La classicità nell’opera di Antonino Mura Ena, tra oralità e scrittura.

La classicità nell’opera di Antonino Mura Ena, tra oralità e scrittura.
Bono, 24 maggio 2014

Tornare a Bono significa per me intanto ricordare, sentire i profumi del Goceano nella discesa da Foresta, pensare alle colazioni di oltre cinquanta anni fa, quando visitavo con mio fratello Luigi la casa di mio zio, Martino Scampuddu, cancelliere nella pretura di Bono. Soprattutto i sapori, quel latte denso e saporito  e quel pane speciale, con due bellissimi cani sullo sfondo.

Viaggiando con Nicola Tanda e conversando, nei giorni scorsi, con il carissimo Dino Manca, abbiamo riflettuto su un aspetto della produzione di Antonino Mura Ena, che è stato ampiamente toccato dal figlio Gaspare Mura nell’intervento odierno: il peso della cultura classica nella sua formazione intellettuale e umana, iniziata a Lula nella casa del parroco presbiteru Giovanni Antonio Mura (autore de La tanca fiorita e suo maestro di latino), continuata prima al Ginnasio a Nuoro e poi al Liceo a Cagliari, conclusa con l’insegnamento universitario a Roma. Proprio a Cagliari nel lontanissimo 1926 Mura Ena tenne la sua prima conferenza su Le confessioni di Sant’Agostino, ma sullo sfondo ci sono i lirici greci, Saffo, Giuliano l’Apostata.

Un convegno internazionale, dunque, per ricordare la personalità e l’opera di Mura Ena – l’intellettuale e il poeta, il docente universitario e il pedagogista, l’editore del De Magistro di Agostino e il traduttore in lingua sarda dell’Apologia di Socrate, cresciuto negli studi filosofici e nutrito di cultura umanistica – non poteva non tenersi qui in sa Costera, nel Goceano, a Bono, nel suo paese natìo. Parafrasando il titolo di una sua importante silloge, possiamo dunque dire che questa è, per tutti noi, una sorta di Recuida, un ritorno, un viaggio conoscitivo di riappropriazione condivisa della sua comunità d’origine.

È davvero interessante constatare come, a partire da Mura Ena, per i poeti e gli scrittori sardi la terra-madre, appassionato oggetto di scrittura, non sia stata semplicemente un luogo, ma sia stata il luogo, e che – per dirla con Nereide Rudas – anche l’altrove sia stato sempre il qui adesso immerso nello spazio-tempo dell’isola.

 

Parafrasando Emilio Lussu, possiamo dire che dovunque ci troviamo «noi portiamo, sotto i nostri piedi, la terra sarda». Recuida, appunto:

Sero, tottu recuis

Cantu s’aurora hat ispartu,

recuis s’anzone

recuis sa craba a s’ama

recuis su fizu a sa mama.

Il luogo d’origine diviene così l’unico luogo possibile e l’insieme delle opere letterarie ci restituisce, dunque, un’immagine dell’isola che è la testimonianza del modo in cui una comunità, insediata in un territorio, attraverso la sua più alta espressione intellettuale, «percepisce e intende la terra in cui è nato e alla quale è unito, da un fortissimo legame di nostalgia e amore».

Ma dietro le pagine del capolavoro di Mura Ena, c’è la profondità di una storia, quando la parola poetante e narrante si fa memoria (Memorie del tempo di Lula), ossia recupero di un mondo originario, ancestrale, primitivo. Quel mondo che nell’atto stesso della creazione artistica, paradossalmente ritorna ad essere centro e non più periferia. I pensieri e i ricordi si rapportano ai luoghi sentiti, percepiti sensorialmente ed emotivamente, luoghi vissuti e amati. Lo spazio fisico e naturale si traduce in luogo dell’anima, condizione dell’essere e dell’esistere, talvolta sentimento inesprimibile, ai limiti dell’incomunicabilità.

Eppure, il fatto che sia stato Nicola Tanda quattro anni dopo la morte di Mura Ena a pubblicare i due capolavori, la dice lunga sulla visione che il poeta aveva della scrittura  sull’importanza preminente, per lui, della parola.

Lo afferma esplicitamente Mura Ena  nella poesia che oggi è stata più volte citata, quando sostiene di poter provare:

chi ‘onzi umana peraula

nada a omine biu, e ascultada

in risu o in piantu, tando solu

incomintzat a vivere.

Ed est de pensamentu eternu bolu.

Nel Fedro di Platone, nemico della scrittura e difensore del dialogo e della «parola viva», Socrate racconta del dio egizio delle arti e dei mestieri,  Theuth, che presenta al sovrano dell’Egitto, la sua ultima invenzione, la scrittura, capace, a suo dire, di fissare in eterno le conoscenze umane: <<Queste, o re, faran più sapienti gli Egizii e più memoriosi; però ch’elle sono medicina di memoria e sapienza>>.   Il re Thamus (proiezione autorale), tuttavia, rifiuta il dono perché considera la scrittura come un veleno (phármakon, «rimedio, medicina», ma anche «veleno»), formula vana e superba, nemica della vera conoscenza e capace – in quanto copia sbiadita della voce che «ripete senza sapere» – di allontanare l’uomo dalla verità, dal suo senso originario, dalla presenza dell’anima di colui che parla, unica garanzia di sincerità e autenticità: la scrittura è una medicina fatta  <<non per accrescere la memoria, sibbene per rievocare le cose alla memoria>>.

Come non pensare al De Magistro di Agostino di Ippona (il santo sepolto a Karales fino al 721 d.C.), nella recente rivisitazione fatta in modi inusuale nel romanzo Antiles da Medde? Una storia che ci riporta al Tirso, al luogo che è insieme punto di contatto tra geografie diverse, porta che non si chiude mai tra realtà e fantasia, tra il dolore della violenza subita e l’amore per la propria gente, tra la fede e la ragione, tra le parole e le cose. Antiles sono gli stipiti in basalto, gli architravi, le porte che occorre varcare e che immettono ad un territorio, ma anche ad una cultura, ad un ambiente sociale, ad un momento della nostra vita, che conserva intatto il sapore della vita vera, il senso delle cose che ci sono care, il profumo della casa che continuiamo ad amare anche quando ne siamo stati sradicati e viviamo in una grande città.

Rileggendo il De Magistro nell’interpretazione di Mura Ena, Medde affronta  il tema, modernissimo, del rapporto tra segni e significati, verso una nuova frontiera tracciata oggi dalla filosofia dei linguaggi. In realtà la questione è una sola: Agostino intende definire come e da chi l’uomo possa apprendere la verità che dà la felicità: dagli altri uomini attraverso i loro discorsi, le parole? Dalla esperienza sensibile? La risposta a queste ipotesi è negativa. Il maestro vero è soltanto quello interiore, la verità non può essere appresa dal mondo esterno, fatto di parole e di segni che rimandano sempre ad altre parole e ad altri segni, ma deve essere appresa dal mondo interiore. E questo richiede un approccio diverso rispetto all’universo dei segni che utilizziamo quando entriamo in relazione con altri uomini e con le cose.

Per vedere davvero non bastano i suoni, i segni, neppure i fatti: noi non possiamo parlare delle cose, ma delle immagini impresse e affidate alla memoria, perché noi portiamo quelle immagini nella profondità della nostra memoria, come documenti di cose percepite precedentemente. Ma sono documenti davvero solo per ciascuno di noi. Perché chi ascolta, sostiene Agostino, se le ha percepite direttamente, non impara dalle nostre parole ma riconosce come proprie, perché anch’egli ha costruito dentro di se delle immagini. Se invece non ha percepito quelle cose, chi non capirebbe che anziché imparare crede a delle parole? Il passo del De Magistro è difficile e duro e il rapporto tra fatti e cose ritorna irrisolto in tanti filosofi contemporanei.

Dunque si può partire dalle mie colazioni di 50 anni fa qui a Bono oppure, con Medde, dalla primavera insanguinata del 1922, dall’immagine dei mozziconi delle orecchie delle pecore rubate e mutilate, recisi e abbandonati lungo Sa Bia de Cotzula, a Sas Benas verso Domus. Segni della proprietà del bestiame recisi con la mutilazione delle pecore. Segni come quelli della lontana lezione di Agostino che proiettano nella memoria quasi in un film la corsa disperata della nonna incinta di 7 mesi verso la chiesa della Madonna delle Grazie ad Orracu, per ritrovare alla fine sconvolta il corpo insanguinato del compagno ucciso su questo caminu de sa fura che conduceva ad Otzana e ai monti della Barbagia dove transitava il bestiame rubato nella valle. Un’ingiustizia, l’uccisione di un testimone scomodo, che i pastori specialisti de s’arrastu, alla ricerca delle orme degli abigeatari, non avrebbero saputo vendicare. Un altro sentiero, quello che da Pranzu ‘e lampadas portava a Sa Serra ancora a Norbello, riporta alla mente il tragico ricordo della morte, nel 1953, 31 anni dopo, dell’altro nonno, colpito da una roncolata inferta da un  pastore: Mario Medde scrive commosso che per anni le pietre insanguinate sul punto dove cadde il nonno restarono così disposte e macchiate, mute testimoni di un delitto orrendo, di una violenza gratuita, di un abuso non più comprensibile.

Mura Ena, da pedagogista e da studioso della comunicazione, sa che non esiste comunicazione senza contesto, così come non esiste metodo educativo al di fuori delle coordinate spazio-temporali e quindi anche ambientali. Ancor di più in una regione peculiare come la Sardegna, in un luogo caratterizzato come il Mont’Albo di Lula.  La raccolta di racconti Memorie del tempo di Lula risponde in qualche modo al libro di Albino Bernardini che aveva avuto come argomento proprio la scuola: Le bacchette di Lula (1969).  Per Bernardini una scuola avulsa dal contesto in cui opera, viene meno a uno dei suoi compiti prioritari. L’apprendimento di ogni ragazzo, avvenuto per esperienza direttamente vissuta e sperimentato emozionalmente, si realizza dentro un ben preciso contesto ambientale e si regge, come ogni percorso educativo, sull’imparare a conoscere, a fare ma soprattutto ad essere; ossia sulla capacità di acquisire gli strumenti della comprensione di tale contesto così da essere capaci di agire creativamente nell’ambiente circostante e poter in tal modo costruire una propria identità culturale e umana.

Ma Antonino Mura Ena comprende altresì che, qualsiasi riflessione si faccia sul ruolo e l’importanza dell’emittenza nell’articolato sistema della comunicazione letteraria, non si può prescindere dalle modalità di trasmissione del testo prodotto. Ancor di più, ha scritto Dino Manca, un tale approccio speculativo acquista un senso quando si indaghino quelle civiltà letterarie, come la sarda, a prevalente trasmissione orale o ad «oralità primaria». Lui che aveva tradotto i classici greci e latini sapeva che il mondo dell’antichità era stato il mondo dell’oralità, dell’orecchio e della marcata organizzazione uditiva dell’esperienza.

Il canto, ad esempio – in quanto ritmo e vocalità, ma anche linguaggio sottratto all’univocità e referenzialità della comunicazione quotidiana – si era connotato fin dalle origini come arte del far poesia (e viceversa). Il verso musicato e cantato, composto secondo forme solenni e sacrali, aveva accompagnato la nascita delle letterature classiche e veicolato valori e riti collettivi.

Dunque i poemi omerici, le espressioni ripetute e le tecniche derivate dall’oralità (le «alate parole»). I primi documenti della letteratura latina, la cui connessione con l’oralità è evidente fin dal nome, erano stati i carmina cantati, come il carmen saliare, il carmen dei fratres arvales, il carmen lustrale) ed erano costituiti da invocazioni, canti militari, formule magiche (formule di scongiuro e malocchio), profezie e ammonizioni (sortes, oracula, vaticinia) epitaffi, ninne nanne, filastrocche, cantilene funebri (praeficae). L’esigenza, tipica delle società primitive, di potenziare i contenuti attraverso una forma riconoscibile e avvincente, facile da memorizzare e dotata di forte potere incantatorio aveva dunque trovato nel canto una sua dimensione appropriata e condivisa.

Nella cultura sarda il canto (sa cantone) apparteneva al tempo della festa e al tempo del lavoro, agli auguri della nascita e al lamento della morte (ninnidos e attitos), ai pianti e ai canti rituali, religiosi, amebei, come nelle migliori tradizioni mediterranee. Attraverso il carmen la realtà confusa dei fenomeni veniva sottratta alla sua provvisorietà, trovava un ordine e una compiutezza che consentiva all’uomo di governarla con più fiducia e con maggiore chiarezza.

Peraltro, non è irrilevante ricordare la fondamentale importanza che ebbe la lingua parlata, cantata e recitata nel fornire modelli a quella scritta. E questo vale massimamente per l’opera di Mura Ena. Se i luoghi della scrittura si limitarono alle quattro mura della propria dimora (o delle cancellerie, dei palazzi, dei monasteri, delle biblioteche, delle università) quelli dell’oralità furono i più svariati: case, strade, piazze, giardini, chiese, teatri, spazi ludici e ricreativi, luoghi di festa, laica e religiosa, urbana e campestre, cumbissias, tzilleris, iscopiles.

Inoltre, oralità e scrittura, cultura dell’orecchio e della vista corrisposero a forme molto diverse sia di comunicazione (nei modi e nei tempi della produzione, circolazione e ricezione del testo) sia, in ragione di ciò, di socializzazione (feste, momenti aggregativi, riti sociali, partecipazione collettiva nel primo caso, isolamento, solitudine e rapporto privato con il testo nel secondo).

Infatti, da sempre la cultura scritta è più individualista, ragionata, logica, analitica, astratta, silenziosa, ponderata, fredda, innovativa.

La cultura orale, ci ricorda Ong, si fonda invece principalmente sul potere della memoria (l’uomo di cultura orale sa solo ciò che ricorda e per ricordare ha bisogno di formule mnemoniche, mentre la scrittura immagazzina la conoscenza al di fuori della mente), sul sapere formulaico (formule, frasi fatte, proverbi, massime, espressioni verbali essenziali o quintessenziali), su moduli a spiccato contenuto ritmico (anch’essi facilmente memorizzabili come ripetizioni, antitesi, allitterazioni, assonanze), sui pensieri e i processi comunicativi caratterizzati da uno stile paratattico («il pensiero è intrecciato ai sistemi mnemonici, che determinano anche la sintassi»), su una comunicazione che predilige la ridondanza e la ripetizione (la ripetizione serve a «mantenere saldamente sul tracciato sia l’oratore che l’ascoltatore»), su toni e dinamiche agonistiche (in quanto cultura non astratta, come quella scritta, ma  concreta, partecipativa e situazionale quella orale si colloca in un contesto dialettico di confronto e di lotta perenne), sulla tradizione e sulla conservazione, sulla partecipazione empatica ed emotiva, sull’autoregolamentazione e conservazione costante di alcune caratteristiche interne («cultura omeostatica»).  La parola orale non può esistere in mancanza della voce, che abita nel silenzio del corpo come già il corpo nel grembo materno, e «la voce va oltre la parola».

Ma vorrei chiudere tornando al mondo classico, partendo da un’opera che sembrerebbe lontanissima, le Memorie del tempo di Lula, con la quale Antonino Mura Ena si colloca proprio al centro del sistema culturale sardo, sullo sfondo del Monte Albo, costruendo un’atmosfera senza tempo. Il capolavoro, Il cacciatore delle aquile, racconta di Emanuele, il ragazzo malato che voleva diventare allevatore di aquile, capace di inventare storie intorno alla tomba del suo aquilotto: perché le aquile vengono a trovare le tombe dei loro figli. Hanno la vista lunga e l’odorato acuto. Volano in alto e avvertono se i loro figli sono sepolti. Allora vanno a trovarli. Anche presso la tomba del suo aquilotto verrà sicuramente qualche aquila. Quando i svolgerà il funerale di Emanuele, Cosimo si occuperà dell’aquila sopravvissuta.

È la storia, rovesciata, raccontata da Plinio il vecchio, che ricorda come nella città di Sesto (nel Chersoneso Tracio) fosse celebre la gloria di un’aquila: allevata da una ragazza dolce e delicata, l’aquila le dimostrava gratitudine portandole prima uccelli, poi cacciagione; alla fine, dopo che la fanciulla morì e fu acceso il rogo, l’aquila vi si gettò sopra e si lasciò bruciare insieme a lei. Per questo episodio gli abitanti eressero in quel luogo un monumento celebrativo, un vero e proprio heroon, chiamato di Giove e della Vergine, perché l’aquila è l’uccello sacro a quel dio che aveva amato la giovane.

Ne parleremo nei prossimi giorni in occasione della laurea ad honorem in Sistemi forestali e ambientali  a Domenico Ruiu, partendo dall’ultimo libro che  fa riemergere attraverso le immagini tanti ambienti naturali che amiamo, tante storie dimenticate, tanti rapporti tra cielo e terra, lasciandoci l’impressione forte di seguire il volo di un dio, di assumere per un istante magico lo sguardo di un genius loci collocato fuori dal tempo, che ancora ci parla.




Laurea Magistrale ad Honorem in Sistemi Forestali e Ambientali a Domenico Francesco Ruiu

Laurea Magistrale ad Honorem in
Sistemi Forestali e Ambientali a Domenico Francesco Ruiu
Sassari, aula magna, 28 maggio 2014

Intervento del Rettore Attilio Mastino

Autorità, cari amici,

siamo qui per conferire al naturalista Domenico Francesco Ruiu la laurea magistrale ad honorem in Sistemi forestali e ambientali, rispondendo ad un’idea del prof. Pietro Luciano, già preside della Facoltà di Agraria e presidente del corso di laurea nuorese, e del prof. Giuseppe Pulina, direttore del Dipartimento di Agraria. Un’idea che abbiamo condiviso e apprezzato assieme ai colleghi del Dipartimento di Medicina Veterinaria e sulla quale abbiamo avuto il consenso del Senato Accademico in data 20 settembre 2013 e del Ministero in data 30 aprile 2014.

Si incontrano nella giornata di oggi tante storie, che coinvolgono i nostri studenti nuoresi, il Consorzio per lo sviluppo degli studi universitari, il Comune di Nuoro, la Provincia, la Regione Sardegna. Ma oggi sarà l’occasione per fare anche un bilancio di un impegno avviato dall’Università venti anni fa per lo sviluppo delle zone interne, per la valorizzazione dell’ambiente naturale, per una politica di solidarietà e di inclusione.

Questo di oggi è un riconoscimento inusuale, per un fotografo di altissima qualità, per un appassionato ambientalista, per un pubblicista molto noto, per un esperto studioso della flora e della fauna della Sardegna. È un modo per dire che l’Università di Sassari si apre al territorio, apprezza l’impegno di una vita, riconosce un’eccellenza, una passione, una visione del mondo che non sia convenzionale.  Questo è un momento meraviglioso per la Sardegna, che ci consente di premiare un lavoro svolto con curiosità e interessi veri.

Con l’aiuto dei miei carissimi Dino Manca, Paola Ruggeri, Dolores Turchi, Barbara Wilkens, ho presentato il 9 marzo di un anno fa a Nuoro l’ultimo splendido volume di Domenico Ruiu Il fotografo dei rapaci edito in quattro lingue da Publinova,  ricordando come i rapaci occupino da sempre uno spazio significativo nella letteratura della Sardegna, come rappresentino un particolare ambiente naturale, gli spazi solitari del Gennargentu, ma anche una cultura e una tradizione, frutto di osservazioni e di riflessioni che iniziano nel mondo antico con lo Pseudo Aristotele.

L’autore del De mirabilibus auscultationibus racconta il mito relativo alle favolose colonizzazioni dell’isola dalle vene d’argento, la Arguròfleps nésos, ricorda che questa terra fu prospera e dispensatrice di ogni prodotto, eudaìmon e pàmphoros: si narra che il dio Aristeo il più esperto tra gli uomini nell’arte di coltivare i campi, produrre il miele, l’olio, il vino, il latte, fosse il signore di Ichnussa, occupata prima di lui solo da molti e grandi uccelli, upo megalon ornéon émprosthen kai pollòn katechoménon.

Come non ricordare che un’isola circumsarda, l’isola di San Pietro, era nell’antichità conosciuta da Plinio e da Tolomeo come Acciptrum insula – Hierakon nesos, l’isola degli sparvieri o dei falchi? Qui ancora nel XVIII secolo gli abitanti dell’isola usavano prendere i falconi dai nidi per allevarli e venderli sulle coste dell’Africa settentrionale.

Il tema del paesaggio e dei molti e grandi uccelli – megalon ornéon kai pollòn- che abitano i monti della Sardegna attraversa la ricca produzione testuale e letteraria sarda, dalla Carta de Logu di Eleonora di Arborea a Francesco Cetti per arrivare fino a Grazia Deledda, a Sebastiano Satta, ad Antonino Mura Ena, ad Antioco Casula Montanaru, fino all’ultimo libro di Antonello Monni, Il bambino dalla milza di legno, con la figura di Gargagiu, rozzo pastore barbaricino ma anche osservatore acuto e maestro impareggiabile, capace di conoscere le abitudini della femmina d’astore a Su Pinu, delle aquile di Gollei, degli avvoltoi di Sos Cuzos in S’Orgolesu o nelle codule di Dorgali, di Baunei e di Urzulei. Capace di leggere i pericoli, i fruscii di una nidiata, perfino i silenzi, in grado di raccontare i primi giorni di un grifone, i primi voli di Gurturju Ossariu.

Sabato scorso a Bono ho ricordato come nella leggenda Il cacciatore delle aquile, una delle Memorie del tempo di Lula, Antonino Mura Ena si collochi proprio al centro del sistema culturale sardo, sullo sfondo del Monte Albo, costruendo un’atmosfera senza tempo. Emanuele è il ragazzo malato che voleva diventare allevatore di aquile, capace di inventare storie intorno alla tomba del suo aquilotto: perché le aquile vengono a trovare le tombe dei loro figli. Hanno la vista lunga e l’odorato acuto. Volano in alto e avvertono se i loro figli sono sepolti. Allora vanno a trovarli. Anche presso la tomba del suo aquilotto verrà sicuramente qualche aquila. Quando si svolgerà il funerale di Emanuele, Cosimo si occuperà dell’aquila sopravvissuta.

Dietro gli straordinari volumi di Domenico Ruiu c’è la profondità di una storia, un retroterra di osservazioni compiute nel tempo da pastori, cacciatori, gente comune, conoscenze, informazioni sul patrimonio bio-ornitologico della Sardegna, ma anche un lungo cammino personale iniziato più di cinquanta anni fa a Nuoro quando il bambino si innamorò commosso di questo grifone prigioniero e furente che veniva condotto per le strade della città come un trofeo o un drago mostruoso che emetteva suoni e lamenti e rimandava a un mondo fatto di mistero e di vita vera. Da allora tanta strada, tante difficoltà, tanti sacrifici personali, anche tante incomprensioni e ostilità.

Ho visto Domenico all’opera a Bosa, lungo le falesie del Marragiu o verso i costoni di Badde ‘e Orca a Montresta, assieme al compianto Helmar Schenk, l’ornitologo scomparso due anni fa, a studiare le abitudini dei grifoni, a farci conoscere un mondo incantato al quale ci si accostava per la prima volta con incredulità e sorpresa, finalmente con rispetto. L’ho visto in Barbagia a discutere sul Parco Nazionale del Gennargentu voluto dalla Provincia di Nuoro e a seguire negli anni 80 la difficile redazione e poi la stentata applicazione dal 1989 della legge 31 per l’istituzione e la gestione dei parchi, delle riserve e dei monumenti naturali, nonché delle aree di particolare rilevanza naturalistica ed ambientale. Una battaglia che ha incontrato resistenze e incomprensioni, che oggi vediamo vinta anche in quei luoghi che più hanno resistito e che non volevano capire.

In questi anni Domenico ha continuato con passione a coltivare le sue curiosità, le sue ricerche, la sua attività, con pazienza, con attese e con successi veri, creando reti di appassionati, legandosi alle associazioni naturalistiche da Legambiente alla Lipu, dal WWF al Club alpino, ma anche collaborando con gli Enti locali, in qualche caso inizialmente ostili, alimentando la sua straordinaria conoscenza del territorio e delle abitudini dei rapaci. Oggi credo sia diventato uno tra i più grandi fotografi naturalisti europei, proprio per questa sua abilità, ha recentemente osservato Piero Mannironi, di entrare in questo mondo parallelo abitato dai rapaci senza essere un intruso, senza far percepire la propria presenza, imparando a scivolare silenzioso come un’ombra fra picchi rocciosi, gole profonde, boschi ombrosi e glabre falesie. Nell’intervista curata da Celestino Tabasso nei giorni scorsi per L’Unione Sarda si parla per questa laurea di una tesi scritta con la luce, con pazienza, fatica, passione, con la voglia di capire senza fretta, superando le difficoltà dell’attesa.

Le osservazioni di Domenico Ruiu finiscono per essere un punto di arrivo, espressione delle esperienze di generazioni e generazioni di uomini, che hanno osservato la natura quasi con sentimento religioso, l’hanno rappresentata, descritta e raccontata, l’hanno spesso tradotta e trasfigurata in finzione letteraria. La descrizione e la percezione del paesaggio, infatti, il rapporto con la natura e con la madre terra, una certa idea della vita e della storia, il sentimento dell’identità e dell’appartenenza, la concezione del tempo e del mito, il sentimento religioso, il tema della nostalgia e della memoria, hanno per secoli rappresentato – come ha scritto Dino Manca – il grande contenitore tematico, etico ed estetico, di molti scrittori e poeti in lingua sarda e italiana. Il vero protagonista delle loro opere è stato, dunque, il paesaggio fisico, antropologico e morale, da intendersi altresì come spazio di memorie individuali e collettive, come ambiente geografico intensamente amato e sentito.

Un topos questo accettato e condiviso da una buona parte degli autori sardi, cioè di un microcosmo proprio perché malfatato e dolente, orgogliosamente difeso e, da taluni, significativamente proiettato in una dimensione edenica se non trasfigurato in un luogo di evasione mitica, dove la natura è comunque percepita come spazio idillico, incontaminato, carico di emozioni e suggestioni incantatorie.

Così si legge, ad esempio, in Mararcanda di Francesco Zedda, un luogo dove le aquile si levano in volo sulla cima del monte Corrasi, verso Oliena, dove l’occhio può spaziare fino al Cedrino che con le sue acque luminose scorre salta canta scendendo verso il mare. <<Ora sento che la terra è veramente mia e tendo la mano verso Maracanda come per toccarla. La cima del Corrasi è piena di luce come la mia fronte mentre si levano in volo le aquile dei miei pensieri>>.

Sullo sfondo di paesaggi edenici, dunque, l’isola è restituita e intesa, nelle pagine della migliore letteratura sarda, come luogo mitico e come archetipo di tutti i luoghi, terra senza tempo e sentimento di un tempo irrimediabilmente perduto, spazio e universo entro cui si consuma l’eterno dramma del vivere.

Per uno studioso di storia romana oggi vengono in mente moltissimi episodi, ricchi di elementi di derivazione mitografica, che esprimono il rapporto di profondo rispetto che intercorreva tra il popolo di Roma e alcuni uccelli rapaci come l’avvoltoio, l’inquietante vultur e la possente aquila. Il rispetto era determinato non soltanto dal timore per l’aspetto e le dimensioni di questi uccelli quanto piuttosto dalla convinzione che essi si muovevano all’interno della sfera del sacro, quasi si trattasse di una sorta di tramiti tra il numen delle divinità e gli esseri umani.  Così nella disputa per la conquista del potere tra i due gemelli Romolo e Remo sul Palatino, quando il vultur rappresenta da un lato la volontà divina dall’alto preannuncia un evento negativo, la morte di Remo. Così sulla vetta del Campidoglio, sul misterioso auguraculum, luogo per conoscere il volere degli dei, presso il tabularium, dal quale si scorgono i colli Albani e la città di Alba Longa. L’aquila simbolo di regalità e potere annuncia a Tanaquilla l’ascesa al trono di Tarquinio Prisco. Sono le aquile di Giove che proteggono la marcia delle legioni romane e che diventano identificative e protettrici dei corpi militari dopo Giugurta.  E poi la figura mitologica dell’Eneide di Virgilio, le orrifiche arpie delle isole Strofadi, uccelli rapaci dal bel volto di donna capaci di depredare le mense riccamente imbandite e di insozzarle con il loro tremendo fetore, arrivando con terribili stridi. Sarebbe bello addentrarsi nell’affascinate e dettagliata descrizione scientifica e naturalistica del mondo dei rapaci tramandataci da Plinio il Vecchio nel X libro della Naturalis historia. Qui un posto speciale è occupato dall’aquila, con una dettagliata classificazione di sei distinti tipi, il melanaetos o leporaria, di colore scuro, il pygargus dalla coda bianca; il morphnos, l’aquila dei bacini lacustri, nerissima, con i denti e senza lingua, il percnocterus o oripelagus simile ad un vultur e con le stesse caratteristiche predatorie, capace solo di portare in volo prede già morte; il gnesion di colore rossastro e infine l’haliaetos dalla vista acutissima, grande pescatore. Vi era poi la specie delle aquile denominata barbata che gli Etruschi definivano ossifraga, per la sua abitudine di cibarsi delle ossa delle sue prede dopo averle spezzate, facendole cadere dall’alto, che è stata avvicinata al gipeto. C’è da meravigliarsi per questa straordinaria messe di notizie riportate da Plinio con capacità quasi documentaristica: ed ecco le tecniche di caccia delle aquile, i tipi di prede: quadrupedi, cervi, serpenti che a loro volta tentano di predare le uova dell’aquila; le curiosità: la pietra aetite inglobata nel nido di alcune specie di aquile dalle capacità curative; e poi la classificazione delle sedici specie di accipiter, di falco, la caccia al cybindis, il falco notturno che lotta selvaggiamente con l’aquila tanto che spesso vengono catturati stretti l’uno all’altro; e lo straordinario nibbio dal quale gli uomini hanno imparato l’arte di governare le imbarcazioni col timone; del resto anche gli avvoltoi per timone usano la coda. Per Plinio il grifone, il gryphas è davvero una creatura favolosa dell’Etiopia, al pari dei pegasi creature alate dalla testa di cavallo della Scizia. Dopo avere accompagnato molti imperatori, l’aquila diventa cristiana e compagna dell’evangelista Giovanni. Nel Medioevo assume un valore araldico e grazie agli Asburgo il simbolo dell’aquila a due teste si diffonde ovunque, utilizzato per sintetizzare l’idea di impero sovrannazionale, ma adottata anche da varie rivoluzioni e sommosse della prima metà del XIX secolo.

L’opera appassionata di Domenico Ruiu è frutto di tante suggestioni diverse e rappresenta anche il punto d’arrivo di tante storie e di tante leggende. I suoi libri fanno riemergere attraverso le immagini molti ambienti naturali che amiamo, molte storie dimenticate, molti rapporti tra cielo e terra, lasciandoci l’impressione forte di seguire il volo di un dio, di assumere per un istante magico lo sguardo di un genius loci che ancora ci parla.




Presentazione del volume Ugo Carcassi, Un medico in Sardegna Sassari.

Presentazione del volume Ugo Carcassi, Un medico in Sardegna
Sassari, 22 maggio 2014.

Mi fa davvero piacere essere qui oggi e portare un saluto alla presentazione di questo libro del prof. Ugo Carcassi ‘Un medico in Sardegna’, per le edizioni di Carlo Delfino. Si tratta di un libro che – a differenza dei saggi scientifici e delle monografie su patologie di personaggi storici, indagati e raccontati con curiosità e rigore scientifico dall’autore – apre uno squarcio sulla sua vita operosa di medico, ricercatore infaticabile, scienziato di livello internazionale, professore universitario, Preside di Facoltà, Direttore di Clinica Medica. Sempre per l’editore Delfino Carcassi ha studiato le patologie di personaggi come Giuseppe Garibaldi (in tre diversi volumi), Giacomo Casanova, Galileo Galilei, Vincenzo Bellini, Nicolò Paganini, CarloV.

Ma Carcassi si è occupato assieme ad Ida Mura della pubblicazione del volume Sardegna e malaria e soprattutto ha studiato la vicenda della salma di Garibaldi a Caprera, un tema che è stato recentemente trattato per la Rai da mio figlio Paolo. Ho seguito il prof. Carcassi da tempo, fino all’ultimo incontro a Cagliari per ricordare Tito Orrù nel Palazzo del Municipio.

Il libro si apre con le preziose testimonianze dello scrittore Giorgio Todde e dell’amico e collega prof. Franco Pitzus, professore onorario di Medicina interna e promotore della organizzazione sanitaria nel Marghine e nella Planargia, che col professor Carcassi ha condiviso decenni di vita accademica e collaborazione scientifica. Le due presentazioni e le memorie dell’autore confluiscono a consegnare al lettore un ritratto a tutto tondo del prof. Carcassi: Giorgio Todde gli fa il miglior complimento che un docente, un ‘maestro’ può ricevere: lo considera , con pochi altri suoi professori, di cui conserva memoria- cioè Gian Luigi Gessa, Antonio Cau e qualcun altro- un “pedagogo”, nella migliore accezione del termine: “il pedagogo non trasferisce solo conoscenza – per la quale basterebbero i libri. Ma gli strumenti per accedere alla conoscenza , metodo e regole per organizzare, classificare e ordinare il sapere”. Dunque un personaggio capace di appassionare, di trasmettere emozioni, curiosità, stimoli ai suoi numerosi allievi.

Lascio a Eugenia Tognotti e Maristella Mura il compito di ripercorrere – seguendo il filo dei ricordi sapientemente intrecciati nel libro – il lunghissimo e brillante percorso accademico e di ricostruire l’intensissima attività scientifica e professionale. Da parte mia ricorderò soltanto che il professor Carcassi si è laureato qui nel nostro Ateneo. Nell’Archivio storico si conserva il fascicolo personale con la tesi di laurea. Dopo essersi iscritto, nel 1940, alla Facoltà di Medicina (proveniente dal Liceo Azuni) aveva dovuto interrompere gli studi con lo scoppio della guerra. Arruolatosi come volontario dei ‘carristi’ aveva trascorso qualche tempo in un Ospedale da campo in Africa settentrionale. Col ritorno al tempo di pace aveva ripreso gli studi, sobbarcandosi un carico notevole di esami per recuperare il tempo perduto; cosa che riescì a fare laureandosi con lode nel 1946. Il prof. Carcassi ricorda vividamente ogni nome di maestri e condiscepoli, degli Istituti e delle Cliniche come quella di Patologia medica, in Viale San Pietro, richiamando con brevi pennellate le figure di maestri che hanno avuto un’enorme influenza nella vita e nella carriera scientifica come il professor Flaviano Magrassi, allievo del famosissimo patologo e clinico Cesare Frugoni di cui aveva seguito le lezioni, a Roma, durante la guerra. E, ancora, il prof. Giuseppe Pegreffi dell’Istituto Zooprofilattico e i collaboratori Antonella Quesada e Dionigi Mura, padre di Ida e Maristella.

Gli anni di Sassari furono decisivi: a Sassari conseguì il diploma di Malariologia ed è qui che impostò una rete di produttivi rapporti scientifici che si riveleranno negli anni successivi in cui darà un contributo fondamentale agli studi pionieristici sul rapporto che lega due malattie così diverse come la talassemia, malattia genetica e la malaria, malattia infettiva. I suoi studi sulla talassemia in Sardegna, in parallelo con le ricerche condotte da altri studiosi in varie aree italiane, consentiranno di costruire la nuova mappa della diffusione della talassemia in Italia .

Concludo per non sottrarre troppo tempo alla presentazione. Numerosi sono gli spunti offerti dal libro, che contiene anche il racconto delle esperienze in alcune condotte mediche del sassarese, come medico condotto supplente, fatte ad panem, come si dice, per racimolare qualche soldo con cui integrare il magrissimo stipendio di assistente universitario.

E’ in queste descrizioni di ‘casi’ di malattia, i più vari, che emerge la statura di medico del prof. Carcassi che s’impone anche nella bella immagine che si trova nell’introduzione di Giorgio Todde: <<ricordo che quando , con un gesto istintivamente teatrale , scopriva un malato, Ugo sembrava più grande, più alto e più imponente perché il gesto gli era connaturato ed esprimeva tutto un mondo>>.

Un medico, un clinico, ben lontano dal borioso medico Simmaco, seguito da un codazzo di assistenti, su cui ironizza Marziale nel I secolo d.C., un tipo di medico che noi tutti ci auguriamo di non dover mai incontrare (V, 9): <<Non stavo bene, languebam: ma tu, Simmaco, prontamente venisti da me, accompagnato da cento discepoli. Cento mani gelate dalla Tramontana mi palparono, centum me tetigere manus aquilone gelatae; non habui febrem, Symmache, nunc habeo: non avevo febbre, Simmaco, ora ce l’ho.




Il fuoco di Vesta: Il fuoco sacro nella Roma antica Convegno su La sacralità del fuoco.

Il fuoco di Vesta: Il fuoco sacro nella Roma antica.
Convegno su La sacralità del fuoco.
Sassari, 13 maggio 2014

Sii propizia, Vesta! In tuo onore apro le labbra, se mi è lecito di partecipare ai tuoi riti. Ero assorto nella preghiera, ho sentito il potere divino, e la terra è brillata, lieta, di luce purpurea. Non ti ho visto, dea (lontano da me le menzogne poetiche!), non potevi esser vista da un uomo (vv. 250-255).

Con questi versi Ovidio nei Fasti invoca la dea Vesta, una delle divinità femminili maggiormente rappresentative del Pantheon romano assai più di quanto non lo sia stata per quello greco la sua omologa Hestia: il poeta sottolinea una caratteristica contraddistintiva della dea, quella di essere rispettata dall’universo maschile in quanto espessione di una femminilità inviolabile anche attraverso lo sguardo.

Del resto all’interno della aedes di Vesta non erano presenti statue e altri tipi di immagine della dea, identificandosi il suo numen con il fuoco che ardeva perenne nella dimora sacra. Secondo il mito da Opi e Saturno sarebbero nate Giunone Cerere e Vesta, delle tre la sola Vesta scrive sempre Ovidio: «si rifiutò di accettare un marito: Che c’è di strano se, vergine, si diletta di ministre vergini, e ai suoi riti ammette soltanto le mani caste? Tieni conto che Vesta non è altro che la fiamma viva, e dalla fiamma non vedi nascere mai nessun corpo. Giustamente dunque è vergine, non riceve e non rende seme, e ama chi ha la stessa sua condizione».

Quali erano i motivi per i quali il fuoco che ardeva nella aedes Vestae aveva un carattere sacro? Anzitutto le radici del culto di questa dea vanno ricercate alle origini della religione romana, al momento in cui il re sabino di Curi, Numa Pompilio, espertissimo…d’ogni legge divina e umana (LIV., I, 18, 1: consultissimus viromnis divini atque humani iuris), decise di infondere «con costumi e giuste leggi»  nuove prospettive di sviluppo alla città di Roma, da poco tempo fondata da Romolo «con la forza delle armi, (LIV., I, 19,1).

In una delle mie ultime inaugurazione di anno accademico ho ricordato che Tito Livio, nel primo dei libri ab urbe condita, racconta le cerimonie che il re sabino Numa Pompilio celebrò in Campidoglio per la solenne inauguratio, alla ricerca degli auspici favorevoli per il futuro, con il desiderio di fondare per la seconda volta la città di Roma, con il diritto, con le leggi e con la moralità intesa nel senso del disinteresse e del rigore nell’amministrare la res publica: Urbem novam (…) iure eam legibusque ac moribus de integro condere parat. Fece così costruire nella parte più bassa dell’Argileto un tempio in onore di Giano, la cui chiusura era sinonimo di pace, e soprattutto si occupò di istituire sacerdoti come ad es. i Flamini di Giove, di Marte e di Quirino, i 12 Salii addetti al culto di Marte Gradivo e «nominò anche le vergini di Vesta, sacerdozio, questo, originario di Alba e non estraneo alla stirpe del fondatore.

Ad esse, perché rimanessero in permanenza a custodire il tempio, assegnò uno stipendio per conto dello stato, e con la verginità e con altre pratiche religiose le rese venerabili e sacre» (LIV. I, 20, 3: virginesque Vestae legit, Alba oriundum sacerdotium te genti conditoris haud alienum. His ut adsiduae templi antistes essent stipendium de publico statuit; virginitate allisque caerimoniis venerabiles ac sanctas fecit.).

Anche Ovidio, sempre nei Fasti al libro VI ricollega la costruzione del tempio di Vesta e l’istituzione delle Vestali al re Numa: «Quaranta volte, dicono, Roma aveva celebrato le feste Parilie, quando la dea guardiana del fuoco fu accolta nel proprio tempio, opera del re pacifico, di cui la terra sabina non generò mai nessuno più timoroso del dio». Il legame tra il re e la dea definita guardiana del fuoco è esplicitato dal poeta con riferimento ad una Roma arcaica, anche nel tessuto urbanistico, con il tempio di Vesta che riproduceva le capanne a pianta circolare di derivazione italica, molto simili alle capanne del Palatino, il nucleo più antico della città di Roma e con l’atrio di Vesta che si innestava sulla reggia di Numa: «Le costruzioni che ora vedi, con i tetti di bronzo, allora le avresti viste di paglia; le pareti erano intessute di flessibile vimine. Il piccolo luogo su cui oggi si erge l’atrio di Vesta, era allora la grande reggia di Numa intonso.»

Ovidio ci offre poi la sintesi di maggiore efficacia circa il ruolo divino e le funzioni di Vesta: «Si dice tuttavia che la forma del tempio fosse quella che resta oggi, e c’è sotto un motivo: Vesta è lo stesso che terra, a entrambe sta sotto il fuoco guardiano: significano la casa entrambi, la terra e il fuoco (265)». Dunque Vesta assimilata alla Terra (ma non nella forma di Tellus, quest’ultima assai spesso piuttosto in coppia con Caeres, del resto Tellus in età imperiale perde quella venerazione di cui aveva goduto in età arcaica e per parte dell’età repubblicana) e legata strettamente al controllo del fuoco, elemento simbolico di una struttura sociale fondata sull’elemento familiare e gentilizio (il fuoco come espressione della domus, della familia e della gens come aggregato di familiae); dal fuoco domestico la funzione protettrice di Vesta si sposterà successivamente al focolare centrale della città, in origine quello del re e successivamente delle istituzioni dell’urbs dall’epoca repubblicana con una continuità ininterrotta sino all’epoca imperiale.

Vesta e le sue sacerdotesse Vestali, in numero di sei, con a capo del collegio la Virgo Vestalis Maxima, rivestivano un ruolo determinante, grazie alla custodia del fuoco, che ardeva nel santuario della dea e non doveva mai spegnersi (veniva spento una sola volta il primo marzo, ma immediatamente si provvedeva all’accensione di un nuovo fuoco) anche a livello politico come garanti in un certo senso dell’aeternitas di Roma e delle sue istituzioni. Del resto molto più pragmaticamente l’accensione con le selci e la conservazione del fuoco avevano motivato la creazione di una struttura religiosa dalle caratteristiche formali di una aedes, e non di un templum nella quale veniva custodito un bene prezioso per la comunità cittadina. Per questo motivo le Vestali, appartenenti a famiglie patrizie, reclutate dal Pontefice massimo da bambine (tra i sei e i dieci anni), nei trent’anni del loro sacerdozio dovevano condurre uno stile di vita integerrimo, rimanendo vergini e vegliando a turno il giorno e la notte il fuoco sacro.

In caso di spegnimento, la colpevole veniva duramente fustigata; una punizione estremamente dura veniva comminata poi se una delle sacerdotesse veniva meno al rispetto del precetto di verginità: la Vestale che avesse avuto rapporti con un uomo veniva rinchiusa in una fossa con poca acqua, latte, olio e pane, presso il campus sceleratus, nelle vicinanze di Porta Collina e il di lei amante veniva fustigato fino a morirne. Altro compito rituale di grande importanza e responsabilità affidato alle Vestali era quello della preparazione della mola salsa, l’impasto di farina e sale che durante i sacrifici veniva sparso sul capo della vittima da immolare; del resto alle Vestali toccava anche, in occasione dei Lemuria (14 maggio, per esorcizzare gli spiriti dei morti), al termine di una processione che si fermava presso il ponte Sublicio, gettare nel Tevere i ventisette fantocci in giunco, con mani e piedi legati, rappresentanti gli Argei, i Greci giunti a Roma al seguito di Ercole. Le vere e proprie feste in onore di Vesta, i Vestalia, cadevano il nove giugno, in questa occasione le matrone potevano entrare a piedi nudi nell’atrio del Penus Vestae, interdetto anche nei giorni di festa agli uomini ad eccezione del Pontefice Massimo. La festa si concludeva con una pulizia rituale della aedes Vestae (quando stercus delatum fas).

Il tempio di Vesta, dopo una prima fase sul Palatino fu ricostruito all’estremità orientale del Foro romano, vicino alla Regia, in direzione della Via Sacra mantenendo la caratteristica architettonica della forma circolare: insieme alla casa delle Vestali esso costituiva un unico complesso architettonico denominato atrium Vestae, il penetrale, accessibile alle sole Vestali, era denominato Penus Vestae, si trattava di una cavità nella quale erano custoditi cimeli e arredi di altissimo valore sacrale quali il Palladio, il simulacro di Atena, che si voleva recato con sé da Enea profugo da Troia.

Occorre sottolineare che insieme alle cerimonie collettive di conservazione del fuoco, assicurate dalle sacerdotesse di Vesta, esisteva una dimensione intima e familiare del culto del focolare e del fuoco, con cerimonie quotidiane e mensili in onore dei Penati e dei Lari, che rappresentavano i protettori della casa, gli antenati divinizzati; per i Penati in particolare il padrone di casa offriva un mucchietto di farina e un pizzico di sale che gettava tra le fiamme del focolare, perché gli antenati erano presenti a tavola.

Certamente il fuoco sacro ed eterno del focolare familiare e collettivo trovava nella dea Vesta un’espressione simbolica di valore benefico ma accanto ad esso occorre valutare anche un altro aspetto del fuoco, quello della devastazione che probabilmente trovava espressione in Vulcano, secondo alcuni studiosi comparabile al Velchanos cretese e con radici nel Mediterraneo preindoeuropeo, anche se il sincretismo immediatamente percepibile era quello, piuttosto tardo con l’Efesto greco, il fabbro divino. Vulcano rappresentava, la forza distruttrice degli incendi, è difficile infatti ravvisare in questa divinità elementi di purificazione: il suo altare, dove venivano eseguiti sacrifici, si trovava nell’angolo nord-occidentale del Foro e veniva denominato Volcanal ed era in posizione soprelevata di circa cinque metri rispetto al Comitium. In questo spazio aperto, oltre all’ara dedicata al dio, bruciava un fuoco perenne: l’area sacra, secondo la tradizione romana, era stata dedicata al dio da Romolo che vi avrebbe fatto porre una quadriga in bronzo, sottratta come bottino di guerra ai Fidenati e una statua, con iscrizione in greco, celebrativa dei propri successi. In occasione delle feste in suo onore, i Volcanalia, il 23 di agosto, si bruciavano dei piccoli pesci e ciò ha fatto pensare al trasferimento sul piano simbolico dell’antitesi tra due degli elementi costitutivi della natura, acqua e fuoco. Esisteva ad ogni modo un legame tra Vesta e Vulcano se abbiamo notizia per il 217 a.C., dopo la disfatta romana presso il lago Trasimeno, della cerimonia di espiazione e purificazione nei confronti di dodici divinità, il c.d. lectisternium, in occasione della quale istituzioni e privati offrivano un banchetto ai simulacri delle divinità esposti pubblicamente su letti da simposio: su un lectus vennero collocate le statue di Vesta e Vulcano a conferma dei legami tra due divinità collegate al fuoco, immediatamente percepibili all’epoca dai fedeli. Vulcano è secondo il mito greco il costruttore dell’automa bronzeo Talos, della tradizione mitografica egeo-cretese e sarda che racchiudeva in sé le caratteristiche dell’eroe primordiale, violento, espressione della forze incontrollabili della natura. Secondo la versione canonica del mito, Talos, forgiato nel bronzo da Efesto (Vulcano), fabbro divino dall’inclita arte, venne posto dal re Minosse a guardia dell’isola di Creta. Il collegamento con la Sardegna è attestato da una variante della narrazione mitica antica che risale a Simonide di Ceo, poeta lirico greco del VI secolo a.C.

Nella narrazione, l’automa bronzeo sarebbe nato in Sardegna, dove avrebbe a lungo dimorato, prima di spostarsi a Creta, al servizio di Minosse. Nell’isola che gli avrebbe dato i natali, Talos si rese protagonista dell’uccisione di molti Sardi, che abbracciava dopo aver portato il suo corpo ad essere incandescente sul fuoco: per le modalità violente con le quali venivano eliminati, al momento del decesso i Sardi digrignavano i denti in una smorfia di dolore, il cosiddetto <<riso sardonico>>. Nel mito di Talos e in questo suo porsi come ponte tra la Sardegna e Creta sono racchiusi, elementi che rimandano a contatti tra la civiltà nuragica e quella minoico-micenea, soprattutto in rapporto allo sviluppo della produzione metallurgica e ai commerci nel bacino del Mediterraneo lungo la direttrice che muoveva dall’Egeo orientale verso il Mediterraneo occidentale e la Sardegna.

Un elemento che ci riporta al fuoco come elemento divinatorio e come espressione o meglio presagio di regalità è contenuto nel racconto di Livio (I, 39) relativo ad un episodio della prima infanzia di Servio Tullio: il futuro sesto re di Roma, il re delle innovazioni democratiche e del progresso urbanistico della città, da bambino sarebbe cresciuto in casa del re Tarquinio Prisco-Lucumone e di sua moglie Tanaquilla, in quanto la madre, Ocrisia, moglie di Servio Tullio padre, dopo la presa di Cornicolo da parte dei Romani, incinta, fu presa a benvolere dalla regina che si accorse della sua nobiltà e la tenne come una sorta di dama di compagnia. Al bambino Servio Tullio occorse un prodigio di cui parlò tutto il palazzo: mentre dormiva intorno al suo capo si svilupparono delle fiamme (puero dormienti, cui Servio Tullio fuit nomen, caput arsisse ferunt multorum in conspectu) che Tanaquilla impedì fossero spente, impedendo che il bambino fosse toccato finché non si fosse svegliato spontaneamente: al risveglio il piccolo Servio era del tutto illeso e la regina esperta di arti divinatorie disse al marito «Vedi questo fanciullo che noi alleviamo così poveramente? E’ chiaro ch’egli un giorno nei tempi difficili, sarà la nostra luce e il sostegno della reggia in rovina: perciò educhiamo con tutta la nostra amorevolezza chi potrà darci gran lustro in pubblico e in privato». In realtà secondo la versione mitica originaria (tratta da Livio dall’annalista Licinio Macro), Ocrisia la madre di Servio sarebbe stata fecondata, dopo la morte del marito e il trasferimento forzato da Cornicolo a Roma, da una fiamma del focolare domestico, il Lar familiaris, secondo una nota tradizione del mito antico che considerava il fuoco come elemento fecondatore.

Desidero a questo punto parlarvi di un aspetto eroico del fuoco nella visione dei Romani, collegato alla virtus e alla fides, mi riferisco all’episodio di Caio Muzio, un giovane romano che, durante l’assedio della città da parte di Porsenna, si introdusse nel campo nemico per pugnalare il re etrusco ma per errore uccise lo scriba del sovrano: «Poiché il re, acceso d’ira e insieme atterrito dal pericolo ordinava in tono di minaccia ch’egli fosse stretto in un cerchio di fuoco… (Muzio) esclamò: perché tu comprenda che scarso valore abbia il corpo per coloro che mirano ad una grande gloria; e pose la mano destra su un braciere acceso per il sacrificio. E poiché ve la lasciava bruciare, come se il suo animo avesse perduto ogni sensibilità, il re, balzato giù dal seggio diede ordine che il giovane fosse allontanato dall’altare» ( LIV. II, 12, 12, 13). Da quel momento il giovane C. Muzio ebbe il cognome di Scaevola, il mancino.

Si può arrivare al sacco di Roma da parte dei Galli nel 390 a.C., quando secondo Plutarco il saggio Lucio Albino fece salire sul carro le vestali che portavano in salvo il fuoco sacro, conducendole a Caere.

Possiamo dire, credo senza tema di esagerare che i Romani avessero una visione tradizionale, domestica, fecondatrice ed eroica del fuoco, distante dalla interpretatio greca e da quella orientale, perlomeno sino all’epoca alto-imperiale. Con il diffondersi delle religioni orientali e dei culti solari si diffusero divinità e riti che amplificarono in senso filosofico, esoterico ed escatologico il culto del fuoco sacro. I Romani del I secolo a. C. sentirono come profondamente estraneo e lontano dai canoni tradizionali il rito praticato da Mitridate, il re del Ponto, dopo la vittoria su Murena, quando il re vestito di porpora e con la cappa immacolata del gran sacerdote, indossando il copricapo rosso ornato di stelle d’argento dei Magi, salì, con il seguito, sulla montagna di Buyuk Evliya Dag fino al tempio di Zeus Stratios dove si praticavano culti iranico-anatolici, legati allo zoroastrismo e dove i magoi pyraethoi, i magi custodi del fuoco, si occupavano di tenere sempre accesa sull’altare una fiamma, alimentata probabilmente da petrolio. Il rito prevedeva libagioni di latte, miele, vino e olio accompagnate da grani di incenso e da mirra gettati sulla pira, offerte agli dei ancestrali e a Zeus. Il falò bruciò per molti giorni e le lingue di fuoco si videro ad una distanza di 1000 stadi all’incirca 200 Km.

Con la ufficializzazione alla metà del III secolo del culto del Deus Sol Elagabalus, da parte dell’imperatore Antonino Elagabalo, vi fu addirittura il tentativo di coinvolgere le Vestali nella nuova tradizione dei culti solari e del fuoco solare: Elagabalo, si unì in matrimonio con la Vestale Aquilia Severa nel 221, un matrimonio durato un anno che destò un grande scandalo per il contravvenire alla regola che da sempre aveva imposto la verginità alle Vestali, durante il tempo del sacerdozio. Del resto sono noti i rapporti, forse di affari o comunque di amicizia, intercorsi a Roma tra il sacerdos Solis Alagabali, T. Iulius Balbillus e le virgines Vestales maximae, Numisia Maximilla e Terentia Flavola. A epoca successiva, tr il 247 e il 257, risale la vergine vestale massima Flavia Publicia della tabella imunitatis di un relitto recentemente ritrovato a Porto Torres.

Vorrei chiudere oggi questo intervento ricordando come il culto del focolare e della dea Vesta che resistette al diffondersi delle nuove religioni orientali cadde invece sconfitto dal Cristianesimo: l’editto di Teodosio del 382 che proibiva i culti pagani e stabiliva la rimozione degli oggetti di culto dell’antica religione, tra cui l’altare della Vittoria, e quello definitivo del 391 con cui si vietavano i sacrifici, l’adorazione di statue e la celebrazione di riti pagani posero fine ad un mondo religioso complesso, composito e inclusivo. Ci avviciniamo al secondo sacco di Roma del 410, che per una casualità provvidenziale della storia si verificò esattamente otto secoli dopo quello di Lucio Albino.

L’ultima Vestale Massima fu Coelia Concordia nel 384, il fuoco sacro venne spento nel 391, il Palladio custodito nel penus Vestae venne distrutto: Zosimo (V, 28) racconta il pianto disperato e le maledizioni lanciate da una delle ultime Vestali quando Serena, moglie di Stilicone, entrata nel tempio di Cibele, tolse dal collo di Rea la preziosissima collana che l’adornava.

Proprio Stilicone, il vandalo cristiano, è il personaggio maledetto dal pagano Rutilio Namaziano nel De Reditu, che pure credeva nell’eternità di Roma:  un qualche dubbio e una qualche apprensione per il futuro dell’impero ancora serpeggiavano (nonostante le assicurazioni di Giove per un imperium sine fine), se Namaziano accusava l’odiato Stlicone, di aver svelato l’arcanum di Roma, la misteriosa Anthusa, Amor, bruciando i libri sibillinii: più di Nerone bruci ora egli nel Tartaro, perché hic mundi matrem peculit, ille suam.




Presentazione del volume La Sardegna di Thomas Ashby, fotografie 1906-1912. Paesaggi, Archeologia, Comunità.

Presentazione del volume La Sardegna di Thomas Ashby, fotografie 1906-1912. Paesaggi, Archeologia, Comunità
Roma, 15 maggio 2014

Cari amici, Caro Christopher Smith,

Ho trovato prodigioso questo riemergere dal passato di luoghi, monumenti, paesaggi, tradizioni della Sardegna che non conoscevamo, attraverso queste bellissime immagini di Thomas Asshby, pubblicate in questo volume e in questa mostra dall’Editore Carlo Delfino d’intesa con la British School at Rome, con la collaborazione di tanti soggetti diversi, grazie al mecenatismo di Ivano Spallanzani e della Banca di Sassari.  Porto il saluto del mio Ateneo, ma parlo anche a nome dell’amico prof. Giovanni Melis, Rettore dell’Università di Cagliari, che si associa nell’apprezzamento per il lavoro svolto con passione e straordinario successo.

I cinque viaggi in Sardegna di Thomas Ashby fra il 1906 e il 1912 rappresentano un capitolo tra i più importanti nella storia dei viaggiatori che hanno descritto l’isola a partire dall’Ottocento, soprattutto grazie ad una straordinaria documentazione fotografica fin qui pressoché ignorata: nell’intreccio tra storia e geografia ora riemerge il paesaggio trasformato dall’uomo, la natura, l’ambiente dei primi del secolo scorso, ma anche il patrimonio culturale e identitario, eredità di un passato lontano come le torri nuragiche che marchiano l’isola dalle vene d’argento, una terra rimasta prodigiosamente quasi fuori dal tempo, chiusa nella sua identità, irrigidita nei suoi costumi millenari che rimandano ai Sardi Pelliti raccontati da Tito Livio durante la guerra annibalica, che abitano ancora in capanne o in pinnette come a Paulilatino, che macinano il grano nelle mole di pietra, che utilizzano i ruscelli per muovere i molini ad acqua.

Del resto la Sardegna non aveva rappresentato nell’epopea del Grand Tour una meta significativa, innanzi tutto perché la sua collocazione geografica e culturale non la rendeva davvero appetibile ai cultori europei della civiltà greca, romana, cristiana. D’altro canto l’isola selvaggia e arcaica si aprì inizialmente alla conoscenza europea grazie alla cultura francese, con il bibliotecario di Versailles Antoine Claude Pasquin (Valery) e con Alberto Lamarmora, premiato a Dresda da Napoleone con la legion d’onore: egli aveva iniziato i suoi viaggi in Sardegna nel 1819, pubblicando il Voyage nel 1826 e l’Itinéraire nel 1860.  Il La Marmora utilizzò per la sua celebre carta geografica dell’isola la carta nautica redatta nel 1824 dal capitano William Henry Smyth per conto dell’Ammiragliato britannico.

La vera scoperta britannica della Sardegna interna fu dovuta, comunque, all’archeologia: il primo viaggiatore nell’isola fu il quinto Barone Vernon, che giunse in Sardegna nel 1851 per compiere scavi a Tharros, dove mise in luce quattordici tombe a camera cartaginesi ricche di corredi preziosi, che comprendevano sigilli-scarabei, oreficerie, argenti, bronzi e ceramiche.  Un altro Lord inglese, William Fox Talbot, uno degli inventori della fotografia, fu a in Sardegna nel 1852 per proseguire le ricerche archeologiche a Tharros.. Questa liaison fra Tharros e l’Inghilterra fu ribadita, nel 1851, dall’accoglienza del Direttore del Museo di Cagliari Gaetano Cara e del Canonico Giovanni Spano nella British Archaeological Association in qualità di membri onorari stranieri.

Nel 1856 il British Museum acquistò da Rubicondo Barbetti, responsabile delle saline in Sardegna e sodale del Direttore del Museo cagliaritano Gaetano Cara, i corredi di 32 tombe tarrensi. Lo stesso Gaetano Cara (alias mister Olivetti) col figlio Francesco l’anno seguente fece battere all’asta da Christie’s a Londra oltre 2600 reperti archeologici da Tharros.

A redimere questo incredibile e un poco spregiudicato mercato inglese di antichità sarde attraverso l’attività scientifica in Sardegna fu proprio l’impegno della neonata Accademia Britannica di Roma, fondata nel 1901. Al contrario della Grecia che consentiva agli archeologi dell’Accademia Britannica di Atene di effettuare scavi archeologici, l’Italia negava questa possibilità agli studiosi della British School at Rome, che comunque sviluppò una straordinaria attività di ricerca scientifica sia con il catalogo delle sculture antiche del comune di Roma, sia con le ricerche topografiche di Thomas Ashby.

I viaggi in Sardegna del giovane Direttore della British School posero in rapporto Ashby con il grande archeologo Antonio Taramelli e con il soprastante Filippo Nissardi; quest’ultimo aveva lavorato per conto di Theodor Mommsen e per Johannes Schmidt per il Corpus Inscriptionum Latinarum. Taramelli invece aveva maturato una conoscenza della archeologia inglese a Creta, dominata da Sir Arthur Evans, che si sarebbe appoggiato ad un importante archeologo scozzese Duncan Mackenzie, cui dobbiamo la scoperta dell’insediamento neolitico di Pkylacopi nell’isola di Milos (l’antica Melos, la più occidentale delle Cicladi meridionali). Proprio Mackenzie indagò in Sardegna le strutture megalitiche dei dolmen, delle tombe di giganti e dei nuraghi tra il 1906 e il 1908.  Già il primo viaggio in Sardegna di Ashby nel 1906 è effettuato in compagnia proprio di Duncan Mackenzie e si svolge otto anni dopo il viaggio del domenicano inglese Peter Paul Mackey per conto della British and American Archaeological Society.

Questa mostra ci comunica la memoria fotografica di questa Sardegna archeologica, ma anche paesaggistica e demo-antropologica di un secolo fa, con queste straordinarie immagini, che raccontano un passato che oggi sembra lontanissimo, ma che a sua volta era lontanissimo dalla prima vera documentazione uscita dalla Sardegna ad opera del can. Giovanni Spano, che solo pochi decenni prima aveva partecipato al V congresso archeologico preistorico di Bologna del 1871 all’inizio del Regno d’Italia. Attraverso queste fotografie sembrano passati millenni, con un’isola che era in realtà una terra incognita, che finalmente si scopre al mondo, vista da Ashby attraverso l’obiettivo con mille con curiosità, con passione, con competenza, con uno sguardo intelligente e partecipe.

Si tratta di un magnum opus che, con il concorso della British School at Rome, dei ricercatori delle due Università Sarde associate, delle Soprintendenze sarde, dell’Accademia delle Belle Arti Sironi di Sassari, è stato coordinato da una giovane e appassionata archeologa sarda, Giuseppina Manca di Mores e curato magnificamente dall’editore Carlo Delfino.

Il libro e la mostra che oggi inauguriamo ci dicono molto sull’autore ma ci restituiscono anche una Sardegna lontana, segnata da un paesaggio dell’età del bronzo, ma anche di età punica, romana, medievale, fin negli angoli più nascosti, come nella valle di Antas presso il tempio del Sardus Pater allora ancora non identificato, ma di cui per la prima volta si pubblicava una foto delle strutture di base e qualche frammento dell’epigrafe monumentale di Caracalla. Oppure a Neapolis presso la chiesa di SM di Nabui, oppure tra le tombe puniche abitate da senzatetto a Sulci, o presso il teatro romano di Nora.  Colpisce il cuore vedere l’anfiteatro di Cagliari così come era conservato all’inizio del 900 o il ponte romano sul Taloro a Gavoi, ora sotto il lago di Gusana,  i mosaici marini delle terme di Bonaria. E poi e tombe di giganti, le miniere, le chiese cadenti.

La storia della Landscape Archaeology di marca britannica ci offre già attraverso l’obiettivo di Thomas Ashby tutta la ricchezza che la scuola inglese avrebbe prodotto nella seconda metà del XX secolo e che in qualche modo avrebbe trasformato dalle fondamenta l’archeologia del Mediterraneo, rinnovando metodi e categorie interpretative della realtà antica. Per queste ragioni le Università di Cagliari e di Sassari hanno concesso entrambe il patrocinio alla mostra, frutto di una comune collaborazione scientifica e testimonianza della volontà di promuovere sinergie e collaborazioni di livello internazionale.

Porto oggi il sentimento di gratitudine della Sardegna tutta per questi documenti che acquisiamo oggi, ritrovando un mondo che ci appartiene nel profondo.




I Edizione del Certamen Andrea Blasina. Liceo Azuni, 13 maggio 2014.

Intervento del prof. Attilio Mastino, Rettore dell’Università di Sassari
I Edizione del Certamen Andrea Blasina
Lic
eo Azuni, 13 maggio 2014, ore 10

Cari amici,

a causa della concomitante difficile riunione del Consiglio di Amministrazione dell’Università, mi è purtroppo impossibile essere con voi per la cerimonia di premiazione di questa prima edizione del Certamen Andrea Blasina dicatum, con la gara di traduzione dal greco promossa dal Liceo Classico statale Azuni di Sassari e dal suo dirigente Massimo Sechi.

Il 30 novembre scorso ho accompagnato Andrea nel suo ultimo viaggio a Sant’Agostino assieme ai suoi carissimi studenti, ai suoi colleghi, ai suoi maestri come Roberto Nicolai, assieme ai suoi parenti, ai genitori, a Lella e a Valentino.

Ho avvertito il dolore di tutti noi per una scomparsa prematura, a 45 anni di età, l’affetto, il rimpianto per quello che poteva essere. Sui giornali è  stato ricordato come un  raffinato studioso di cultura classica, grecista appassionato e amatissimo docente del liceo sassarese Azuni, che ha combattuto con coraggio contro un male crudele. Io oggi vorrei ricordare le sue passioni, le sue curiosità, il gusto per la scoperta che l’ha sempre accompagnato, la sua generosità: ci mancherà il suo sorriso e la sua amicizia, ma anche la sua capacità di investigare, di ricercare, di ottenere dei risultati scientifici, di esplorare una terra incognita, alla quale si affacciava affascinato e pieno di desideri. Ci sono sul web decine di ringraziamenti, ricordi, pensieri <<che confermano – scrive un amico –  se ce ne fosse bisogno, quanto questo grande studioso sia riuscito nella sua breve ma intesa vita, a essere anche un grande uomo>>. Gli sono sempre rimasto legato, sentendomi in colpa forse per non averlo seguito abbastanza, specie nella malattia.

Voglio esprimere a nome dell’Università di Sassari la gratitudine ai docenti referenti che hanno promosso questo Certamen, che rappresenta una novità in Sardegna, un momento di rilancio della cultura classica, un orizzonte di impegno per tutti noi : i professori Evelina Grixoni, Stefania Gala, Nicola Cadoni.  E poi i componenti della Giuria, Roberto Nicolai, Antonio Deroma, Stefano Novelli. Tutte persone che mi sono care davvero e che testimoniano oggi una fedeltà e una memoria, che continuano una storia e che promettono un futuro.

Andrea si era formato presso l’Università di Pisa, aveva conseguito il Dottorato di ricerca presso l’Università di Roma “La Sapienza” sotto la guida del prof. Luigi Enrico Rossi, che ho avuto modo di conoscere e di apprezzare. Nel 2001 ha vinto concorsi nazionali a cattedre per quattro diverse classi di concorso ed è risultato primo selezionato in Sardegna per la classe 052. Ha tenuto relazioni a convegni scientifici in Italia e all’estero, formandosi significative esperienze sia nel campo degli scambi internazionali come nel progetto Leonardo da Vinci,  sia in quello delle sperimentazioni sul teatro classico.

Nella nostra Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Sassari Andrea ha lavorato per anni presso l’Istituto di Filologia Classica, ha sofferto e ha costruito rapporti e amicizie: voglio ricordare almeno l’assegno di ricerca in L-FIL-LET/02 per il periodo 2004-2008. Ci sono tanti suoi amici e colleghi che oggi lo piangono.

In questi anni Andrea ha dimostrato una incredibile capacità di lavoro, soprattutto una passione e un entusiasmo che era in grado di trasmettere ai suoi allievi, grazie alla straordinaria conoscenza dei problemi storico letterari e per la forte dimensione storica dei suoi principali lavori.

La sua ampia e significativa produzione scientifica comparsa in collane e prestigiose riviste internazionali, era molto apprezzata, soprattutto sul teatro attico. Ricordo tra l’altro la monografia dal titolo Eschilo in scena.

Era particolarmente  attento anche alla fortuna e ricezione in età umanistica dei testi drammatici con contributi ricchissimi di spunti : ricorderei almeno la monografia sul Prometeo di Eschilo del cinquecentesco senese Marcantonio Cinuzzi .

Spesso mi faceva dono dei suoi lavori e a casa ho ritrovato alcuni articoli con la dedica manoscritta. Parlava anche delle sue prossime ricerche, che promettevano nuovi sviluppi, una riflessione non convenzionale e filologicamente irreprensibile sui più grandi autori della grecità classica.  Uno dei suoi progetti riguardava la presenza e la funzione dei proverbi nella tragedia; un altro suo progetto era funzionale alla didattica nella scuola secondaria superiore; del resto sapevamo che nel Liceo Azuni aveva veramente realizzato il meglio di se, grazie alla curiosità intellettuale, alle ottime capacità espositive e alla conoscenza delle lingue straniere.

Ho presentato nei giorni scorsi alla Biblioteca comunale il volume di Luigi Berlinguer, Ri-creazione, per una scuola di qualità per tutti e per ciascuno: sullo sfondo c’è una meditazione profonda, la riflessione sul problema della modernità del classico, di cui Andrea, come me, era persuaso. Non concordavamo con chi sosteneva  che siamo stati tutti corrotti dal Liceo Classico: L’interrogativo è dunque: quale senso dare agli studi classici oggi? Come creare emozioni e simpatia ? Il rischio è il non percepire il senso e il valore di una formazione classica, che in Italia ha un suo specifico significato e una sua tradizione culturale. Si tratta da un lato di rinnovare le metodologie didattiche dando spazio alla ricerca, all’apprendimento, al confronto, alla scoperta. E in questo il compito dei docenti appare particolarmente difficile perché richiede una forte capacità di rinnovarsi, di cambiare, di essere alternativi e creativi. Si tratta d’altra parte di riavvicinare la cultura, quella vera, alla vita, farne cogliere il senso, il valore, l’utilità. Dare significato ai saperi della cultura classica.

Il Liceo De Castro a Oristano, così come l’Azuni a Sassari e il Dettori a Cagliari hanno rappresentato e ancor più possono rappresentare una punta di eccellenza per l’istruzione in una Sardegna che ha sempre di più necessità di porre al centro delle politiche sociali la conoscenza come bene comune e che deve realizzare infrastrutture della cultura in tutto il territorio regionale.

E’ assolutamente falso che gli autori classici guardino sempre al passato e non al futuro: nel mio programma elettorale come Rettore ho adottato un motto raccolto dalle Questioni Naturali di Seneca:: <<Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura; molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo, quando di noi anche il ricordo sarà svanito: il mondo sarebbe una ben piccola cosa se l’umanità non vi trovasse materia per fare ricerche>>.

Oggi queste frasi illuminanti, tutte proiettate verso il futuro, compaiono nell’Atrio della nostra Università che vuole guardare davanti a sé verso un orizzonte più largo, scoprendo la vitalità della cultura classica e l’importanza della ricerca scientifica fatta di curiosità, interessi, passioni che debbono motivare e animare la vita di tutti i giorni dei nostri studiosi, dei nostri insegnanti, dei nostri studenti..

Vorremmo richiamare fortissimamente i giovani di tutti i Paesi europei a non trascurare il proprio principium, un principium che non è nazionale ma che immerge in particolare il nostro paese in una prospettiva universale e globale, che tiene conto degli intrecci della storia e che ci orienta verso un’apertura sempre più ampia e solidale..

Gli studi classici hanno molte ragioni per continuare ad essere praticati nella moderna civiltà tecnologica e di mercato, a condizione che si guardi al mondo classico come radice costitutiva della civiltà del mondo di oggi e di domani, si riconoscano i principi di democrazia, religione, solidarietà e tolleranza che sono espressione del mondo antico ma sopratutto alla base del processo costitutivo di quelle nazioni che hanno dato vita all’Europa.

Senza gli studi classici il mondo sarebbe peggiore: noi esaltiamo costantemente la civiltà moderna tecnologica, ma non ci accorgiamo che lo facciamo solo in rapporto con il mondo antico.

Se abbiamo un futuro – e noi vogliamo avere un futuro– il futuro sta proprio nel far intendere ai giovani il loro rapporto con il passato e quindi saper leggere il loro presente in relazione al passato e il passato in relazione al presente, ricorrendo all’intertestualità e riscoprendo il continuum della nuova Europa con il mondo antico.

Chi mi conosce sa che sono convinto che gli studi classici possono rappresentare un punto di riferimento oltre che per i paesi europei paradossalmente anche per il Maghreb e per altre aree del mondo, a iniziare dall’America latina.

Dunque, cultura classica come libertà, diritto, giustizia, solidarietà, fides, ragione, poesia, arte, patrimonio degli uomini, faticoso a raggiungersi, se volete, ktema eis aei, secondo il monito di Tucidide, non oggetto di antiquariato e di nostalgica erudizione.

Nell’età della globalizzazione, dove troppo spesso emerge il demone dell’homo oeconomicus, del mercato, la lezione antica e moderna della cultura classica ci insegna a riconoscerci nei valori fondati sull’humanitas, di quel nihil humani a me alienum puto. Ancora nel terzo millennio, la lezione della cultura classica sgorga dalla fonte Castalia e ripete il motto delfico del <<conosci te stesso>>.

Credo che queste fossero anche le idee di Andrea. Complimenti a chi ha ideato questo Certamen, complimenti ai partecipanti, complimenti ai vincitori. Con l’impegno di non perderci e di ritrovarci.




Luigi Berlinguer: Ri-creazione, per una scuola di qualità per tutti e per ciascuno.

Luigi Berlinguer: Ri-creazione, per una scuola di qualità per tutti e per ciascuno.
Sassari, Biblioteca comunale, 9 maggio 2014

Cari amici,

un’improvvisa convocazione a Cagliari mi impedisce di partecipare al dibattito intorno a questo straordinario volume di Luigi Berlinguer per la ri-creazione di una scuola di qualità per tutti e per ciascuno, con Carla Guetti per Liguori editore. Debbo partecipare stasera alla presentazione dell’Accordo sui  Fondi Fas conquistati sanguinosamente dalla nostra Università destinati a completare con 80 milioni di euro tutte le incompiute: l’orto botanico, il complesso bionaturalistico, le aziende agrarie, Veterinaria, Lettere e Lingue, la Piazza Università..  Lasciatemi ricordare che proprio Luigi Berlinguer aveva assegnato al nostro Ateneo 50 miliardi di lire in edilizia, su richiesta del Rettore Alessandro Maida, un passo fondamentale per la modernizzazione di strutture decrepite che necessitavano di interventi radicali.

Mi scuso per l’assenza forzata, Avrei voluto parlare dei molti problemi posti con nitida chiarezza da questo libro, che ho letto tra Sassari l’Afganistan, nel corso di un viaggio aereo durato 24 ore, verso l’Università di Herat.:  Questo è un volume che riesce a portare a sintesi una riflessione di decenni, maturata nel fervido periodo di rettorato a Siena e poi come parlamentare, come Ministro della pubblica istruzione e infine come deputato europeo.  Mentirei se dicessi che condivido fino in fondo tutte le posizioni dell’autore.

Sullo sfondo di queste pagine c’è una dimensione internazionale che discende dall’armonizzazione dei sistemi scolastici e di alta formazione della dichiarazione della Sorbonne, c’è una insoddisfazione di fondo e una preoccupazione per il futuro della scuola italiana. C’è il senso di una opera che non è stata portata a compimento fino in fondo, anzi è stata contrastata e contraddetta tante volte. C’è soprattutto un interrogativo: anche la sinistra non è stata veramente in grado di mettere in sicurezza la scuola, per i tanti provvedimenti contraddittori,. per la incapacità di staccarsi da un modello antico, che risale indietro nel tempo, fino almeno a Giovanni Gentile, per l’impotenza delle forze politiche, che non hanno saputo convogliare le tante straordinarie energie che operano nella suola italiana ?

Io personalmente sarei più ottimista: ci sono tanti segnali di ripresa, tanti insegnanti appassionati e desiderosi di percorrere strade nuove, milioni di studenti che ogni giorno si pongono domande, si interrogano, si scoprono diversi, discutono e competono tra loro.

Non posso con un beve saluto come questo dire molte parole, ci saranno di certo altre occasioni: eppure vorrei cogliere alcuni aspetti collegati necessariamente al rilancio della scuola italiana: Francamente non mi convincono le ricette facili, che affermano oggi quanto in passato era stato negato. Se tutti possono essere d’accordo che occorre perseguire la flessibilità, la formazione differenziata delle persone, verso una scuola che si strutturi dal basso, non si può ignorare una evidente contraddizione, visto che di fatto i comportamenti dei Ministri non hanno fatto altro che appiattire, omologare, unificare, semplificare, banalizzare.  Nel recente passato abbiamo conosciuto in Italia un vero e proprio dilagare delle articolazioni del sistema dei Licei suddiviso in 396 indirizzi e 52 progetti assistiti. Dopo la Riforma della Scuola secondaria di II grado la Gelmini si è gloriata di aver sfoltito una giungla.

Sbagliava la Gelmini, lo stesso ministro che ha gettato una bomba a mano dentro l’università italiana  con la legge 240 ? Dobbiamo tornare a un modello di scuola differenziata nel numero dei minuti di insegnamento tra musica, latino, inglese, matematica ? Oppure dobbiamo creare collegamenti e strutture fortemente interdisciplinari ?  In questi giorni all’Università i Crediti formativi universitari che sono in passato arrivati a pesare 1, 2, 4, 5, 6, 10, oggi stanno tornando tutti a 12.  Popper nel 1956 scriveva che <<la mia disciplina non esiste, perché le discipline non esistono in generale. Non ci sono discipline, né rami del sapere; o piuttosto, di indagine.  Ci sono solo problemi e l’esigenza di risolverli>>.

Questo libro fa emergere la necessità di ripensare dalla base la struttura della scuola italiana, creare nuove aggregazioni culturali, studiare nuovi linguaggi, tutti compiti che a mio avviso non possono essere semplicemente affidati alla casualità o allo spontaneismo, non possono neppure trasformare le discipline in semplici tematiche, non possono giustificare l’assenteismo perdurante della politica.

In questo libro c’è il rimpianto per le cose progettate e non realizzate come la legge 30 sulla riforma dei cicli scolastici abrogata dalla Moratti. C’è la denuncia per la dispersione scolastica, che non può dipendere solo dal fatto che la struttura dell’insegnamento non parte dal basso. C’è la consapevolezza che l’autonomia scolastica poteva dare frutti migliori. Che non si è sostenuta la ricerca educativa.  Che non si è legata sufficientemente la scuola all’Università, attraverso processi veri di orientamento e di integrazione.

Mi ha molto colpito che tutti gli esempi di sperimentazione didattica citati nel volume, oltre un centinaio, siano senza eccezione di scuole di altre regioni, come se la Sardegna fosse ferma, non sperimentasse strade nuove, non coinvolgesse i propri studenti. Non è così, conosciamo tutti esempi di straordinaria vitalità, di passione, di emozioni profonde, come quelle che abbiamo provato nei giorni scorsi ascoltando il canto struggente del paggio, una dolce ragazza sarda che annunciava la fine dell’avventura di Bruto e di Cassio nel Giulio Cesare di William Shakespeare sul palcoscenico del Liceo  Canopoleno qui in città. Penso, per quanto mi riguarda, al progetto coordinato da Ida Rita Candrian e Caterina Gaddia, “Saxa turritana loguuntur: epigrafi nel territorio di Sassari”, finanziato dall’Assessorato alla Pubblica Istruzione della Regione Sarda e patrocinato dal Ministero per i Beni e le Attività culturali per gli studenti del Liceo Scientifico “G. Marconi” di Sassari, che ha portato alla riscoperta del patrimonio artistico della città e in particolare le iscrizioni, occasione per ricordare agli studenti l’importanza della lingua latina quale veicolo per la comunicazione di messaggi semplici o  complessi: L’iscrizione che diventa dunque occasione per rendere più comprensibile, più vicina alla realtà quotidiana la lingua latina, di solito intesa come distante, letteraria dagli studenti e per questo forse poco amata.

Seguiti dai docenti, i ragazzi hanno fotografato, letto, schedato, trascritto, tradotto, commentato le iscrizioni in lingua latina, impegnando parte del loro tempo libero. Laddove i testi non era più visibili hanno condotto ricerche di archivio presso la Soprintendenza, consultando le schede cartacee; in altri casi hanno richiesto l’accesso agli archivi dell’Università e al materiale bibliografico conservato. Un’esperienza che ha dimostrato come ormai la cultua classicxa non possa fare a meno dell’informatica, delle riprese aeree, delle scienze dure, dei laboratori di analisi e di restauro. Come la cultura classica si debba in qualche modo confrontare con l’archeologia, l’ambiente, la topografia, il rilievo, il disegno, le foto aeree, per competenze nuove.

Ormai si è capito che  non concordo con chi sostiene che siamo stati tutti corrotti dal Liceo Classico: L’interrogativo è dunque: quale senso dare agli studi classici oggi? Come creare emozioni e simpatia ? Il rischio è il non percepire il senso e il valore di una formazione classica, che in Italia ha un suo specifico significato e una sua tradizione culturale. Basterebbe citare il numero incredibile di frasi in latino contenute in questo libro. Si tratta da un lato di rinnovare le metodologie didattiche dando spazio alla ricerca, all’apprendimento, al confronto, alla scoperta. E in questo il compito dei docenti è particolarmente difficile perché richiede una forte capacità di rinnovarsi, di cambiare, di essere alternativi e creativi. Si tratta d’altra parte di riavvicinare la cultura, quella vera, alla vita, farne cogliere il senso, il valore, l’utilità. Dare significato ai saperi della cultura classica.

Il Liceo De Castro a Oristano, così come l’Azuni a Sassari e il Dettori a Cagliari hanno rappresentato e ancor più possono rappresentare una punta di eccellenza per l’istruzione in una Sardegna che ha sempre di più necessità di porre al centro delle politiche sociali la conoscenza come bene comune e che deve realizzare infrastrutture della cultura in tutto il territorio regionale.

Intanto, vorrei subito dire che è falso che gli autori classici guardino sempre al passato e non al futuro: nel mio programma elettorale come Rettore ho adottato un motto preso dalle Questioni Naturali di Seneca:: <<Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura; molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo, quando di noi anche il ricordo sarà svanito:il mondo sarebbe una ben piccola cosa se l’umanità non vi trovasse materia per fare ricerche>>.

Oggi queste frasi illuminanti, tutte proiettate verso il futuro, compaiono nell’Atrio della nostra Università che vuole guardare davanti a sé verso un orizzonte più largo, scoprendo la vitalità della cultura classica e l’importanza della ricerca scientifica fatta di curiosità, interessi, passioni che debbono motivare e animare la vita di tutti i giorni dei nostri studiosi, dei nostri insegnanti, dei nostri studenti..

Occorre richiamare fortissimamente i giovani di tutti i Paesi europei a non trascurare il proprio principium, un principium che non è nazionale ma che immerge in particolare il nostro paese in una prospettiva universale e globale, che tiene conto degli intrecci della storia e che ci orienta verso un’apertura sempre più ampia e solidale..

Gli studi classici hanno molte ragioni per continuare ad essere praticati nella moderna civiltà tecnologica e di mercato, a condizione che si guardi al mondo classico come radice costitutiva della civiltà del mondo di oggi e di domani, si riconoscano i principi di democrazia, religione, solidarietà e tolleranza che sono espressione del mondo antico ma sopratutto alla base del processo costitutivo di quelle nazioni che hanno dato vita all’Europa.

Senza gli studi classici il mondo sarebbe peggiore: noi esaltiamo costantemente la civiltà moderna tecnologica, ma non ci accorgiamo che lo facciamo solo in rapporto con il mondo antico.

Se abbiamo un futuro – e noi vogliamo avere un futuro– il futuro sta proprio nel far intendere ai giovani il loro rapporto con il passato e quindi saper leggere il loro presente in relazione al passato e il passato in relazione al presente, ricorrendo all’intertestualità e riscoprendo il continuum della nuova Europa con il mondo antico.

Chi mi conosce sa che sono convinto che gli studi classici possono rappresentare un punto di riferimento oltre che per i paesi europei paradossalmente anche per il Maghreb e per altre aree del mondo, a iniziare dall’America latina.

Dunque, cultura classica come libertà, diritto, giustizia, solidarietà, fides, ragione, poesia, arte, patrimonio degli uomini, faticoso a raggiungersi, se volete, ktema eis aei, secondo il monito di Tucidide, non oggetto di antiquariato e di nostalgica erudizione.

Nell’età della globalizzazione, dove troppo spesso emerge il demone dell’homo oeconomicus, del mercato, la lezione antica e moderna della cultura classica ci insegna a riconoscerci nei valori fondati sull’humanitas, di quel nihil humani a me alienum puto. Ancora nel terzo millennio, la lezione della cultura classica sgorga dalla fonte Castalia e ripete il motto delfico del <<conosci te stesso>>.

Sono concetti lontani da quelli contenuti in questo libro, dove per classico si intende Omero, Tucidide, Leopardi, Dickens, Dostoevskij, Kafka: ma proprio questa differenza di opinioni rende questo libro una pietra miliare, un punto di riferimento da assumere, un orizzonte da varcare per andare davvero oltre.




Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo interno e internazionale e delle stragi di tale matrice.

Intervento del Rettore dell’Università di Sassari
Sassari, aula magna dell’Università, 9 maggio 2014
Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo interno e internazionale e delle stragi di tale matrice.


Cari amici,

voglio dire innanzi tutto l’impressione profonda che mi ha lasciato nel cuore questo nuovo bellissimo volume di Gerardo Severino pubblicato da Carlo Delfino e pieno di documenti inediti, fotografie, immagini, dedicato ai finanzieri sardi Salvatore Cabitta e Martino Cossu vittime del terrorismo altoatesino e medaglie d’oro alla memoria: l’impressione immediata, chiusa l’ultima pagina, è quella di un senso di amarezza per i tanti errori compiuti dal nostro Paese, per l’incapacità di una certa classe politica debolissima e tormentata dai sensi di colpa, per le coperture internazionali di fronte al terrorismo e alla violenza, per le incomprensioni nei rapporti tra popolazioni diverse, per il rifiuto di  una trattativa e di un dialogo, per l’assenza di iniziative di pace, per le negligenze, le omissioni, le incapacità, l’impotenza  di fronte ad un destino che sembra quasi ineluttabile, per le impunità degli assassini, per l’assenza oggi di una memoria vera, di una riconoscenza collettiva, di un legame che solo a partire da queste pagine è possibile ricostruire, scoprendo la faccia nascosta della luna, attribuendo un valore a quelle che sono le fondamenta etiche – scrive il Generale Umberto Di Nuzzo – di un impegno militare e civile di chi ha semplicemente compiuto il proprio dovere.

 

Il destino dei finanzieri, dei soldati, degli alpini, dei carabinieri, delle Guardie di Pubblica Sicurezza, impegnati negli anni 50 e 60 in Alto Adige sembra quello – evangelico – di agnelli inviati tra i lupi: è l’espressione utilizzata quattrocento anni fa dal  Generale della Compagnia di Gesù Claudio Acquaviva fondatore dell’Università di Sassari, che aveva imparato da Cristo attraverso il Vangelo di Matteo che bisogna essere “prudenti come serpenti e semplici come le colombe”. Ma Gesù aveva anche detto: “Vi mando come agnelli tra lupi”. E agnelli tra lupi furono i missionari gesuiti inviati da Acquaviva quattro secoli fa in Paraguay così come i padri gesuiti spediti sempre da lui in Sardegna per fondare il nostro Ateneo, 50 anni dopo la nascita del collegio gesuitico costituito in un ambiente quasi barbaro come doveva essere la Sassari spagnola.

Spero mi scuserete per questa divagazione un poco stravagante, ma spesso la storia si ripete e il mio amico Capitano Gerardo Severino, direttore del Museo Storico della Guardia di Finanza, con pazienza straordinaria si dedica ormai a ricostruire una storia, anche recente, a darci il senso di un impegno, che non fu solo di pochi protagonisti arrivati a versare il loro sangue, ma fu davvero un sacrificio, uno sforzo collettivo fatto di guardie notturne, di sentinelle sotto la neve, di fermezza di fronte al pericolo, di senso del dovere da parte di uomini di cui non sempre riconosciamo il valore. E’ questa l’Italia migliore, l’Italia che amiamo e che può essere di esempio per costruire un futuro di pace, che certo oggi è più prossimo, con l’Unione Europea e con il superamento dei muri e delle frontiere tra stati, con il crollo dei nazionalismi e dei populismi, in una prospettiva di grandi intese tra popoli che sono possibili solo grazie a dei punti fermi fissati nel corso dei decenni cruciali della guerra fredda. Sono appena rientrato da Herat in Afganistan e anche lì ho visto l’impegno dei nostri militari della Brigata Sassari e ho ammirato il coraggio, il senso del dovere, la disciplina miliare alla quale siamo poco abituati. Premesse indispensabili per un futuro di pace.

Anche ai nostri giorni ci sono dei caduti: ma il senso di questo libro è che la memoria non si perda col trascorrere del tempo, soprattutto che si ritrovino sempre le ragioni nascoste di una civiltà fondata sull’onore e sul dovere. Sentimenti ed emozioni che ho provato qualche mese fa visitando a Roma in Piazza Armellini, presso il Comando Generale della Guardia di Finanza, il Museo storico del corpo, accompagnato in quella visita privilegiata dal direttore, il brillante capitano Gerardo Severino: è un luogo straordinario, pieno di memorie e fondamento essenziale per capire la ricchezza di una storia che ci riguarda  tutti, me in particolare se alla mia famiglia appartiene un finanziere che si è segnalato dopo l’8 settembre 1943 nella difesa di Roma dai nazisti, Salvatore Pala. Ma vincoli di amicizia vera mi hanno legato in passato al generale Fabio Morera, che per tre anni tra il 2003 e il 2006 ha collaborato con la nostra Università, come testimonia la mostra fotografica sulla Sardegna vista dall’alto che inaugurammo in questa aula magna e il bel volume I fenici al volo di Piero Bartoloni pubblicato da Carlo Delfino per la Banca di Sassari, con le straordinarie immagini dell’”isola dalle vene d’argento” riprese da Michele Guirguis ed Elisa Pompianu sporgendosi pericolosamente dagli elicotteri della guardia di finanza. Scrivendo l”introduzione al volume avevo  ricordato questo legame forte della Guardia di Finanza con la Sardegna, ma lasciatemi oggi esprimere la gratitudine per i comandanti provinciali che si sono succeduti, i nostri carissimi Giovanni Casadidio, Corrado Pillitteri, fino a Francesco Tudisco.  Grazie ora al Generale Umberto Di Nuzzo, che un anno fa ha sostituito Stefano Baduini.

Del resto il capitano Severino ci ha abituato a riflettere sull’Italia tutta, dalle vette delle Alpi fino all’Etna, partendo dai tanti volumi sulla Guardia di finanza che costituiscono una ampia biblioteca e che ha avuto la generosità di donarmi, dalla Storia dei Baschi verdi fino agli aiuti ai profughi ebrei ed ai perseguitati, arrivando all’Istria e alla Dalmazia e alla tragedia delle foibe. Voglio ricordare almeno lo straordinario successo del recente volume su Giovanni Gavino Tolis, il contrabbandiere di uomini,  il giovane finanziere venticinquenne catturato dalla Gestapo, morto a Gusen, il cui corpo fu cremato il 28 dicembre 1944 in un forno del campo di sterminio di Mauthausen: originario di Chiaramonti, aveva aderito alla resistenza e aiutato centinaia di profughi a passare in Svizzera attraverso il confine di Ponte Chiasso in comune di Como.

Tutti avvenimenti che costituiscono la premessa di questo volume dedicato a due dei sette finanzieri caduti in Alto Adige e recentemente onorati con la concessione da parte del Presidente della Repubblica di una medaglia d’oro al merito civile, dopo Raimondo Falqui, originario di Lula, la cui morte si data al lontano 1956, avvenuta a sprangate per mano di giovinastri poi identificati come simpatizzanti del nascente terrorismo altoatesino.

Furono dieci anni di guerra, di terrorismo separatista in Alto Adige alias Sud Tirolo, all’indomani degli accordi De Gasperi-Gruber del 1946 che portarono due anni dopo alla nascita della Regione Autonoma del Trentino Alto Adige e ad una lunga trattativa: all’ONU e tra i ministri degli esteri dell’Italia e dell’Austria, come quella che vide protagonista nel 1961 il nostro Antonio Segni (per dieci anni rettore di questa Università) e il collega austriaco Bruno Kreisky, mentre i terroristi si organizzavano nel Bergisel Bund, la  Lega del Monte Isel per la tutela del Tirolo del Sud che affiancò apertamente i terroristi del BAS, il Befreiungsausschuss Sudtirol, ai quali si pouò attruibuire l’attacco alla caserma della Brigata della Guardia di Finanza a Silandro in Val Venosta.

Non seguirei nei dettagli gli sviluppi delle azioni terroristiche che portarono a numerosi attentati dinamitardi, a carico di treni, tralicci, caserme, con la regia di qualche professore dell’Università di Innsbruk, con i processi-farsa e con i molti errori compiuti dal Governo italiano che esasperarono il separatismo. Basterà ricordare la morte del carabiniere Palmerio Ariu il 26 agosto 1965 assassinato con un collega all’interno della caserma di Sesto Pusteria in provincia di Bolzano. Il culmine del terrorismo si raggiunse con le azioni del 1966, nelle quali finirono per essere coinvolte sanguinosamente le fiamme gialle di origine sarda Salvatore Cabitta originario di Porto Torres e Martino Cossu, il più giovane caduto che il Corpo ebbe in Alto Adige, originario di Luogosanto.  Sullo sfondo delle pagine di questo libro, che viene presentato nel giorno della memoria delle vittime del terrorismo, risuonano le note della canzone Brennero 66 dei Pooh, una canzone struggente un tempo eretica perché troppo esplicita nel ricordare l’inutilità della morte, soprattutto su quei monti dove si uccideva quasi per gioco, per dimostrare che la voce del tempo degli uomini uccisi non doveva contare più niente. C’è però un prezioso rimando al paese di origine di Martino Cossu, Luogosanto in Gallura, con la casa di pietra bruciata dove non han mai visto la neve. Ora sul muro di quel paese silenzioso è rimasta soltanto quella tua foto dove stringevi in mano il fucile. E una campana in paese racconta a una donna che piange di quel tuo fucile che non servì a niente.

Ci sono in queste pagine sentimenti ed emozioni che vanno ben oltre la ricostruzione storica dei fatti: c’è il tentativo di far riemergere a tutto tondo la figura di due finanzieri come tanti, interpreti di un mondo fondato sul dovere, sulla lealtà, sull’amor di patria.

Salvatore Cabitta era nato a Porto Torres il 10 giugno del 1941, figlio del contadino Gavino, che nel nome ricordava il primo dei martiri turritani, il soldato palatino compagno di Proto e Gianuario che ritroviamo sul sigillo storico del nostro Ateneo; sua madre era Antonia Francesca Zallu e la famiglia si era trasferita nella nuova frazione di Sassari, a Campanedda, un luogo straordinario sulla strada dei due mari nato in quegli anni con la riforma agraria della Nurra promossa dall’Etfas ai piedi del castello medioevale. L’autore del volume si spinge addirittura a ricostruire le fasi dell’arruolamento, recuperando anche la domanda presentata nell’ottobre 1961 fino all’inquadramento nel contingente ordinario avvenuto sei mesi dopo. Ci sono le informazioni sulla sua salute, sulle malattie del padre e dei familiari, le fotografie in divisa; emergono le sue doti di atleta.  Cabitta frequentò il corso allievi alla Scuola nautica di Gaeta, partecipando alla cerimonia di giuramento di fedeltà alla repubblica il 18 agosto 1962. Proprio a Gaeta alcuni anni dopo avrebbe frequentato il corso di operatore marconista. Assegnato alla IX legione territoriale di Roma, prestò servizio al Lido di Ostia, a Frascati infine a Tarquinia impegnato nella difesa dai tombaroli delle necropoli etrusche, un tema che ci è molto caro. Due anni dopo fu destinato alla legione di Trento, prima a Belluno e poi a Bolzano, presso la brigata di frontiera di Cima Canale in Cadore. Infine raggiunse il 9 maggio 1966 come marconista la Brigata di San Martino in Casies a Est di Brunico, a breve distanza dalla frontiera austriaca. Qui il giovane iniziò a spedire del denaro al padre, per permettergli di acquistare un trattore da usare per rendere fertili i terreni della bonifica nella Nurra di Campanedda. Appena due mesi dopo il suo arrivo, il 24  luglio 1966, il finanziere Salvatore Cabitta, rientrando a tarda notte in abiti civili nella bella caserma di San Martino, accompagnato da altri due colleghi, fu investito dal fuoco automatico dei terroristi, poi identificati nei “quattro bravi ragazzi della Valle Aurina”. Nell’occasione il finanziere Giuseppe D’Ignoti, ferito a morte dalle sventagliate di mitra, riuscì a trascinarsi fino all’edificio vicino che ospitava il Caffé Bar Steiner, dal quale fu dato l’allarme. Con l’intervento del brigadiere Mario Zaccaron e di alcuni finanzieri, il fuoco dei terroristi cessò, si avviarono i soccorsi e soprattutto a tarda notte arrivarono i rinforzi: i finanzieri di Monguelfo e i carabinieri della stazione di Valle di Casies. Iniziarono subito le ricerche nel bosco, per bloccare i terroristi che riuscirono però in breve a raggiungere il confine austriaco. Un giorno dopo arrivavano a San Candido il ministro dell’interno Paolo Emilio Taviani, il capo della polizia il prefetto Angelo Vicari, il comandante generale della Guardia di Finanza Umberto Turrini. L’autore segnala la bella dichiarazione della Giunta Provinciale di Bolzano presieduta da Silvius Magnago, che espresse ferma condanna per questo nuovo crimine e per l’assassinio proditorio concepito a sangue freddo, chiedendo la condanna di esecutori e mandanti. Anche l’opinione pubblica austriaca rimase profondamente colpita dalle violente modalità dell’attentato. I funerali di Salvatore Cabitta si svolsero a Bolzano il 27 luglio; la salma, accompagnata dal cappellano Padre Eusebio Jori, fu trasferita a Genova e poi sulla nave di linea Calabria arrivò a Porto Torres, dove si svolse la solenne cerimonia nella basilica di San Gavino presieduta dall’arcivescovo Paolo Carta. Le spoglie del giovanissimo finanziere riposano oggi nella tomba di famiglia del cimitero di Campanedda.  Pochi giorni dopo veniva sepolto anche l’amico Giuseppe D’Ignoti, che sopravvisse solo una settimana, sepolto poi a Catania ai primi di agosto. Le indagini consentirono di accertare la responsabilità di un gruppo di giovani dell’organizzazione separatista sudtirolese BAS, compresi Heinrich Oberleiter, Sepp Forer, Siegfriede Steger ed Heinrich Oberlechner, colpevoli nel maggio precedente di un altro attentato, quello clamoroso a Passo Vizze che era costato la vita al finanziere Bruno Bolognesi.

Il secondo protagonista di questo volume è il giovanissimo finanziere Martino Cossu, nato a Luogosanto in Gallura il I gennaio 1946, dai contadini Salvatore e Giovanna Debidda, che abitavano a Lu Palazzeddu sulla statale che unisce Tempio a Palau.  Operaio in una cava di granito dei Rasenti a Tempio, lottatore di judo, incoraggiato dal fratello finanziere, Martino presentò domanda di arruolamento nella primavera del 1964 e fu effettivamente arruolato  il 25 gennaio del 1965 presso il I battaglione di Roma nella Caserma Piave. Il I agosto 1965 giurò fedeltà alla repubblica e fu ammesso nel Gruppo sportivo Judo delle Fiamme Gialle, finendo però per essere assegnato alla IV legione di Trento, presso la compagnia della Guardia di Finanza del Brennero in provincia di Bolzano. Il 14 marzo 1966 Martino veniva spedito a San Giacomo in val di Vizze, a E del Brennero. Negli ultimi giorni di vita poté avere una licenza di 15 giorni, che passò a Luogosanto, per poi essere assegnato al distaccamento di Malga Sasso a E di Vipiteno, in tedesco Steinalm.  Qui sarebbe andato incontro al suo destino tre giorni dopo il suo arrivo. Il 9 settembre 1966 la casermetta di Malga Sasso fu fatta esplodere con effetti terrificanti: le ricostruzioni divergono, ma è accreditata l’ipotesi che una bomba sia stata gettata dal comignolo del caminetto all’interno della cucina, dove il finanziere Martino Cossu svolgeva le funzioni di cuciniere. Altri parlano di un ordigno di 25 kg munito di congegno ad orologeria che esplose alle 11,30, facendo saltare per simpatia anche la santa barbara dei finanzieri. Restarono uccisi il vice brigadiere Eriberto Volgger, il finanziere Martino Cossu, mentre il tenente Franco Petrucci rimase ustionato e gravemente ferito; colpito dalle schegge, giunse all’ospedale di Vipiteno in condizioni disperate.  Con loro molti altri finanzieri rimasero feriti, come il giovane Giovanni Flore, ventottenne di Ardauli. Le indagini videro in prima linea il Col. Ferdinando Dosi, comandante della IV legione delle fiamme gialle di Trento, nuovamente il Ministro dell’interno Paolo Emilio Taviani e il capo della Polizia Angelo Vicari. Ancora una volta i solenni funerali celebrati nel Duomo di Vipiteno l’11 settembre furono l’occasione per esprimere lo sdegno del Paese, rappresentato dal ministro della difesa Roberto Tremelloni e dall’ordinario militare per l’Italia Mons. Luigi Maffeo. Dieci giorni dopo sarebbe morto anche il tenente Petrucci. La salma di Martino Cossu, accompagnata dal fratello finanziere Sebastiano e dal cappellano militare Padre Angius, da Genova raggiunse Porto Torres e quindi il 13 settembre Luogosanto in Gallura, dove il vescovo di Tempio Pausania Giovanni Melis celebrò la messa funebre interrompendo la festa in onore della Madonna patrona del paese. Era passato appena un anno e mezzo dall’arruolamento.  Le indagini consentirono ancora una volta di individuare i responsabili, alcuni dei quali furono poi effettivamente arrestati dai carabinieri, che ricostruirono le modalità inconsuete dell’attentato che aveva colpito la casermetta, che vediamo distrutta nelle straordinarie immagini fotografiche di questo volume. L’unico a pagare per l’attentato fu Richard Kofler, mentre gli altri attentatori riuscirono ad evitare l’arresto o più tardi ad ottenere un condono.

Dopo l’accordo di Copenaghen stipulato il 30 novembre 1969 fra i ministri degli esteri Aldo Moro e Kurt Waldheim sul pacchetto Alto Adige si ridussero e infine si chiusero gli attentati voluti per mantener viva la fiamma dell’indipendenza del Sud Tirolo, che costarono la vita complessivamente a 21 persone; ci furono in 23 anni di guerriglia insensata anche 57 feriti , con la condanna da parte della magistratura italiana di alcune centinaia di terroristi prevalentemente altoatesini, ma anche austriaci e tedeschi. Tra il 1990 e il 1995 gli Accordi di Shengen consentirono di superare il problema con la libera circolazione delle merci e delle persone, nell’ambito dell’Unione Europea.

Il 29 marzo 2010 Salvatore Cabitta e Martino Cossu ottenevano alla memoria dal Presidente Napolitano la onorificenza di Vittime del terrorismo, mentre in precedenza erano state loro intestate vie a Porto Torres, a Luogosanto e ad Olbia. Il capo della Polizia aveva concesso ai due caduti lo status  di “vittime del dovere”.  Tre anni dopo, il 5 marzo 2013, il nostro capitano Gerardo Severino riusciva a portare a termine l’impresa di far attribuire ai finanzieri caduti in Alto Adige una ricompensa al merito civile, con le medaglie d’oro concesse dal Presidente Napolitano e consegnate esattamente un anno fa in occasione del Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo interno e internazionale e delle stragi di tale matrice, che celebriamo il 9 maggio anche per ricordare l’uccisione di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta.  Nella motivazione si ricordano i nobili ideali di legalità e amor patrio, le virtù civiche, l’altissimo senso del dovere.

A distanza di un anno rimane forte in Sardegna il senso di gratitudine per chi ha voluto ricordare questi avvenimenti, che ci riportano alla notte nera del terrorismo, che abbiamo superato grazie al sacrificio anche di Salvatore Cabitta e Martino Cossu.




Cerimonia di conferimento del diploma di dottorato a due dottorandi afgani.

Cerimonia di conferimento del diploma di dottorato a due dottorandi afgani


Herat, 2 maggio 2014

Caro Magnifico Rettore dell’Università di Herat Abdul Zaher Mohtaseb Zada, caro Preside della Facoltà di Agraria Mohammad Youssof Jami, caro Direttore del Dipartimento di scienze degli animali Abdul Rahim Omid, caro Procuratore capo della Provincia di Herat Maria Bashir, caro Generale comandante ISAF Manlio Scopigno, cari colleghi, cari studenti,

con emozione siamo oggi qui ad Herat per conferire solennemente il diploma di dottore di ricerca in “Scienze e biotecnologie dei Sistemi Agrari e Forestali e delle produzioni alimentari” a due studiosi afgani, Alam Ghoryar e Abdullah Halim, che hanno frequentato in Italia  Sassari e a Nuoro la Scuola di Dottorato grazie alle borse di studio messe a disposizione dall’Ente Acque della Sardegna e grazie al costante impegno logistico della Brigata Sassari. Fanno parte di questa commissione i professori Sergio Vacca, vera anima di questa giornata, Roberto Scotti, Chiara Rosnati e Giovanni Cocco.

L’Afganistan, un paese che amiamo, ci ha accolto in questi giorni con i suoi colori, con il suo verde, con i suoi profumi, con la sua musica, con la sua gente. Anche con un pezzo di Italia e con un pezzo di Sardegna.

Soprattutto oggi siamo ospitati in questa Università con amicizia vera, con interesse e con speranza, in mezzo a tanti giovani pieni di desideri e di progetti. Vi prometto che non vi deluderemo.

Volevo dire che intendiamo manifestare oggi il più grande rispetto per le tradizioni culturali e religiose, per la profondità della vostra storia, per il patrimonio culturale sintetizzato in questa splendida città di Herat dalla Moschea blu e dall’antica cittadella Arg, recentemente restaurata dall’UNESCO, costruita in pisé di terra, questi straorinari mattoni di fango e paglia solidi e capaci di regolare la temperatura.  E poi i quattro altissimi minareti dell’antica Scuola coranica, la madrassa e il musalla distrutti dai Britannici, l’oratorio e il vicino Mausoleo della Regina Gawarshad, le mura dell’originaria vastissima fortificazione islamica.

Io non so se veramente Alessandro Magno nel 330 a.C. abbia fondato la sua colonia Alessandria degli Ari qui ad Herat, ai margini orientali dell’impero persiano di Dario, sulla collina bagnata dai canali che provengono dal grande fiume Heri-rud (Hari). In ogni caso esiste ed è visibilissimo un patrimonio culturale che deve essere difeso soprattutto in momenti difficili come questi. La responsabilità delle Università è particolarmente rilevante per incamminarci verso un mondo nuovo fondato sulla pace, per aprire orizzonti nuovi di cooperazione, contro le chiusure e le intolleranze, verso una nuova dimensione internazionale, per una classe dirigente de nostri Paesi (l’Afganistan e l’Italia) che sia all’altezza delle sfide che ci attendono. Per un dialogo tra popoli, per nuove relazioni internazionali che qualifichino insieme le nostre due Università, Sassari ed Herat. Per uno sviluppo economico che passa anche attraverso i temi trattati in queste tesi di dottorato, la zootecnica, la sicurezza alimentare, il pascolo, il paesaggio trasformato dall’uomo.

Siamo qui per dire che saremo ancora l vostro fianco  anche dopo la conclusione di una missione militare che progressivamente potrà assumere la forma di una cooperazione civile. Progetteremo nuove occasioni di incontro, accoglieremo altri studenti, scriveremo ai Rettori di tutte le università italiane perché si creino spazi per gli studenti afgani nei corsi di laurea, nelle scuole di specializzazione, nei corsi di dottorato, nei master internazionali, chiederemo l’intervento della Conferenza dei Rettori. Grazie all’Ente Regionale per il diritto allo studio di Sassari e al Consorzio per la promozione degli studi  universitari di Nuoro per quanto hanno fatto per  i nostri primi tre dottorandi afgani.

Grazie per l’ospitalità che ci avete riservato, grazie per l’impegno per una cooperazione culturale che può essere alla base di un nuovo Afganistan, conclusa questa fase elettorale che state vivendo in queste frenetiche settimane: un successo organizzativo, politico e democratico che fa sperare per il futuro pacifico del Paese.

Auguri ai nuovi dottori di ricerca afgani, che speriamo possano davvero svolgere un ruolo attivo per la crescita dell’agricoltura e della zootecnia in Afganistan, con la speranza che riescano a diventare dirigenti, manager, persone destinate a svolgere un ruolo molto attivo nel proprio paese al loro rientro, soprattutto in alcuni campi come l’agroalimentare e non solo.

Lasciatemi dire grazie al generale Manlio Scopigno, comandante della missione ISAF e insieme comandante della Brigata Sassari, con il 151° e 152° reggimento che costituiscono l’élite del nostro esercito italiano, impegnato in una missione di pace che l’Afganistan ha capito fino in fondo. La Brigata Sassari  porterà a termine una missione impegnativa con generale apprezzamento. Voglio esprimere l’emozione forte, la simpatia, il legame che ci unisce ai militari che abbiamo visto all’opera, in un progetto di cooperazione civile e militare, nell’impegno di stabilizzare una situazione difficile e di combattere il terrorismo nei nemici dell’Afganistan con le armi della pace e della cultura. L’Università è sta ben lieta di collaborare sul piano scientifico a una riflessione dalla quale possono dipendere gli indirizzi operativi per i prossimi anni. Oggi vediamo il senso di questo impegno e il futuro di questo impegno, per quei territori nei quali la Brigata ha speso risorse e ha pagato anche in qualche caso con il sangue, un impegno, a favore delle popolazioni che si trovano in difficoltà e che non vorremmo abbandonare. Inoltre vorrei veramente cogliere l’occasione per evidenziare l’attenzione con la quale la Sardegna segue le attività della Brigata, che sente come un elemento identitario legato all’Isola, legato alla vita delle famiglie, legato alla nostra Regione. Dunque, grazie per essere qui, grazie per quanto avete fatto, grazie per quanto farete.

Ho visto stamane la gente che prendeva il sole nei tanti bellissimi parchi alberati della città di Herat e penso che presto il volo degli aquiloni riprenderà anche nel cielo di Kabul, dopo questo periodo lunghissimo di guerra e di devastazione. Colgo l’occasione per annunciar che nella giornata di ieri il Consiglio del Dipartimento di Architettura, design e urbanistica, su richiesta del prof. Sergio Vacca e del Direttore Arnaldo Cecchini ha proposto di conferire la laurea ad Honorem a Maria Bashir, Procuratore generale del Distretto Giudiziario di Herat e prima donna a ricoprire quell’incarico in Afghanistan. Il perseguimento di una “città dei diritti” è parte integrante della sua biografia, della sua ricerca di una società e una città più giuste, che permettano pari dignità di accesso ai servizi primari quali l’istruzione, nella convinzione che solo attraverso questa l’Afdganistan possa sperare in un futuro migliore.  L’attività di Maria Bashir come Procuratore distrettuale è particolarmente indirizzata a contrastare la corruzione, il narcotraffico ed il terrorismo, settori in cui l’organizzazione spaziale della città e del territorio e l’organizzazione dei processi decisionali assumono un ruolo rilevante.  Porteremo presto la proposta  in Senato Accademico e al Ministero della Pubblica Istruzione, dell’Università e della ricerca, sicuri che sarà accolta.

Inshallah, Afganistan.  Inshallah, Italia.




La scomparsa di Leonardo Sole

La scomparsa di Leonardo Sole
Sassari, 25 febbraio 2014

Ho ricordato ieri mattina Leonardo Sole in Consiglio di Amministrazione dell’Università, partendo dalla sua straordinaria biografia pubblicata sulla Rivista della ex Facoltà di Lingue e letterature straniere, soprattutto ricordando i tanti momenti vissuti insieme in Facoltà, le sue passioni, il legame indissolubile che lo univa a Mondina e ai ragazzi, con Stefano sempre presente. Era nato a Sassari l’11 luglio 1934. Professore di Linguistica generale presso la Facoltà di Magistero, poi di Lettere Filosofia infine di Lingue all’Università di Sassari, in pensione dal  I novembre 2004, si è distinto come linguista e semiologo, drammaturgo, critico teatrale, poeta della Sardegna.

Per molti anni, è stato attivo sul piano internazionale, fin dalla sua fondazione membro del Bureau européen pour les langues moins répandues e presidente del Comitato nazionale federativo minoranze linguistiche d’Italia.

Specialista dei problemi linguistici delle minoranze, ha pubblicato molti e significativi studi sull’argomento, per quanto io non condividessi con lui l’analisi troppo severa del ritmo inarrestabile di impoverimento della lingua sarda che immaginava destinata a scomparire entro pochi decenni tra le giovani generazioni. Era il suo modo per suscitare preoccupazioni sulle quali far leva per un impegno politico progressista più serrato degli intellettuali sardi sul tema della lingua e dell’identità della Sardegna.

Come linguista ha dato una risposta considerata risolutiva all’annoso problema delle origini del sassarese, per lui formatosi come pidgin a Porto Torres intorno al secolo XI ed evolutosi come lingua creola.

Come specialista dell’analisi del testo e semiologo ha scritto molto sul teatro (oltre le migliaia di articoli pubblicati sulla Nuova Sardegna in qualità di critico teatrale per circa quarant’anni) e dedicato numerosi saggi ai rapporti tra oralità e scrittura, al linguaggio iconico negli scrittori sardi, alla semiotica del teatro e della danza sarda, ai gerghi sardi, ai modelli semiotici della cultura sarda, ai poeti in lingua sarda. Ha analizzato sotto questo aspetto, rivolto alla individuazione delle matrici semiotiche e antropologiche, ai modelli linguistici di base e alle modalità di scrittura, tutti i maggiori scrittori sardi, dalla Deledda a Salvatore Satta agli autori più recenti.

Per quanto riguarda Grazia Deledda, ha messo in luce un aspetto fondamentale trascurato o misconosciuto dalla grande critica, vale a dire il fatto che la Deledda non solo utilizza i modelli ritmici riferibili alla lingua sarda, ma che il ritmo (che tende in lei a formalizzarsi in sequenze di settenari-ottonari ed endecasillabi) costituisce una struttura portante della sua scrittura. Dalle minuziose analisi testuali risulta inoltre che la Deledda utilizza come connotatori essenziali il sistema dei colori, che assume la funzione di un codice vero e proprio, ora sovrapponibile alla parola, ora alternativo.

Ha svolto numerose ricerche interdisciplinari sul campo, soprattutto in Barbagia, in collaborazione con la Discoteca di Stato, con l’Istituto Superiore Regionale Etnografico e con illustri studiosi: coi musicologi Diego Carpitella e Pietro Sassu ha pubblicato tre dischi di Musica sarda. Canti e danze tradizionali, accompagnati da un saggio di analisi semiotiche.

Come critico teatrale e drammaturgo si è impegnato in un lungo lavoro di ricerca e di analisi dei modi tradizionali del comunicare, visti anche in relazione ai contesti attuali della comunicazione sociale e in funzione di nuove forme di comunicazione teatrale.

Scriveva in italiano e in sardo, badando però a valorizzare anche i sistemi segnici non verbali della cultura sarda, compresi quelli “naturali” e del paesaggio.

Le sue opere sarde danno un contributo «di grande rilievo alla formazione di un teatro sardo» e possono fornire un’ottima base di partenza per avviare un processo di unificazione della lingua sarda.

Per George Bossong  <<Leonardo Sole utilise dans ses drames une forme de langage dans laquelle les locuteurs des variantes le plus diverses peuvent se reconnaitre e qui pourrai servir de modèle pour l’elaboration d’une koiné interdialectale, indispensable à l’avenir … Quoiqu’il soit, il est indéniable que la langue sarde s’est enrichie, avec Leonardo Sole, d’un auteur dramatique d’une envergure toute autre que provinciale>>.

Sue poesie sono state inserite in numerose antologie e riviste, anche internazionali. Ha pubblicato molti  volumi di versi (tra i quali Katabasis; Licheni rossiCuvânt ce tremură).

Tra le opere teatrali, quasi tutte ripetutamente messe in scena, Pedru Zara (Sassari, 1978), storia di un emigrato che rappresenta in termini drammatici la perdita di identità dei sardi, messo in scena in Sardegna ein Corsica; Funtanaruja, messo in scena nel 1979 in Sardegna e nella penisola dal Teatro di Sardegna; la sacra rappresentazione Il pianto della Madonna, più volte messa in scena in Duomo a Sassari, nonché in diverse piazze e puntate televisive curate da Rai3. Per la Rai ha anche scritto un racconto sceneggiato in dieci puntate, andato in onda nel 1988 e nel 1992: Leonardo Alagon. Il mito drammatico La casa del bosco (1988), che si ispira alla vita di Antonia Mesina, vittima di una assurda violenza e poi beatificata, ha partecipato con successo al festival di Sant’Arcangelo del 1989.

Nelle sue opere teatrali si usano, separatamente o in un contesto plurilingue sperimentale, l’italiano, il sardo, il sassarese e i sistemi segnici non verbali tipici della Sardegna, compresi quelli “naturali”.

Nel 1990 è andata in scena Nur, frutto di un’altra ricerca sui miti sardi, e nel 1992 l’atto unico La panchina, come saggio finale del seminario universitario di semiotica del teatro. Il dramma plurilingue Itaca!Itaca!, scritto in collaborazione con Jacques Thiers e Franco Scaldati, ha coinvolto in un unico progetto le due università di Sassari e di Corsica e tre gruppi teatrali: Teatro Sassari, ‘U Teatrinu (Corsica) e Femmine dell’ombra (Palermo). Prima rappresentazione ad Ajaccio, nel quadro delle manifestazioni scientifiche dei Jardins de la connaissance, e in numerose altre piazze. Nel quadro del progetto “Odissea” tra le due università è stato prodotto nel 1998 Il Ciclope, di Jacques Thiers e Leonardo Sole.

Per volontà di Giovanni Palmieri e poi di Alessandro Maida mi aveva coinvolto nel progetto del Tearcus, il Centro di servizi per le attività teatrali e artistiche in genere dell’Università di Sassari, che è culminato con la rappresentazione nel 1998 dello spettacolo Mascaras, saggio finale del laboratorio teatrale.  Ma allora veramente erano emersi progetti più vasti, che alcuni ingenerosamente consideravano velleitari.

Tra le opere principali di Leonardo Sole voglio ora ricordare:  Lingua e cultura in Sardegna. La situazione sociolinguistica, Unicopli, Milano 1988;  Sassari e la sua lingua, Stamperia Artistica, Sassari 1999; “Verso lo standard. Il problema della scrittura”, in Scrivere il sardo. Problemi di grafia della lingua regionale, Atti del convegno in onore di Michelangelo Pira (Quartu Sant’Elena, 24/25 ottobre 1998), Tema, Cagliari 1999; “Identità in progress. Linguaggio e realtà nella società complessa”, in Annali della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Sassari , a cura di Giuseppe Contu, Sassari 2000; Il sassarese. Come nasce, come si scrive, Lisena editrice, Sassari 2003;  “La forza delle radici nella scrittura bifronte di Antonio Simon Mossa ”, in Antonio Simon Mossa, Dall’utopia al progetto, a cura di Federico Francioni e Giampiero Marras, Condaghes, Sassari 2004; “ Il teatro della parola in Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu ”, in Emilio Lussu trent’anni dopo, Alfa Editrice, Cagliari 2006.

Per mio tramite, l’Università di Sassari aderisce all’idea della nascita di una “Fondazione Leonardo Sole” proposta oggi da Mondina, nell’emozione di una perdita irrevocabile e nel dolore di un’assenza che tutti avvertiamo.