere, madre di Enea, capostipite degli Iulii.

E’ stato però ampiamente dimostrato che la moneta, della quale sono numerosi gli esemplari rinvenuti in Sardegna, si riferisce non a Cartagine ma a Kar(ales), una città ugualmente collegata a Cesare o ad Ottaviano, in quanto municipium Iulium. Nel nostro caso i due sufeti attestano più che l’esistenza di una doppia comunità sardo-romana, il momento del passaggio dalla civitas indigena all’organizzazione romana del municipium; Aristo e Mutumbal Ricoce, i cui nomi sono sicuramente punici, sarebbero quindi i magistrati che si trovarono a gestire tra il 46 ed il 36 a.C. il delicato processo di transizione costituzionale dalle forme sardo-puniche alle nuove strutture romane; in questo senso essi furono gli ultimi sufeti della civitas, sostituiti poco dopo dai quattuorviri del municipio.

L’abbandono delle forme costituzionali sardo-puniche avvenne dunque in Sardegna molto tardi, a partire dalla seconda metà del I secolo a.C.; in alcuni casi, particolarmente periferici e conservativi, le strutture indigene furono mantenute in piena età imperiale (fino a quattro-cinque secoli dalla caduta di Cartagine): è noto il caso di Bitia, città per la quale ci è rimasta una dedica all’imperatore Marco Aurelio Antonino (169-180 d.C.), che è stata anche riferita, con meno probabilità, a Caracalla (212-217), dove è ricordata la realizzazione di una serie di opere pubbliche, nell’anno individuato dai due sufeti bb’l (Bodbaal ?) ‘il romano’ ed un collega anonimo [—]h.

Questo tipo di documentazione trova adeguato confronto soltanto in Africa, dove le città sufetali sono attestate a partire da Cesare (p. es. Curubis), fino alla piena età imperiale, nelle iscrizioni latine; si tratta di «persistenze» di istituzioni puniche o di «sopravvivenze» ereditate da Cartagine più o meno direttamente (sono attestate anche nei territori dell’antico regno di Numidia). In Africa come in Sardegna le testimonianze riguardano il più delle volte quei centri per i quali si può ipotizzare un’originaria colonizzazione fenicia: gli ultimi rinvenimenti epigrafici avvenuti recentemente in Tunisia non modificano ma anzi confermano questo quadro.

Per la Sardegna avrà pesato sicuramente l’insularità, il senso d’isolamento di alcune comunità dalla lontana ascendenza fenicio-punica, vere e proprie énclaves in territorio romano, la fedeltà a tradizioni che in Africa contemporaneamente dimostravano tutta la loro vitalità. Pare probabile che una così lunga sopravvivenza sia stata favorita dai nuovi apporti, dai successivi contatti e dai continui scambi culturali con l’Africa, che consentivano verifiche, conferme e ulteriori convergenze.

Siamo scarsamente informati sulle caratteristiche della religiosità tradizionale nella Sardegna nuragica, che qualche esito avrà sicuramente avuto in epoca punica e romana. L’unica divinità veramente «indigena», per quanto reinterpretata a posteriori, fu il Sardus Pater, eroe-fondatore giunto nell’isola con una schiera di Libii. Un’iscrizione rinvenuta in Tunisia in località Henchir el-Ksar (presso l’antica Thignica) conterrebbe, secondo un’improbabile ipotesi di A. Dupont Sommer, una dedica Sar(do Patri) Aug(usto); in realtà per quanto suggestiva, questa proposta andrà abbandonata e, se non si può pensare a Serapide per gli attributi e la simbologia presenti sulla stele, dovrà ipotizzarsi una dedica a Saturno, che intenderei Sa(tu)r(no) Aug(usto), piuttosto che supporre l’esistenza di una divinità africana sconosciuta.

Per ciò che riguarda invece la Sardegna, sorprendono le sopravvivenze della religiosità punica in epoca romana: così come per l’Africa, si può parlare di fenomeni di sincretismo e di sviluppo di particolarismi nella vita religiosa, non ostacolati dall’autorità romana: si è già detto di Sid Babi (figlio di Melqart e di Tanit ?), venerato ad Antas, ricordato in una ventina di iscrizioni puniche tra gli inizi del V e la fine del II secolo a.C. ed ora anche in una iscrizione latina; a Sulci è attestato il signum Sidonius, sicuramente connesso con questa divinità; si tratta con tutta probabilità di un culto sovrapposto ad una devozione più antica per un’analoga figura paleosarda, influenzata comunque da Baal-Hammon e proseguita in età imperiale con altre forme.

Dopo l’occupazione romana furono praticati in Sardegna anche i culti di Tanit, già presente sulle monete sardo-puniche, che aveva un tempio a Sulci; di Bashamen (b’l smm, signore dei cieli), ricordato a Karales nel III secolo a.C.; di Melqart, venerato a Tharros nel III-II secolo a.C.; di Eshmun Merre, identificato con Asclepio ed Esculapio nella famosa trilingue di San Nicolò Gerrei attorno al 150 a.C., al quale vanno forse riferite le statue del così detto Bes; di Ashtart che a Karales ebbe nel III secolo a.C. un altare di bronzo.

Anche il culto di Demetra e Kore, introdotto dai Cartaginesi, presenta nell’isola peculiari caratteristiche, per essere associato (a Terreseu), ancora nel III secolo d.C. a sacrifici cruenti. E’ stato già osservato che i busti fittili di Cerere, tanto diffusi in Sardegna, sono eredi dei thymiateria punici.

Il dio africano per eccellenza, Saturno, è forse attestato un’unica volta in Sardegna, nella dedica S(aturno) A(ugusto) s(acrum) conservata al Museo di Marsiglia e pubblicata nel CIL VIII erroneamente come proveniente da Cartagine; si tratta di un ex voto posto da C. Aburrius Felix Aburrianus, che meno probabilmente ricorda Serapide.

Lascerei da parte le numerose divinità d’origine egiziana rappresentate su amuleti e scarabei ancora fino al I secolo a.C., il culto di Giove Ammone attestato a Turris Libisonis e soprattutto di quello di Iside e di Serapide fin dal 35 d.C.

Una serie di rapporti tra Karales, Lilybaeum e Cartagine sono attestati ad esempio per il culto di Venus Erycina.

Anche da un punto di vista etnico, la popolazione che abitava la Sardegna aveva notevoli affinità con i libio-punici africani: per quanto avvelenate dalla polemica giudiziaria, le affermazioni di Cicerone, pronunciate in occasione della difesa di M. Emilio Scauro, il governatore del 55 a.C., accusato dai Sardi di concussione e di altri reati, contengono molte verità. L’appellativo Afer è ripetutamente usato da Cicerone come equivalente di Sardus; Cicerone rimprovera ai Sardi le loro origini africane e sostiene la tesi che la progenitrice della Sardegna è stata l’Africa. L’espressione Africa ipsa parens illa Sardiniae suggerisce secondo il Moscati la realtà di una «ampia penetrazione di genti africane ed il carattere coatto e punitivo della colonizzazione o, meglio, della deportazione».

Numerose altre fonti letterarie e le testimonianze archeologiche confermano già in epoca preistorica la successiva immissione di gruppi umani arrivati dall’Africa settentrionale, fino alle più recenti colonizzazioni puniche. Gli incroci di razze diverse che ne erano derivati, secondo Cicerone, avevano reso i Sardi ancor più selvaggi ed ostili; in seguito ai successivi travasi, la razza  si era «inacidita» come il vino, prendendo tutte quelle caratteristiche che le venivano rimproverate: discendenti dai Cartaginesi, mescolati con sangue africano, relegati nell’isola, i Sardi secondo Cicerone presentavano tutti i difetti dei Punici, erano dunque bugiardi e traditori, gran parte di essi non rispettavano la parola data, odiavano l’alleanza con i Romani, tanto che in Sardegna non c’erano alla metà del I secolo a.C. città  amiche del popolo romano o libere ma solo civitates stipendiariae.

L’ipotesi che fasce etniche insediate in Sardegna, originarie del Nord Africa, appartenessero a strati piuttosto bassi della popolazione è stata formulata da Sandro Bondì sulla base della totale mancanza, nei villaggi dell’interno, di carattere fondamentalmente rurale, di attestazioni scritte in lingua punica, che rimangono dunque appannaggio dei soli centri maggiori.

La deportazione in Sardegna di genti straniere (Africani in particolare) è variamente attestata anche per l’età successiva a Cicerone. In epoca vandalica, per decisione del re Unnerico, dopo il concilio di Cartagine del 484 d.C., furono deportati in Corsica e probabilmente in Sardegna numerosi vescovi africani di fede cattolica, che furono però subito richiamati in patria da Gundamondo. Ancor più significativo è l’esilio, deciso nel 507 dal re vandalo Trasamondo, di numerosi ecclesiastici africani ostili all’arianesimo, forse oltre duecento, tra i quali il monaco Fulgenzio, vescovo di Ruspe, e Feliciano, vescovo di Cartagine. Questi esuli africani, che ben presto si sparpagliarono nell’isola (solo un piccolo gruppo forse di 14 vescovi restò a Karales) e che si trattennero fino al 523, allorché furono richiamati da Ilderico, diedero un apporto decisivo per la rinascita culturale della Sardegna; abbiamo notizia di dispute teologiche e di tecniche liturgiche tipicamente africane; si svilupparono alcuni cenobi e fu avviato un significativo rilancio dell’edilizia religiosa, fortemente influenzata dai modelli africani.

Non fu forse il vescovo di Ippona (come pure si sosteneva, secondo un’interpretazione che oggi appare superata), esiliato dai Vandali in quest’occasione, colui che portò con sé a Karales le spoglie di S. Agostino, che invece sembra giungessero nell’isola alla vigilia dell’occupazione araba, alla fine del VII secolo. Le preziose reliquie rimasero in Sardegna fino al 721-725, allorché furono riscattate e traslate a Pavia, per iniziativa dal re longobardo Liutprando, preoccupato per gli attacchi che ormai annualmente gli Arabi muovevano contro la Sardegna.

A parte le deportazioni, la popolazione della Sardegna romana appare notevolmente composita. Per quanto riguarda gli immigrati d’origine africana, si ricorderà nella colonia di Uselis (oggi Usellus) un [I]ulius Lu[cia(?)]nus, Utice[nsi]s, forse originario di Utica in Africa (o di Othoca in Sardegna), morto a 15 anni d’età.

La presenza di popolazioni africane stanziate nell’isola è desumibile anche dai numerosi cippi di confine che attestano, alla fine dell’età repubblicana, una vasta operazione di centuriazione nella Sardegna centro-occidentale, nell’area che era stata interessata nel 215 a.C. dalla rivolta di Ampsicora: la limitatio che fu allora effettuata (con una prima fase forse già alla fine del II secolo a.C.) ha notevoli affinità con uguali operazioni che si svolsero in tempi diversi in Africa sul limes o anche all’interno della provincia, con lo scopo di accellerare il processo di sedentarizzazione delle tribù nomadi e di favorire lo sviluppo agricolo; i nomi degli Uddadhaddar Numisiarum, dei [M]uthon(enses) Numisiarum, dei Giddilitani hanno puntuali confronti con l’Africa punica. Gli Aichilensioi, ricordati in prossimità di Cornus, sono stati avvicinati alla città di Acholla in Byzacena. Più dubbio è un collegamento dei Rubr(enses) sardi, ricordati a Barisardo al confine con gli Altic(ienses) ed identificati con i Roubrensioi di Tolomeo, che difficilmente possono esser messi in rapporto con i Rubrenses, martirizzati in Africa il 17 gennaio di un anno incerto, menzionati dal Martirologio Geronimiano.

Una cohor(s) Maur(orum) et [A]frorum, dunque costituita inizialmente con contingenti arruolati in Mauretania ed in Africa Proconsolare secondo l’interpretazione più probabile, è attestata a Cagliari nella carriera di Sex(tus) Iul[ius Sex(ti) f(ilius) Qui]r(ina tribu) [Fe]lix,  IIIIv[ir ae]d(ilicia) pote[s(tate)], che è ricordato come [pr]aef(ectus) cohor(tis) Maur(orum) et [A]frorum ed anche come IIIIvir iure [dicun]d(o) iterum. Si trattava evidentemente di un alto magistrato del municipio di Karales che aveva ricoperto tra il quattorvirato aedilicia potestate e quello iure dicundo (quest’ultimo per due volte) la prefettura della coorte: si discute sulla provincia nella quale il nostro personaggio (appartenente all’ordine equestre) svolse il suo servizio militare; sembra accettabile pensare alla Sardegna, come da tempo suggerito da P. Meloni, ora anche alla luce dell’integrazione di alcune lacune proposta da F. Porrà; proprio a Karales del resto sarebbero stati ricoperti anche i due sacerdozi cittadini, l’augurato ed il pontificato.

Tra gli Africani che visitarono l’isola, si citeranno alcuni funzionari d’età imperiale, che giungevano in Sardegna accompagnati da un seguito più o meno numeroso; il caso più significativo è quello di Settimio Severo, il futuro imperatore, che attorno al 173 ricoprì l’incarico di questore propretore nell’isola, dove giunse da Leptis Magna, sua città natale; Severo si era recato in Tripolitania, per sistemare alcune faccende familiari, dopo la morte del padre, prima di ricoprire l’incarico di questore in Betica. Il viaggio verso la penisola iberica gli fu impedito da una rivolta di Mauri, arrivati dall’Africa, che aveva suggerito all’imperatore Marco Aurelio il temporaneo passaggio della provincia spagnola dall’amministrazione senatoria a quella imperiale.

Non furono pochi i funzionari giunti in Sardegna per un soggiorno provvisorio, che avevano avuto modo di conoscere in precedenza le province africane.

E’ significativa l’attestazione  ad Ostia dei navicul(arii) et negotiantes Karalitani, assieme ai navic(ularii) Turritani e ad una serie di navicularii di città africane: presso il teatro, nel così detto Piazzale delle Corporazioni, questi armatori avevano i propri uffici di rappresentanza, in un’epoca che è stata fissata tra il 190 ed il 200, comunque alla fine del II secolo, forse durante il regno di Settimio Severo.

Non si dimentichi che Commodo aveva riorganizzato i navicularii, costituendo una vera e propria flotta (classis Africana Commodiana), con sede a Cartagine, finalizzata a garantire l’approvvigionamento granario della capitale.

Qualche anno prima, nel 173 d.C., dunque durante il principato di Marco Aurelio, i domini navium Afrarum universarum (ai quali si erano aggiunti in un secondo tempo i rappresentanti dei domini sardi: item Sardorum), avevano dedicato ad Ostia una statua in onore di M. Iulius M. f. Pal. Faustus, duoviro, patronus cor[p(oris)] curatorum navium marinar[um]. Dunque gli armatori africani si erano associati, almeno temporaneamente, tra loro e con colleghi sardi; che la merce che veniva trasportata fosse soprattutto frumento è assicurato dal fatto che il personaggio in onore del quale fu dedicata la statua è indicato esplicitamente come mercator frumentarius.

Per l’epoca di Diocleziano, un nuovo frammento dell’edictum de pretiis del 301 ha consentito di accertare che esistevano almeno quattro rotte le cui tariffe erano sottoposte al calmiere, con partenza dalla Sardegna, terminanti rispettivamente forse a Roma,  a Genua, in Gallia ed in Africa.

Le testimonianze fin qui presentate costituiscono solo un campione, del tutto parziale a causa della frammentarietà delle notizie pervenuteci, dell’apporto etnico africano nella Sardegna romana; eppure l’impressione che se ne ricava è quella di una continuità di immigrazioni in epoche successive tale da giustificare il giudizio che, ormai alla metà del XII secolo, fu espresso  dall’arabo Edrisi di Ceuta: «i Sardi sono di schiatta Rum ‘afariqah berberizzanti, rifuggenti dal consorzio di ogni altra nazione di Rum»; il “fondo” etnico della razza sarda formatosi da età preistorica ma confermato in età romana, era dunque berbero-libico-punico.

Ugualmente significativa è la presenza in Africa  di numerosi  immigrati provenienti dalla Sardegna.  Il nucleo  più cospicuo fu certamente costituito dai militari arruolati in reparti ausiliari o nella legio III Augusta, accasermati nella Mauretania Cesariense oppure in Numidia. Si trattava di una destinazione tradizionale, dal momento che la presenza di mercenari originari dalla Sardegna è ampiamente documentata negli eserciti punici fin dal V secolo a.C.

Sarebbero state le caratteristiche bellicose dei Sardi dell’interno a consigliare la costituzione della cohors II Sardorum e della cohors I Nurritanorum, reparti arruolati in Sardegna e quindi dislocato almeno all’inizio del II secolo in Mauretania Cesariense o in Numidia. Come località di provenienza originaria per gli ausiliari di questo reparto c’è da pensare alla Barbaria ed in particolare alla regione confinante con il Marghine-Goceano, immediatamente al di là del Tirso. Come è noto, un cippo di confine dei Nurr(itani) è stato rinvenuto in località Porgiolu, in agro di Orotelli (Nuoro); al di qua del fiume sembra siano da localizzare gli Ilienses. Connessi all’attività di queste coorti e alla presenza di sardi nella legio III Augusta tra Ammaedara-Haidra, Lambaesis e Theveste potrebbero essere alcuni dei Sardi ricordati in Africa in età imperiale. Meno significativi sono altri casi (a Cuicul e ad Hadrumetum), nei quali il cognome Sardus non sembra attestare espressamente un collegamento con l’isola.

Sono stati da me presentati in passato alcuni dei parametri che possono essere utilizzati per delineare, lungo un ampio arco cronologico, i rapporti tra la Sardegna e le province romane del Maghreb: queste convergenze, fondate su una consuetudine che risale almeno ad età fenicio-punica, si alimentarono con ripetuti significativi scambi di popolazione ed in particolare con la presenza di deportati e di immigrati africani in Sardegna, di militari e di civili sardi nel Nord-Africa. La romanizzazione si sviluppò perciò in modo analogo, specie per le affinità strutturali dell’economia e più precisamente dell’agricoltura di queste province, collegate da un intenso traffico commerciale e spesso associate anche nel destino politico. La sopravvivenza di elementi culturali punici ed indigeni si manifestò in Sardegna come in Africa nelle istituzioni cittadine, nella vita religiosa, nella lingua e nell’onomastica; la documentazione epigrafica conferma ulteriori successive convergenze.

Con l’occupazione bizantina avvenuta nel 533 sotto il comando del duca Cirillo, la Sardegna divenne una delle province africane di Giustiniano, organizzate in prefettura e successivamente in esarcato; siamo ormai cronologicamente fuori dal periodo che è  oggetto di quest’intervento: eppure non potrà omettersi che la conquista araba di Cartagine avvenuta nel 698 (vanamente contrastata da un esercito bizantino, forse integrato da elementi sardi), provocò il distacco politico della Sardegna dall’Africa, ma non interruppe gli scambi culturali. A parte i numerosi profughi africani che si rifugiarono nell’isola prima dell’arrivo degli Arabi (nell’occasione furono trasferite a Karales da Ippona le reliquie di Sant’Agostino), le spedizioni inviate da Tunisi fin dal 705 tentarono senza successo di togliere la Sardegna ai Bizantini; con i prigionieri che allora furono catturati nell’isola, nel 733 fu fondato un centro Sardaniyan nel Maghreb.

Gli elementi in nostro possesso sono eterogenei e di diversa qualità: eppure, per quanto alcune categorie utilizzate possano essere generiche ed interpretabili in maniera diversa, l’abbondanza stessa delle testimonianze, pur con significative oscillazioni nel tempo, è tale da render certi che non può più essere sottovalutata la componente «africana» della storia della Sardegna antica, nel quadro di una più ampia vocazione «mediterranea», che costituì la vera specificità isolana.