Premiazione degli studenti meritevoli dell’Ateneo di Sassari, 31 ottobre 2014

Premiazione degli studenti meritevoli dell’Ateneo
Sassari, Aula Magna dell’Università, 31 ottobre 2014

Cari amici,

ho il piacere di chiudere oggi il mio mandato di Rettore, d’intesa con il Rettore eletto prof. Massimo Carpinelli,  premiando i nostri centododici migliori studenti. Un saluto affettuoso di benvenuto a tutti, studenti, familiari, amici, colleghi e, in particolare, ai valorosi “meritevoli”. Questa aula magna è davvero la vostra casa.

Oggi è un giorno di festa. Per voi che siete stati davvero bravi ma anche per noi che siamo i vostri docenti. Sono presenti anche i direttori dei dipartimenti, il presidente del Consiglio degli studenti Riccardo Zanza che con Battista Matteo Mameli, Giulio Tupponi, Salvatore Bulla e Marco Pilo, vi rappresentano negli organi accademici e che hanno con grande intensità sostenuto questa iniziativa, portata avanti innanzi tutto dal Prorettore Vicario Laura Manca e dal Direttore Generale Guido Croci.

Ieri abbiamo appena inaugurato la Biblioteca del Mediterraneo del Comune e dell’Università ad Alghero,  oggi le nuove aule e i laboratori infornatici della Facoltà di Medicina e Chirurgia: sappiamo che consegnare nuove strutture significa migliorare anche la vita da studente. E’ un impegno costante che l’Ateneo non può e non vuole trascurare. Ogni anno abbiamo fatto di tutto per tentare di perfezionare e potenziare l’esistente.

Assieme ai  vostri rappresentanti abbiamo fatto ogni nostro sforzo per difendere i vostri diritti e a voi chiediamo ancora impegno e responsabilità dentro l’università e nella vita professionale. Sono certo che nei vostri studi avete messo anche tanta passione e tanto entusiasmo. Sono tutti valori che si completano e si compensano per garantire i migliori risultati e per raggiungere il merito.

Voi avete dimostrato quello che valete e il risultato è reso ancora più significativo dal fatto che siete in buona compagnia e non siete soli.  Scorrendo la graduatoria dei 420 aventi diritto in quanto in possesso dei requisiti, devo riconoscere che fra i meritevoli e gli idonei spesso la differenza nella media è minima, di appena di pochi centesimi di punto.  Per riconoscere il merito abbiamo ritenuto di premiare un solo studente per ciascun anno dei 53 corsi di studio attivi nel periodo di riferimento. Oggi premiamo 112 studenti ma permettetemi di fare pubblicamente i complimenti anche agli altri 308 idonei che avevano i requisiti base.

Quello che mi commuove di più è che tra di voi c’è oggi anche un detenuto della Casa circondariale di Alghero. Complimenti per l’impegno, auguri per una vita nuova, grazie alla direttrice del carcere, a Patrizia Patrizi, ai nostri tutor, ai docenti.

Tra le priorità di quest’ultimo quinquennio, accanto ad una riorganizzazione globale dell’attività formativa inclusa l’alta formazione con i corsi di dottorato, master e scuole di specializzazione, l’Ateneo ha messo in atto un attento monitoraggio dei processi di qualità per garantire una migliore organizzazione della didattica, del sistema di tassazione e di tutti i servizi offerti agli studenti compresi quelli non necessariamente legati alle attività didattiche (per esempio le 150 ore, le attività sportive, le biblioteche, i laboratori). L’attenzione è aumentata nel tempo anche in considerazione della notevole riduzione delle risorse nazionali e locali per il diritto allo studio. Negli ultimi cinque anni infatti, una fascia sempre più ampia di studenti definiti idonei in base ai requisiti reddituali e di merito non ha potuto beneficiare della borsa di studio poiché è sensibilmente aumentata la percentuale di coloro che ne hanno fatto richiesta, anche in rapporto alla crisi che la Sardegna sta drammaticamente attraversando.

Con questa cerimonia, per la sesta volta l’Ateneo celebra i suoi migliori studenti. Studenti che hanno maturato almeno 35 CFU fra il I agosto 2012 e il 31 luglio 2013, riportando una media ponderata dei voti almeno di 29/30.

Che fosse necessario trovare un modo per riuscire a premiare gli studenti era stato suggerito nel 2009 dai rappresentanti degli studenti nella Commissione Tasse, quando l’osservazione di alcune criticità legate al passaggio obbligatorio dall’adozione dell’indicatore ISE a quello ISEEU per la determinazione della condizione economica dello studente aveva indotto la Commissione tasse a migliorare il modello di contribuzione studentesca nel rispetto dei principi di equità, riducendo  la pressione sulle fasce più deboli

Nel rapporto tra i contributi versati dagli studenti e il finanziamento erogato dallo Stato all’Ateneo, l’Università di Sassari si attesta sul 10,4%, a fronte del 20% possibile per legge, un valore che a livello nazionale colloca Sassari tra le Università che esercitano la minore pressione a carico degli studenti. Le contribuzioni studentesche che si versano a Sassari sono tra le più basse, in rapporto anche alla situazione socio-economica della Sardegna e del territorio nel quale opera l’Ateneo. La funzione di tassazione utilizzata per determinare l’importo della tassa di iscrizione è calcolata in base al reddito. La tassazione non è stata modificata dal 2009 al 2012. Nel 2013/14 si è proceduto ad una revisione degli importi mantenendo il sistema di tassazione dell’anno precedente per gli studenti che dichiaravano un valore ISEEU fino a 8.000 euro e ponendo un incremento dell’1,5% per gli studenti aventi un valore ISEEU fino a 40.000 euro. Al di sopra di tale soglia è stata applicata la stessa funzione ma con parametri differenti fino ad un importo massimo di 1.300 per valori superiori a 150.000 euro.

Poiché la condizione socio economica del territorio risulta essere a tutt’oggi particolarmente critica e un ulteriore aumento delle tasse avrebbe avuto un’azione inibitoria per le immatricolazioni e le iscrizioni comportando un’ulteriore riduzione del numero degli studenti iscritti, per il 2014-15 il Consiglio di Amministrazione ha deliberato di non modificare gli importi rispetto all’anno precedente.

Durante gli ultimi cinque anni oltre ai principi di equità e di maggiore proporzionalità rispetto al reddito, sono stati introdotti principi di premialità e strumenti volti a favorire il merito. Per il prossimo anno accademico è stata prevista una nuova misura premiale che si aggiunge a quelle che erano già a regime che premiano gli studenti di qualità, indipendentemente dal reddito familiare. La misura prevede la riduzione di 50 euro sull’importo delle tasse per coloro che nel corso dell’anno accademico 2014-15 maturino almeno 40 crediti ed è stato confermato l’esonero dal versamento della seconda e della terza rata delle tasse di iscrizione per gli studenti che abbiano conseguito il diploma di maturità con il massimo dei voti o si laureino in corso con 110 e lode entro la prima sessione utile di laurea. In favore degli studenti, da quest’anno, nel contributo di 30 euro dovuto per il rilascio della pergamena di laurea è stata compresa anche l’imposta di bollo di 16 euro.

Poiché l’impianto generale della contribuzione studentesca mira a premiare gli studenti in regola con gli esami e a ridurre il numero di quelli inattivi e fuori corso,  per l’a.a. 2014-15 è stata introdotta una penalità di 50 euro per coloro che si iscrivono ad anni successivi al primo senza aver conseguito nell’a.a. precedente almeno 12 CFU, ciò sempre con l’intento di sollecitare gli studenti che non sostengono esami. Altri tipi di sostegno sulla misura del reddito e legati al merito sono stati garantiti da finanziamenti stanziati da Fondazioni o Enti esterni.

La Fondazione Intesa Sanpaolo onlus ha messo a disposizione 20.000 euro per sostenere gli studi di studenti che per diversi motivi hanno incontrato ostacoli al completamento degli studi. Assegni di merito (in forma di borsa di studio) sono stati conferiti a studenti meritevoli iscritti all’Ateneo di Sassari anche dalla Regione Autonoma della Sardegna.

In occasione delle cinque precedenti edizioni di questa Cerimonia di premiazione degli studenti meritevoli che dal 2008 si sono distinti per la propria carriera universitaria sia in termini di rendimento che di efficienza, l’Ateneo ha consegnato dotazioni informatiche (netbook, tablet) o buoni libro da 250 euro; oppure ha rimborsato la prima rata delle tasse versate dagli studenti.

Quest’anno è stato riconfermato il premio assegnato anche l’anno scorso. Ai 112 studenti meritevoli l’Ateneo rimborserà la prima rata di iscrizione all’Università. La bella e utile novità di quest’anno è che i 200 euro a studente saranno accreditati direttamente sulla Carta Iban UNISS,  una carta Multiservizi fortemente voluta dall’Ateneo in collaborazione con l’Ersu e il Banco di Sardegna, che sarà distribuita gratuitamente a tutti gli studenti. Carta Multiservizi perché oltre a fungere da carta prepagata, servirà anche come tesserino di riconoscimento dello studente permettendo l’accesso ai servizi universitari, come Biblioteca e Mensa. Essendo una carta prepagata dotata di codice IBAN, gli uffici amministrativi vi faranno riferimento per tutti i pagamenti relativi, ad esempio, all’accredito delle borse di studio, al pagamento di pasti e canoni per l’alloggio, alle borse Erasmus e ai rimborsi tasse come nel caso di questo premio. Viva gratitudine voglio esprimnere, per quanto hanno fatto, al dott. Stefano Sulis, Direttore mercati del Banco di Sardegna e al dott. Stefano Testoni.  Grazie infine al dott. Giovanni Poggiu, Presidente dell’ERSU di Sassari, che non ha fatto mai mancare il suo aiuto e la sua collaborazione.
Con un po’ di emozione vorrei concludere  rinnovando i complimenti a tutti voi, facendo gli auguri alle vostre famiglie e alle persone che vi sono care: sono certo che il futuro vi riserverà ulteriori più grandi soddisfazioni se sarete capaci di coltivare curiosità, passioni, interessi veri. Nello studio così come nella professione e nella vita. Auguri a tutti.




Le origini e il destino dell’uomo, le risposte della scienza di Francesco Feo

Le origini e il destino dell’uomo, le risposte della scienza di Francesco Feo

Sassari, 20 ottobre 2014

Le origini e il destino dell’uomo, le risposte della scienza è il terzo volume della collana Scienze microbiologiche, generali e cliniche diretta da Giuseppe Antonio Botta dell’Università di Udine per Aracne editrice : il compito che  questa collana si prefigge – scrivono gli editori – è quello di propagare le conoscenze nei vari settori del sapere microbiologico mediante pubblicazione di contributi di giovani ricercatori, facilitando ad esempio la diffusione di meritevoli tesi di dottorato, attentamente vagliate dal Comitato di redazione, testi originali di autori italiani e stranieri, se opportuno anche in lingua inglese e, quando utile, la traduzione di testi stranieri di particolare rilevanza per il pubblico colto e per gli specialisti del nostro Paese.

Francesco Feo non è propriamente un “giovane ricercatore”; eppure questa collana è particolarmente adatta ad ospitare una sintesi matura di riflessioni durate tutta la vita, presentate in conferenze, prolusioni, lezioni agli studenti, con la voglia forte di farsi capire e di rendere accessibile anche la teoria più complessa, è il concentrato di un pensiero, di un modo di affrontare la ricerca, di una visione del mondo che rivelano curiosità, passioni, interessi scientifici che possono essere ora condivisi e offerti al dibattito pubblico, andando ben oltre  la Patologia sperimentale, la Genetica medica, la biochimica, la biologia molecolare e genetica dei tumori. Con questo volume ci si colloca in un quadro di storia della medicina, che diventa la frontiera intermedia tra riflessione filosofica e umanistica e ricerca sperimentale ed empirica, con un susseguirsi di riposizionamenti legati alle nuove scoperte e anche ad una nuova visione del mondo.

Il tema della verità scientifica emerge da queste pagine innanzi tutto attraverso un’analisi storica che descrive progressi e fallimenti, teorie scientifiche e falsificazioni, quelle lunghe gallerie che rappresentano le strade del progresso che, con il loro contributo alla cultura e alla società ne condizionano lo sviluppo.

 

Per uno storico dell’antichità come me i primi tre capitoli rappresentano una miniera di notizie: dalla preistoria agli albori della civiltà, la scienza nel mondo antico, il tramonto della scienza nel mondo occidentale, con la riflessione sulla scienza e la tecnica presso i Romani e la medicina a Roma, che è stato oggetto del mio intervento al recente convegno organizzato in occasione della nascita del Centro di studi antropologici, paleopatologici e storici diretto da Eugenia Tognotti.

Varrone, Plinio il vecchio, Seneca rappresentano solo la punta di un iceberg  poco conosciuto, tutto da esplorare, documentano lo sviluppo della scienza medica attraverso i secoli: penso al medico Aulo Cornelio Celso vissuto nell’età di Augusto, nato nella Gallia Narbonense ed a Galeno di Pergamo vissuto fino al tempo di Caracalla fino al 216 d.C.

Proprio una frase di Seneca che abbiamo collocato nell’atrio del nostro Ateneo testimonia come gli antichi avessero preso pienamente coscienza la propria ignoranza:

Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet; multa saeculis tunc futuris, cum memoria nostra exoleverit, reservantur: pusilla res mundus est, nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat: Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura; molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo, quando di noi anche il ricordo sarà svanito: il mondo sarebbe una ben piccola cosa se l’umanità non vi trovasse materia per fare ricerche. (Seneca, Questioni naturali, VII,30,5).

Anche oggi questo libro apre più questioni di quante non ne chiuda, pone interrogativi e domande, anche se parte da una concezione positiva, quella della fede nelle capacità dell’uomo di scoprire progressivamente il senso della sua esistenza, le leggi della natura, con una straordinaria fiducia nelle possibilità della scienza. E questo nei tempi del terrore ancestrale per il diffondersi dell’Ebola non è certamente poco.

Il prof. Francesco Feo è troppo noto a Sassari perché io possa presentare il suo curriculum in questa sede: volevo solo ringraziare la prof. Rosa Pascale che mi ha fatto pervenire questo libro.  Ma  scorrendo i titoli dei capitoli e dei paragrafi e leggendo la prefazione di Eugenia Tognotti e  la  presentazione del prof. Feo  , nella quale spiega le motivazioni che lo hanno spinto a impegnarsi in questa lunga fatica,  ho potuto apprezzare  la molteplicità delle suggestioni  che scaturiscono dalla  sua complessa e articolata riflessione sulla natura del  pensiero scientifico,  e  il modo in cui  affronta la  ricostruzione storica della comparsa e dello sviluppo degli esseri umani sulla Terra,  che ha spinto  il dibattito tra religione e scienza, soprattutto dal XIX secolo. Gli studiosi hanno cominciato a capire che questa ricostruzione doveva  essere basata su una struttura evolutiva di lungo periodo  e  di  trasformazioni lente. Nella cultura occidentale il dibattito si è concentrato sul confronto tra il racconto biblico sulle origini del genere umano e i  dati scientifici, e sul tentativo di trovare un terreno comune , chiamando al confronto  una pluralità di  opinioni filosofiche e teologiche sulla questione. In un periodo in cui ci sono segni di oscurantismo strisciante, il prof. Feo  ci offre una difesa vivace e appassionata della libertà del pensiero e del ruolo della ricerca scientifica  nel mondo di oggi . Spaziando  sui grandi temi  che riguardano le origini e il destino dell’uomo,  la scienza e le sue possibili applicazioni  nel mondo di oggi,  questo libro ci riporta ai grandi dilemmi morali e alle questioni etiche su cui noi contemporanei siamo chiamati a riflettere. Grazie , dunque, caro Franco, per aver ‘trasferito’ in questo libro mezzo secolo di insegnamento e di ricerca che hanno onorato questo Ateneo




Trasporti marittimi nel Mediterraneo antico Atti Convegno su “La continuità territoriale della Sardegna: passeggeri e merci, low cost e turismo.

Attilio Mastino
Trasporti marittimi nel Mediterraneo antico
Atti Convegno su “La continuità territoriale della Sardegna: passeggeri e merci, low cost e turismo”
Sassari 28 novembre 2014


Cari amici,

ho accettato la sfida propostami da Michele Comenale di ribaltare e trasferire il tema del vostro incontro nel mondo antico, trattando il tema dei trasporti e dell’insularità della Sardegna, con i suoi svantaggi e la sua specifica identità, quella di una terra trans marina collocata al di là di un grande mare.

Erroneamente Franco Cassano ne Il pensiero meridiano considera <<l’espressione latina mare nostrum, odiosa per il suo senso proprietario>> e sostiene che essa <<oggi può essere pronunziata solo se si accetta uno slittamento del suo significato. Il soggetto proprietario di quell’aggettivo non è, non deve essere, un popolo imperiale che si espande risucchiando l’altro al suo interno, ma il <<noi>> mediterraneo. Quell’espressione non sarà ingannevole solo se sarà detta con convinzione e contemporaneamente in più lingue>>.

In realtà l’espressione Mare nostrum non è originariamente romana, ma fu coniata in ambiente greco già con Platone, comunque molti secoli prima delle conquiste orientali di Roma, par’emin thalasse. Per Paolo Fedeli, questo è un chiaro esempio ancora una volta della mediazione effettuata dai Latini di fronte all’eredità culturale dei Greci. Del resto sappiamo che la geografia greca cresce a dismisura nel tempo e nello spazio, con le colonne d’Ercole innanzi tutto, che si spostano dalla Grande Sirte progressivamente in direzione dell’Oceano verso occidente e in direzione del Mar Nero verso oriente. Il punto di raccordo fra la tradizione greca e quella romana è unanimemente individuato in un passo del III libro delle Storie di Polibio, che fa giungere il Nostro Mare fino al Tanais, cioè fino al fiume Don che sbocca nel Mard’Azov, presso la penisola di Taman. Sull’altro versante, il nostro mare comprendeva ormai anche il mare Sardo verso occidente.

Nell’antichità ad indicare gli estremi sono miticamente Eracle, che pone le sue colonne sull’Atlantico e Dioniso in direzione del mondo scitico fino all’India.

La Sardegna, l’isola dalle vene d’argento, fu l’unica vera isola collocata nel Mediterraneo occidentale, nel Mare Sardum in direzione delle colonne d’Ercole, utilizzata come piattaforma per i traffici marittimi mediterranei tra l’oriente (partendo dalla Siria) fino all’Occidente (a Gades), una rotta conosciuta da Posidonio e da Plinio che calcolava 2113 miglia da Myriandum a Karales e 1250 miglia da Karales a Gades oltre le colonne:

E’ noto che in tre occasioni Erodoto ricorda la Sardegna come <<l’isola più grande del mondo>>:  la notizia  – ha messo in rilievo il Rowland – è da considerarsi ovviamente erronea se le dimensioni dell’isola, in rapporto alle altre isole del Mediterraneo, vanno calcolate in termini di superficie, dato che la Sardegna, con i suoi 23.812 km. quadrati viene superata dalla Sicilia, con 25.426 km. quadrati. Ma va rilevato che il calcolo di Erodoto è stato effettuato non in termini di superficie ma di sviluppo costiero delle diverse isole del Mediterraneo: il litorale della Sardegna è lungo circa  1.385 km. ed è dunque nettamente superiore al perimetro costiero della Sicilia, che ha uno sviluppo di 1.039 km. Per Procopio il perimetro dell’isola poteva essere percorso solo in 20 giorni da un uomo a piedi, che marciasse svelto a 200 stadi al giorno. Prima della conquista romana doveva d’altra parte essere impossibile calcolare l’esatta superficie della Sardegna, dato che la presenza punica non oltrepassò il fiume Tirso e non riguardò la Barbaria montana.

Con questo mio intervento, decisamente extra-vagante volevo però dare il senso, il sapore, il gusto di una realtà storica, fondata su antiche osservazioni formulate dai marinai greci e fenici intorno alle coste dell’isola, sui fondali, sui venti, sulle correnti, sulle maree, sui porti, sulle rotte partendo dal Periplo di Scilace nel VI secolo a.C. : un’isola lontana da continenti, collocata fuori dal tempo e dallo spazio, eudaimon, felice così come pamforos, produttrice di straordinari prodotti, arricchita dal mito degli eroi greci arrivati a conquistarla, gli Iolei, i figli di Eracle e delle cinquanta Tespiadi.

Veramente questo convegno, al di là del titolo, tratta del trasporto marittimo ma anche del trasporto aereo: come non pensare ai nomi dati dai marinai greci alla Sadegna, Ichnussa e Sandaliotis, con riferimento alla forma cartografica dell’isola, come se il punto di vista adottato dai geografi fosse già a volo d’uccello, magari sulle ali fatte da Dedalo, il padre di Icaro, il mitico architetto costruttore di nuraghi, arrivato dal labirinto di Minosse e da Creta fino alla Sicilia di Kokalos e chiamato in Sardegna da Iolao ? O come non pensare al mito dell’automa metallico alato Thalos, costruito dall’artefice inventore per eccellenza, Vulcano, che proteggeva l’isola dagli invasori volando con le sue ali sopra la Sardegna, che secondo lo Pseudo Aristotele era stata occupata prima di Aristeo solo da molti e grandi uccelli, upo megalon ornéon émprosthen kai pollòn katechoménon. Come non ricordare che un’isola circumsarda, l’isola di San Pietro, era nell’antichità conosciuta da Plinio e da Tolomeo come Acciptrum insula – Hierakon nesos, l’isola degli sparvieri o dei falchi ? Qui ancora nel XVIII secolo gli abitanti dell’isola usavano prendere i falconi dai nidi per allevarli e venderli sulle coste dell’Africa settentrionale.

Il tema dei molti e grandi uccelli che abitano i monti della Sardegna attraversa la letteratura sarda. Nella Carta de Logu di Eleonora di Arborea si afferma che constituimus et ordinamus,qui alcunu homini non deppiat bogare astore nen falconi dae niu e chi trovava un falco doveva consegnarlo al giudice. Questo non tanto per protezione dei falchi, ma per ribadire che questi animali appartenevano di diritto alla classe dirigente. E Giuseppe Pulina ha affermato che i rapaci rappresentano l’aristocrazia dell’aria.

Mi fermerei qui, non senza osservare però che del resto nel vostro convegno verranno discussi anche molti temi giuridici ed economici che hanno le loro radici e che risalgono nel mondo antico.

Resterei prudentementementeancorato al tema dei trasporti marittimi, affrontato recentemente da me, da Pier Giorgio Spanu e da Raimondo Zucca nel volume  Mare Sardum. Merci, mercati e scambi marittimi della Sardegna antica edito da Carocci: le rotte tra l’Africa (Cartagfine), l’Iberia (Barcino, Carthago Nova, Gades), la Gallia (Marsiglia), la Corsica, l’Italia, i porti d’imbarco, i marinai, le associazioni delle genti di mare, i pescatori, le società di armatori, le compagnie, i domini navium, i navicularii,  con una straordinaria combinazione di iniziative commerciali, marittime e di proprietà agraria di tipo latifondistico che emerge a esempio sulla costa di Cuglieri (il popolo dei Eutichiani collegato ora con l’ancora di L. Fulvius Eutichianus, analoga a quella rinvenuta presso l’Isola delle femmine in Sicilia).. E poi i naufragi (come il relitto di Spargi presso La Maddalena oppure quello di Aglientu), la sicurezza in mare durante il periodo di mare clausum, le responsabilità, le assicurazioni, i carichi, la capitaneria e i funzionari di porto, le dogane. Noi non sappiamo se i portoria che si riscuotevano in Sardegna per conto dell’erario senatorio o del fisco imperiale fossero analoghi ai IV publica Africae; sappiamo che esistevano esenzioni, come di recente, sulla ripa di Turris Libisonis, è dimostrato da una tabella immunitatis di una Virgo vestalis maxima nel III secolo d.C.

Infine i prodotti, i minerali, il granito, la carne suina salata, i cavalli, l’olio, il vino, le salse di  pesce, il grano, il vasellame. Le navi militari e le navi onerarie, i metodi di costruzione, i cantieri navali (i navalia) dove operavano i maestri d’ascia, le opere portuali come ancora a Turris Libisonis i moli a protezione dal vento di Aquilone , che sostanzialmente corrisponde al Circius che dal Golfo di Marsiglia conduceva verso la Sardegna e la foce del Tevere

I porti sardi risultano localizzati di preferenza su promontori (Karales, Tharros, Coracodes), alla foce di un fiume (Bosa, Turris Libisonis), presso stagni o lagune (Karales, Sulci, Othoca, Coracodes), presso isolotti o scogli (Bosa, Sulci), infine all’interno di vasti golfi riparati dalle montagne (Olbia). A Karales già in età repubblicana funzionavano dei cantieri nautici per la riparazione delle navi, ma anche horrea, magazzini per l’ammasso delle merci in transito, oltre che sicuramente uffici della capitaneria. Allo sviluppo di Karales come scalo mediterraneo ha indubbiamente contribuito la favorevole situazione topografica, la presenza di un porto naturale sufficientemente protetto e, penso, la conformazione del golfo e degli stagni, che ricorda molto da vicino quella del golfo di Tunisi, chiuso ad occidente da Cartagine. A Turris sono stati identificati gli horrea del II-III secolo, riferiti all’emporium portuale; essi furono poi distrutti alla metà del V secolo in coincidenza con la costruzione della nuova cinta muraria, edificata frettolosamente in vista del secondo attacco dei Vandali contro la Sardegna. La ripa turritana, ricordata in  due distinte iscrizioni della colonia, era affidata a procuratori ed a potenti liberti imperiali, che si occupavano della riscossione dei diritti doganali (i portoria).

I navicularii Sardi, Turritani e Karalitani in particolare, erano rappresentati ad Ostia, dove operavano con una qualche continuità, d’intesa con altre organizzazioni marittime mediterranee. Nel Piazzale delle Corporazioni, accanto al teatro, si è ritrovato il mosaico che individua la statio, l’ufficio di rappresentanza o almeno il luogo di ritrovo dei Navic(ularii) Turritani, cioè degli appaltatori privati originari di Turris Libisonis. A poca distanza si trovava anche la statio dei Navicul(arii) et Negotiantes Karalitani. Nel primo mosaico, in bianco e nero, databile durante il regno di Settimio Severo, o comunque tra il 190 ed il 200, è raffigurata una nave a vele spiegate, con albero maestro ed albero di bompresso; la prua è obliqua; la poppa ricurva con i due timoni poppieri; nel secondo è disegnata una nave del tipo detto ponto, con rostro, con aplustre a voluta, alta poppa  ricurva con cassero e transenna. La nave ai due lati è inquadrata da moggi cilindrici su tre pieducci senza anse, con fasciature bianche: un’ulteriore dimostrazione dunque, se ce ne fosse bisogno, di un’attività collegata prevalentemente con l’annona e col trasporto del grano. Si tratta con tutta probabilità di società di trasporto marittimo o di armatori, originari della Sardegna, che avevano forti interessi commerciali nel porto di Roma. Analoga statio dovevano avere i navicularii di Olbia.

Qualche decennio prima della sistemazione e della riorganizzazione degli uffici dell’annona decisa da Settimio Severo, facilitata dalla costituzione della flotta frumentaria africana (classis Africana Commodiana) voluta  o almeno ristrutturata appunto da Commodo, il 20 ottobre del 173, i domini navium Afrarum universarum <item Sardorum> (sic) avevano dedicato una statua nel vicino teatro di Ostia in onore di M. Iulius M. f. Pal. Faustus, duoviro nel porto di Roma, nella sua qualità di patronus cor[p(oris)] curatorum navium marinar[um]. Si discute sull’esistenza di un vero e proprio collegio di domini navium dell’Africa e della Sardegna: sembra probabile che si tratti, più che di una corporazione, di una temporanea associazione sotto una denominazione comune, dei domini navium di varie città dell’Africa e della Sardegna, tutti in contatto con l’amministrazione imperiale. L’iscrizione mi sembra che confermi da un lato che il prodotto che si trasportava dalla Sardegna ad Ostia era frumento (o comunque erano altri cereali), dato che il patrono del cor[p(us)] curatorum navium marinar[um] è espressamente un mercator frumentarius;  non è naturalmente escluso che le navi potessero trasportare altri prodotti, come ad esempio minerali,  granito della Gallura, cavalli vivi oppure carne suina, quest’ultima esportata anche come tributo (dopo Aureliano divennero regolari le distribuzioni alla plebe di Roma), quando non si preferiva in alternativa la pratica dell’adaeratio (facoltativa dopo il 324); in secondo luogo l’iscrizione sembra confermare che anche il grano africano arrivava ad Ostia via Sardinia e quindi che i legami tra l’Africa e la Sardegna, ampiamente noti per il periodo repubblicano, si sono intensificati in età imperiale. Emergono infine le caratteristiche di una ricchezza fondata sulla combinazione del commercio marittimo e della proprietà  agraria, in Sardegna come in Africa. Il ricordo di altri otto porti  africani nei mosaici del Piazzale delle Corporazioni di Ostia, accanto ad un solo porto egiziano (Alessandria) e ad un porto della Narbonense (Narbo Martius) sottolinea ancora il ruolo della Sardegna come tramite nelle relazioni  marittime tra l’Africa ed Ostia.

Un nuovo frammento dell’edictum de praetiis promulgato da Diocleziano e dagli altri tetrarchi nel 301, scoperto ad Afrodisia di Caria nel 1961, con la copia latina di Aezani di Frigia scoperta nel 1971, consente ora di accertare che all’inizio del IV secolo erano calmierate le tariffe di almeno quattro itinerari marittimi principali con partenza dalla Sardegna, uno dei quali era indirizzato  verso Roma; gli altri tre toccavano rispettivamente Genova, la Gallia e l’Africa. A parte erano calcolate le tariffe, alquanto più modeste, per il trasporto delle merci per conto del fisco imperiale, sugli stessi itinerari.

La rotta frumentaria tra la Sardegna ed Ostia fu particolarmente frequentata a partire dall’età di Costantino: abbiamo notizia delle disastrose conseguenze, per la plebe di Roma, dei ripetuti attacchi dei Vandali di Genserico, che causarono gravi incertezze nella navigazione, già prima dell’occupazione dell’isola e del sacco di Roma del 455.

Si è già detto dell’organizzazione del commercio marittimo, con la netta ripartizione di funzioni e di responsabilità, anche sul piano giuridico, oltre che di privilegi, tra domini navium, navicularii e nautae; è noto che una delle fonti di ricchezza è rappresentata in età imperiale da una combinazione di iniziative commerciali marittime e di proprietà agraria di tipo latifondistico. Occorre poi distinguere nettamente due livelli di trasporti: quelli effettuati per conto del fisco imperiale (con tariffe estremamente ridotte) e quelli invece effettuati nell’ambito dell’iniziativa privata dei singoli imprenditori, che spesso rischiavano anche il naufragio, navigando durante la stagione invernale (mare clausum), pur di incrementare il guadagno.

Sappiamo che nel 369 gravi ammende erano previste per il gubernator ed il magister navis che trasportassero a bordo della nave i metallari aurileguli,  fuggitivi dalle miniere imperiali  verso la Sardegna, in occasione forse di una straordinaria quanto sfortunata corsa all’oro.

Conosciamo alcuni funzionari addetti alla soprintendenza dei porti sardi ed alla riscossione dei diritti doganali sulle merci in transito (i portoria): la capitaneria era retta ad esempio da un anonimo appartenente all’ordine equestre, ricordato a Turris Libisonis in una dedica pubblica, con la qualifica di [proc(curator)] ripae Turr(itanae); l’iscrizione che lo menziona è stata rinvenuta presso la Dogana di Porto Torres, nel bacino dell’antico porto romano, sistemato in età severiana, di cui restano poche tracce. Si tratterebbe di un funzionario addetto al controllo dei traffici marittimi, alla riscossione dei dazi ed alla custodia delle merci in transito. La stessa carica è ora attestata anche in un’iscrizione recentemente pubblicata da G. Sotgiu e proveniente dall’ipogeo di Tanca di Borgona: in questo caso però non si tratta di un cavaliere ma di un liberto imperiale: T. Aelius Aug(usti) l(ibertus) Victor, marito di una Flavia Amoebe, che viene riferito alla seconda metà del II secolo.

Viceversa non si posseggono informazioni sull’attività dei funzionari del porto nelle altre città della Sardegna ed in particolare a Karales: va infatti escluso che il [- – -] L(uci)  f(ilius) Quir. Rufus, quattuorviro quinquennale nella capitale sarda, abbia ricoperto la carica di proc(urator) Caes(aris) Hadriani ad ripam nel porto di Karales; l’iscrizione ci ha conservato infatti una carriera equestre che in parte è stata svolta fuori dall’isola.

Le ultime scoperte archeologiche hanno messo in evidenza la vitalità del culto degli dei che proteggevano la navigazione, come l’Iside di Turris Libisonis rappresentata come una dea che tiene in mano la fiaccola del faro di Alessandria collegata alla stella Sirio; oppure le Ninfe di Porto Conte o di Capo Caccia venerate nella grotta dell’Isola Foradada, l’Ermes di Capo Marrargiu e dell’isola Tavolara, l’Ercole di Olbia (che si aggiunge a quello di Posada), la statua in marmo che rappresenta Ercole nella Turris Libisonis dell’età giulio-claudia, un culto collegato all’Isola d’Ercole, l’Asinara (interpretata come l’alluce del piede destro di Ichnussa), i tanti luoghi della Sardegna che collegano l’arrivo di Eracle e dei suoi figli con il culto del Sardus Pater  giunto secondo il mito dal Nord Africa.




La tribunicia potestas di Augusto: contenuti e sistemi di computo.

Attilio Mastino
La tribunicia potestas di Augusto:
contenuti e sistemi di computo

Le radici rivoluzionarie del potere di Augusto spiegano l’adozione da parte del princeps nel 23 a.C. della tribunicia potestas, tradizionale strumento dei populares nella lotta contro l’aristocrazia senatoria, espressione di una forma di patronato nei confronti della plebe urbana e dei provinciali che richiama esplicitamente il precedente Cesariano. Per Tacito la tribunicia potestas fu la formula inventata da Augusto per designare l’autorità suprema, summi fastigii vocabulum, con lo scopo di non assumere l’odiato titolo di re o di dittatore e di innalzarsi tuttavia con qualche appellativo al di sopra di tutti gli altri poteri e magistrati.

Cinquanta anni dopo, in occasione della seduta senatoria del 22 d.C. convocata per discutere la richiesta di Tiberio per l’attribuzione della tribunicia potestas al figlio Druso, designato come particeps imperii, Tacito infatti osserva (ann., III, 56):… potestatem tribuniciam Druso petebat. Id summi fastigii vocabulum Augustus repperit, ne regis aut dictatoris nomen adsumeret ac tamen appellatione aliqua cetera imperia praemineret, dove è chiaro che l’assunzione un contro-potere o un potere negativo specifico da parte di Augusto, poi di Tiberio e di Druso era finalizzato al controllo dei titolari delle antiche magistrature repubblicane ed era pienamente avvertito come di livello superiore e di grado più elevato sia per la qualità del potere sia per i contenuti e l’ambito della sfera di applicazione.

Tiberio si augurava nella lettera al Senato che gli dei volgessero i suoi disegni a vantaggio della res publica, ut consilia sua rei publicae prosperarent, e ricordava di esser stato chiamato lui stesso un tempo dal divo Augusto ad assumere quell’alta funzione, ipse quondam a divo Augusto ad capessendum hoc munus vocatus sit. Un munus che si sovrapponeva e in qualche modo coincideva con quel tribunato che per il Mommsen era stata la magistratura “più alta, più santa, più libera di tutte le magistrature repubblicane”.

Nella visione tacitiana il nomen di tribunus plebis ed il munus relativo (come dimenticare il virgiliano susceptum perfice munus di Aen. VI 629, adottato nel nuovo statuto dell’Università di Sassari ?) erano capaci di dare al principe una preminenza sugli altri imperia: per Tacito doveva passare dunque in secondo piano quell’imperium proconsulare maius et infinitum che per Dione Cassio LIII, 32, 5-6 costituì invece l’ossatura fondamentale del principato, venendo assegnato sempre nel 23 a.C. a distanza di 4 anni dalla solenne cerimonia nella quale Ottaviano aveva restituito al Senato ed al popolo romano gli eserciti, tà òpla, le province, tà éthne, le rendite pubbliche tàs te prosòdous e le leggi kaì toùs nòmous, ottenendo il potere assoluto e l’imperium decennale senza nome sulle province non pacificate, rinnovato puntualmente a tutte le scadenze  quinquennali. Ottenuto il titolo di Augusto, egli aveva assunto la cura e l’intera amministrazione degli affari della comunità, tén mén frontìda tén te prostasìan tõn koinõn pãsan (LIII, 12,1) perché se a parole lasciava al Senato ed al popolo romano la gestione della parte migliore dell’impero mentre il princeps si addossava le difficoltà ed i pericoli, di fatto – secondo il severo giudizio di Dione – il suo obiettivo era quello di non lasciare ai senatori la disponibilità degli eserciti e quindi di muovere guerra, in modo tale da poter avere solo lui delle legioni e mantenere ai propri ordini i soldati. Dione osserva che allo scadere del primo decennio gli vennero votati altri cinque anni, poi altri cinque, dopo i quali ancora dieci più altri dieci e, per la quinta volta, altri dieci anni, cosicché per successione di dieci anni in dieci anni giunse ad assumere il ruolo di monarca per tutta la vita, dià bìou autòn monarchésai.  Ed effettivamente nella Storia romana di Dione è possibile individuare la puntuale registrazione dell’imperium del 27 alle scadenze quinquennali o decennali, a differenza dell’imperium maius et infinitum del 23 che apparentemente fu assegnato a vita.

Appare subito evidente l’accostamento del rinnovo decennale dell’imperium del 27 al rinnovo annuale delle potestà tribunizie, assunte a vita come l’imperium proconsulare maius et infinuitum, a quanto pare da Augusto a partire da una data vicina al I luglio del 23, anche se Dione Cassio, nel discorso tra Agrippa e Mecenate, tenendo presente la situazione dell’età severiana, pensa ad un primo rinnovo col 10 dicembre, una data che sottolinea la ripresa delle tradizioni repubblicane voluta da Nerva, Traiano o più probabilmente Antonino Pio.  L’errore di Dione è evidentissimo ed è stata segnalata l’ambiguità di un potere vitalizio che però doveva essere rinnovato annualmente, per un rispetto formale della tradizione repubblicana: De Visscher osserva che la tribunicia potestas fu perpetua in quanto prerogativa personale del principe, annuale in quanto funzione pubblica. Dione presenta con queste parole il potere tribunizio degli imperatori: <<La così detta potestà tribunizia, è tè exousìa è demarchikè kalouméne (LIII, 17, 10).  che un tempo assumevano solo gli uomini di particolare prestigio, concede agli imperatori la facoltà di annullare le misure decise da un altro magistrato, nel caso in cui non l’approvino [dunque lo ius intercessionis], e l’inviolabilità della persona, [dunque la sacrosanctitas]; inoltre qualora appaia che subiscano un’ingiuria anche di lieve entità non solo in caso di aggressione fisica ma anche verbale, hanno il potere di mandare a morte senza processo l’aggressore con l’accusa di empietà>>.

Dione presenta poi la distinzione tra la magistratura di tribuno ed il potere tribunizio assegnato al princeps: <<Ma se da un lato gli imperatori ritengono che non sia giusto da parte loro rivestire la potestà tribunizia (tén dè dé dùnamin tén tõn demàrchon pàsan) per il semplice fatto che appartengono al patriziato, dall’altro tuttavia, ne assumono totalmente il potere, con le stesse funzioni di quando raggiunse la sua massima influenza>>.

Ottaviano in realtà apparteneva ad una famiglia equestre plebea, tanto che suo padre  C. Octavius C.f., C.n., C. pronepos, pater Augusti compare in una dedica postuma urbana come aedilis plebeianus (CIL VI 1311).  Divenuto patrizio dopo l’adozione da parte di Cesare e l’ingresso nella gens Iulia che si vantava di discendere da Iulo-Ascanio e da Venere Genitrice, Ottavio effettivamente non poté più aspirare a ricoprire il tribunato plebeo.

Fondamentale appare l’uso della titolatura tribunizia per stabilire la cronologia e fissare il computo degli anni dei singoli imperatori, un aspetto tecnico del problema che mi è caro ed al quale ho dedicato in passato vari studi soprattutto per l’età severiana: dice Dione che questo potere tribunizio viene utilizzato anche per fare il calcolo degli anni dal momento in cui è stato assunto l’impero, poiché gli imperatori la ricevono annualmente insieme ai tribuni regolarmente eletti, dunque il 10 dicembre di ogni anno.

Anche la potestà tribunicia viene inserita da Dione nel quadro dei poteri che Augusto  ha adottato assumendoli dalla res publica, ek tés demokratìas, mantenendoli sostanzialmente con le loro funzioni originarie, e di cui gli imperatori utilizzarono anche i nomi delle magistrature per dare l’apparenza di non mantenere il possesso di alcuna carica senza che fosse stata loro precedentemente concessa.

Più oltre Dione precisa che il Senato decretò ad Augusto nel 23 a.C. il tribunato a vita, dià bìou, e gli concesse l’autorità di portare davanti a qualsiasi seduta senatoriale qualunque questione egli desiderasse, anche quando non fosse in carica come console, dunque lo ius agendi cum senatu. Dopo aver illustrato i contenuti dell’imperium proconsulare assegnato contemporaneamente a vita, Dione precisa: <<da quel momento in poi sia Augusto sia gli imperatori che gli succedettero godettero per una sorta di autorità garantita dalla legge di esercitare il potere tribunizio insieme agli altri poteri: infatti il titolo di tribuno in sé non venne assunto né da Augusto né da alcun altro imperatore>> (32).

La potestà tribunicia fu dunque una creazione di Augusto, come suggerito dall’Hammond che per primo definì una gradualità ed una successione cronologica nelle attribuzioni e prerogative tribunicie di Augusto, seguito dal De Visscher e dal Last e più tardi dal De Francisci, dal Siber, dal Grant, dal De Martino e dal Guizzi.  Le fonti letterarie sulla cronologia e la natura giuridica del nuovo potere sono estremamente ampie, anche se discordanti tra loro, in particolare per quanto riguarda i contenuti della potestà tribunicia a partire dall’anno 36 fino ad arrivare al 23, anno in cui il principe iniziò formalmente a contare il suo potere anno per anno, anche se nelle iscrizioni non mancano errori o computi alternativi. Lo sviluppo del nuovo strumento di governo, alla base delle successive evoluzioni di età imperiale, appare particolarmente rallentato, anche per il rispetto formale che Ottaviano volle garantire alle tradizionali forme di potere. Dopo un ventennio di incertezza, fu solo l’esigenza di una profonda riforma sociale ed amministrativa a suggerire ed infine ad imporre il potere tribunizio come esclusivo e quello che meglio si adattava alla funzione nuova che Augusto ed i correggenti intendevano assumere al vertice dell’impero.

Il carattere rivoluzionario del potere tribunizio emerge anche da due passi di Appiano e Svetonio, che fanno intendere come già dall’anno 44, dunque proprio all’indomani dei disordini successivi alla morte di Cesare che costarono la vita al tribuno Elvio Cinna e durante i giochi funebri del dittatore, Ottaviano appena rientrato da Apollonia avesse individuato nel tribunato della plebe lo strumento per imporsi come capo di una fazione: dice Svetonio che per meglio assicurare la continuità dei suoi disegni, essendosi reso vacante il posto di uno dei tribuni della plebe per morte del titolare si presentò candidato, quantunque fosse patrizio e non ancora senatore (Aug. X, 3). Appiano (III,31) sostiene che Ottaviano fu frainteso perché in realtà proponeva un altro candidato: il popolo, ritenendo che egli effettivamente aspirasse a quella carica, ma non presentasse la sua candidatura per la giovane età, pensò di eleggerlo ugualmente tribuno con i suoi voti. Da ciò la preoccupazione dei senatori, timorosi che Ottaviano potesse chiamare in giudizio gli uccisori del padre, e l’ostilità del console Antonio, che diffidò Ottaviano ed addirittura annullò la convocazione dei comizi elettorali, accontentandosi dei nove tribuni rimasti per il resto dell’anno, mentre Ottaviano diffondeva il malcontento tra i soldati.

Fu comunque solo otto anni più tardi nel 36 o nel 35 che il problema della potestà tribunizia di Ottaviano fu posto con chiarezza per la prima volta. All’indomani della sconfitta di Sesto Pompeo a Nauloco e dopo la caduta in disgrazia del triumviro Lepido che mantenne il solo sacerdozio del pontificato massimo, Appiano (V, 132, 548 s.) afferma che Ottaviano dichiarò concluse le guerre civili e annunciò che avrebbe restituito al popolo l’intero governo quando Antonio fosse tornato dalla spedizione partica. In seguito a ciò i senatori per acclamazione lo elessero tribuno a vita, sollecitandolo con una magistratura perpetua a deporre la precedente, cioè il triumvirato. Si è fin qui ritenuto che non si sarebbe trattato di una legge approvata dal comizio tributo ma di un senatoconsulto, che a quanto pare avrebbe riguardato soltanto una componente del potere tribunizio, la sacrosanctitas:  siamo dopo l’ovatio concessa dal Senato ad Ottaviano il 13 novembre 36, quando il giovane pronunciò un importante discorso con il quale compiva una sorta di rendiconto completo del suo governo negli ultimi otto anni, partendo dall’anno 43. Da questo momento Ottaviano a differenza di Antonio, rinunciò progressivamente al titolo di triumviro, anche se è evidente che nel 36 a.C. egli non poteva ritenere possibile una restituzione pura e semplice della costituzione repubblicana, ma intendeva propagandisticamente guadagnarsi il favore di quelle correnti di opinione che suggerivano la fine dei poteri straordinari ed il ripristino dell’ordine e della legalità, proprio mentre l’immagine di Antonio era in crisi a causa dell’insuccesso in Armenia.

Si osservi innanzi tutto che in Appiano l’uso della parola demàrxos cioè tribuno è evidentemente inesatta; Ottaviano non accettò la carica di tribuno della plebe,  improponibile per un consolare come lui, ma solo alcuni dei poteri e delle funzioni: Orosio precisa ovans urbem ingressus ut in perpetuum tribuniciae potestatis esset a senatu decretum est, dove si noti la conferma che si tratta di una decisione del Senato per l’assegnazione della potestà tribunizia a vita ma non della magistratura di tribuno. Dal confronto tra le diverse versioni di Appiano ed Orosio, sarei piuttosto dell’opinione che la concessione del nuovo potere avvenne per plebiscito: la legge doveva contenere da un lato disposizioni intorno alla sacrosanctitas del princeps e dall’altro lato alla concessione a vita di una parte delle prerogative dei tribuni (come ad esempio la possibilità di occupare i sedili dei tribuni in senato e nei comizi), sulla base di un richiamo al precedente Cesariano, come supposto dal De Visscher, che ritiene inoltre che la lex de imperio Vespasiani potrebbe essere ricalcata sul modello augusteo.

Nelle RGDA del resto al cap. 10,1, ammesso che ci si riferisca al 36 a.C., si precisa, distinguendo i due momenti: et sacrosanctus in perpetuum ut essem et quoad viverem tribunicia potestas mihi esset, per legem sanctum est, dove si noti la sanctio comiziale.

La notizia di Appiano e di Orosio è stata accolta e giudicata esatta da alcuni studiosi, come Mommsen e Von Premerstein, che insistono nell’affermare che Ottaviano ebbe fin dal 36 la potestà tribunicia nella sua interezza, compresi gli onori, la sacrosanctitas ed il diritto di sedere sui seggi dei tribuni, prerogative alle quali avrebbe successivamente rinunciato nel 27. Tale posizione è ormai abbandonata e solo Grosso si colloca a metà strada tra le nuove ipotesi sulla gradualità progressiva dei poteri tribunizi di Ottaviano, basata sulla testimonianza di Dione Cassio e l’idea della pienezza dei poteri fin dal 36: nel 30 e nel 23 potrebbe allora esservi stata solo una conferma dei poteri posseduti già in precedenza.

Va osservato che una parte delle prerogative di cui Ottaviano godeva furono estese dopo il trionfo su Sesto Pompeo alla sorella Ottavia ed alla moglie Livia, per le quali furono erette statue e, scrive Dione, alle quali fu concesso il diritto di amministrare direttamente i propri beni nonché <<la sicurezza e l’inviolabilità di cui godevano di tribuni>> (49,38,1).  Iniziò allora quella mitizzazione della figura del principe associato al culto di Apollo e di Venere, che più tardi sarebbe sfociata nella nascita del culto di Roma e di Augusto ed in seguito nel culto imperiale.

Va esclusa una rinuncia ai poteri tribunizi che sarebbero stati offerti ad Ottaviano in cambio della rinuncia ai poteri triumvirali come è stato supposto sulla base di un’interpretazione letterale di un passo di Appiano: ammesso che Ottaviano non assunse nella sua interezza nel 36 l’insieme dei poteri, debbo rimandare al testo scritto per la discussione sulle altre tappe di un percorso che nel 30 dopo Azio mentre Ottaviano si trovava ancora in Egitto lo vide assumere  lo ius auxilii ferendi. Del resto Tacito registra un incremento dello ius tribunicium di Ottaviano dopo la morte di Antonio, come ammesso da De Martino e Syme: posito triumviri nomine, consulem se ferens et ad tuendam plebem tribunitio iure contentus (Ann. I, 2,1).  Dione precisa  che il Senato concedendo l’onore del trionfo sugli Egiziani stabilì una nuova era per la provincia dell’Egitto e attribuì ad Ottaviano il potere dei tribuni a vita, più precisamente il diritto di salvare tutti coloro che avrebbero invocato il suo aiuto dentro il pomerio e fuori Roma fino alla distanza di 7 stadi e mezzo, 1400 metri circa, il che non era concesso neppure ai tribuni ed il diritto di giudicare nei processi di appello, assieme ad altre funzioni giudiziarie. È dunque lo ius auxilii ferendi, che mette Ottaviano al di sopra degli altri magistrati forniti di imperium, per Tacito una potestas finalizzata ad tuendam plebem.

Non abbiamo conferma sicura del possesso da parte di Ottaviano del diritto di veto, lo ius intercessionis, prima del 23 e del diritto di convocare e presentare proposte in Senato e nei Comizi, lo ius agendi, anche se le funzioni giudiziarie richiamate da Dione potrebbero adombrare uno ius provocationis o di appello fin dal 30 a.C.  Anche in questo caso gli studiosi sono divisi e normalmente si ammette che lo ius agendi fu di fatto esercitato solo dopo il 23, con l’impressionante sviluppo dell’attività legislativa su iniziativa del principe e con l’impegno per la presentazione al comizio tributo di una serie di leges Iuliae, di cui non abbiamo traccia per il periodo precedente. Va tenuto presente che, con una tesi che non ha avuto seguito, alcuni studiosi (Kahrested ed Hohl) pensano ad una progressione nelle competenze territoriali del principe, con una estensione puramente geografica e spaziale: nel 36 tali competenze sarebbero state interne alla città di Roma, nel 30 leggermente allargate oltre il pomerio, nel 23 attribuite su tutto l’impero.

Il fatto che Ottaviano abbia rivestito ininterrottamente fino al 23 il consolato potrebbe spiegare la delimitazione iniziale dello ius tribunicium,  dal momento che per Cicerone il tribunato era nato fin dalle origini in opposizione al consolato, contra consularem imperium (de re p. II, 58), dunque la pienezza della tribunicia potestas non era compatibile con il consolato.  I tribuni erano il contraltare dei magistrati repubblicani e di conseguenza è ammissibile pensare che l’intera titolarità dei poteri tribunizi fu legalmente concessa solo dopo che Ottaviano nel giugno 23 rinunciò al consolato dopo lo scontro con il collega Terenzio Varrone Murena, anche se occasionalmente sarebbe tornato ad assumere il consolato in due occasioni nei 37 anni successivi.

L’anno decisivo ma certo non conclusivo per lo sviluppo della tribunicia potestas di Ottaviano fu dunque il 23 a.C., quando, vedendo la sua posizione particolarmente indebolita, Augusto rinunciò a metà anno al suo XI consolato, con una abdicatio registrata nei Fasti consolari capitolini in una data compresa tra il 14 giugno ed il 15 luglio 23: egli ottenne in cambio dal Senato e poi dal popolo riunito nel Comizio tributo la potestà tribunizia, il libero diritto di relatio in senato, l’imperium proconsulare libero dal vincolo del pomerium ed infinitum e superiore a quello dei governatori provinciali, in quanto maius. Dione Cassio così si esprime: <<per queste ragioni il Senato decretò ad Augusto il tribunato a vita, demàrchon te autòn dià bìou eìnai, e gli concesse l’autorità di portare davanti a qualsiasi seduta senatoriale qualunque questione egli desiderasse, anche quando non fosse in carica come console, inoltre gli permise di assumere l’imperium proconsulare a vita, in modo che non dovesse deporlo ogni volta che entrava nel pomerium per poi riassumerlo nuovamente ed infine gli attribuì anche un potere sulle province superiore a quello dei magistrati ordinari di stanza in quelle regioni>>.

La rinuncia al consolato non comportò dunque una riduzione ma semmai un ampliamento dei poteri precedenti, per cui va abbandonata l’interpretazione mommseniana che ci porterebbe ad ipotizzare che si sia passati da un potere tribunizio già posseduto a vita dal 36 a.C. ad un nuovo potere ancora a vita, ma rinnovato anno per anno. Pare necessario ammettere un nuovo potere ampliato anche dopo la rinuncia al consolato, con un rafforzamento della posizione del principe in quegli anni particolarmente compromessa, dopo il processo al proconsole della Macedonia Marco Primo accusato di aver attaccato gli Odrisii per ordine di Augusto. Primo fu allora condannato ed il suo difensore Varrone Murena console del 23 partecipò con Fannio Cepione ad una congiura, che si concluse con la condanna a morte dei congiurati. Infine una grave malattia portò Augusto sul letto di morte. Questi tre distinti avvenimenti indebolirono notevolmente la posizione del principe e segnarono un periodo di involuzione repressiva: finì per rendersi necessaria allora una radicale riforma, capace di stabilizzare una volta per tutte la posizione di Augusto.

Dione Cassio come si è visto afferma che due furono i pilastri del nuovo potere imperiale, la potestà tribunizia a vita o perpetua e l’imperium proconsulare, ma la prima, collocata a partire da Tiberio nella titolatura in prima posizione, rimanda certamente ad un potere civile, ereditato dai tribuni repubblicani e perciò rinnovato annualmente: dunque strumento propagandistico di democrazia ed espressione di una forma di garantismo costituzionale.

Dal IV capitolo delle RGDA sappiamo che al momento della morte (19 agosto del 14 d.C., duemila anni fa) Ottaviano era nel 37° anno della sua potestas tribunizia, consul fueram terdeciens cum scribebam haec et eram septimum et tricensimum tribuniciae potestatis, il che tornando indietro ci porta al 23 a.C., anno iniziale del computo. Anche Tacito conferma: continuata per septem et triginta annos tribunicia potestate, nomen imperatoris semel atque vicies partum aliaque honorum moltiplicata aut nova.

Le iscrizioni arrivano fino alla 37° potestà tribunizia, documentata col XIII consolato e la XX acclamazione (quest’ultima in rapporto ad una vittoria di Germanico del 14) in due sole iscrizioni, sull’arco del ponte di Rimini ed in una tabula di Emona in Pannonia (CIL XI 367 = ILS 113 e III 10768): la cronologia iniziale è definita attraverso il confronto tra il computo delle tribuniciae potestates di Augusto e quelle di Agrippa (che iniziano 5 anni dopo) e poi di Tiberio e dal rapporto con i consolati e con le acclamazioni imperiali. Anche le monete ci rimandano al 23 a.C., data dalla quale iniziano a comparire le serie con la titolatura di Augusto con la tribunicia potestas non iterata.

I colleghi di Augusto nella potestà tribunizia furono Agrippa e Tiberio, che ebbero concessioni di potere limitate da periodi quinquennali: Agrippa dal 26 giugno 18 (nella stessa ricorrenza di Augusto) e poi dal 13 a.C. Il secondo quinquennio fu interrotto dalla morte avvenuta durante la VI tribunicia potestas nel marzo 12 a.C. Nella laudatio funebre di Agrippa Augusto sottolineò l’onore delle concessioni quinquennali di potere tribunizio per il collega.

Più complicata è la cronologia delle potestà tribunizie di Tiberio, che vennero interrotte per quattro anni, in occasione dell’esilio di Rodi. La prima concessione per 5 anni è del 6 a.C.; la seconda concessione decorre dal 26 giugno del 4 d.C., in occasione dell’adozione del principe, per 10 anni. Una ulteriore concessione è infine del 13. Il numero raggiunto al momento della morte di Tiberio arriva a 38 tribuniciae potestates.  È stato sottolineato come l’associazione di Agrippa e di Tiberio al potere tribunizio di Augusto possa adombrare il progetto della fondazione di una vera e propria “monarchia ereditaria”, con l’accorgimento però che mentre il potere di Augusto era ormai vitalizio e non soggetto a rinnovi, quello invece dei candidati alla successione poteva essere rinnovato ogni cinque anni, nel senso che poteva anche non esserlo, come avvenne per Tiberio tra il I a.C. ed il 4 d.C. La mancata attribuzione dell’imperium proconsulare maius et infinitum all’erede suggerisce l’immagine propagandistica di un potere civile, espressione del consensus universorum, dunque della volontà popolare, rappresentata in età repubblicana dai tribuni plebis.  È la tribunicia potestas che esprime l’idea quasi di una delega del popolo riunito nel comizio tributo al principe, perché garantisse il rispetto degli antichi diritti e privilegi degli strati più bassi della popolazione. Appaiono viceversa messi in sordina i contenuti militari dell’imperium.

In sintesi si può concordare che nel 23 Ottaviano raggiunse la pienezza dello ius tribunicium articolato in ius intercessionis (diritto di veto sulle decisioni di alcuni organi della repubblica), ius coercitionis (possibilità di comminare pene), ius agendi cum plebe (capacità di convocare e difficilmente presiedere il comizio  tributo), ius auxilii ferendi plebi o populo (possibilità di rispondere alle richieste di aiuto da parte dei cittadini), ius agendi cum senatu (la possibilità di convocare e presiedere come princeps senatus il Senato), sacrosanctitas, attribuita per le RGDA per legem, in perpetuum.  Svincolato dal veto tribunizio, Augusto non si considerava collega dei tribuni, mentre ebbe due colleghi nella tribunicia potestas, come scrive nelle RGDA 6: quae tum per me geri senatus voluit, per tribuniciam potestatem perfeci, cuius potestatis conlegam et ipse ultro quinquens a senatu depoposci et accepi, dove si richiamano i due senatoconsulti relativi ad Agrippa ed i tre per Tiberio. Superiore ad entrambi per auctoritas, Augusto fornì ai successori il modello per associare i Cesari destinati all’impero.

Un allontanamento dalla costituzione repubblicana appare marcato dall’abbandono del  consolato, annunzio di un nuovo passo in avanti verso un maggior potere del principe: la tribunicia potestas rinnovata annualmente fu una forma nuova di potere, che aveva il vantaggio di poter garantire proprio per l’assenza di precedenti una posizione  di vertice per Augusto. Lo ius tribunicium di cui Ottaviano aveva goduto da oltre un decennio conteneva in realtà solo alcune prerogative personali puramente onorifiche, come la sacrosantità e il diritto di sedere nei banchi dei tribuni. Con la riforma cessava il contrasto tra il potere del console e quello del tribuno e il principe iniziava a rivestire un potere non fondato su una singola magistratura ma che appare originale per il carattere nuovo della funzione pubblica ricoperta: richiamandosi all’antica legalità repubblicana, di fatto Ottaviano la tradiva e la trasformava radicalmente.

Il 23 a.C. fu solo una tappa, per quanto decisiva, nella definizione del nuovo potere, che continuò ad arricchirsi di contenuti  fino alla morte di Augusto: nel 19 egli ottenne per Svetonio et morum legumque regimen aeque perpetuum, mentre Dione parla di una nomina del princeps ad epimeletés tõn tròpon, per cinque anni, con un rinnovo nel 12. Si tratterebbe della cura legum et morum del Monumento Ancyrano, dove Augusto precisa come l’offerta del senato prevedesse una nomina sine collega (solus crearer) con una  summa potestas perpetua, alla quale il principe contrappose la tribunicia potestas, attraverso la quale egli poté svolgere le funzioni che gli erano state delegate dal Senato e dal popolo. Rinunciando alla maxima potestas, in quanto contraria agli exempla mariorum, Augusto svolse un’intesa attività legislativa utilizzando le competenze di Agrippa collega nella tribunicia potestas:  l’ampliamento della sfera del suo potere tribunizio consentì allora ad Augusto di far approvare attraverso altrettanti plebisciti le sue leggi moralizzatici, la lex Iulia sumptuaria, la lex Iulia de adulteriis et de pudicitia, la lex Iulia de maritandis ordinibus, ecc.

È noto che il Mommsen ha sostenuto l’ipotesi, certamente interessante, secondo cui tutte le monete e le numerose iscrizioni nelle quali compare la tribunicia potestas, non iterata, cioè senza la numerazione per indicare il rinnovo, volessero alludere ai difficili compiti disimpegnati grazie al potere tribunizio, senza ricorrere ad un ufficio straordinario, soprattutto in materia di legislazione moralizzatrice della vita sociale. Rimangono evidenti le difficoltà di inquadramento cronologico, ma va osservato come le monete in esame siano provenienti in genere da emissioni ufficiali della zecca di Roma, mentre di norma le zecche provinciali portano l’iterazione della tribunicia potestas. Con ciò potrebbe immaginarsi dimostrata secondo il Grant la volontà propagandistica del princeps di segnalare esplicitamente l’uso della tribunicia potestas in sé e per sé, non iterata, per attuare provvedimenti legislativi specifici. Successivamente altre operazioni furono compiute da Augusto in forza della tribunicia potestas.

L’indirizzo tracciato da Augusto si trova esplicitato con i suoi successori: gli imperatori giulio claudii misero in sordina il titolo di proconsoli e preferirono utilizzate la potestà tribunicia, intesa propagandisticamente come strumento di tutela delle rivendicazioni popolari, che faceva del princeps il vero campione degli interessi rappresentati dai tribuni in età repubblicana. La tribunicia potestas dunque finisce per essere una vera e propria delega concessa dal popolo al principe, perché i diritti ed i privilegi degli strati più bassi della popolazione possano essere adeguatamente difesi. In questo senso, se la tribunicia potestas ha mantenuto l’espressione fondamentale della magistratura repubblicana, cioè quella della garanzia e della tutela dei cives, è anche vero che le mutate nuove condizioni politiche l’hanno via via trasformata al punto da sembrare quasi una creazione completamente originale del nuovo regime, che si sviluppò attraverso la combinazione di imperium e potere tribunizio.

Nel testo scritto mi soffermerò sulla documentazione epigrafica, numismatica e papirologica, che consente di accertare concordemente l’adozione di un solo computo, per quanto sia possibile ipotizzare una scelta propagandistica dietro le monete e le iscrizioni che hanno la tribunicia potestas non iterata.

Le iscrizioni datate con giorno mese ed anno consolare, il rapporto tra potestà tribunizie e consolati da una parte ed acclamazioni imperiali dall’altra, il computo raggiunto alla morte di Augusto, le monete del I anno, le monete datate con i nomi dei magistrati, il confronto con il computo di Agrippa e di Tiberio, concordano per l’avvio del computo dal 26 giugno 23, anche se si è pensato pure al 27 giugno, al I luglio, al I agosto ed al 10 dicembre: di qualche interesse è l’intervallo di 17 anni tra Augusto e Tiberio dal 6 al I a.C. e di 21 anni dal 4 d.C., con un dies imperii uguale o forse abbastanza vicino, 26 giugno per Agrippa e Tiberio, data considerata erroneamente come solstizio d’estate, che potrebbe essere collegato con la religione solare apollinea di Augusto.

Non può non osservarsi che occorrerà però arrivare alla lex de imperio Vespasiani per vedere definiti i contenuti della tribunicia potestas dopo l’età giulio-claudia: l’iscrizione scoperta da Cola di Rienzo conserva il testo di un senatoconsulto, anche se si tratta formalmente di una lex rogata con sanctio finale, evidentemente sottoposta all’approvazione formale dei comizi: in essa il nuovo imperatore si vede attribuire i poteri dei suoi predecessori, con una ratifica a posteriori degli atti precedenti all’approvazione comiziale che dà contenuto e sostanza alla titolatura imperiale. Il principe ottiene il riconoscimento di un’auctoritas che gli consente di convocare e riunire il Senato, stipulare accordi internazionali, estendere il pomerium, occuparsi dei culti. Gli viene riconosciuto il diritto di commendatio, di sostenere i propri candidati per le magistrature e cariche che abbiano potestas, imperium o cura. Gli viene infine riconosciuto un vero e proprio potere legislativo.  Vespasiano conterà i suoi anni tribunizi, che decorrono dal 21 dicembre 69 e dalla morte di Vitellio, retroattivamente a partire dall’acclamazione imperiale del I luglio 69, una ricorrenza vicina a quella di Augusto, senza tener conto del dies comitialis: acclamato in oriente, egli arrivò a Roma solo a dicembre e fece legalizzare retroattivamente le sue misure, come è possibile vedere attraverso la lex de imperio.

Il problema più controverso che riguarda le potestà tribunizie degli imperatori continuerà ad essere rappresentato dall’anno di inizio del computo e dalla data di rinnovo annuale. È impressionante il quadro della serie di computi alternativi ipotizzati dagli studiosi per spiegare le irregolarità che la documentazione epigrafica ed in parte quella numismatica presentano. Il materiale da esaminare è amplissimo e spiega il notevole numero di ipotesi di computi varianti proposti dagli studiosi soprattutto per alcuni imperatori. Questa situazione deve ovviamente suggerire la massima prudenza nella ricostruzione cronologica e nella definizione di nuovi computi: una verifica delle varie tesi non può prescindere dalla constatazione della fragilità della documentazione che possediamo. La presenza di banali errori, dovuti soprattutto alla trasmissione in provincia della titolatura ufficiale del principe, oltre ad essere attestata da una serie di esempi certissimi, è spiegabilissima se si pon mente alle difficoltà nelle comunicazioni, al numero estremamente elevato che la notizia di modifica della titolatura imperiale ogni anno doveva superare per raggiungere le diverse province, alla serie di funzionari attraverso le cui mani il nuovo nome ufficiale dell’imperatore doveva passare prima di giungere a destinazione. Anche se non si vogliono attribuire sempre ai lapicidi degli errori e delle distrazioni,  comunque possibili e talora anche sicuramente documentabili, è chiaro che le occasioni per il prodursi di errori, più o meno vistosi, erano infinite, come del resto è dimostrato dalla presenza di irregolarità simili per gruppi di iscrizioni dedicate in uno stesso periodo ed in una stessa località. Gli errori paleograficamente più spiegabili e più banali sono proprio quelli meno vistosi, i quali, per differire di poco dal compito ufficialmente adottato, sono invece paradossalmente entrati in blocco nella serie dei computi varianti ipotizzati da alcuni studiosi per alcuni imperatori.

Per restare alla documentazione epigrafica relativa ad Augusto che presenta alcune irregolarità, intanto possiamo osservare che ci rimangono alcune iscrizioni irregolari, che presentano errori e meno probabilmente tracce di un computo variante, che può essere ipotizzato sulla base di alcuni criteri che lo Snyder ha evidenziato per Caracalla, ma che possono essere applicati ad Augusto:

1- rapporto tra il numero delle potestà tribunizie attribuite all’imperatore dall’iscrizione e la datazione con giorno, mese ed anno consolare;

2-  rapporto tra la cifra delle potestà tribunizie e quella dei consolati e delle acclamazioni imperiali;

3- intervallo tra le potestà tribunizie di Augusto e quelle del correggente (Agrippa, Tiberio);

4- numero delle iterazioni raggiunto al momento della morte  dell’imperatore nel 14 d.C.

Nelle iscrizioni di Augusto la potestà tribunizia compare tra gli honores imperiali in genere dopo il pontificato massimo e prima delle acclamazioni in ablativo o in genitivo, seguita da un numerale ordinale. Secondo Lassère il computo delle potestà tribunizie incomincia con riferimento al dies comitialis, che si distingue in modo variabile dal dies imperii. Per Augusto non conosciamo il dies imperii, che potrebbe essere come il dies comitialis il 26 giugno o I luglio del 23 (non 33) a.C., dopo che Augusto rinunciò al suo   consolato.

Possiamo in questa sede tentare un primo elenco delle irregolarità relative alle tribunciae potestates di Augusto:

–       mancata iterazione su monete e iscrizioni successive alla prima potestà tribunicia (moltissime emissioni monetali, l’ultimo caso del 6 a.C., e almeno otto iscrizioni datate con anno consolare o comunque con titolatura successiva al primo anno).

–       numerazione di potestà tribunicie che contrasta con il titolo di pontifex maximus assunto dopo la morte di Agrippa (CIL X 6992, in realtà non con la X ma XII o XV potestà tribunicia).

–       mancata corrispondenza della numerazione delle potestà tribunicie con consolati e acclamazioni imperiali (elenco solo a titolo esemplificativo): CIL II 2703, 3827, 4686, 4868, 4920, 4922, 6215; III 6974, 14185, 14401 a,b,c, = ILS 5828;  V 3325; X 3827; XI 3567 = ILS 113; 6219 = ILS 104; XII 5667, 5671 = ILS 5817; AE 1890, 137; 1901, 85; 1902, 169; 1948, 8.

–       mancata corrispondenza della numerazione delle potestà tribunicie con la data consolare: CIL VI 30974 = ILS 92 del I gennaio 10 a.C. (XIII e non XIV potestà tribunicia).

–       contrasto delle potestà tribunicie col titolo di pater patriae assunto nel 2 a.C.: CIL II 2107 = ILS 96, X 931, XII 136; 5480-84; 5489, 5497 = ILS 100; 5500.

Tra i successori di Augusto, a parte Tiberio, si è citata la tribunicia potestas attribuita a Druso Minore nel marzo-aprile 22 a.C., fino alla morte del 14 settembre 23. Caligola rivestì la tribunicia potestas dal 18 marzo 37 al 24 gennaio 41, Claudio dal 25 gennaio 41 al 13 ottobre 54, giorno della morte nel XIV anno tribunizio. Nerone fu acclamato imperatore alla morte di Claudio il 13 ottobre 54, ma il dies comitialis viene dopo 53 giorni il 4 dicembre: alla morte, avvenuta il 9 luglio 68, era arrivato alla sua XIV tribunicia potestas Galba ebbe un’unica tribunicia potestas tra il 9 giugno 68 ed il 15 gennaio 69.  Otone ha come dies imperii il 15 gennaio, mentre assunse la potestà tribunicia 45 giorni dopo, dal momento che il dies comitialis è fissato al 28 febbraio (28 gennaio per Kienast). Per Vitellio le due date sono rispettivamente del 19 aprile e del 30 aprile del 69, con una distanza di soli 12 giorni. Si è già detto di Vespasiano per il quale dies imperii e dies comitialis coincidono, se la potestà tribunicia fu assunta lo stesso giorno dell’acclamazione da parte dell’esercito il I luglio del 69, forse nella ricorrenza del 93° anniversario del dies comitialis di Augusto.  Tito ebbe 11 tribuniciae potestates tra il I luglio 71, due anni dopo la nomina del padre, ed il 13 settembre 81, sommando 9 anni di co-reggenza. Domiziano lasciò passare 17 giorni tra il 14 settembre 81 dopo la morte di Tito ed il 30 settembre, data dell’assunzione del potere tribunizio. Alla morte il 18 settembre 86 era arrivato al suo XVI anno tribunizio.

Da un punto di vista cronologico e giuridico occorre distinguere l’acclamazione imperiale da parte dell’esercito nel dies imperii dalla ratifica senatoria con l’apposito senatoconsulto per l’attribuzione della tribunicia potestas e dell’imperium proconsulare e dall’approvazione comiziale (nel Campo Marzio) in occasione del dies comitialis, quando il principe riceveva formalmente i poteri ed i sacerdozi. A queste tre date se ne aggiunse nel corso del II secolo una quarta, quella del 10 dicembre, per sottolineare il collegamento con il collegio tribunizio, che effettivamente entrava in carica proprio il 10 dicembre. Per il Lassère si tratterebbe di una modifica introdotta non da Nerva o da Traiano  ma da Antonino Pio (ma immaginata già da Nerone, secondo lo Scheid), con un recondito significato politico, un richiamo all’entrata in carica dei tribuni della plebe già in età repubblicana.  Nella sostanza, il dies imperii avrebbe continuato a distinguersi per un numero variabile di giorni dal dies comitialis, che a partire dal secondo rinnovo sarebbe il 10 dicembre, ma in prima applicazione sarebbe stato variabile e vicino al dies imperii.

Dopo l’esperienza di Domiziano, Nerva avrebbe rinnovato le potestà tribunicie a partire dal 18 settembre 96, giorno della morte di Domiziano, ma nel suo terzo anno avrebbe modificato il computo a partire dal 10 dicembre 97. Traiano per il Kienast avrebbe rinnovato le tribuniciae potestates non il 28 ottobre ma il 10 dicembre. Lassère pensa che Traiano per ragioni che non ci sono note abbia accresciuto di due unità il numero delle sue potestà tribunicie, nell’autunno 98, quando sarebbe passato dalla I alla IIII: Le Roux ha espresso l’ipotesi che abbia voluto rafforzare i suoi legami con il suo padre adottivo Nerva riprendendo il suo computo, ma la questione rimane davvero oscura.

Per Adriano abbiamo un quadro più complesso perché la monetazione ignora il numero delle tribuniciae potestates: per i primi due anni una certa incoerenza sembra possa essere spiegata dalle circostanze della proclamazione in Cilicia l’11 agosto 117. Non se ne conosce però il dies comitialis e oltretutto la circostanza che il terzo consolato del 119 fu l’ultimo ricoperto non ci consente fino al 138 di fissare una cronologia certa. Il Kienast attribuisce anche ad Adriano il rinnovo al 10 dicembre, data dalla quale parte nel 136 il computo di L. Elio Cesare, morto il I gennaio 138.

Fu il Mattingly che sulla base della documentazione numismatica dimostrò che tale schema presentava ulteriori problemi e costringeva ad ipotizzare un’innovazione od una vera e propria riforma che sarebbe intervenuta nel 148 in occasione del 900 anniversario della fondazione di Roma e dell’adozione di M. Aurelio da parte di Antonino Pio: fino a quella data gli anni tribunizi sono calcolati a die in diem, il dies essendo quello dei comizi (Le Roux): con le eccezioni di Vespasiano, Traiano ed Adriano.

L’utilizzazione delle potestà tribunicie come strumento per definire una cronologia si sarebbe sviluppata soprattutto nell’età dei Severi e sarebbe continuata per tutto il III secolo fino a Diocleziano, ma sarebbe venuta meno progressivamente nel IV secolo: allora con Valentiniano II e Teodosio sarebbero cessate definitivamente le attestazioni.




Premio Ozieri di letteratura sarda.

Attilio Mastino
Intervento introduttivo
Premio Ozieri di letteratura sarda, Ozieri 22 novembre 2014

Mi legano da sempre al Premio Ozieri di letteratura sarda tanti sentimenti, tanti rapporti, tante storie diverse e lontane, che oggi si affollano disordinatamente nella mia mente.

Innanzi tutto la gratitudine per esser stato chiamato a presiedere la Giuria per questa 55° edizione, grazie alla volontà del Presidente Vittorio Ledda, del sorprendente segretario Antonio Canalis, soprattutto del mio carissimo Nicola Tanda presidente emerito della giuria, punto di riferimento per tante generazioni di poeti.

E poi l’anno scorso nell’edizione del 23 settembre 2013, quando mi era stato conferito il “Trofeo città di Ozieri” destinato a chi avesse contribuito a far conoscere la Sardegna e la sua cultura fuori dall’Isola: una soddisfazione grande per un premio inatteso, che ho ricevuto con orgoglio e gratitudine, perché c’è chi ha capito e c’è chi ha saputo guardare con saggezza oltre le polemiche e forse anche oltre gli errori.

Ma voglio tornare molto più indietro e ricordare i rapporti che mi hanno legato per anni alla città di Ozieri, alla casa editrice Il Torchietto che ha stampato tanti nostri volumi, ai Sindaci, alla Comunità Montana del Monteacuto nel cuore della Sardegna. Gli anni della Presidenza della Scuola media di mio fratello Luigi, che oggi mi ha pregato di portare il suo saluto. Il legame con Guido Sechi.

Prima ancora, il rapporto forte intenso talora conflittuale con Antonio Sanna, professore di linguistica sarda nella Facoltà di Lettere di Cagliari e poi nella Scuola di specializzazione in Studi Sardi negli anni 70, per tanto tempo – 18 anni – presidente di questa Giuria. Nicola Tanda ha ricordato oggi la sua dura prigionia in India catturato dagli inglesi, che gli costò il polmone sinistro.

Fu Antonio Sanna a proporre alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Cagliari l’approvazione delle due delibere del 1971 e 1974 che sono alla base della mobilitazione di moltissimi comuni della Sardegna sul tema della Lingua sarda: nel 1977 nella stessa direzione andava una relazione della Scuola in Studi Sardi scritta anche da me, che l’anno prima avevo fatto approvare una delibera al Consiglio Comunale di Bosa sul bilinguismo.

Prima di lui avevano presieduto la giuria del premio, a fianco del segretario fondatore Tonino Ledda, Domenico Masia, Cicito Masala, Rafael Catardi. Tra i membri della giuria che si sono succeduti con una grandissima passione lasciatemi ricordare almeno un amico scomparso meno di un anno fa e che stasera ricordiamo a Sassari,  Nardo Sole.

Poi la lunga stagione di Nicola Tanda, con tanti successi e tanta forza. Sullo sfondo c‘è una scelta non scontata, la progressiva codificazione e circolazione letteraria plurilingue che è alla base anche dell’edizione di quest’anno.

Ma mi sono rimasti nel cuore, nei primi anni della manifestazione, i premi conquistati dal poeta che mi è più caro, il poeta della disperazione scomparso un anno fa, Orlando Biddau, lui col rimorso di aver sperperato tutte le sue primavere; prima ancora il premio assegnato a mio zio Primo Mastinu per la poesia Sa Fozzighedda nella VI edizione del premio, l’attenzione e la partecipazione di mio padre Ottorino a diverse edizioni, sempre sulla scia di quella vena poetica in lingua sarda fondata sull’ironia e sulla critica corrosiva di nostro prozio Giovanni Nurchi, l’autore di Bosa risuscitada, un trionfo dopo le argute malignità de Sas Isporchizias de Bosa di Melkiorre Murenu.

Sullo sfondo, l’apprezzamento per i premi assegnati a tanti poeti, voglio ricordare almeno Pedru Mura il poeta di Isili, operaiu ‘e luche soliana, currende un’odissea ‘e rimas nobas, e poi il caro Giommaria Cherchi scomparso di recente; il ricordo di Anzeleddu Dettori a Bonorva per S’Ischiglia e prima ancora indirettamente del poeta Antonio Cubeddu ancora ad Ozieri, nella edizione e nella lettura originale che ne avevano fatto vent’anni fa Nardo Sole e Tore Tedde.

Il lento passaggio della Sardegna dall’oralità alla scrittura. Del resto la storia del Premio, anche con la sua conflittualità latente e con la sua creatività, è tracciata con ben altra competenza della mia da Nicola Tanda nel volume di Carlo Delfino Editore Quale Sardegna ? Pagine di vita letteraria e civile. Ma voglio ricordare anche il bel libro di Salvatore Tola sui 50 anni di premi letterari in Sardegna.

Ma al di là di tutto ciò c’è una cosa davvero personale, soprattutto la data di inizio del Premio città di Ozieri, nel settembre 1956, che lo rende il premio con più lunga attività a favore della cultura sarda, una data che mi conduce direttamente agli ultimi luminosi mesi di vita di mia madre Anna Scampuddu, per la quale oggi mi pace rileggere qualche verso della poesia scritta da Ottorino, che testimonia una perdita irreparabile ma anche un legame che ancora ci unisce. La solitudine disperata, il lutto, ma anche un amore che continua.

Torra

ca su cane tou

est truciénde

de tristésa.

Torra

ca su puddedru tou

appo inseddau

cun bàttiles doràdos

e sonaggios de prata.

Torra

ca ti dépene fagher festa

montes e baddes in fiore;

torra

ca sos puzones

ti depene cantare

in armoniòsu coro.

Torra

ca ti déppene saludàre

sos mares chena lacana

e sos chelos chena nue.

Torra

ca pro te appo

furadu lughentes

istellas.

Torra

pro mi dare cun calore

paghe, felitzidade

e ischindittas de amore.

Ecco, io auguro che le poesie e le opere di questa straordinaria 55° edizione del Premio siano in grado di dare calore, pace, felicità e scintille d’amore.

Ho seguito con curiosità e un poco in punta di piedi in questi mesi l’attività dei componenti della giuria del Premio Ozieri, Antonio Canalis, Clara Farina, Dino Manca, Paolo Pillonca, Cristina Serra, Salvatore Tola: ne ho tratto l’impressione di una professionalità, di una qualità, di una capacità di interpretare la creazione letteraria e lo specifico della poesia con un metodo davvero saldo, con l’utilizzo di categorie riconosciute, con una serena convergenza sulle regole da adottare che certo non mi aspettavo, perché non sempre sono stato in grado di cogliere la ricchezza di un dibattito che ha pienamente investito pure gli ambienti accademici, influenzato il Consiglio Regionale al quale si deve la legge 26 del 1997, che ha preceduto la legge nazionale 482/99, espressione della carta europea delle lingue regionali o minoritarie firmata dall’Italia l’anno dopo ma non ancora ratificata.

E’ nella carta europea che si avvia il riconoscimento delle lingue regionali o minoritarie quale espressione della ricchezza culturale di un territorio; si definisce il rispetto dell’area geografica di ogni lingua, facendo in modo che le divisioni amministrative già esistenti o nuove non ostacolino la promozione della lingua; la Carta impone la necessità di un’azione risoluta per promuovere le lingue regionali o minoritarie al fine di salvaguardarle; afferma la facilitazione e l’incoraggiamento all’uso orale o scritto delle lingue regionali o minoritarie nella vita pubblica e privata; promuove gli studi e la ricerca sulle lingue regionali o minoritarie nelle università o negli istituti equivalenti.

Soprattutto ho apprezzato in tante poesie e in tante opere presentate per questa edizione del Premio la tensione verso un’interpretazione profonda della letteratura sarda, che parte da una conoscenza di un mondo che progressivamente sto davvero scoprendo con i sapori, i profumi, le sensazioni, i ritmi, le musiche, i temi di un tempo lontanissimo che ci appartiene e che ci apparterrà nel profondo.

E ancora ho riflettuto molto sull’importanza e sulle profonde implicazioni che hanno avuto i premi di poesia, primariamente quello di Ozieri, sul terreno della valorizzazione e dell’arricchimento della lingua sarda. Come non pensare a Giovanni Maria Dettori e alla sua opera Sa Limba Sarda oe:

Fis, de tempus meda, presonera

tra nuraghes e baddes soliànas

ninnàda dae fadas fitianas

lagrimàda, che prenda, da’ s’aera.

Il testo letterario, si sa, è il testo a più alta densità comunicativa e il linguaggio poetico – a marcata valenza simbolica e connotativa – è per sua stessa definizione modellizzante ed esemplare.

Questo lo abbiamo imparato a scuola. Questo lo abbiamo appreso dalle grandi letterature europee.

Insieme al sardo, lingua neolatina, oggi noi parliamo una continuazione del toscano, anche grazie ai modelli letterari e linguistici di poeti e scrittori come Dante, Petrarca, Boccaccio e Manzoni. I poeti impegnati a scrivere le loro cantones sono importanti. Altro che «dopolavoristi»!

Il debito di riconoscenza che tutti abbiamo nei loro confronti – per la progressiva crescita della lingua sarda e per il salto di qualità che la loro poesia, con il suo carattere profetico, è stata capace di imprimere – è grande.

Da qui nasce la consapevolezza di come la lingua – fondamentale strumento di rappresentazione del mondo e della vita – possa diventare un elemento fortemente unificante per la società sarda, simbolo di sovranità e di identità, capace di produrre ricadute occupazionali a favore dei giovani della Sardegna.

Dico francamente che ho molto da imparare in questo campo e che la Sardegna ha poeti di grandissimo livello, capaci di esprimere la realtà con una sensibilità e una forza che lasciano senza fiato, motivati da un forte impegno sociale. Tematiche che non riescono a passare attraverso la pallida lingua italiana e che semmai rimandano alle lontane radici latine, tra inventio, dispositio, memoria, elocutio e actio per seguire la Rhetorica ad Herennium dell’inizio del I secolo a.C.

Questa è un’esperienza che peserà nella mia vita e nella vita di tanti di noi e che deve orientare tante prospettive future anche di un premio come questo che deve costantemente ripensare la sua storia, per indicare un orizzonte di modernizzazione e di crescita.

Un grazie va a chi ha voluto e ha portato avanti giorno per giorno un impegno in su Centru de documentazione de sa letteratura sarda del Palazzetto di Via Amsicora, un archivio per le opere letterarie della Sardegna, che raccoglie una documentazione unica e preziosa per la cultura della nostra isola, un patrimonio di testi letterari, di documentazione sugli autori, di carteggi, di fotografie, di filmati, di registrazioni sonore e musicali che oggi rappresenta un giacimento documentario da tutelare e rendere accessibile agli studiosi, ai letterati, agli appassionati. Penso a tante altre tesi di laurea.

Il Premio Ozieri (che ha un simbolo che amiamo, la decorazione della pisside preistorica di San Michele)  ha rappresentato per decenni una delle più importanti palestre compositive e scuole letterarie della Sardegna, un punto di riferimento imprescindibile nel panorama culturale della nostra Isola e una realtà oramai consolidata nella promozione e valorizzazione della lingua sarda.

Soprattutto è stato luogo di dibattito, su temi centrali quali quelli sulla questione sarda, sull’identità, sulla promozione e valorizzazione della cultura e della lingua sarda.

Antonio Canalis ha parlato di un ininterrotto richiamo alle ragioni della specificità isolana, attraverso un uso “politico” dell’attività poetica come momento di riflessione e di rilettura attorno ai problemi della Sardegna, verso una nuova stagione dell’autonomismo sardo.

Sono convinto che in futuro dal Premio Ozieri e dai tanti altri premi letterari che mi sono cari, vere scuole di scrittura creativa per i sardi, dovrà partire la nuova politica linguistica della Regione Sarda.

Le lingue dei sardi possono essere un elemento distintivo dell’autonomia, della sovranità del Popolo Sardo, però solo a patto di difendere le radici culturali profonde di queste lingue, di conservarle come specchio di un mondo che ci appartiene e che in esse si riflette con immediatezza: ma solo se riusciremo a pensare sempre più in sardo (o in sassarese, gallurese, algherese, tabarchino), rendendoci conto criticamente che ci sono differenze tra città e campagna, tra città e paese, tra paese e paese. Sono problemi sui quali dobbiamo ancora confrontarci.

La presenza oggi dell’Assessore Claudia Firino è preziosa per delineare un impegno, un orizzonte, una prospettiva.

Dobbiamo tutti svolgere il nostro ruolo con scrupolo, con prudenza, con la voglia di ascoltare e di capire. Sempre rifacendoci ai grandi maestri che ci hanno preceduto, senza indulgere a posizioni di retroguardia. Non ritengo giusto sposare posizioni preconcette e ci dobbiamo battere per la promozione della lingua sarda e delle altre lingue del territorio come lingue dell’oggi e del domani, come segni di identità e come elementi distintivi per le culture e per le tradizioni della Sardegna.

Personalmente sono convinto che dobbiamo promuovere il plurilinguismo, ma per la lingua sarda chiederei – come recitano le linee guida approvate dalla Regione sulla Limba Sarda Comuna del 2006 – che si parta dalle radici, che si rispettino e si valorizzino le varietà locali, in una reale ottica di protezione delle minoranze, che si difendano i territori senza atteggiamenti di dirigismo linguistico che sarebbero nefasti, pur in una prospettiva di semplificazione ortografica e, sul piano scritto, di standardizzazione progressiva.

Come dimenticare l’accordo sulle norme ortografiche proposto dal Premio Ozieri, modello per tanti altri premi ?

Sia in prosa che in poesia, il Premio Ozieri può portare a sintesi molte posizioni, creare una forte unità di intenti che sia capace di includere e non di escludere, costruire alleanze, sinergie, piattaforme comuni coinvolgendo i protagonisti di un dibattito nel quale vogliamo entrare a testa alta e con rispetto per le posizioni di tutti, per costruire una vera sovranità della Sardegna.

Nicola Tanda parlava di quanto senso di responsabilità e di quanta consapevolezza occorra oggi per essere poeti in Sardegna.

C’è una pagina del mio maestro Giovanni Lilliu in cui sostiene che la lingua sarda è grado di comunicare a livello locale, ma è anche «in grado di tradurre per iscritto qualunque pensiero o qualunque esperienza della realtà del mondo in cui viviamo. Dunque lingua, in effetti, quella sarda, per natura, è lingua perché è ampiamente espressiva».

Bisogna partire da qui per ribadire che la lingua sarda non è espressione dialettale, ma esprime un’eleganza, una qualità, una profondità che non rinneghiamo. L’Università di Sassari ha collocato la difesa della lingua sarda nel nuovo statuto e intende battersi in difesa del bilinguismo e per la promozione della lingua sarda. Farà i corsi di lingua per insegnanti come ha già fatto l’Università di Cagliari. Credo ci sia necessità di una maggiore integrazione tra politiche universitarie e politiche linguistiche regionali. L’Università è una risorsa. Non c’è futuro senza l’Università per la Sardegna e per il Paese. L’Università è innanzi tutto al servizio della Sardegna.

I nostri poeti sono prima di tutto sardi che osservano la propria terra con affetto, ma che sono capaci di evocare e quasi di dar vita alle cose solo chiamandole coi nomi che generazione dopo generazione sono stati attribuiti a tutte le mille articolazioni di un paesaggio che amiamo.

L’edizione di quest’anno del Premio coincide perfettamente con il centenario dalla morte di Sebastiano Satta avvenuta il 29 novembre 1914, a 47 anni d’età: nei giorni scorsi l’on.le Annico Pau, intellettuale ed ex Sindaco di Nuoro ha scritto al sindaco di Sassari Nicola Sanna per ricordare la laurea in Giurisprudenza conseguita da Sebastiano Satta a Sassari nel 1894, la sua attività di giornalista per L’Isola. Ne ha richiamato il contributo come letterato, giornalista e animatore di convivi culturali, in quella città che un mio prozio sardista, il deputato nuorese Pietro Mastino definì <<la sua patria seconda: Sassari>>. Nell’archivio storico dell’Università a Palazzo Segni ho ritrovato nei giorni scorsi il fascicolo di Sebastiano Satta, che inizia con la licenza liceale conseguita all’Azuni il 18 luglio 1888. E poi i 18 esami sostenuti presso la Facoltà di Giurisprudenza, con la laurea del 21 luglio 1894 con una tesi su Gli eserciti e gli armamenti stanziali nel rapporto economico e morale.

Lasciate anche a noi la possibilità oggi di ricordare il grande poeta Sebastiano Satta, che fu anche un appassionato cultore della lingua sarda, come in alcune poesie, fra le quali resta molto cara ai nuoresi Su battizu eseguita in canto dal Coro di Nuoro.

Satta amava la Barbagia e non nascondeva di nutrire sentimenti di simpatia e rispetto per la folta schiera di banditi che, per sfuggire alla cattura, si davano alla macchia. Secondo il poeta nuorese, i banditi altro non erano che degli uomini divenuti simili ad animali randagi, che manifestavano con le loro gesta fuorilegge una barbarica ribellione a un ordine sociale ingiusto e inaccettabile. La poesia sattiana mette dunque in luce tutta la tragedia della Sardegna, immortalata come: “madre in bende nere che sta grande e fiera in un pensier di morte”.

Oggi i nostri poeti si lasciamo alle spalle i pensieri di morte e gli armamenti e la Sardegna si apre con dolcezza verso un futuro luminoso di speranza, perché davvero vorremmo che giungesse la primavera, con le parole di Pedru Mura, il poeta di Isili. Vorremmo:

chi colet ridende su beranu

chin tottu sos profumos ch’hat in sinu;

pro chi avantzet cantande s’arbèschia

chin tottu sos lentores de manzanu;

pro chi si nde cunfortet su desertu

e ti torret sos fizos fattos frores.




Enzo Aiello studioso di Costantino

Attilio Mastino
Enzo Aiello studioso di Costantino
Messina, 29-30 ottobre 2014

Sono davvero commosso per esser stato chiamato a ricordare oggi a Messina il nostro Enzo Aiello, a oltre un anno da quel giorno in cui ci ha lasciato a 56 anni di età, ripercorrendo con affetto le tappe che già Lietta De Salvo aveva tracciato ad Alghero con il suo commosso ricordo del 29 settembre 2013 per il XX Convegno de L’Africa Romana.

Grazie dell’invito a tutto il Dipartimento di civiltà antiche e moderne dell’Università di Messina e all’Associazione di studi tadoantichi, per aver promosso questo convegno internazionale Fra Costantino e i Vandali per Enzo Aiello, studioso tra i più acuti della figura del primo imperatore cristiano, soprattutto amico vero col quale tutti avremmo voluto condividere ancora pienamente per i prossimi decenni aspirazioni, desideri e curiosità scientifiche comuni. Almeno fino a quella data del 25 luglio di un anno fa, quando fu stroncato da un’atroce fulminante malattia, che recise alla base tante speranze e tanti progetti. Eravamo nell’anno costantiniano, e nel giorno dell’acclamazione di Costantino.

Lo avevo chiamato qualche settimana prima al telefono, l’avevo sentito affaticato ma circondato dalle cure dei suoi; mi aveva colpito per l’affetto che aveva voluto manifestarmi di nuovo, parlandomi della sua famiglia e dei suoi studi, i volumi in preparazione, i suoi studenti.

Oggi vorrei ricordarlo per la sua bontà, per la sua delicatezza, per la sua sensibilità, partendo dagli anni sardi di Enzo, tra il maggio 85 e l’agosto 87, quando prese alloggio in una casa di San Gavino Monreale, dove si era trasferito per seguire Giusy che insegnava nella locale Scuola Media: erano gli anni in cui proprio nella chiesa di San Gavino (a 100 m. di distanza) Francesco Cesare Casula scopriva l’effigie della regina di Arborea, la giudicessa Eleonora, il cui nome qualche anno dopo, nel ’92, sarebbe stato attribuito alla nostra Eleonora Aiello, oggi studentessa di informatica a Pavia. Ricordo gli amici comuni, primo tra tutti Mauro Piras, tornato di recente a presiedere il Comitato provinciale del CSI di San Gavino, appena sposato con Luisa Casu: gli Aiello subito dopo il matrimonio abitavano nella stessa palazzina di Via Fermi, nell’appartamento di sopra, proprio a San Gavino, Enzo passava le sue lunghe giornate nello studio e preparava la tesi di dottorato sulla Pars Constantiniana degli Excerpa Valesiana, che avrebbe discusso nel 1987 con Emilio Gabba, Lellia Cracco Ruggini e Chiara Longo Pecorella. Si limitava allora ad assistere Giusy prima di insegnare lui stesso a Guspini e prima del trasferimento a Capo D’Orlando e a Milazzo lui, a Salina nelle Eolie Giusy. Tanta fatica, tanti sacrifici, ma anche tanta gioia. E poi ricordo la prima regata de Is Fassonis, le preistoriche rozze imbarcazioni costruite con le piante di falasco delle paludi sarde a Santa Giusta tutti insieme a godere la festa sullo stagno e una settimana dopo una splendida giornata passata nel mare di Bosa e nella antica casa di famiglia di mio padre nella vigna di Nigolosu a Magomadas, più tardi tra le rovine di Cornus, la città di Ampsicora raccontato da Tito Livio in occasione del Bellum Sadum del 215 a.C. Una compagnia incantevole, con mio figlio Paolo ancora bambino. Una giornata passata a discutere degli ultimi studi costantiniani di Salvatore Calderone, di Lietta De Salvo e degli altri amici siciliani, con tante idee e tanti progetti in corso. Infine, la sua partecipazione ai nostri convegni su L’Africa Romana fino alla XIV edizione (Il controllo militare del Mediterraneo in età tetrarchica e costantiniana), il suo emozionante ritorno in Sardegna e la mia presenza ripetuta a Messina a casa Aiello in Salita Contino, a Palermo, a Catania tra tanti amici, come nella giornata di oggi. I concorsi. Aveva preso a collaborare con me e con Mons. Antonio Francesco Spada, specialista del culto di Costantino nella Sardegna bizantina e con noi aveva partecipato all’edizione della corsa a cavallo del 5 luglio 2002, l’Ardia di Sedilo, presentando una relazione in occasione del convegno su Tradizioni religiose e istituzioni giuridiche del popolo sardo, il culto di S. Costantino imperatore tra oriente e occidente, parlandoci del mito di Costantino, linee di una evoluzione, con un intervento poi pubblicato su Diritto&Storia, la fortunata rivista elettronica di Francesco Sini con la quale avrebbe continuato a collaborare.

Il caso ha voluto che questo convegno si svolga all’indomani del mio recente viaggio in Algeria, negli ultimi giorni del mandato di rettore, con ancora negli occhi il mausoleo di El-Khroub e il museo di Cirta, un tempo capitale del Regno indipendente di Numidia. Ho passato una settimana a Constantine, la città rifondata dall’imperatore Costantino dopo la battaglia del Ponte Milvio e la sconfitta di Massenzio, distruttore della colonia romana di Cirta, dopo la morte di Lucio Domizio Alessandro, l’usurpatore alleato di Costantino ricordato sul miliario sardo di Carbonia. Come non pensare al primo lavoro costantiniano di Enzo, Costantino, Lucio Domizio Alessandro e Cirta: un caso di rielaborazione storiografica, presentato ad Alghero in occasione del VI Convegno internazionale de L’Africa romana ? Un tema che sarebbe stato ripreso e commentato in Africa ipsa parens illa Sardiniae da Paola Ruggeri.

Ero a Constantine per partecipare ad un convegno internazionale su Massinissa, il re alleato di Scipione l’Africano e vincitore su Annibale a Zama e ho parlato delle dimensioni del Regno di Numidia fino agli Emporia sulle Sirti (in Tunisia) e fino alla Tripolitania (in Libia). Il fatto stesso che l’antica Cirta abbia mantenuto fino ad oggi ininterrottamente il nome di Constantina, ricordando il primo imperatore cristiano, la dice lunga sulla complessità della storia e sulle eredità comuni. Il museo francese di Cirta mantiene il sapore di un tempo lontano, quello di un luogo privilegiato per riscoprire il rapporto tra culture locali, impero romano e rivoluzione cristiana, all’indomani della sconfitta di Massenzio al Ponte Milvio. Una città, Constantina, per Leone Magno onorata così tanto a gloriosissimae memoriae dell’imperatore Costantino dopo la pace religiosa, ut ab eius vocabulo praeter nomen proprium, quo Arelas vocatur, Constantinae nomen acceperit. E’ come se Cirta e Arelate avessero rappresentato per Costantino il prototipo di quello che poi sarebbe stato realizzato a Costantinopoli sul Bosforo.

Proprio a Constantina, rifondata dopo la distruzione di Cirta, rimangono molte dediche epigrafiche riconoscenti, che esaltano il trionfo del primo imperatore cristiano, ricordato in una dimensione spaziale universale (conservator totius orbis) ed estesa nel tempo, con i titoli di perpetuae Securitatis ac libertatis auctor, triumphator omnium gentium ac domitor universarum factionum, qui liberatem tenebris servitutis oppressam sua felici victoria nova luce inluminavit et revocavit. Sono rimasto impressionato dalla straordinaria accoglienza che ci è stata riservata ad Algeri e a Constantine, dall’entusiasmo per un confronto internazionale che si è svolto negli stessi giorni in cui sui vicini monti dell’Aurés veniva rapito e decapitato un turista francese. In fondo la gente ha il desiderio di pace e non apprezza gli estremisti e i diabolici disegni dei sanguinari jihadisti collegati all’ISIS del califfato iracheno-siriano. La presenza di ben tre ministri (due donne, quelle della cultura e dell’educazione superiore) e l’impegno della Presidenza della repubblica algerina ci raccontavano la voglia dell’Algeria di oggi, superata la lunga fase postcoloniale, di riscoprire le proprie radici, senza trascurare i periodi pre-islamici, la fase numida, la fase cartaginese, la fase romana, quella vandala e quella bizantina. La civiltà cristiana sintetizzata da Agostino di Ippona.

Mi è stato chiesto di presentare, con l’aiuto di Sebastiano Busà e Marilena Casella, la produzione scientifica costantiniana di Enzo partendo da questa splendida seconda recente edizione del volume La Pars Constantiniana degli Excerpta Valesiana. Introduzione, testo e commento storico, 21° volume della collana Pelorias, Messina 2014, ripreso a due anni di distanza dalla prima edizione, corretto, completato con gli indici delle fonti e dei nomi moderni e pubblicato per volontà degli amici e degli allievi, con un sentimento e un legame che davvero ho ammirato e un poco invidiato. Questo libro conclude una ricerca durata oltre trent’anni e testimonia come Aiello abbia dedicato la maggior parte della sua produzione scientifica alla figura dell’imperatore Costantino con un’attenzione particolare alla storiografia antica sulla vicenda costantiniana, come si può cogliere dalla fine indagine speculativa condotta, a partire dalla tesi di dottorato e proseguita poi in vari saggi, su un testo tanto interessante quanto complesso quale la Pars prior degli Excerpta Valesiana (come definita dal Gardthausen nella sua edizione teubneriana del 1875), nota anche, ma impropriamente, come Origo Constantini imperatoris: una biografia pagana del primo imperatore cristiano, pubblicata da Henry de Valois nel 1636, ma, secondo Aiello, redatta non molto tempo dopo la morte di Costantino e in una non ben identificata epoca epitomata ed interpolata con brani di autori cristiani, fra cui Orosio. Si tratta di un testo ricco di informazioni su Costantino, ma estremamente problematico sia per l’epoca di composizione e l’identificazione del possibile autore o dell’ambito culturale e ideologico nel quale venne redatto, che per la tradizione del testo, tramandato da un testimone unico, il Berolinensis-Philips 1885 del IX secolo.

Da una prima monografia uscita in contemporanea con l’opera di I. Koenig (1997), che ha avuto successivi aggiornamenti e rielaborazioni (2005), nasce questo volume che presenta l’edizione critica del testo, la traduzione, ed uno scrupoloso e puntuale commento dell’opera, da cui emergono il rigore filologico e l’acribia storica che hanno caratterizzato la ricerca di Aiello.

Nell’introduzione l’autore ripercorre le varie tappe di quella che lui definisce “cronaca di un’avventura”: dal manoscritto degli Excerpta, all’edizione pubblicata in appendice all’edizione delle Res gestae di Ammiano Marcellino nel 1636; alle successive edizioni degli Excerpta; al carattere di frammento o testo unitario della Pars Constantiniana; alla ricerca del titulus; alla presenza di inserti orosiani (sono cinque i passi pregnanti − V, 20, 29; VI, 33, 34, 35 – il cui intento non sembra ad Aiello quello di cristianizzare tout court il testo, come dimostra l’assenza di momenti salienti della vicenda costantiniana, quali la visione della croce o la conversione, ma piuttosto quello di correggere o integrare la portata di alcune osservazioni presenti nel testo); alla struttura della Pars Constaniniana, che ripercorre le vicende del primo imperatore cristiano essenzialmente secondo i topoi della narrazione biografica (l’origine, la famiglia, l’educazione ricevuta, le imprese giovanili in Oriente presso Diocleziano e Galerio; la fuga in Britannia dal padre Costanzo Cloro; l’acclamazione il 25 luglio 306 d.C.; la guerra contro Massenzio; gli scontri con Licinio; la fondazione di Costantinopoli; la guerra contro i goti; e la morte); ai punti di contatto con la storiografia contemporanea a Costantino (sostanziali analogie narrative e lessicali con Lattanzio, collegamenti con Eusebio, affermazioni analoghe a Prassagora), al confronto con la tradizione dell’Enmann Kaiser Geschichte (così come è confluita nei breviaria di Aurelio Vittore ed Eutropio e nell’Historia Augusta), con l’Epitome de Caesaribus, con Zosimo e Zonara, ovvero, come scrive l’Autore, “il fantasma di Nicomaco Flaviano”, concludendo che forse l’autore dell’excerptum, certamente un pagano (che pure manifesta un palese atteggiamento filocostantiniano), potrebbe appartenere proprio alla cerchia di Nicomaco Flaviano.

Seguono il testo in 35 brevi capitoli (secondo la suddivisione del Gardthausen nel 1875), di cui Aiello ha curato l’edizione critica, rispettando il più possibile le lezioni offerte dal manoscritto, e la traduzione che non riporta le interpolazioni.

Il Commento riprende le tematiche affrontate nell’introduzione, mostrando, paragrafo per paragrafo, attraverso un’attenta analisi interna e comparativa, analogie o divergenze rispetto alle fonti cui si è già accennato, sempre con lo sguardo critico dello storico che contestualizza in modo puntuale ogni frase nel vortice evenemenziale.

Chiudono il volume una ricca bibliografia che passa in rassegna le varie edizioni, gli studi moderni sull’opera. Di ausilio al lettore gli indici delle fonti e degli autori moderni curati da Sebastiano Busà, dottore di ricerca e allievo di Enzo Aiello.

Sullo stesso argomento Aiello aveva pubblicato vari saggi: uno sugli aspetti generali del testo (Alcune osservazioni su genesi e struttura della ‘pars prior’ degli Excerpta Valesiana, in Esegesi, parafrasi, compilazione in età tardoantica, Atti III Convegno Int. Associazione Studi Tardoantichi, Pisa 7-9 ottobre 1999, a cura di C. Moreschini, Napoli 1995, pp. 21-38), e un altro sull’utilizzo di Orosio quale fonte principale degli interventi interpolatori, in cui Aiello tenta di dimostrare le ragioni dell’utilizzo del testo da parte del presbitero spagnolo, e dunque della sua fortuna dal V secolo in poi (Aspetti della fortuna di Orosio. Il caso della Pars prior degli Excerpta Valesiana, in Aa. Vv., Ad Contemplandam sapientiam. Studi di Filologia Letteratura Storia in memoria di Sandro Leanza, Soveria Mannelli 2004, pp. 5-29).

Per il resto, dell’ampia produzione scientifica costantiniana di Enzo Aiello mi limiterò a dire che comprende aspetti diversissimi ed è espressione di curiosità e passioni vere, con le proiezioni del mito di Costantino dal medioevo fino ai giorni nostri. La fortuna di Costantino, il “mito” si collocherebbero in realtà già alla fine del IV secolo, quando, soprattutto sulla scorta della Vita Constantini di Eusebio, vengono redatte tutta una serie di biografie, fiorite soprattutto in Oriente e protrattesi per circa dodici secoli, in cui compaiono i momenti significativi della vicenda costantiniana: la visione della croce, la battaglia di Ponte Milvio, il battesimo, la donazione e i rapporti fra l’autorità civile e quella ecclesiastica, la conversione.

Su quest’ultimo aspetto, negli Actus Sylvestri è rinvenibile una complessa tradizione agiografica, che, messo da parte il Costantino storico, presenta un Costantino lebbroso, guarito dal vescovo di Roma Silvestro attraverso il battesimo, contrapponendosi alla violenta reazione pagana anticostantiniana, sviluppatasi dopo il Sacco alariciano del 410 (Costantino, la lebbra e il battesimo di Silvestro, in Costantino il Grande. Dall’antichità al medioevo (Atti del Convegno di Macerata, 18-20 dicembre 1990), a cura di G. Bonamente e F. Fusco, Macerata 1992, pp. 17-58).

Questa tradizione, in realtà, come sottolinea Aiello, sarebbe sorta già alla fine del IV secolo, per attenuare la portata della notizia relativa al battesimo ariano di Costantino, che, nello scontro fra ariani e niceni, aveva portato al sorgere di una forma di anticostantinianesimo fra gli stessi cristiani (Costantino ‘eretico’. Difesa della ‘ortodossia’ e anticostantinianesimo in età teodosiana, in Atti Accademia Romanistica Costantiniana X, Spello-Perugia-Gubbio 7-10 ottobre 1991, Napoli 1995, pp. 55-83).

La fortuna di questi aspetti è stata indagata da Aiello sia in relazione alla denuncia che ne fa Gerolamo nel Chronicon (Sulla fortuna della notizia geronimiana su Costantino ‘eretico’, «Messana» 13, 1992, pp. 221-237), sia in relazione alle origini del confronto fra Costantino e il vescovo di Roma Silvestro, adombrato dall’imperatore: alle reticenze delle fonti storiche sul difficile periodo del papato di Silvestro, subentrò presto una tradizione agiografica volta ad esaltarne l’operato pastorale (Cronaca di una eclisse. Osservazioni sulla vicenda di Silvestro I vescovo di Roma, in Il tardoantico alle soglie del 2000 (V Convegno Associazione Studi Tardoantichi, Genova 3-5 giugno 1999), a cura di G. Lanata, Genova 2000, pp. 229-248).

L’ultimo atto dell’esaltazione mitologica si può considerare l’inaugurazione dell’obelisco posto nella Piazza del Laterano da Sisto V (10 agosto 1588), sulla cui base, oltre ad epigrafi riguardanti la storia dell’obelisco, può scorgersene una che ricorda il battesimo di Costantino da parte di Silvestro, quasi a voler riaffermare la tradizione canonica della leggenda. Tra il XVI e il XVII secolo, tra il rinnovamento umanistico e il movimento protestante da un lato e la riforma cattolica dall’altro, la figura di Costantino si trovò al centro di animati dibattiti, e le costruzioni mitiche, sottolinea Aiello, a poco a poco sparirono. Soprattutto per opera della Riforma protestante, l’indagine storiografica viene elevata al piano documentario: lo stesso Lutero critica aspramente la donazione e la supremazia romana. La moderna storiografia sul primo imperatore cristiano si ispira al pensiero dei riformatori, che “avevano visto in Costantino colui che aveva creato una chiesa “di stato”, della quale si era posto alla testa” (Alle origini della storiografia moderna sulla tarda antichità: Costantino fra rinnovamento umanistico e riforma cattolica, in Hestiasis 4, Studi di Tarda Antichità offerti a Salvatore Calderone, Studi Tardoantichi IV, Messina 1987 [1991], pp. 281-312).

La chiesa romana, dal canto suo, aveva cercato di mantenere gli elementi che avevano contraddistinto il mito di Costantino, destinato ad assurgere ad una peculiare centralità nel confronto fra autorità religiosa e autorità politica; tale mito è stato analizzato nel suo sviluppo nell’età medievale e in quella moderna, partendo dall’articolo del lontano 1988 Aspetti del mito di Costantino in Occidente: dalla celebrazione agiografica all’esaltazione epica, Annali Facoltà di Lettere di Macerata 21, 1988, pp. 87-116; Successivamente: Alle origini, cit. 1992; Cassiodoro e la tradizione su Costantino, in Cassiodoro dalla corte di Ravenna al Vivarium di Squillace (Atti Conv. Int., Squillace 25/27 ottobre 1990), a cura di S. Leanza, Soveria Mannelli 1994, pp. 131-157; Il mito di Costantino. Linee di una evoluzione, Diritto@Storia 2003, pp. 1-11; Il mito di Costantino nella Roma di Cola di Rienzo, in Costantino il grande tra Medioevo ed età moderna (Trento 22-23 aprile 2004), a cura di G. Bonamente, G. Cracco, K. Rosen, Bologna 2008, pp. 81-121).

La presenza costantiniana nella storiografia moderna è stata approfondita da Aiello nel ripercorrere l’attività scientifica di Salvatore Calderone, riesaminando in particolare il suo Costantino (Il ‘Costantino’ di Calderone. Linee di una evoluzione, in Salvatore Calderone (1915-2000). La personalità scientifica (Conv. Int. di Studi, Messina-Taormina 19-21 febbraio 2002), a cura di L. De Salvo, V. Aiello (Pelorias 17), Messina DiScAM 2010, pp. 151-167. Cfr. anche Per Salvatore Calderone: ricordo di un maestro, «Koinonia» 25/1, 2001, pp. 5-17), nella convinzione che “lo stato romano è divenuto cristiano attraverso il suo imperatore, che stringe con il Dio dei cristiani un patto esclusivo”.

Sono state indagate altre vicende costantiniane come la citata usurpazione di L. Domizio Alessandro, con il quale Costantino dovette probabilmente aver stretto un’alleanza in chiave antimassenziana, alleanza dissimulata dalla storiografia favorevole a Costantino (Costantino, Lucio Domizio Alessandro e Cirta: un caso di rielaborazione storiografica, in L’Africa romana VI, pp. 179-196); o il problema dei rapporti fra Costantino e Crispo, analizzato attraverso l’eco che ne sarebbe giunta fin nella tradizione delle Chansons de Geste (I silenzi su Costantino, in Costantino il Grande nell’ età bizantina (Atti Conv. Int. Ravenna, 5-8 aprile 2001) «Bizantinistica» 5, 2003, pp. 277-307); o nella lirica e nel melodramma italiano (Adulterio e incesto in “Fausta” di Donizetti: la sublimazione della storia all’ombra del mito, in Sublimazione e concretezza nell’eros del melodramma, Convegno Messina 24 novembre 2004), Roma 2007, pp. 147-164; Il dramma familiare di Costantino nel melodramma italiano, «Koinonia» 32, 2008, pp. 9-39).

Alla inaspettata ed insperata vittoria di Costantino su Massenzio, soldato esperto, e al “cosiddetto editto di Milano” Aiello ha dedicato, in occasione del Convegno di Niš (3-5 giugno 2010), un contributo in cui mostra l’eccezionalità della vittoria costantiniana, dovuta ad un errore del nemico, letto come segno tangibile della benevolenza del Dio dei cristiani. Le decisioni di Milano sarebbero, per lo Studioso, una manifestazione concreta della riconoscenza di Costantino a quel Dio. L’interesse di Aiello venne inoltre catalizzato anche da una vicenda accaduta durante la prima guerra tra Costantino e Licinio nel 316-317 (A proposito di una singolare epigrafe costantiniana da Augusta Traiana in Tracia [AE 1907, 47], in Corona Laurea, Studii in onorea Luciei Țeposu Marinescu, a cura di M. Bărbulescu, C. Museţeanu, D. Benea, Bucuresti 2005, pp. 5-12; cfr., inoltre, su Licinio, La nascita di Licinio nella ‘Nova Dacia’. Considerazioni su una denominazione poco nota, in S. Nemeti, F. Fodorean, E. Nemeth (eds.), Dacia Felix, Studia Mihaeli Bărbulescu oblata, Cluj-Napoca 2007, pp. 433-440). Un aspetto importante della vicenda costantiniana, il rapporto dell’imperatore con il vescovo Ossio di Cordova in occasione di alcuni snodi importanti della politica religiosa di Costantino (la vicenda donatista ed ariana, Nicea ed il dopo Nicea) e riguardo alla questione della manumissio in ecclesia vengono indagati da Aiello in un contributo pubblicato sulla recente Enciclopedia costantiniana (Ossio e la politica religiosa di Costantino, in Enciclopedia costantiniana sulla figura e l’immagine dell’imperatore del cosiddetto Editto di Milano, Roma 2013, vol. 1, pp. 261-273).

Nella produzione di Aiello non mancano poi gli studi su problemi successori, sull’eredità dello “stato” trasmesso ai figli come un patrimonio, e sul “tempo del potere”: L’eredità del potere. Considerazioni su un principio da Costantino e Teodosio, in Atti Accademia Romanistica Costantiniana XVII ( Perugia- Spello 16-18 giugno 2005), Roma 2010, pp. 1005-1019. Nel problema della successione, molto sentito nel mondo romano, di cui era spesso responsabile l’esercito, e dall’età costantiniana, anche la chiesa, si innesta quello della successione all’interno di uno stesso gruppo familiare, in cui l’imperium viene trasferito agli eredi come patrimonium. In età tardoantica la successione ereditaria trova valutazioni negative in vari autori, ad es. in alcuni passi degli Scriptores Historiae Augustae, appunto per la identificazione di imperium e patrimonium, mentre nel Panegirico del 291 in onore di Massimiano è presentata positivamente, in quanto l’impero è un’eredità indivisa, accettata da Diocleziano e Massimiano. “Nell’età di Costantino l’idea dell’imperium come patrimonium diviene centrale nella riflessione sulla trasmissione del potere” (p. 1007): l’impero viene considerato come un possesso della famiglia da trasferire agli eredi come un bene ereditario, quasi fosse una legge di natura, principio largamente attestato nella Vita Constantini, dove Eusebio applica un principio del Vecchio Testamento alla vicenda di Costantino, ‘scelto’ da Dio e da questi ricompensato con lunghi cicli di regno e con una ricca discendenza, prolungando il suo regno dopo la morte. Aiello si richiama a un tema ampiamente trattato, in una splendida relazione a Vandoeuvres nel 1972, dal Maestro di Aiello, il Prof. Calderone (Teologia politica, successione dinastica e consecratio in età costantiniana, in Le culte des souverains dans l’empire romain, Entretiens Hardt 19, 1972, Vandoeuvres-Genève 1973, pp. 215-261), per il quale Costantino continuò a regnare anche dopo la morte attraverso i cesari.

Aiello, analizzando i Panegirici latini, il De mortibus persecutorum di Lattanzio, e soprattutto La Pars prior degli Excerpta Valesiana, nota che Costantino in un primo momento elabora questo concetto basandosi, non tanto sul principio giuridico romano, quanto su quello biblico, per cui, sull’esempio della monarchia davidica, il regno doveva andare ad uno solo dei figli. La volontà di Costantino sarebbe dunque stata di trasmettere il potere ad uno solo dei figli, forse Costantino II, il figlio maggiore. L’atteggiamento del sovrano sul problema della successione non è sempre coerente. Dopo il 1° marzo 317 (nomina del figli di Costantino e Licinio a cesari), questo principio viene abbandonato, e il sovrano sceglie di seguire la tradizione giuridica romana, per cui la successione passa a tutti i figli, a cui anzi si aggiungono anche i nipoti Dalmazio e Annibaliano Dalmazio: questi, secondo la interpretazione di Calderone della basileia dopo la morte, sarebbero rimasti a lungo cesari, mentre l’unico Augusto rimaneva lui, nelle absidi del cielo, che continuava a governare attraverso i suoi figli.

Il principio della corrispondenza fra imperium e patrimonium riappare alla fine del IV sec. nel De obitu Theodosii di Ambrogio, in cui è trattato il tema della hereditas raccolta dai principes pueri, attraverso i quali i sudditi possono ancora continuare a vedere l’imperatore, che ora regna dai cieli, non separandosi da Costantino, che per primo aveva scelto la fides e che aveva lasciato ai suoi successori l’eredità della fede, che, trasmessa ai figli, avrebbe assicurato loro un regno felice. Ambrogio, per dimostrare l’utilità della successione dinastica, non poteva che richiamarsi a Costantino, che aveva regnato per 30 anni, e aveva lasciato i figli, di cui uno, Costanzo, avrebbe regnato a sua volta per 24 anni. Ma la cosa che Aiello sottolinea è che stavolta non si trattava della trasmissione di un bene materiale, ma di una hereditas fidei. “La distanza che in poco più di un cinquantennio si era venuta a realizzare fra l’ideologia di Eusebio di Cesarea e quella di Ambrogio, viene da quest’ultimo annullata ponendo Costantino e Teodosio l’uno accanto all’altro, divenuti da quel momento modello del perfetto imperatore cristiano” (p. 1019).

Sullo stesso tema si veda anche: Il problema della successione nella dinastia costantiniana, in Tyrannis, Basileia, Imperium (giornate seminariali in onore di S. N. Consolo Langher, Messina 17-19 dicembre 2007), a cura di M. Caccamo Caltabiano, C. Raccuia, E. Santagati, Messina DiScAM 2010, pp. 507-524.

Aiello torna sulla successione nella dinastia costantiniana in un saggio di poco posteriore, partendo da un brano del cap. 18 del de mortibus (contenente il dialogo fra Diocleziano, vecchio e malato e Galerio, che vuole convincere il primo ad abdicare, con conseguente problema della successione) e raffrontandolo con altre fonti come i Panegirici o la Pars Prior degli Excerpta Valesiana, e le opere di Eusebio. Riprende il problema della successione davidica (successione al primogenito) contrapposta a quella del diritto romano, che prevede la successione per tutti i figli, cercando di capire quale fosse la reale volontà di Costantino in merito. Il lavoro si propone dunque di enucleare alcuni aspetti particolari del brano, finora poco evidenziati, cercando di capire quale fosse il reale pensiero di Costantino.

Nel dialogo fra Galerio e Diocleziano, questi è riluttante alle proposte che gli vengono dal collega e propone la successione dinastica di Massenzio e Costantino, i figli dei due cesari. Dopo una estenuante discussione, proposte e controproposte, si giunge alla conclusione che i nuovi cesari saranno Severo a Massimino Daia, con la momentanea esclusione di Costantino e Massenzio. Nel brano dell’opera lattanziana, sulla cui datazione si discute (ma pare sia da collocare dopo il 215, più esattamente nel 316), Diocleziano, sostenitore del principio della scelta del migliore, opposta alla successione dinastica, appare invece sostenitore della successione dinastica affidata ai figli di Massimiano e di Costanzo. Questo risulta essere il risultato della interpretazione di Lattanzio: mentre Galerio sembra sostenere il principio tetrarchico, Diocleziano invece sembra optare per una successione dinastica che vede favoriti Massenzio e Costantino. E per la successione dinastica sembra propendere Lattanzio. La prospettiva di Lattanzio non è solo la ricostruzione del passato, ma anche una riflessione sul presente, con riferimento alla successione di Costantino. Infatti, dal confronto con le altre fonti risulta un atteggiamento non sempre coerente di Costantino. In un primo momento, fra l’incontro di Milano e lo scoppio del primo conflitto con Licinio, Costantino, privo allora di figli legittimi, per evitare che Licinio potesse avvantaggiarsi, gli propone la nomina a cesare di Bassiano, sostenendo il principio della successione del migliore, quasi ignorando di avere un figlio, Crispo, con il quale i rapporti non erano stati mai buoni, e che non sembra rientrare nel suo progetto di successione. La contrapposizione tra Costantino e Licinio in tema di successione deve essere certamente posteriore alla nascita di Licinio iuniore nel luglio 314. I progetti di Costantino si modificano nel corso del tempo; egli sembra oscillare tra la successione davidica (che era stata da lui invocata al momento di succedere al padre Costanzo (Vita Constantini) e quella del diritto successorio romano. Nella interpretazione eusebiana (v. Calderone Vandoeuvres) la successione predisposta da Costantino prevedeva un unico augusto in cielo, che avrebbe guidato dall’alto i cinque cesari (i tre figli e i due nipoti) (Vita Const. e Tricennalia). Difficile capire cosa veramente volesse l’imperatore. Aiello “sottovoce” esprime dubbi sulla vera volontà di Costantino, concludendo (p. 521): “Poteva Costantino, uomo dalle grandi idee ma anche oltremodo concreto, non pensare che questa soluzione alla lunga avrebbe creato problemi, immaginando un regno a cinque che avrebbe fatto fatica a durare?”, oppure voleva che, mettendo in campo una serie di candidati, si creasse una sorta di “selezione che lasciasse emergere il migliore.

Particolare interesse assume la simbologia della spada in rapporto al potere imperiale (L’imperatore e la spada. Lettura di un simbolo in chiaroscuro, in Istituzioni, carismi ed esercizio del potere (IV-VI secolo d. C.), a cura di G. Bonamente, R. Lizzi Testa (Munera 31), Bari 2010, pp. 11-30) quale emblema del potere. E’ ponendosi in una prospettiva di lunga durata che Aiello indaga le valenze simboliche della spada/gladius. Aiello parte dalla constatazione del valore simbolico della spada, della lancia, del vexillum e del diadema che nella Britannia anglosassone del X secolo diventano i segni di una sorta di traslatio imperii dalla monarchia carolingia a quella sassone e in cui questo valore ideale viene sancito dal riferimento, più o meno diretto, a Costantino, Aiello, soffermando l’attenzione, tra i quattro oggetti, sulla spada, ne ripercorre la presenza nelle fonti come elemento fortemente rappresentativo della semantica del potere. Si parte dalla disamina di alcune significative testimonianze circa il gladius ed il pugio, di cui Aiello ripercorre per grandi linee la semantica, fino alla definitiva identificazione delle due tipologie di arma da taglio, testimoniata per il IV secolo dall’HA. E’ poi sul valore simbolico della spada che l’autore si sofferma, ripercorrendo le testimonianze letterarie: da quelle sulle armi dei Salii a quelle che, in ambito più strettamente militare, sottolineano la funzione della spada come segno di comando militare al quale è connessa l’amministrazione della giustizia a partire da Augusto. A questa stessa sfera semantica si ricollega l’espressione ius gladii per indicare il potere di comminare la pena di morte a cittadini romani colpevoli di gravi reati a partire dal III secolo, laddove la spada va a sostituire la tradizionale scure, certamente prima di Caracalla. Ma il dato forse più interessante che emerge dal breve saggio di Aiello è la pressoché totale scomparsa della spada come simbolo di vittoria e di potere nel dopo-Costantino, laddove viene sempre più frequentemente sostituita da una croce o da un labaro.

Chiuderei con l’articolo dedicato alla politica di Costantino e dei suoi familiari, che poggia sul riesame delle fonti che attestano le spese dei Costantinidi appunto nell’edificare chiese, per dimostrare come l’imperatore abbia speso somme ingenti per le chiese attingendo a tutte le voci possibili del bilancio imperiale: fiscalità generale, «sacrae largitiones, res priuata» (V. Aiello, Edilizia religiosa e finanziamento imperiale al tempo dei Costantinidi, Cristianesimo nella Storia 2012 33 (2), 425-448). L’autore si cimenta con lo spinoso problema della provenienza delle risorse finanziare per la costruzione di edifici religiosi da Costantino a Costanzo II collocandolo nell’ambito dei problemi ‘costantiniani’ la cui chiara comprensione risulta da secoli offuscata dal protagonismo, nelle fonti letterarie a partire dal Liber Pontificalis, di una figura di Costantino come imperatore che, pienamente convertito, avrebbe avviato una imponente attività edilizia religiosa, soprattutto a Roma. Aiello nota come tali notizie, fra l’altro non confermate dalla testimonianza delle altre fonti più vicine cronologicamente, vadano intese nell’ambito della mitizzazione di Costantino come primo imperatore cristiano, facendo inoltre osservare come molte notizie di edificazione di chiese a Roma e nelle province in età costantiniana e post-costantiniana riportino l’attività edilizia all’azione dei vescovi delle città, e non dell’imperatore. In realtà Costantino interviene su una situazione precaria dell’edilizia cristiana dopo le persecuzioni, spesso invitando i vescovi a provvedere attingendo, per le risorse finanziarie, ai fondi in mano ai governatori provinciali o alle prefetture al pretorio; in generale, in Occidente Costantino sembra far ricorso alla res privata, mentre in Oriente ai fondi delle sacrae largitiones e a quelli delle PP. E’ invece di rilievo l’attività edilizia religiosa costantiniana in Palestina, che ci è testimoniata da Eusebio, per la quale l’intervento di Costantino è personale e diretto. Dallo studio esce un quadro che, sottolineando anche il ruolo dei successori di Costantino, ridimensiona la comunque importante attività di costruzione di edifici religiosi cristiani da parte dell’imperatore.

Aiello, a partire dal silenzio delle fonti contemporanee, e in particolare di Eusebio, riguardo alla costruzione di edifici sacri a Roma da parte di Costantino, ridiscute la monumentalizzazione cristiana dell’urbe così come emerge dalle pagine del «Liber Pontificalis», testo scopertamente celebrativo di un imperatore considerato l’incarnazione del perfetto sovrano cristiano; dalle fonti emerge invece che già negli anni 312-315 all’interno della chiesa romana si era avviato un processo di reazione contro l’autorità imperiale (V. Aiello, Costantino, il vescovo di Roma e lo spazio del sacro, in G. Bonamente, N. E. Lenski, R. Lizzi Testa (curr.), Costantino prima e dopo Costantino, Bari, 2012, 181-207).

La riflessone di Enzo Aiello su Costantino è stata estesa e quanto mai approfondita, forse più di quanto non si sia compreso. Non c’è stata una volontà agiografica, tale che forzasse i dati per dimostrare la fulminea conversione al cristianesimo. Certo i suoi lavori hanno influenzato profondamente un libro che mi è caro, quello di Augusto Fraschetti La conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana, Bari 1999, col quale pure avevamo polemizzato dieci anni fa – io e Alessandro Teatini – a proposito del trionfo del 315, nell’articolo dedicato all’arco di Cherchel che cita il Pons Mulvi e raffigura la scena del trionfo di Costantino ancora immerso nella cultura pagana.

Ho riflettuto su alcune posizioni di Enzo Aiello a proposito della politica edilizia di Costantino visitando la basilica della natività a Betlemme, la basilica di Nazaret, quella di Aquileia, il Santo Sepolcro, infine le basiliche romane. Resta l’impressione di una forte onestà intellettuale, che sostanzialmente ha portato Aiello a ridimensionare il ruolo del primo imperatore cristiano.  Abbiamo ormai imparato molte cose sulla complessità del rapporto tra paganesimo e cristianesimo nella figura di Costantino e dei suoi successori. L’insieme di questa documentazione dimostra che artificiosamente su Costantino furono poi concentrati avvenimenti e decisioni che in realtà debbono essere attribuiti agli imperatori successivi. Ad esempio l’abbandono del Campidoglio dovrà essere posticipato nel tempo rispetto a Costantino: solo scrivendo nel 403 dalla lontana Palestina, nell’ anno del trionfo di Onorio su Alarico, Girolamo poteva osservare: «il Campidoglio dorato diviene sudicio per l’incuria; la fuliggine e le ragnatele hanno ricoperto tutti i templi di Roma. La città si sposta dalle sedi che le sono proprie e il popolo romano, riversandosi per i templi semidiroccati, accorre alle tombe dei martiri»: auratum squalet Capitolium; fuligine et aranearum telis omnia templa cooperta sunt; movetur urbs sedibus suis et inundans populus ante delubra semiruta currit ad martyrum tumulos.




Questi cinque anni, un tentativo di sintesi.

Attilio Mastino
Questi cinque anni, un tentativo di sintesi

31 ottobre 2014

Grazie per la presenza così numerosa a questa festa di fine mandato.  Vedo molta allegria, e per un attimo ho avuto il dubbio che l’allegria fosse troppa, come se mi si volesse festeggiare soprattutto per il fatto che finalmente me ne vado.  Mi avete sopportato per 12 anni come Prorettore di Alessandro Maida, 5 anni come Rettore.

Del resto ho ricevuto in questi giorni tali e tante manifestazioni di affetto e di apprezzamento, che mi è venuta in mente – si parva licet – la biografia di Vespasiano scritta da Svetonio. Di fronte ai troppi complimenti, Vespasiano esclamò, ohi ohi, qui qualcuno mi vuole morto.

A parte gli scherzi, volevo solo dirvi grazie.

Per questo, con un pizzico di follia, vincendo le resistenze dell’ufficio comunicazione ho fatto mettere sugli inviti per questa cerimonia la foto coloratissima della barca Fastidiosa, mattatrice dell’estate 2014, con l’equipaggio della nostra Università lautamente – si fa per dire –  finanziato dall’Erasmus:  marinai impegnati a salutare con allegria vera, con la frase di Ungaretti, Qui la meta è partire. Perché vogliamo davvero partire, Massimo Carpinelli per una nuova esaltante avventura, io da domani per riprendere da dove mi ero fermato con i lavori in Tunisia assieme ai colleghi e allievi, soprattutto l’Università di Sassari verso un orizzonte di profonda trasformazione, di modernizzazione, di rinnovamento.

Vorrei ricordare questi cinque anni (dopo gli intensi rettorati di Antonio Milella, di Giovanni Palmieri, di Alessandro Maida) come un grande momento di crescita del nostro Ateneo. So che un amministratore non dovrebbe mai essere soddisfatto dei risultati raggiunti. Ma qui a muoversi è stato tutto l’Ateneo, in tutte le sue componenti, con una determinazione e un impegno che sono sotto gli occhi di tutti.

Grazie al Senato Accademico, prima e dopo la legge 240,  grazie al Consiglio di Amministrazione, alla Giunta composta dai Prorettori Laura Manca, Lucia Giovanelli, Giovanni Micera, Aldo Maria Morace, Maristella Mura, Quirico Migheli, Omar Chessa, in precedenza da Donatella Spano e Francesco Morandi. La loro nomina ad Assessori regionali la dice lunga sulla qualità della scelta a suo tempo effettuata. Prima ancora anche da Sergio Coda, Giovanni Lobrano, Giulio Rosati, Eraldo Sanna Passino.  Grazie ai tanti delegati del Rettore, al Consiglio degli studenti presieduto da Gian Michele Sanna, Gabriele Casu, ora dal nostro Riccardo Zanza. Grazie al Consiglio del personale tecnico amministrativo presieduto da Antonio Chessa, al Collegio dei Revisori presieduto da Guido Sechi e ora da Tommaso Cottone. Grazie al Nucleo di valutazione presieduto da Marco Vannini e in precedenza da Anna Laura Trombetti. Grazie al collegio disciplina presieduto da Michele Gutierrez, Grazie al Comitato per le pari opportunità e poi al Comitato unico di garanzia presieduto da Maria Lucia Piga, grazie al garante degli studenti Polo Fois preceduto dal compianto Antonio Bagella, grazie al garante degli studenti stranieri Elena Sanna, al Presidio di qualità presieduto da Laura Manca. Soprattutto grazie ai direttori di Dipartimento.

Quelli confermati: Giuseppe Pulina per il Dipartimento di Agraria; Bibo Cecchini per il Dipartimento di Architettura, Design, Urbanistica. Gianfranco Demontis per il Dipartimento di Chimica e Farmacia; Andrea Montella per il Dipartimento di Scienze biomediche; Gavino Mariotti per il Dipartimento di Scienze umanistiche e sociali:

Antonietta Mazzette per il Dipartimento di Scienze Politiche, Scienze della comunicazione e Ingegneria dell’informazione.

E poi grazie ai dettori usciti di carica e auguri ai nuovi che subentrano:

Dipartimento di Giurisprudenza, diretto da Francesco Sini, al quale subentra  Gianpaolo Demuro

Dipartimento di Economia, impresa e regolamentazione, diretto da Marco Breschi , al quale subentra  Ludovico Marinò

Dipartimento di Medicina Veterinaria, diretto da Salvatore Naitana al quale subentra Eraldo Sanna Passino

Dipartimento di Scienze chirurgiche, microchirurgiche e mediche, diretto da Mario Trignano al quale subentra Nanni Campus

Dipartimento di Medicina clinica e sperimentale, diretto da Giuseppe Delitala al quale subentra Antonello Ganau

Dipartimento di Storia, Scienze dell’uomo e della formazione, diretto da Maria Margherita Satta alla quale subentra Marco Milanese

Dipartimento di Scienze della natura e del territorio, diretto da Sandro Dettori  al quale subentra Roberto Furesi

Grazie alla Presidente della Facoltà di Medicina e Chirurgia Ida Mura, ai Presidenti dei corsi di laurea, ai direttori delle scuole di specializzazione, ai coordinatori dei dottorati di ricerca, ai direttori dei Centri, l’NRD con Pier Paolo Roggero e ora Luciano Gutierrez, Province Romane Paola Ruggeri, Storia Antonello Mattone. I responsabili dei laboratori, dei laboratori infornatici, del Centro Linguistico di Ateneo Antono Pinna e ora Alessandra Cattani, del Centro Universitario di Mediazione Maria Antonietta Foddai, del Centro per la biodiversità vegetale Ignazio Camarda.

Grazie al direttore generale Guido Croci, alla Segreteria del Rettore, gli impareggiabili Francesco Mulas, Tony Fara, Maria Speranza Pirisi, Fulvia Coda, Valentina Guido, Rossella Idini; grazie a Salvo Floris e Emy Battino della direzione amministrativa; grazie agli autisti che si sono succeduti, soprattutto alla carissima Laura, a Franco, a Luciano, al sorprendente Salvatore, alle guardie Giorgio, Emilio, Giuseppe e non solo.

Grazie ai dirigenti Sonia Caffù, Alessandro Forino, Paolo Pellizzaro.

Grazie a Margherita Chessa, ad Anna Deriu e alla segreteria degli organi collegiali. Grazie ai capi ufficio, ho l’elenco completo, ma evito di citarli tutti, molti sono davvero cari e ho contratto con loro un debito profondo. Grazie al personale tecnico amministrativo bibliotecario, al personale sanitario, ai professori, ai ricercatori, agli assegnisti,.

Al Direttore generale dell’AOU Sandro Cattani, al direttore amministrativo Lorenzo Moretti., al Direttore sanitario Mario Manca, al Direttore generale della ASL Marcello Giannico, alla direttrice amministrativa la nostra Chiara Seazzu.

Grazie al Presidente dell’Ersu Gianni Poggiu e alla direttrice Maria Assunta Serra

Grazie ai dirigenti delle ASL della Sardegna, ai Sindaci ai Presidenti delle Province, a tutte le autorità, a S.E. l’Arcivescovo, a S.E: il Prefetto, ai Presidenti del Consiglio Regionale Lombardo e Ganau, al Presidente della regione Pigliaru e in particolare agli assessori Firino, Spano, Morandi, Paci, Manichedda. Prima di loro al Presidente Cappellacci e agli Assessori Milia  e La Spisa.

Lasciatemi ricordare alcuni colleghi malati che ci sono cari, penso con un affettuoso augurio di pronta guarigione alla nostra Rina Mazzette.

L’impegno più gravoso è stato quello dell’applicazione della “Grande Riforma” a seguito della legge 240, che con il nuovo statuto che orienta l’Ateneo per i prossimi 30 anni e che abbiamo vissuto come un momento straordinario di riflessione e di dibattito negli oltre 100 incontri che abbiamo promosso; primi in Italia abbiamo avviato il passaggio dalle Facoltà ai Dipartimenti, la nomina dei nuovi organi accademici. E poi la solidarietà espressa ai ricercatori in agitazione, i dubbi e le incertezze per politiche di smantellamento del sistema universitario, che abbiamo contrastato efficacemente, talora ribaltato. Ma anche tanti momenti difficili e tante delusioni, forse anche veri e propri fallimenti.

Abbiamo sostenuto l’attività del Centro Universitario Sportivo, del Circolo ricreativo dell’Università, delle Associazioni studentesche, dei Goliardi, dell’Associazione ALAUNISS (Associazione dei laureati nell’Università di Sassari), dell’Associazione dei dottorandi e dei dottori di ricerca (ADI), dell’Associazione Coro dell’Università, della Fondazione Gabriele Bacchiddu. Le feste degli studenti in Piazza Tola, in Piazza Università, in Piazza d’Italia. Momenti davvero non convenzionali. E poi la collaborazione con l’ERSU per le residenze e anche per i servizi sanitari, dopo la ricostituzione della Commissione mista. Infine l’impegno  corale del Dipartimento di Medicina Veterinaria per il superamento della valutazione EAEVE.

Abbiamo potuto ripercorrere la nostra storia partendo dal 1562 e dalla nascita del Collegio Gesuitico, con le celebrazioni dei 450 anni alla presenza del Presidente della Repubblica, del Presidente della Camera, del Ministro Francesco Profumo, dei Presidenti della CRUI Marco Mancini e Stefano Paleari. Abbiamo svolto una relazione in occasione della visita di Papa Francesco in Sardegna; abbiamo presentato numerose pubblicazioni storiche: la Storia dell’Università di Sassari, gli atti del convegno sullo Studio generale Sassarese, il volume per i 450 anni e, tra qualche mese, i volumi sulle relazioni dei rettori, sulla Facoltà di Giurisprudenza, sulla produzione scientifica di Mario da Passano.

La candidatura del Rettore alla Presidenza della Conferenza dei Rettori, con un programma fortemente critico verso la gestione precedente, è stato un primo segnale di dissenso rispetto alle politiche del Governo, che hanno gravemente penalizzato il sistema universitario della Sardegna.

Ci siamo battuti per la riforma dell’attività didattica, il riordino dell’offerta formativa fuori sede, la riduzione del numero dei fuori corso, i premi per i migliori studenti (abbiamo aperto le celebrazioni per i 450 anni premiando con un tablet i nostri 450 migliori studenti), che sono stati veramente al centro dei nostri progetti. Proprio con i nostri migliori studenti chiudo il mio mandato, con le premiazioni dei migliori 112 studenti effettuata un’ora fa in questa aula magna. Ieri abbiamo inaugurato la Biblioteca del Mediterraneo del Comune e dell’Università ad Alghero; oggi il nuovo complesso didattico di Medicina. Consegnare nuove strutture significa migliorare anche la vita da studente. E poi i servizi agli studenti, le attività ricreative, culturali e sociali autogestite dagli studenti, il sistema bibliotecario, i laboratori, le nuove aule, i concorsi sui temi della disabilità, l’impegno dei Garanti degli studenti, le conferenze sulla didattica, le tante facce dell’Orientamento, i saloni dello studente, la straordinaria crescita della mobilità ERASMUS e ULISSE, gli accordi con Alma Laurea e col CINECA, la riforma dei dottorati di ricerca con le borse INPS e il finanziamento da parte dell’Assessorato al lavoro di numerosi master, il Tirocinio Formativo Attivo, i Percorsi Abilitanti Speciali, i rapporti con la Scuola sarda e l’attività sportiva che diventa parte integrante della formazione universitaria. Abbiamo completato la migrazione delle carriere studentesche degli ultimi 50 anni nel nuovo sistema informativo ESSETRE, riordinato l’Archivio di Muros, aggiornata l’anagrafe degli studenti.

Obiettivi principali nel campo della ricerca sono stati la centralità dei Dipartimenti, con l’autonomia finanziaria e la distribuzione selettiva delle consistenti risorse reperite; la collaborazione tra gruppi di ricercatori; il sostegno alle reti di relazioni, la condivisione di laboratori, l’uso comune delle apparecchiature, l’erogazione dei servizi, l’impiego del personale tecnico-amministrativo e, in particolare, la collaborazione interdisciplinare. Abbiamo ottenuto significative risorse per il Centro Grandi Attrezzature (CESAR-SS) e per il Centro per le tecnologie nel settore dei beni culturali (CIRTEBEC). Voglio ricordare i grandi progetti di Ateneo, il nuovo Incubatore Cubact di via Rockfeller, la nuova struttura di trasferimento tecnologico che sarà realizzata prossimamente ad Alghero, il nuovo Centro Elaborazione Dati, l’industrial-liaison office, i brevetti, le nuove spin off, le fasi locali regionali e nazionali del Premio Nazionale Start Cup a Perugia, a Palermo, a Torino, a Bari, a Genova e, prossimamente, qui a Sassari.

Abbiamo sostenuto l’indagine sulla Valutazione della Qualità della ricerca  dell’ANVUR con ottimi risultati specie in alcuni dipartimenti e in alcune aree e in tante occasioni abbiamo assegnato i premi di produttività, le borse di dottorato, gli assegni di ricerca, i posti di ricercatore. Nel corso della cerimonia per i 450 anni abbiamo premiato i 50 migliori ricercatori dell’Ateneo. Abbiamo rinnovato le attrezzature informatiche, le aule didattiche, i laboratori, alcuni stabulari e stabilimenti utilizzatori.

Per quanto riguarda la Medicina Universitaria ci si è battuti per l’applicazione della 517/99 a favore dei medici e del personale sanitario e l’erogazione tempestiva dell’indennità di esclusività, recuperando un arretrato di oltre dieci anni. Il rapporto con l’Azienda Ospedaliera Universitaria è stato quanto mai intenso e collaborativo e abbiamo approfonditamente discusso i progetti della Qatar Foundation ad Olbia.

Abbiamo superato brillantemente la verifica amministrativo-contabile in relazione alle attività dell’Ispettore del Ministero dell’Economia nel corso del 2009. Sono stati introdotti il bilancio unico di Ateneo e la contabilità economico-patrimoniale per rendere chiare e trasparenti le politiche di bilancio. I centri di costo sono passati da 40 a 15. Grazie a Lucia Giovanelli e a Nicolò Ceccarelli, ma a tanti altri colleghi e delegati, possiamo presentare oggi il bilancio sociale e di mandato 2009-2014, redatto secondo le linee guida metodologiche emanate dal Gruppo di studio per il bilancio sociale. E’ un documento innovativo, che rappresenterà un modello per tutti gli Atenei italiani.

Ci siamo impegnati fortemente sul territorio: abbiamo iniziato partecipando attivamente al convegno sulle bonifiche e sul rilancio dell’area industriale di Porto Torres il 10 novembre 2009, per giungere ad una collaborazione strettissima sulla chimica verde, che ha portato al confronto con Matrìca, ai congressi nazionali e internazionali a Sassari, che hanno lasciato un segno nella produzione scientifica del Dipartimento di Chimica e Farmacia, e non solo.

L’accordo su Fabrica Europa ci ha legato alla Provincia e alla Camera di Commercio. Abbiamo cercato e ottenuto nuovi importanti finanziamenti europei verso l’Horizon 2020 su tanti fronti, compresa la nautica, l’archeologia, la lotta alla desertificazione. Di fronte a noi abbiamo ora le cinque priorità indicate per la Sardegna negli ultimi documenti europei e regionali: le ICT, l’Energia, l’Agrifood, l’Aerospazio e la Biomedicina con le Scienze della vita.

Tra i momenti più significativi di un rapporto con il territorio, fondato su dibattiti e confronti, vorremmo ricordare il convegno “Isole”, la Tavola rotonda con Umberto Eco (Carloforte, 26 giugno 2010), e poi tante altre occasioni che hanno messo il nostro Ateneo al centro delle attività di numerose società scientifiche nazionali e internazionali. Lasciatemi almeno ricordare i miei convegni de L’Africa Romana e l’VIII Congresso internazionale di studi fenici e punici di Carbonia.

Abbiamo organizzato con la Regione e con Sardegna Ricerche le Conferenze regionali dell’innovazione e partecipato al salone Sinnova a Cagliari. Abbiamo riscritto il contratto con Porto Conte Ricerche su nuove basi, più vantaggiose per l’Ateneo. Abbiamo lavorato in una stretta collaborazione con i Comuni e le Province.

Abbiamo esteso la dimensione internazionale, in accordo con la Fondazione Banco di Sardegna e con particolare attenzione per la riva Sud del Mediterraneo, per le reti di università europee, insulari, catalane e mediterranee.

Abbiamo ospitato il meeting 2013 di RETI (le Reseaux des universités insulaires) in Alghero. Voglio ricordare i visiting professors e le lauree ad honorem a Pasqual Maragall i Mira, a Domenico Ruiu, a Gonçalo Byrne, a Alberto Ongaro, a Mareya Bachir, il giudice afgano che abbiamo conosciuto nella lontana Herat.

Negli ultimi giorni siamo impegnati con le Soprintendenze nel recupero di numerose altre statue dei Giganti di Monte Prama a Cabras, con il ritrovamento di modellini di nuraghi, betili e tombe della tarda età nuragica: si apre una finestra straordinaria sulla storia della Sardegna antica.

Voglio ricordare la forte collaborazione in tutti i campi con l’Università di Cagliari, sostenuta anche dall’amicizia personale del Rettore Giovanni Melis.

Il capitolo delle relazioni sindacali e dei rapporti con il personale può essere solo accennato, anche se si registra un clima nuovo, un apprezzamento per il ruolo svolto dai diversi delegati che si sono succeduti, una riduzione del contenzioso e una complessiva strategia di modernizzazione in un Ateneo che ha inteso affermare il senso di appartenenza all’organizzazione e trovare sinergie e un orizzonte di impegno nuovo per tutti, grazie al direttore generale, ai dirigenti, ai responsabili degli uffici, agli amministrativi, ai tecnici, ai bibliotecari, a tutti i delegati. Rimane l’amaro in bocca per il precariato che dilaga e per i concorsi non conclusi: è un obiettivo che davvero ci auguriamo possa essere prioritario per i prossimi mesi.

In campo edilizio si è sviluppata un’azione coerente e quanto mai estesa: penso al nuovo Istituto di Malattie infettive, alla Clinica Neurologica, all’Istituto di Igiene, ai laboratori di Patologia Generale, al reparto di Anestesia, all’Ospedale Veterinario, alle facciate dell’Università e del Palazzo Ciancilla, all’ampliamento degli edifici del Dipartimento di Agraria, alle nuove aule della Facoltà di Medicina e Chirurgia, al complesso di Santa Chiara sulle mura spagnole di Alghero, verso il mare del Golfo delle Ninfe. Grazie al recupero di consistenti risorse sui fondi FAS completiamo le tante incompiute dell’Ateneo: il complesso bionaturalistico a breve in appalto, l’Estanco, l’Istituto dei ciechi, ora Palazzo Grazia Deledda, per la Biblioteca di Lettere e Lingue. Parliamo del nuovo Ospedale AOU con 95 milioni. Ci sono stati centinaia e centinaia di interventi per garantire sicurezza ed efficienza, anche se permangono molte esigenze e si impone il tema di estendere ulteriormente le manutenzioni. Grazie a Simone Loddo e all’Ufficio tecnico.

L’Ateneo ha discusso il tema della sovranità della Sardegna in Consiglio Regionale, la riforma dello statuto, la legge statutaria, la riforma sanitaria, il bilancio regionale, con incontri che non si sono limitati alla Commissione Pubblica Istruzione, alla Commissione Sanità, alla Commissione bilancio del Consiglio Regionale. Proprio in Consiglio Regionale abbiamo presentato la nostra posizione che è risultata vincente sul plurilinguismo e per la lingua sarda abbiamo chiesto – come recitano le linee guida approvate dalla Regione sulla LSC – che si parta dalle radici, che si rispettino e si valorizzino le varietà locali, in una reale ottica di protezione delle minoranze, che si difendano i territori senza atteggiamenti di dirigismo linguistico che sarebbero nefasti, pur in una prospettiva di semplificazione ortografica e, sul piano scritto, di standardizzazione progressiva.  Voglio ribadire che l’Ateneo è fortemente impegnato nella difesa della lingua sarda e delle altre lingue del territorio come lingue dell’oggi e del domani, come segni di identità e come elementi distintivi per le culture e le tradizioni della Sardegna.

Abbiamo firmato una nuova intesa triennale con gli assessori alla programmazione e alla pubblica istruzione per il fondo unico a favore dei due Atenei e partecipato al dibattito sul finanziamento delle sedi gemmate, ad Olbia, a Nuoro, a Oristano, ad Alghero.

Ovviamente il mancato aumento delle contribuzioni studentesche ha esposto il bilancio a forti pressioni: negli ultimi anni le disponibilità di bilancio appaiono fortemente compresse a causa della crescente riduzione del Fondo di Funzionamento Ordinario e degli spaventosi ritardi con i quali la Regione Sarda trasferisce le risorse del Fondo Unico, per non parlare della lentezza pluriennale dell’AOU e delle ASL. Eppure siamo andati avanti e i trasferimenti di risorse sono garantiti per la prossima settimana: il patrimonio netto che lasciamo in parte libero e in gran parte vincolato e il piano delle dismissioni programmate (che non è stato in nessun modo utilizzato) consentiranno ai nuovi amministratori di guardare con serenità ai prossimi bilanci.

Lo ha ribadito due giorni fa in Consiglio di Amministrazione il presidente del Collegio dei revisori, il procuratore dott. Tommasio Cottone, con una dichiarazione che veramente ha fatto giustizia di tante amarezze e che testimonia il più vivo apprezzamento per la rigorosa attenzione ai profili di legalità oltre che la costante ricerca di soluzioni idonee a coniugare le esigenze di sviluppo dell’attività didattica e di ricerca con la sempre più preoccupante scarsità di risorse che di anno in anno ha colpito l’Ateneo.

Del resto si profila all’orizzonte la progressiva applicazione del costo standard per studente che rappresenterà una minaccia, se non sarà ancorata al PIL medio della Sardegna rispetto al PIL italiano e se non verranno fatti interventi sulla didattica per migliorare la regolarità del percorso di studi; rischiamo un catastrofico crollo del FFO anche sulla base delle sempre maggiori risorse legate alla parte premiale. Occorre tempestivamente intervenire per migliorare le performance della didattica e della ricerca.

Tra i riconoscimenti ottenuti dall’Ateneo, e di cui siamo orgogliosi, citerò almeno il Candeliere d’oro speciale, assegnato dalla città di Sassari un anno fa.

Le recenti abilitazioni nazionali hanno messo in luce le qualità di un Ateneo vivo, aperto verso l’esterno, impegnato nelle reti internazionali, articolato in Dipartimenti, Centri di ricerca, laboratori, biblioteche, musei, aziende agrarie. L’Ateneo si è impegnato ad arrivare rapidamente alla presa di servizio dei nuovi professori associati e ordinari, con l’utilizzo di tutte le risorse in punti organico disponibili, in particolare quelle provenienti dal piano straordinario, libero dai vincoli di bilancio.

Rimane forte l’impressione di un Ateneo pieno di iniziative e di idee, ricco di progetti: abbiamo visto al lavoro i nostri colleghi in tanti luoghi diversi, in Vietnam ad Hué, in Paraguay, in Brasile, in Tunisia, in Spagna, nella Catalogna del Nord, in Francia, in Belgio, a Berlino, a Herat in Afganistan, da ultimo in Algeria a Constantine. Ma molti colleghi sono impegnati in tanti altri paesi.

L’Ateneo ha adottato nel suo statuto il motto virgiliano SVSCEPTUM PERFICE MVNVS, che ogni giorno rileggevo scendendo le scale del Palazzo Centrale dell’Università: ora che l’impegno è stato mantenuto, che il mandato è stato portato a termine anche col biennio aggiuntivo generosamente concesso dalla Ministra Gelmini, dico francamente che più volte siamo stati tentati dall’idea di interrompere questa esperienza, di rinunciare, di cercare una pausa di fronte a tante preoccupazioni e a tante responsabilità. Eppure questi cinque anni sono stati “magnifici”, pieni di amici e di persone disposte a spendersi al nostro fianco. Tanti artisti hanno donato le loro opere all’Ateneo, ultimi Elio Pulli, Liliana Cano, Igino Panzino, Pinuccio Sciola.

Per me, personalmente, sono stati anche i cinque anni più belli della mia vita. Grazie per le manifestazioni di affetto e di simpatia di questi giorni, che sento di non meritare completamente. Lascio al nuovo Rettore Massimo Carpinelli, con un augurio di buon lavoro, anche un bel po’ di questioni aperte e da risolvere, prima tra tutte la stabilizzazione dei precari e la chiamata di tutti gli abilitati.

Eppure sono orgoglioso per aver avuto il privilegio di guidare una nutrita pattuglia di collaboratori competenti e motivati, che hanno operato con grande autonomia e senso dell’istituzione. Una lezione di vita anche per tanti nostri studenti, che rimangono il nostro patrimonio più grande e la nostra speranza. A loro auguro con le parole di Steve Jobs un futuro non convenzionale, pieno di curiosità e di stimoli: Stay Hungry. Stay Foolish.

In una festa come questa non c’è bisogno di dire molte parole, anche perché ho il vago sospetto che forse ho parlato troppo in questi anni. Ma quello che mi preoccupa è il fatto che in qualche caso siamo stati incapaci di ascoltare davvero, di capire e di entrare in sintonia con chi sperava di più, di riuscire a guardare lontano senza schieramenti pregiudiziali. Chiedo scusa per gli errori compiuti e auguro con affetto al nuovo Rettore e ai suoi collaboratori diretti di avere il cuore libero da pregiudizi e di riuscire a spendersi davvero per la causa di un Ateneo che merita, da parte di tutti, più generosità e più impegno. Prometto che se mi sarà richiesto mi metterò a disposizione di Massimo Carpinelli con umiltà e spirito di servizio. Voglio soprattutto promettergli un dono da parte mia: un’epigrafe latina ritrovata negli scavi africani di Lambiridi in Numidia che lo risollevi nei momenti di difficoltà, un antico testo che contiene l’augurio di lunga vita rivolto a qualche immancabile invidioso: INVIDE, VIVE ET VIDE VT POSSIS PLVRA VIDERE.

Auguri di lunga vita all’invidioso, perché tu possa osservare ogni giorno le cose straordinarie fatte concretamente da chi ha fantasia, passione, curiosità, impegno:

Per usare le parole di Bernardo Demuro, finalmente recupereremo una dimensione positiva quella del silenzio. <<Che la ghiandaia taccia il suo grido e si ricomponga. Che l’iracondo smorzi la sua ferocia e prenda di mira se stesso. Che l’invidia smetta di seminare vento. Allora che il sole entri nel cuore di ciascuno ad irradiare il mattino. Spalancate le vostre belle pupille, uomini titubanti e increduli. Sognate ad occhi aperti, non lasciatevi ingannare dal sonno. Vagabondate pure con la mente, scoprirete pensieri profondi e più profondi affetti. Lasciate che la realtà vi sfugga, troverete luoghi di magica virtù e le vostre mani sapranno agire sulla creta, in perfetto silenzio>>.

Anche noi vorremmo che ora venisse davvero la primavera per la Sardegna: per usare le belle parole di Ignazio Camarda dia cherrer chi venzat su veranu / caminande / supra ‘e tappetos  biancos de erva ‘e arana / supra ‘e abba muda de untana / sichinde muros de iliche e de saliche / in mesu a sas arvures de tassu / iscuras dae su pesu de sos annos, / a iscazare nibe e ghiacciu.

Vorremmo che si avveri l’augurio di Pedru Mura, il poeta di Isili, rivolto alla Barbagia, pro chi colet ridende su beranu, vorremmo che la Sardegna in un momento di crisi come quello terribile che sta attraversando ritrovi una dimensione nuova, con tanti fiori che sbocciano come quelli che spuntano sulle pagine di questo libro, con le straordinarie immagini dell’erbario del nostro Ateneo fornite da Rossella Filigheddu e Stefania Pisanu.

In su muru ‘e s’odiu

Aperibi una janna

Chi siat de artura tantu manna

Cant’est artu su sole a mesudie.

Chi siat de largura tantu larga

Cant’est largu su coro ‘e sa natura ;

pro chi colet ridende su beranu

chin tottu sos profumos ch’hat in sinu;

pro chi avantzet cantande s’arbèschia

chin tottu sos lentores de manzanu;

pro chi si nde confortet su desertu

e ti torret sos fizos fattos frores,

perché il deserto possa rifiorire e

e renderti i tuoi figli fatti fiori.

Vorremmo davvero che i nostri studenti divengano la generazione che faccia rifiorire una Sardegna capace di trovare la rugiada, che lavi finalmente le piaghe  aperte da sempre




Laurea ad Honorem di Mareya Bashir.

Laurea ad Honorem di Mareya Bashir
Sassari, 8 ottobre 2014

Autorità, Cari amici,

ho il gradito compito di portare il saluto del Presidente della Regione Sarda Francesco Pigliaru, del Comandante delle Forze di difesa interregionale Nord Generale Bruno Stano e dell’Assessore regionale all’ambiente Donatella Spano, che non possono essere presenti, ma partecipano idealmente a qusto momento.

Con questa solenne cerimonia l’Università degli Studi di Sassari e la Sardegna rafforzano ulteriormente il legame di amicizia profonda tra la nostra terra e l’Afghanistan. Un paese per il quale nutro oggi, ancora di più dopo la mia visita, il più grande rispetto per le tradizioni culturali e religiose, per la profondità della storia, per il patrimonio culturale sintetizzato nella città di Herat dalla Moschea blu e dall’antica cittadella Arg, recentemente restaurata dall’UNESCO, costruita in pisé di terra, questi straordinari mattoni di fango e paglia solidi e stratificati nel tempo. E poi i quattro altissimi minareti dell’antica Scuola coranica, la madrassa e il musalla distrutti dai Britannici, l’oratorio e il vicino Mausoleo della Regina Gawarshad, le mura dell’originaria vastissima fortificazione islamica.

Tutti questi tesori purtroppo non sono pienamente visitabili a causa del clima di insicurezza che è ancora presente nel Paese e che ho potuto osservare dall’elicottero grazie all’impegno e alla professionalità dei soldati della Brigata Sassari proprio in questi giorni rientrati incolumi in patria, accompagnati dal voto del Gremio dei viandanti. I nostri soldati guidati dal Gen. Manlio Scopigno hanno portato un pezzo di Sardegna in Afghanistan facendosi apprezzare per il loro lavoro condotto sempre nel rispetto degli alti valori di libertà, uguaglianza, solidarietà che da sempre contraddistinguono i Sassarini.

In questo momento di crisi internazionale, la responsabilità delle Università è particolarmente rilevante per incamminarci verso un mondo nuovo fondato sulla pace, per aprire orizzonti di cooperazione, contro le chiusure e le intolleranze, verso una nuova dimensione nei rapporti tra stati e all’interno degli stati, per una classe dirigente de nostri Paesi (l’Afganistan e l’Italia) che sia all’altezza delle sfide che ci attendono. Per un dialogo tra popoli, per nuove relazioni internazionali che qualifichino insieme le nostre due Università, Sassari ed Herat.

In un momento di grande instabilità politica nel Maghreb, nel mondo Arabo, a Gaza, ma anche in Siria, in Iraq, in Libia, mentre l’emergere dello jihadismo conosce un’improvvisa e preoccupante accelerazione, diviene indispensabile recuperare i concetti di pace, solidarietà e uguaglianza tra i popoli che le donne come la Bashir continuano a perseguire anche a rischio della propria vita. Il mese scorso in questa aula magna abbiamo discusso dell’importanza delle politiche di genere nei processi di democratizzazione di uno stato come quello afgano. La salute di una democrazia è inscindibilmente legata al rispetto della figura femminile. Non esiste, infatti, nessuno stato democratico al mondo che per progredire non abbia al centro della propria azione governo l’implementazione di politiche che guardano all’eguaglianza di genere.

Consentitemi di ricordare insieme a tutti voi il preciso momento nel quale conobbi per la prima volta la Signora Bashir. Mi trovavo ad  Herat, ora la sua città,  il primo maggio di quest’anno, in Italia la festa del lavoro. La sede del nostro incontro è stata la moderna aula magna dell’università  che accolse me e i colleghi della delegazione, Prof. Sergio Vacca,  Prof. Roberto Scotti, Prof.ssa Chiara Rosnati e il Dott. Giovanni Cocco, per celebrare la fine del percorso di studi dei Dottori Alam Ghoryar e Abdullah Halim i quali avevano conseguito il titolo di Dottore di ricerca in “Scienze e biotecnologie dei Sistemi Agrari e Forestali e delle produzioni alimentari”. I due studiosi afgani dopo aver frequentato il Italia, a Sassari e Nuoro la scuola di dottorato hanno completato i loro studi ed abbiamo potuto constatare con i nostri occhi quanto il loro lavoro sia apprezzato nella terra di provenienza. Una punta di orgoglio per il nostro Ateneo che dimostra ancora una volta la grande qualità dei propri docenti e delle tecniche di insegnamento. La cerimonia, pur solenne, si è tenuta in un clima disteso e cordiale al cospetto magnifico Rettore Abdul Mohtaseb Zada, del Preside della facoltà di Agraria Mohammad Youssof Jami e del Direttore del dipartimento di scienze degli animali Abdul Rahim Omid, del nostro Gen. Manlio Scopigno e di tanti studenti appassionati ed entusiasti.  Ma tra tutte le autorità presenti, in una platea composta in grandissima parte da uomini, spiccava in prima fila la figura di una donna, la Procuratrice capo della Provincia di Herat, Mareya Bashir. Rimasi colpito dal suo discorso, dal suo modo di porsi con la platea dell’aula magna. Mi diede l’impressione di trovarsi a suo agio e riuscì a gestire le fasi del complesso cerimoniale con elegante semplicità. Una donna di carattere in grado di condurre la sua azione politica in un clima difficile; ma è solo tramite il coraggio delle donne come Lei che si possono sconfiggere le dinamiche del terrore. E’ grazie al suo impegno costante volto al bene della comunità che la sua terra potrà, speriamo presto, riconquistare il ruolo che merita nel consesso internazionale.

Il neo eletto presidente della Repubblica, Ashraf Ghani, entrato in carica il 29 settembre scorso, avrà il compito di guidare l’Afghanistan nei prossimi anni. Auspico che nella sua azione di governo possa avvalersi di figure femminili come Mareya Bashir, le sole in grado di preservare la grande cultura afghana ma allo stesso tempo di traghettare il paese nel futuro, colmando nel più breve tempo possibile il distacco dalla modernità accumulato negli anni di governo Talebano. Forse è davvero arrivato il tempo per gli afgani di interpretare la modernità come progresso sociale e impegno personale nella conquista dei diritti per tutti. Diritti che noi occidentali decliniamo con la conquista della libertà, in Europa più che negli Stati Uniti dell’uguaglianza (formale e sostanziale). Non solo le libertà di … (di voto, di espressione, ecc) ma anche le liberà dal bisogno, dalle ingiustizie, dalle sopraffazioni. Ma dobbiamo rispettare il percorso che autonomamente la società afgana potrà portare avanti.

I giorni trascorsi ad Herat, culminati con la cerimonia pubblica all’università rappresentano un’ esperienza di vita unica e credo irripetibile che oggi, a ormai pochi giorni dalla fine del mio mandato, porterò per sempre nel mio bagaglio di ricordi e questi si aggiunge questa splendida mattinata, nella quale rendiamo omaggio ad una donna coraggiosa, che ammiriamo davvero. Grazie al Rettore eletto prof. Massimo Carpinelli per aver voluto condividere con noi questo momento con la sua simpatia e il suo affetto.

Lasciatemi concludere con un augurio nella bella lingua persiana: Vi auguro di avere molto successo (kheyli moafagh bashid) con l’aiuto di Dio, che stiate sempre bene e in salute (inshallah jeh hamisheh khoob va Salamat bashid)

Kheyli moafagh bashid

Inshallah keh hamisheh khoob va Salamat bashid




Colloque Massinissa, au cœur de la consécration du premier État numide

Colloque Massinissa, au cœur de la consécration du premier État numide
Constantine (Algérie) 20-22 septembre 2014
Attilio Mastino- Raimondo Zucca

Massinissa et la question des emporia

Résumé

Dans Histoires XXXI, Polybe raconte comment Massinissa, fort de la position du sénat romain à l’égard de Carthage, a pu étendre son royaume à l’est, vers 193 av. J.-C., en annexant les emporia situés dans le golfe des Syrtes.

L’acquisition des emporia par Massinissa a représenté une phase décisive dans l’organisation de la basileia numide en voie de constitution sur le modèle grec, grâce à l’acquisition des villes côtières de la petite et de la grande Syrte qui formaient des lieux d’échange pour les riches arrière-pays urbains. Nous analyserons ici la formation des emporia africains depuis le témoignage d’Hérodote et Thucydide, et jusqu’à celui des sources grecques et latines d’époque républicaine qui situent l’expansion numide vers l’est sous Massinissa.

1. Dans le livre XXXVI des Histoires, Polybe présente un elogium du roi numide Massinissa, au moment de sa mort, en 148 av. J.-C., alors que le destin fatal de Carthage s’accomplissait avec la Troisième guerre punique:

Bellum punicum tertium

[Polybe affirme] que Massinissa, roi des Numides en Lybie, était le meilleur et le plus heureux des rois de notre temps, et il régna plus de soixante ans, en vivant longtemps et en parfaite santé (en effet il vécut jusqu’à quatre-vingt-dix ans). C’était, du point de vue physique, l’homme le plus vaillant de son temps : s’il fallait rester debout il pouvait le faire, bien solide sur ses jambes, pendant une journée entière, tandis que s’il fallait rester assis il ne se levait pas et il ne ressentait aucune fatigue s’il devait chevaucher nuit et jour. […] Grâce à l’affection réciproque qui le liait à ses enfants, son règne ne subit aucun complot et aucune intrigue familiale. Mais la plus éclatante et la plus divine de ses œuvres fut la suivante : la Numidie était stérile et on la croyait incapable, par nature, de produire des fruits cultivés, il fut le premier et le seul à prouver que cette terre pouvait au contraire porter toutes espèces de fruits, en constituant pour chacun de ses fils des domaines de dix mille plèthres, à une certaine distance l’un de l’autre, qui se révélèrent extrêmement fertiles. Au moment de la mort de Massinissa on pourra donc lui rendre, à juste titre, un hommage mérité. Scipion arriva à Cirta le troisième jour après la mort du roi et régla parfaitement toute chose.

Dans l’elogium, au-delà des thèmes topiques, l’historien de Mégalopolis souligne le rôle de Massinissa dans la mise en culture ‘révolutionnaire’ de son royaume qu’il développa selon les formes “modernes” définies par les traités carthaginois de re rustica, tellement célèbres qu’ils furent traduits en latin par décision du sénat romain (traité de Magon).

Certes, il ne s’agissait pas d’une introduction tardive de l’agriculture dans une région caractérisée par le nomadisme des éleveurs, amplifié par la parétymologie grecque de Numides / Nomades (les bergers errants);  mais il convient de parler plutôt d’une prise de conscience de la part du grand souverain numide du rôle d’une agriculture spécialisée, visant la sédentarisation des tribus, la croissance démographique et la mise en place de formes intérieures et extérieures d’échange, au sein d’une basileia hellénistique qui s’étend de l’Atlantique, depuis les Maurusioi, jusqu’au royaume de Cyrène.

Dans ce contexte, la constitution urbaine, que le monde numide connaissait déjà, prit une importance fondamentale et se développa, au moins à partir du IIIe siècle av. J.-C., grâce à l’influence des Carthaginois.

Le rôle de Massinissa dans la formation d’une culture urbaine chez les Numides se concrétisa dans les formes de monumentalisation mises en œuvre dans les principaux centres de la Numidie et par la diffusion des codes écrits et oraux, in primis du code écrit libyen  et du code oral numide, non seulement puniques mais aussi, exceptionnellement, grecs et latins.

2. Massinissa, fils de Gaïa, rois des Massyles, avait eu une éducation politique, militaire et culturelle en contact avec le monde punico-hellénistique de la seconde moitié du IIIe siècle av. J.-C. Au cours de la guerre d’Hannibal en Ibérie, Massinissa avait combattu contre les Carthaginois, tout en nouant probablement, dans la deuxième phase du conflit, des rapports avec les Romains.

En Afrique, les Massyles avaient été les alliés fidèles de Carthage lors du conflit entre le souverain des Massaesyles, Syphax, et les Carthaginois, conflit qui retint les Puniques sur le champ de bataille africain alors qu’ils auraient dû concentrer toutes leurs forces sur le théâtre ibérique.

Dans cette guerre numido-carthaginoise, Syphax avait obtenu l’aide des Romains en la personne d’un Statorius chargé d’organiser les milices de Syphax selon le modèle romain. La paix entre Syphax et Carthage fut stipulée vers 212 av. J.-C. avant que Hasdrubal ne se rende en Ibérie.

A la suite de la perte de l’Espagne par les Carthaginois (bataille d’Ilipa), Syphax put donc non seulement maintenir la paix avec la Puniques (en abandonnant l’Espagne, Hasdrubal put même aborder dans le royaume de Syphax) mais aussi préserver son rapport avec les Romains auprès desquels il avait envoyé des ambassadeurs pour confirmer son amitié.

Ce n’est pas un hasard si Scipion et Hasdrubal furent reçus à la cour de Syphax après l’affrontement ibérique d’Ilipa sans toutefois atteindre une alliance avec les Romains mais établissant ainsi un lien entre les Carthaginois et les Numides Masaesyles.

Après la guerre, la politique entre les Massaesyles et les Massyles eut un résultat violent avec le meurtre du père de Massinissa, Gaïa. Après Oezalcès, ce fut son neveu Capussa qui monta sur le trône. Ce dernier mourut peu de temps après au cours d’une bataille contre le numide Mazétule qui assuma le rôle de tuteur du frère cadet de Capussa, Lacumazès.

Le résultat confus des luttes dynastiques dans le royaume des Massyles poussa Massinissa, qui avait alors trente ans, à vouloir reconquérir le royaume de son père. Ayant abandonné l’Espagne en 206 et débarqué en Maurétanie, Massinissa obtint que le roi Baga lui donne une escorte de Maures qui le conduisit jusqu’aux frontières du royaume massyle.

Au nom de Gaïa, il réussit à réunir les milices fidèles à son père et entreprit une bataille contre Lacumazès et son tuteur Matézule, soutenus en vain par des troupes massyles.

A ce moment-là, Carthage et Syphax s’allièrent pour abattre le fils ambitieux de Gaïa.

La perte du royaume que Massinissa venait de reconquérir, perte causée par Syphax, et la situation de conflit qui suivit, jusqu’à l’affirmation de Massinissa-même sur le royaume des Massyles et l’unification de ce dernier avec le royaume des Massaesyles, grâce à son alliance avec les Romains, est racontée dans le livre XXIX de Tite-Live  et dans une reconstruction romanesque d’Appien.

Gaetano De Sanctis a avancé l’hypothèse que le texte de Tite-Live, ou plus précisément ses sources, réunissait deux versions du même événement : la guérilla menée par Massinissa contre Carthage et contre les Massaesyles et des siens contre Bucar, officier de Syphax, et ensuite contre le fils du roi, Vermina.

En réalité, le récit des événements révèle un passage logique entre le résultat non décisif de l’entreprise de Bucar, qui annonça en effet trop vite la fausse nouvelle de la mort de Massinissa, et la rescousse victorieuse de Vermina.

Tite-Live narre donc qu’après avoir déclaré la guerre à Massinissa, Syphax le mit en déroute au premier affrontement. Il mit en fuite les Massyles, qui se soumirent au roi des Masseasyles, et obligea Massinissa à se réfugier avec quelques soldats sur le mont que les indigènes appelaient Bellus (in montem- Bellum incolae vocant).

Les groupes fidèles à Massinissa rendirent peu sûr le territoire tout entier, d’abord par des incursions nocturnes et furtives et ensuite par des actes de pillage menés surtout dans les campagnes carthaginoises car le butin y était plus abondant que celui qu’ils pouvaient prendre aux Numides et parce que le pillage y présentait moins de dangers : désormais, ils ridiculisaient à tel point leurs ennemis qu’ils apportaient leur butin sur le littoral et qu’ils le vendaient aux marchands qui abordaient là dans ce but. Les Carthaginois étaient tués ou fait prisonniers comme dans des batailles régulières.

Carthage imposa à Syphax de trouver une solution à la guérilla de Massinissa, mais retenant que poursuivre un prédateur (c’est ainsi qu’il considérait Massinissa) était indigne de son rang, le souverain en chargea son officier Bucar, avec quatre mille fantassins et deux mille cavaliers.

Bucar réussit rapidement à vaincre le groupe de fidèles de Massinissa ; il fit un riche butin en bétail et il massacra de nombreux Massyles.

Massinissa et une cinquantaine de cavaliers échappèrent à leurs poursuivants dans la montagne, à travers les anfractuosités que lui seul connaissait; mais Bucar resta sur ses traces et l’ayant rejoint dans la plaine qui s’étend près de la ville de Clupea, il massacra tous ses hommes, sauf quatre d’entre eux ; dans la confusion, Massinissa, qui était blessé, lui échappa pour ainsi dire des mains.

Dans leur fuite, Massinissa et les quatre cavaliers atteignirent un amnis ingens, un grand fleuve, qui engloutit deux des quatre compagnons de Massinissa. Les Massyles purent enfin se réfugier dans une caverne où Massinissa put guérir en se soignant avec des plantes.

Après sa guérison il rentra dans le territoire des Massyles où on le croyait mort ; il réussit immédiatement à réunir des soldats et à reconquérir le règne de son père.

Massinissa affronta alors Syphax ; il se posta entre Cirta et Hippona. Syphax lui opposa une grande armée sous les ordres de son fils Vermina qui l’emporta sur les forces de Massinissa.

Tite-Live poursuit :

Massinissa fuyait en changeant sans cesse de direction devant Vermina qui le poursuivait, l’obligeant enfin à renoncer, fatigué et découragé, à la poursuite. Il gagna la petite Syrte avec soixante cavaliers. Là, se rendant compte d’avoir tenté à plusieurs reprises de reconquérir le royaume de son père, il se fixa entre les Emporia carthaginois et la population des Garamantes, où il demeura jusqu’à l’arrivée en Afrique de Caius Laelius et de la flotte romaine.

Ces vicissitudes complexes nous montrent que par deux fois Massinissa est exilé de son royaume massyle en territoire carthaginois.

Dans sa reconstruction topographique des lieux de l’exil et du combat de Massinissa contre Bucar et, ensuite, contre Vermina, Charles Tissot  a situé le mons Bellus dans le secteur méridional du Cap Bon ; il part de la description de Tite-Live qui parle explicitement de territoire des Carthaginois et qui mentionne les plaines de Clupea, identifiée avec l’actuelle Kelibia, à la pointe nord-est du Cap Bon et non pas avec une cité non attestée de la Numidie portant le même nom du poléonyme latin Clupea; dans le cas de la cité du Cap Bon, Clupea est calqué sur le grec Aspis, determiné par une fondation du tyran de Syracuse Agathocle. Les réserves émises sur cette reconstruction de Stéphane Gsell[1], lequel fait l’hypothèse que l’entreprise de Massinissa se serait déroulée en Algérie nord-orientale ou en Tunisie nord-occidentale, ne paraissent pas solides si l’on tient compte que l’amnis ingens franchi par Massinissa pourrait être l’oued Méliane, à la base du Cap Bon, et que pendant son second exil, Massinissa, poursuivi par Vermina, se tourne vers le territoire de la Petite Syrte et vers les Emporia des Carthaginois et attend anxieusement de rencontrer Caius Laelius, pour revenir dans son royaume grâce à son alliance avec les Romains, alliance qu’il avait déjà recherchée lors de son séjour avec les Puniques en Ibérie.

3. Le premier récit du rapport de Massinissa avec les emporia africains nous conduit à nous interroger à propos de cette organisation territoriale punique, qui sera enfin acquise de façon victorieuse par Massinissa en 193 av. J.-C.

Le texte de Thucydide constitue le point de départ de notre analyse. Ce texte représente la mention la plus ancienne d’un emporion (Néapolis, sur le versant sud du Cap Bon) de l’Afrique Punique, à propos de l’arrivée à Syracuse des renforts attendus par Gylippos.

[1] Mais Gylippos était venu avec une autre grande armée réunie en Sicile et avec les hoplites qui, au printemps lui avaient été envoyés du Péloponnèse à bord des navires marchands et qui étaient arrivés à Sélinonte par la Libye. [2] Le vent les avait poussés en Libye, les Cyrénéens leur avaient ensuite fourni deux trirèmes et des guides pour la navigation ; dans leur voyage le long de la côte, ils s’étaient alliés avec les Evespérites, assiégés par les Libyens, et après la défaite de ces derniers, ils avaient longé la côte jusqu’à Néapolis, comptoir carthaginois, d’où le trajet pour la Sicile était le plus court, à savoir deux jours et une nuit de voyage ; de là, ils avaient traversé la mer et avaient atteint Sélinonte.

Cette Néa pólis Karchedoniakòn empórion doit être considérée, plus précisément, comme une ville dotée d’un emporion carthaginois, c’est-à-dire d’une structure d’échange organisée par Carthage, auquel pouvaient accéder les différentes composantes du commerce méditerranéen.

Nous croyons que cette Neapolis du Cap Bon fut probablement le plus important emporion des Carthaginois.

L’Université de Sassari avec l’Institut National du Patrimoine de Tunis depuis 2010 conduit à Neapolis des fouilles archéologiques qui ont révélé que la ville est pour un tiers de son extension submergée par la mer.

Les prospections de la cité engloutie de Neapolis, s’étendant entre les deux oued es Sghir et Souhil,  ont documenté une concentration exceptionnelle des installations de salaisons romaines impériales, avec de nombreux bassins en opus figlinum encore en place, dans la zone entre le siège de la Protection civile de Nabeul  et le Club Med. A l’est de cette zone, nous avons à la place de nombreux vestiges de bâtiments d’autres fonctionnalités.

La surface submergée qui s’étend sur environ 800 mètres de long dans le sens OSO / ENE et sur environ 200 mètres de largeur, avec une extension théorique de 16 hectares.

La Neapolis submergée révèle l’importance exceptionnelle des sauces de poisson et garum salés pour l’économie de la ville: les zones industrielles liées à la transformation des produits de la pêche consacrent à l’état de nos connaissances la Neapolis de l’Afrique comme le premier centre de la pêche dans le monde romain, beaucoup plus vaste que le quartier de garum de Lixus, qui documente une capacité d’un million de litres de ses réservoirs.

Revenons aux emporia des Carthaginois.

Avant 509 av. J.-C., Carthage avait étendu ses domaines territoriaux en Libye comprenant même la chora carthaginoise (la Zeugitane), la bande côtière orientale de la Tunisie, correspondant à la Byssátis (le Byzacium), et le territoire katà ten mikràn Súrtin appelé Empória à cause de la prospérité des lieux et caractérisé par les échanges.

Le premier traité entre Rome et Carthage de 509 av. J.-C. interdit probablement les empória du Byzacium et de la Petite Syrte aux Romains. C’est ce qu’affirme Polybe, bien que ces empória fassent probablement partie des formes de commerce administré, indiqué dans le premier traité pour la Sardaigne, la Lybie et la Sicile occidentale, probablement au profit des grecs siciliotes:

[8] Pour ceux qui viennent pour le commerce, aucun contrat n’a de valeur si ce n’est en présence d’un crieur public ou d’un secrétaire, [9] et le prix de tout ce qui sera vendu en présence de ces derniers, sera garanti au vendeur grâce à une garantie publique si la vente a lieu en Libye ou en Sardaigne.

D’un côté, les fonctionnaires de Carthage – kerukes « crieurs publics » et grammateîs « scribes » – administraient l’échange « international » et de l’autre ils offraient des garanties publiques aux étrangers. Bien entendu, la métropole africaine ne devait disposer de ses fonctionnaires que dans des empória préétablis faisant fonction de grands ports de redistribution.

Le célèbre logos d’Hérodote sur Gélon est une preuve ultérieure de l’attention de Carthage pour le commerce « international ». Gélon, tyran de Syracuse, reproche à l’ambassadeur spartiate Siagros, qui avait gagné la Sicile avec les Athéniens pour solliciter l’alliance de Gélon contre les Perses, de n’avoir  reçu aucune collaboration de la part des Ellenes alors que, à lui seul, il avait libéré des Carthaginois ces emporia … dont les Ellenes et notamment les Lacédémoniens avaient tiré grand profit. Le problème de l’interprétation de ce passage d’Hérodote est dû à la définition topographique de ces emporia que les Ellenes et les Karchedóni revendiquaient. La meilleure solution serait celle qui fait l’hypothèse d’un front de guerre des Grecs et des Carthaginois qui «s’étend de la Sicile jusqu’à la côte de la Syrte>> les empória pouvaient effectivement se situer, correspondant dans ce cas précisément aux Empória katà ten mikràn Súrtin, du texte de Polybe cité plus haut, dont la gestion était disputée entre les Ellenes et les Karchedónioi.

René Rebuffat a abordé, dans un article clairvoyant, le problème de la position des emporia africains qu’il situe aux environs des Syrtes s’étendant au nord jusqu’à Hadrumetum.

Rebuffat a cherché un nom punique indiquant le lieu du marché, correspondant à l’arabe souk et se distinguant de l’agglomération entourée de murs comme le Gadir sémitique. Le lexème Emporia étant grec, la question est en réalité de savoir quel était son correspondant punique. Soulignons que le toponyme (grec lui aussi) associé aux nombreux emporia de Syrte (mais aussi du Byzacium et du Cap Bon) est Neapolis.

Les Grecs traduisaient probablement par le toponyme Neapolis un terme punique distinct de QRT HDST ; cette possibilité est confirmée par la correspondance de Neapolis avec l’un des centres de la Libye appelé MQM HDS: il s’agit de Macomades minores, rebaptisée dans la période de l’antiquité tardive Iunci, actuellement Younga dans le golfe de Gabès, indiquée comme Neápolis   dans le Stadiasmus Maris Magni, le portulan de la Méditerranée rédigé au milieu du Ier siècle apr. J.-C., et qui est arrivé jusqu’à nous incomplet.

Le grec Néa pólis calqué sur MQMHDS devrait remonter au moins au IVe siècle et peut-être même à l’époque archaîque si nous acceptons l’intégration par C. Müller et A. Peretti d’un passage du Périple de Scylax relatif au périple entre Gigthis et la localité au nom perdu dans le texte, située à un jour de navigation, en face d’une île déserte (nesos …ereme), certainement l’île Kneiss en face de Macomades Minores-Iunci.

Différents auteurs relèvent une seconde Macomades-Maiores dans le golfe de la grande Syrte, à l’est de  Lepcis Magna. Enfin, la troisième Macomades africaine est attestée en Numidie, sur la voie intérieure allant de Théveste à Cirta.

La Sardaigne punique documente elle aussi, grâce à la toponymie, jusqu’à quatre Macomades, situées respectivement sur le territoire de Bosa et, aux limites de l’ensemble montagneux central où résident les populi indigènes,  à Nuoro, Nureci et Gesico.

Si MQM, statif d’une racine qwm, indique traditionnellement « lieu », « lieu sacré » et «tombeau», Giovanni Garbini a récemment proposé, de façon pertinente, pour le toponyme MQM HDS le sens, plus convaincant, de «nouveau marché». Il s’agirait en fait de la détermination juridique d’un lieu équipé pour les échanges, un Karchedoniakòn empórion, traduit Néa pólis pour les emporoi grecs et introduit dans les périples de l’antiquité.

En acceptant cette interprétation, nous pourrions également justifier la dénomination Neápolis attribuée à diverses cités portuaires de la Libye punique, sans aucun doute Léptis megále (Lepcis Magna) et Abrótonon (Sabratha)[2], mais peut-être aussi mikrà Léptis (Leptis minus).

Il s’agirait du MQM HDS carthaginois, le Karchedoniakòn empórion, érigé juridiquement sur les lieux des anciennes installations phéniciennes (c’est le cas de Lepcis Magna, définie comme Néa pólis par le Périple de Scylax) ou instituée ex novo.

C’est sous cette même clé de lecture que devrait être comprise l’allusion de Diodore à une Néa pólis située à proximité de l’ancienne Carthage, robablement la colline de Byrsa.

Dans cette Néa pólis, le carthaginois Bomilcar passa en revue sa propre armée et se proclama tyran ; ayant ensuite divisé ses soldats en cinq groupes, il se dirigea vers la place du marché (agorá), où les Carthaginois loyalistes, en lançant des projectiles, contraignirent les insurgés à se retirer à nouveau, par des ruelles, dans la Néa pólis. Cette Néa pólis pourrait donc être elle aussi le quartier, avec des espaces extérieurs non-construits, du MQM HDS, l’empórion de Carthage, qui culminait dans l’agorá.

Notre argumentation nous conduirait à penser que les différentes Néai póleis de la Libúe correspondaient à l’organisation dans chacune d’elles d’un Karchedoniakòn empórion, c’est-à-dire d’un MQM HDS, doté de kerykes et de grammateîs, destinés à administrer le commerce de l’emporion avec les étrangers, parmi lesquels les Grecs qui traduisaient immanquablement par Néa pólis cette structure d’échange organisée par les Carthaginois. Le MQM HDS fut également créé dans les zones de l’intérieur, aussi bien en Afrique qu’en Sardaigne, où avaient lieu les échanges entre les communautés indigènes et les Carthaginois.

4. L’entente de Massinissa avec Laelius et, à la suite du débarquement en Afrique de Scipion, avec  ce dernier, conduisit Massinissa à la reconquête du royaume des Massyles et, après la capture de Syphax, à l’annexion du royaume des Masseasyles situé plus à l’est.

Le rôle de Massinissa et de sa célèbre cavalerie dans les batailles romaines en Afrique, et surtout dans l’affrontement  final de Zama entre Hannibal et Scipion, justifie le traitement que Scipion d’abord et le Sénat romain ensuite réservèrent au souverain numide.

Ce qui nous intéresse ici c’est l’expansion militaire progressive de Massinissa vers l’Est aux dépens de la république carthaginoise, sur la base d’une clause du Traité entre Rome et Carthage de 201 av. J.-C., qui mit fin à la seconde guerre punique.

Polybe affirme:

(Les Carthaginois) devaient rendre à Massinissa les maisons, les territoires, les villes et tout objet lui ayant appartenu ou ayant appartenu à ses ancêtres dans les limites qui leur auraient été indiquées.

 

En 193 av. J.-C., Massinissa pensa qu’il pouvait profiter des difficultés intérieures de Carthage qui était secouée par des troubles,  huit ans après le traité de Rome de 201.

L’augmentation de la production céréalière des terres intérieures du vaste royaume de Massinissa contraignait celui-ci à chercher des débouchés vers la mer, débouchés que l’actuel littoral algérien n’assurait pas, tout comme les anciens emporia carthaginois de la côte orientale de la Tunisie et de la côte septentrionale de la Tripolitaine.

Le roi commença à dévaster tout le territoire carthaginois qui donnait sur la mer, obligeant certaines des villes tributaires de Carthage à lui payer tribut.

Tite-Live précise que le nom de cette région est Emporia, la petite Syrte et un arrière-pays fertile. Selon l’historien patavin, cette région ne comprenait qu’une ville, Leptis (c’est-à-dire Lepcis Magna) qui payait à Carthage un tribut d’un talent par jour.

Massinissa avait rendu le territoire des emporia si peu sûr que la distinction entre  le territoire appartenant au royaume de Numidie et les terres carthaginoises n’était plus possible.

Carthage envoya des ambassadeurs à Rome pour protester contre les usurpations de Massinissa, en avançant toute une série de raisons juridiques auxquelles les envoyés numides répondirent :

Ce territoire avait les limites fixées par Scipion après sa victoire lors la délimitation des possessions carthaginoises. Massinissa a dû lui-même reconnaître ces limites quand, poursuivant Aphther en fuite avec une partie des Numides vers Cyrène, il demanda aux Carthaginois de pouvoir traverser leur territoire, leur reconnaissant ainsi le droit de le posséder.

Les Numides les accusaient de ne pas dire la vérité à propos des limites fixées par Scipion. Mais si l’on voulait réellement remonter à l’origine de ce droit, quel territoire en Afrique pouvait-on dire qu’il appartenait vraiment aux Carthaginois ? À leurs ancêtres, il fut permis de construire une ville dans un espace correspondant à une aire délimitée par une peau de bœuf coupée en lanières : ce qu’ils ont pu occuper en dehors de cet espace, c’est-à-dire en dehors de Byrsa, ils l’avaient conquis par la violence et l’illégalité.

Un excerptum de Polybe documente l’occupation des emporia carthaginois par Massinissa mais, à propos de l’attentisme de la commission envoyée en Afrique par le Sénat et constituée, d’après le récit de Tite-Live, par P. Cornelius Scipio, C. Cornelius Cethegus et M. Minucius Rufus, il affirme avec détermination  que la décision des trois arbitres fut favorable à Massinissa :

En vertu des réponses données à cette occasion, en fin de compte, non seulement les Carthaginois subirent la perte des villes et de la région (des emporia) mais ils durent aussi payer cinq cents talents en guise d’indemnité pour la période du temps qu’avait duré le conflit.

Lorsque la troisième guerre punique éclata, les ambassadeurs de Carthage, convoqués par les consuls, avec 300 enfants à amener à Rome en otages, se souvinrent de la perfidie de Massinissa qui avait enlevé à Carthage d’autres territoires autour d’ Emporion.

Après la destruction de Carthage en 146 av. J.-C.,  l’acte de création de la Province d’Africa laissa les emporia au royaume numide (élément dynamique et fondamental de la politique commerciale et urbaine de Massinissa et de ses successeurs).

5. Massinissa revivra, chez Salluste, à travers son petit-fils Jugurtha, champion de la liberté contre l’occupation romaine, défenseur d’une Numidie numide : dès son adolescence il était plein de vigueur, pollens viribus, il avait un aspect plaisant, decora facie, mais surtout un esprit solide, sed multo maxume ingenio validus; un tempérament actif et une intelligence fine, inpigro atque acri ingenio, il ne se laissait corrompre ni par les plaisirs ni par l’oisiveté, non se luxu neque inertiae conrumpendum dedit; mais, selon la coutume du peuple des Numides, il montait à cheval, s’exerçait à lancer le javelot, rivalisait dans la course avec ses amis, se consacrait à la pratique aristocratique de la chasse au lion, et bien que sa renommée fût supérieure à celle des autres, il était aimé de tous.

Salluste énumère les qualités personnelles du prince numide et suit avec admiration son éducation : Jugurtha, qui fut d’abord marginalisé à la cour atteignit ensuite une position prestigieuse, qui indiquait qu’il était un chef charismatique, un protagoniste, destiné à régner, grâce à l’exercice de la virtus et à l’application jointe à la modération ; on le reconnaissait comme étant au centre du système politique et culturel du royaume de Numidie.

Elevé à Carthage mais profondément berbère, Massinissa était lui aussi présenté par Tite-Live avec les mêmes qualités : il n’existait pas dans toute la Numidie de cavalier plus courageux, personne ne résistait mieux que lui aux fatigues et aux longues chevauchés dans le désert sans manger ni boire. Sa générosité pour les siens était illimitée, mais il était impitoyable avec les traîtres ; il ne se décourageait pas face aux échecs, il gardait toujours l’espoir pour l’avenir et, dès que possible, il recommençait la lutte.

Massinissa et Jugurtha sont vraiment tous les deux à la base de l’idée d’indépendance du peuple numide.




Saluto all’XI Convegno Nazionale di Archeologia Cristiana.

SALUTO ALL’XI CONVEGNO NAZIONALE DI ARCHEOLOGIA CRISTIANA
Cagliari, 23 settembre 2014

Cari amici,

benvenuto in Sardegna ai nostri ospiti, grazie a Rossana Martorelli per l’impegno. Ho il piacere di portare il saluto dell’intera università di Sassari a questo XI Congresso nazionale di archeologia cristiana, dedicato allo straordinario tema de rapporto tra isole e terraferma nel primo cristianesimo.

Di fronte a questo tema, penso immediatamente alla convocazione da parte del re vandalo Unnerico del concilio di Cartagine, al quale secondo il primo editto conservatoci da Vittore di Vita avrebbero dovuto partecipare soltanto universi coepiscopi … per universam Africam costituti; il vescovo di Cartagine Eugenio, subito dopo l’editto reale del 18 maggio 483, riuscì nell’intento di estendere l’invito anche a quei vescovi transmarini qui nobiscum sunt in una religione vel communione consortes: vescovi, transmarinarum omnium partium, non pressati dalla dominazione vandala e dunque più aperti e pieni di fiducia sulla possibilità di ribaltare la situazione e comunque in grado di far pervenire in tutto il Mediterraneo, forse attraverso il vescovo di Roma, le informazioni sulla politica anticattolica portata avanti dai Vandali ariani in Africa; dovevano esser convocati anche «qui alieni ab eorum dominatu maiorem fiduciam libertatis haberent, pariterque oppressionis nostrae calumnias universis terris et populis nuntiarent»

Arrivo trafelato dall’Algeria, visto che sono rientrato ieri notte da Constantine e vi porto alcune immagini del Museo di Cirta. Potrete constatare che il museo non solo è ancora in piedi, ma mantiene il sapore di un tempo lontano, quello di un luogo privilegiato per riscoprire il rapporto tra culture locali, impero romano e rivoluzione cristiana, all’indomani della sconfitta di Massenzio al Ponte Milvio. Una città, Constantina, per Leone Magno onorata così tanto a gloriosissimae memoriae dell’imperatore Costantino dopo la pace religiosa, ut ab eius vocabulo praeter nomen proprium, quo Arelas vocatur, Constantinae nomen acceperit. E’ come se Cirta e Arelate avessero rappresentato per Costantino il prototipo di quello che poi sarebbe stato realizzato a Costantinopoli sul Bosforo.

Proprio a Constantine, rifondata dopo la distruzione di Cirta voluta da Masssenzio,, rimangono molte dediche epigrafiche riconoscenti, che esaltano il trionfo del primo imperatore cristiano, ricordato in una dimensione spaziale universale (conservator totius orbis) ed estesa nel tempo, con i titoli di dominus noster, pius, felix, invictus ac semper Augustus, perpetuae Securitatis ac libertatis auctor, triumphator omnium gentium ac domitor universarum factionum, qui liberatem tenebris servitutis oppressam sua felici victoria nova luce inluminavit et revocavit. Proprio a Constantine sono state ritrovate le basi che ricordano Costantino restitutor libertatis victoriosissimus et maximus Augustus e, fundator pacis.

Capirete però la mia gioia per partecipare al nostro Convegno Nazionale di Archeologia Cristiana in Sardegna, perché l’Archeologia Cristiana ha in quest’isola un ruolo di speciale importanza.

Non possiamo dimenticare, in questo Convegno le lotte municipalistiche fra la sede arcivescovile cagliaritana e quella turritana, che si sviluppò nel Seicento in parallelo con la nascita delle due università e che riguardò il preteso primato della rispettiva ecclesia cathedralis.

Eppure quel conflitto, perfettamente barocco, ha portato alla luce un modo, sostanzialmente funerario, delle comunità cristiane di Karales e di Turris Libisonis.

Ad ottobre celebreremo nella Chiesa metropolitana di San Gavino in Porto Torres il quarto centenario degli scavi archeologici paleocristiani promossi dall’Arcivescovo di Sassari Gavino Manca [de] Cedrelles.

Il primo Soprintendente alle Antichità della Soprintendenza di Sassari e Nuoro, Guglielmo Maetzke, nel suo studio archeologico del 1989 sul Monte Agellu, affrontò la tematica degli Scavi del 1614, evidenziando il valore del Processo original de la sagrada invención de los cuerpos de los ilustríssimos mártyres S. Gavino Sabbeli, S. Protho y S. Januario come vero e proprio giornale di scavo:

L’Arcivescovo Manca [de] Cedrelles, deciso […] ad effettuare la ricerca delle reliquie dei santi Martiri turritani nella Basilica di Porto Torres, la affidò inizialmente a don Gavino de Campo, curato della chiesa stessa indicandogli il luogo dove iniziare lo scavo, e incaricò della stesura quotidiana del Processo (un vero e proprio giornale di scavo) don Leonardo Redeoli<v>es, Segretario e notaio della Mensa Turritana[1].

Il “giornale di scavo” del 1614 ha ricevuto una puntuale disamina ad opera di archeologi del secolo XX e del presente XXI, a partire dal citato saggio di Guglielmo Maetzke su Monte Agellu, nel quale l’archeologo dedicò un capitolo (Gli scavi del 1614) alle indagini promosse dall’Arcivescovo turritano Manca de Çedrelles all’interno della basilica di San Gavino[2], inquadrando tali ricerche anche in rapporto agli scavi effettuati dal Maetzke nel 1963 in Largo Sabelli, a sud della Basilica, e ancora una volta all’interno di San Gavino. L’archeologo corredò il suo studio di una pianta descrittiva dei trovamenti all’interno e all’esterno della Basilica[3].

A questo lavoro del Maetzke si ispira Pier Giorgio Spanu nei suoi Martyria Sardinia, nel capitolo sui Corpora sanctorum Gavini, Proti et Ianuari in optimo loco condita[4], pur distinguendosi dal Maetzke nel riconoscimento delle deposizioni individuate nel 1614 come pertinenti ad un coemeterium paleocristiano e altomedievale sub divo a sud della basilica paleocristiana e altomedievale individuata negli scavi di Letizia Pani Ermini nell’ Atrio Comita e a sud della basilichetta funeraria, già considerata primitiva aula di culto dal Maetzke.

Ma allo studio dell’area cimiteriale paleocristiana di Turris Libisonis fece riscontro la attività archeologica caralitana promossa dall’arcivescovo D’Esquivel: il bellissimo libro di Donatella Mureddu, Donatella Salvi e Grete Stefani, Sancti Innumerabiles, ha recato, dopo le indagini di Marcella Bonello, una luce formidabile sul materiale epigrafico e monumentale (in specie i mosaici funerari) dei coemeteria della basilica del martire Saturninus e dell’area interessata alla costruzione seicentesca della chiesa di San Lucifero.

Le officinae falsariorum di mommseniana memoria si sono viste sottrarre molte epigrafi condannate dalla acribia, senz’altro eccessiva per molti documenti epigrafici, manifestata dal grandissimo epigrafista.

Studi ulteriori di Paola Ruggeri, di chi parla, di Antonio Corda hanno evidenziato la sostanziale coerenza dei testi editi in opere seicentesche o semplicemente traditi negli actas originari e sfuggiti al Mommsen con i testi scoperti nei lavori dell’Ottocento e del Novecento. Voglio citare tra gli altri almeno Mauro Dadea, Daniela Sanna e Per Paolo Longu, assegnista nell’Università di Sassari, che a queste tematiche ha dedicato di recente la sua corposa tesi di dottorato, con moltissime novità.

Non posso qui tracciare la storia dell’epigrafia cristiana in Sardegna, cui hanno dedicato sostanziali contributi Letizia Pani Ermini e Antonio Corda con il suo Corpus edito nella prestigiosa sede del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, senza dimenticare la dimensione storica definita da Raimondo Turtas. Vorrei piuttosto additare la fondamentale attività di formazione che qui in Sardegna hanno svolto e svolgono i valorosi colleghi che nelle nostre due Università hanno inaugurato i Corsi di Archeologia Cristiana (e medievale), senza dimenticare l’apporto di tanti altri colleghi ad iniziare da Vincenzo Fiocchi Nicolai.

Come non ricordare le pagine che mezzo secolo fa Giovanni Lilliu dedicò sulla Rivista Studi Sardi allo Stato dell’Archeologia in Sardegna?

Giovanni Lilliu ricordava in quello studio il contributo, nutrito anche dalla “privata scarsella”, di Ovidio Addis nelle ricerche di Archeologia Cristiana delle basiliche di Cornus. Lilliu a più riprese è tornato sulla tematica dell’archeologia cristiana e medievale in Sardegna, giungendo a dichiarare che se avesse potuto ricominciare il cammino archeologico della propria vita avrebbe scelto proprio l’archeologia medievale.

Ebbene ad un preistorico, a Giovanni Lilliu dobbiamo l’avvio del processo che avrebbe portato la prima Cattedra di Archeologia Cristiana (e medievale) in Sardegna, in questo Ateneo di Cagliari, con il magistero di Letizia Pani Ermini.

Non dimentico la mia milizia a Columbaris, a Cornus nel corso della prima campagna quasi quaranta anni fa diretta congiuntamente dalla Soprintendenza archeologica di Cagliari e Oristano, retta da Ferruccio Barreca, e dall’Istituto di Archeologia Cristiana dell’Università di Roma (allora unica…), retto da Pasquale Testini.

A Cornus a dirigere lo Scavo era Letizia Pani Ermini che aveva già dato importantissimi contributi sulla pittura paleocristiana nei cubicula del coemeterium di Bonaria e su iscrizioni paleocristiane di San Saturnino.

Io consacrai il mio primo libro a Cornus (era il 1979) offrendo anche il corpus delle iscrizioni pagane e cristiane di Cornus, anche con testi inediti rispetto a quelli editi da Testini negli Actas dell’VIII Congreso Internacional de Arqueologia Cristiana di Barcelona del 1969. Seguirono i convegni di Cuglieri e tante altre storie straordinarie.

L’Archeologia Cristiana in questi anni è andata avanti con gli scavi scientifici a Karales, a Tharros, a Turris Libisonis, a Forum Traiani, a Sulci, che hanno visto compartecipi Soprintendenze e Università.

La feconda eredità di Letizia Pani Ermini ha fruttificato in Sardegna e due suoi allievi, Pier Giorgio Spanu a Sassari e Rossana Martorelli a Cagliari, tengono con prestigio le rispettive cattedre, allevando, in una scuola che oserei chiamare unica, superando antistorici steccati, ormai due generazioni di studenti, avviati al Dottorato di ricerca e al ruolo di Ricercatori universitari.

Ascolteremo con attenzione e interesse i contributi che si svolgeranno in questo Convegno nella sede di Cagliari e in quella sulcitana, sicuri che saranno presentate novità decisive per la ricerca scientifica.

Ai giovani, ai nostri giovani studiosi che anche in questi calamitosi tempi di crisi affrontano con rigore e passione il cammino della formazione universitaria, vorrei dire: di non arrendersi, di coltivare passioni, curiosità, interessi scientifici, di investite la loro vita con la conoscenza nella certezza che il loro lavoro non sarà sprecato ma costituirà la fondazione di un futuro lucente della nostra Sardegna.


[1] G. Maetzke, Monte Agellu. Le origini della basilica di san Gavino di Porto Torres secondo le trestimonianze archeologiche, Sassari 1989, p. 35.

[2] G. Maetzke, Monte Agellu, cit., pp. 32-52.

[3] G. Maetzke, Monte Agellu, cit., tav. V.

[4] P. G. Spanu, Martyria Sardiniae. I Santuari dei martiri sardi, Mediterraneo tardoantico e medievale. Scavi e ricerche. 15, Oristano 2000, pp. 131-135, fig. 66.