Giuseppe Elia Monni, Il corpo della città.

Attilio Mastino
Giuseppe Elia Monni, Il corpo della città
Sassari 29 maggio 2015.

Sono convinto che troppe opere prime, anche pubblicate da Editori nazionali e di primo piano, siano passate inosservate in Sardegna: da noi purtroppo non manca il conformismo che premia la stanca ripetizione di stereotipi. Magari mi immagino che alcune opere dense, originali, con straordinarie novità saranno riscoperte solo nei prossimi decenni.

Spero che non sarà questa la sorte dello splendido romanzo di Giuseppe Elia Monni, Il corpo della città, pubblicato da Mondadori, che è fino ad un certo punto un’opera prima, dal momento che nel sito facebook dell’autore – tra le tante pagine in perenne manutenzione – sono riuscito a scovare anche molte altre opere inedite, che promettono davvero novità, uno sguardo fresco e ricco di suggestioni, sulla Sardegna di sempre.

Troppo facile sarebbe pensare ad un debito di Monni nei confronti di Giorgio Todde e del suo romanzo storico sulle indagini dell’imbalsamatore, Efisio Marini, che ci porta anch’esso ad uno scienziato, assistente al Museo di Storia Naturale a Cagliari dal 1861, in contatto con l’archeologo Giovanni Spano.

Ma Gemiliano Deidda vissuto tra il 1721 e il 1810, non solo è un personaggio ben più articolato e risalente, uno scienziato interessato alle scienze matematiche, astronomiche, economiche e tecniche (un “sapiente” per Lalla Careddu), soprattutto un archeologo vero, ma è raccontato in queste pagine con l’originalità che deriva da una rilettura della biografia del protagonista col sapore un poco naif di un genio proiettato pari pari dall’illuminismo del Settecento in una Sardegna arcaica, ancora barocca e spagnoleggiante, appesantita dalla malaria, dalla  feudalità, dalla ingiusta divisione della terra, dall’abbandono delle terre e dalle paludi.  L’arrivo dei Savoia fu inizialmente accolto con una fatalistica rassegnazione ma anche forse segnò un’ulteriore chiusura e impoverimento, per quanto sotto Carlo Emanuele III l’azione del Ministro per gli Affari di Sardegna Giovanni Battista Lorenzo Bogino avrebbe segnato a partire dal 1759 una straordinaria occasione di modernizzazione e di sviluppo.

E naturalmente il titolo Il corpo della città rimanda solo superficialmente alla città del sole di Francesco Alziator, a quella Cagliari che anche Ottavio Olita ha descritto di recente ne Il futuro sospeso, passeggiando lungo gli originali percorsi urbanistici che in qualche modo scandiscono e accompagnano una storia, indicano delle cesure, rappresentano piste da percorrere anche nel tempo. Un luogo tanto diverso dalla Metropolis di Flavio Soriga o dalla città d’acqua di  Giulia Clarkson, che pure è tra le cose su Cagliari che amo di più, con quella scoperta della statua romana che emerge dal fango della villa di Tigellio.

Monni fa una cosa nuova, emozionante, convincente, soprattutto per questa sua capacità di modulare i sentimenti, di incrociare i piani di lettura, come con una macchina fotografica capace di mettere a fuoco o più spesso di appannare, nascondere, occultare, lasciare immaginare fatti, ma anche rimpianti e dolori sconvolgenti, per qualcosa che si riesce a cogliere solo quando sempre è troppo tardi per tutti.

Ad accompagnare questo inusuale romanzo storico c’è lo spessore del tempo, la profondità della storia di una città che ha corpo di donna, una donna supina ed inarcata in una posa oscena, inquietante come quando contempli una donna che non sai se dorme o finge per farsi spiare o è morta: fasciata dalle dure carni delle sue mura eburnee, la Cagliari settecentesca di Monni ha le braccia sterrate stese sui colli che la circondano, il ventre verminoso dei suoi mercati, le mammelle dei suoi granai colmi di pane sottratto ai popolani, e quella cascata di capelli fradici che sono i vicoli della Marina, fin dentro al porto, dove s’affonda il capo rovesciato, nascondendo il volto.  Una città che è una femmina senza pudore, una femmina al sole, che ostenta il suo ventre nudo e sgretolato. A parlare, alla fine del libro, a descrivere da lontano la sua città con mille sensi di colpa e mille rimpianti, si scopre con sorpresa che è proprio il figlio maledetto di Gemiliano, Paolo, il figlio perduto e colpevole, che però nutre in segreto sentimenti di ammirazione per il padre e approfitta del genio di chi l’ha preceduto, riuscendo in qualche modo ad aprire una prospettiva nuova proprio al sogno irrealizzato di Gemiliano, quello di rifornire d’acqua la città di Cagliari perennemente assetata. E ciò ripristinando l’antico acquedotto romano che arrivava dal Sulcis attraverso Siliqua fino al Fangario.  Perché Paolo ha dimostrato insieme il suo coraggio e la sua viltà, la viltà di restare muto col padre, incapace di entrare in contatto con un uomo buono e paziente, fino a quando la Morte non si sarà portata via anche il vecchio, dopo aver preso il bambino Pietro. Il bene e il male intrecciati, la curiosità, il mistero, l’esempio del padre che non va perduto nonostante tutto il dolore del mondo.

Ecco, l’altro tema di fondo è quello della fase romana della storia della Sardegna, che in modo inconsueto viene considerata come il momento vero di modernizzazione e di innovazione, l’epoca alla quale l’illuminismo settecentesco può finalmente far riferimento per superare la fiacca staticità del Seicento spagnolo e forse anche l’arcaicità della Sardegna di oggi.  Forse la storia romana è in qualche modo depositaria di un’idea di progresso che si era persa nel tempo e che alla fine del 700 inizia a riemergere. Dunque la ricerca di resti romani, i censimenti, come ad Elmas, a Uta, a Decimmannu, a Siliqua, a Domusnovas, lungo il Cixerri, un acquedotto che nella fantasia serviva 2 milioni di persone.  Un’opera monumentale comunque ammirevole, per la quale furono spese risorse e genio e tempo e sudore, per dar da bere a tutti, uomini e donne, e bestie, famiglie ricche e famiglie povere. Gemiliano ci crede, investe, spende, rovina la sua famiglia,  ma Paolo saprà assorbire una lezione di vita.

In questo quadro il viaggio a Torino per Deidda era stato il momento di svolta, e oggi spiega questa sua docenza universitaria nella Cagliari del Settecento, questa sua presenza quasi schizofrenica all’Università, il contrasto con il Rettore, le invidie, i suoi progetti non condivisi dai concittadini e dai colleghi professori ben più nobili di lui, dal figlio maggiore, l’assurda scommessa di un pazzo che desidera risolvere il problema della sete, che bonifica gli stagni, che riforma il sistema monetario del regno, sostenuto da quelli che l’autore forse con troppa indulgenza considera i riformatori piemontesi.

Ovviamente nel romanzo questo aspetto dell’estraneità di Deidda al mondo cagliaritano appare decisamente forzato, ma forse spiega  il destino torinese di alcuni dei frammenti del  Mosaico di Orfeo con la lira che doma gli animali, che svolge un tema analogo a quello dello straordinario mosaico riemerso recentemente nel Palazzo di Re Barbaro a Porto Torres. Quello di Cagliari fu in realtà solo ri-scoperto nel 1762 dal Deidda a  Stampace dietro la chiesa dell’Annunziata: la relazione originale conservata all’Archivio di Stato di Cagliari e utilizzata da Monni racconta le circostanze della prima scoperta nel terreno degli eredi di Giovanni Saba, che in realtà l’aveva trovato nel 1707 in età spagnola e non aveva considerato adeguato il ricavato della vendita dell’analogo mosaico delle fatiche di Ercole, spedito a Filippo V con poca soddisfazione economica. Sono gli anni del passaggio di sovranità tra Madrid e Torino, con l’intermezzo austriaco.

Ora capiamo perché sarebbe stato proprio Deidda a fare arrivare l’Orfeo di Stampace al regio Museo di Torino. E’ nella capitale subalpina, dove era stato qualche anno prima, che Deidda aveva appreso quelle idee di modernità legate in qualche modo alla cultura protestante, tra calvinismo e giansenismo, ad una nuova concezione della vita, alla capacità degli uomini di costruire la propria storia, grazie a questa fede sconfinata nell’uomo che caratterizza il secolo dei lumi alla vigilia della rivoluzione francese.

E poi nel romanzo ci sono tante storie, legate alle curiosità, alle passioni, agli scavi effettuati da Don Gemiliano: l’anfiteatro diventato una cava, le enormi cisterne, il lungo canale sotterraneo che corre per 50 km, le piscine, le condutture, gli archi, la necropoli di Tuvixeddu e poi Tuvumannu, la strada reale e la strada per il Sulcis, i ponti, le saline, i misteri e i tesori di un tempo lontanissimo, di cui rimangono leggende, superstizioni, racconti mitici, legati alle streghe, alle fate, fino alla Bruxa di Domusnovas, una testa mozzata che nel buio della notte appare spaventosamente a Paolo, quasi a vendicare la bambina la lui violentata in spiaggia, la ninfa adorata tanto da ucciderla.

Il mio mestiere mi consiglia di sorvolare sulle pagine, davvero forti, che descrivono la dissezione del cadavere della grossa e tozza contadinotta stesa sul marmo tra gli svenimenti degli studenti nell’aula anatomica dell’Università: una lezione che per tanti versi poteva essere non di anatomia ma anche di archeologia, perché l’archelogo è come un chirurgo e gli scavi sugli strati di un terreno che testimoniano il trascorrere delle culture, effettivamente assomigliano alle incisioni crudeli e irreversibili di un medico.

Ma non posso sorvolare sulla mano felice che l’autore dimostra nel raccontare i dialoghi notturni di Gemiliano con la sua Flora, che lo attendeva nel letto, tutte le notti, tutte le notti della sua vita Flora lo avrebbe atteso e accolto, anche quando lei in realtà non c’era già più, ma lui continuava a parlarci, raccontando il suo amore per lei e per il piccolo Pietro, ammalato tanto da morirne, una sorte che Gemiliano finisce per accettare  dopo i mesi felici trascorsi col figlio amato tra Villa d’Orri e Sarroch ospiti del Marchese di Villarermosa, perché il dolore e la gioia finiscono per essere la stessa cosa, si intrecciano inspiegabilmente, solo insieme riescono ad esprimere il senso della vita.

Monni si dimostra molto colto, ammira la cultura classica, conosce bene il mito: Flora ricorda l’Euridice, la dolce sposa di Orfeo,  morta per il morso di un serpente in un prato mentre camminava oppure mentre correva tentando di sottrarsi alle attenzioni del pastore Aristeo, il figlio di Apollo e della ninfa Cirene, il mitico colonizzatore della Sardegna. Orfeo, disperato, allora intonò canzoni così cariche di disperazione che tutte le ninfe e gli dei ne furono commossi. Gli fu consigliato di scendere nel regno dei morti per tentare di convincere Ade e Persefone a far tornare in vita la sua amata. Da allora le sue canzoni riuscirono ad addolcire le bestie, a far piangere le Erinni.

Plutone e Persefone si convinsero finalmente a lasciare andare Euridice, a condizione che Orfeo camminasse davanti a lei e non si voltasse a guardarla finché non fossero usciti alla luce del sole. Durante il viaggio dall’oltretomba Orfeo si fece forza e non si voltò mai, poiché sapeva che, se lo avesse fatto, non avrebbe più rivisto la sua amata; per queste ragioni cominciò a suonare la sua lira, cercando di placare il desideriodi lei. Arrivato finalmente alla luce del sole, Orfeo si voltò per guardare la sua donna; Euridice, però, non era ancora completamente uscita dal regno dei morti e dunque, quando Orfeo posò gli occhi su di lei, finì per svanire in una nuvola. Persefone, quindi, spiegò ad Orfeo le ragioni della scomparsa di Euridice, persa per sempre. Così Orfeo, disperandosi e piangendo, rimase muto e solo, senza mangiare né bere, finché non giunse alla fine dei suoi giorni.

C’è tutto questo dietro i pannelli torinesi del mosaico di Stampace e la ripresa dell’amore per Euridice in queste pagine è straordinaria, perché anche Gemiliano non riusciva più a ritrovare Flora accanto a lui, nel letto freddo a Torino, tanto che gli sembrava di impazzire. La solitudine, la vecchiaia, il dolore per le colpe inconfessabili di Paolo, la rabbia, ma anche una superiorità di spirito che lo rendeva impermeabile alle ironie dei colleghi cagliaritani, in particolare dei nobili di Castello, del viceré, della casta che l’aveva tenuto in disparte e non l’aveva capito, mentre piena è la sintonia con i servi Simplicio e Giustina, quest’ultima riscattata da un harem arabo in Barberia con gli zecchini del Capitan Porcile.

Monni ci conduce per mano in un periodo storico poco frequentato, riesce a ricostruire i sapori e i climi di una Sardegna lontana, arcaica, quasi una prostituta avvizzita, che consuma il proprio territorio, ma con tanti fermenti che annunciano il futuro nuovo, con un’idea di modernità che spiega tante pagine di questo libro. Come il contadino che radica, si spezza la schiena, produce per quelli che verranno  sicuro di non godere i frutti del suo lavoro, forse c’è allora un modo diverso per guardare il futuro della Sardegna, senza egoismi, con più generosità e più rispetto, con la voglia di costruire per le generazioni che verranno.




La pagina della Diocesi di Bosa su Libertà alla fine degli anni Sessanta.

Attilio Mastino
La pagina della Diocesi di Bosa su Libertà alla fine degli anni Sessanta
Sassari, 20 maggio 2015

L’idea di dedicare una pagina speciale del glorioso settimanale “Libertà” (fondato dal vincenziano Padre Giovanni Battista Manzella nel 1909) alla Diocesi di Bosa si deve esclusivamente a mons. Francesco Spanedda: a  Sassari egli aveva diretto il settimanale (dopo personaggi del livello di Damiano Filia, Remo Branca e altri), fino al suo ingresso come vescovo a Bosa, il 7 aprile 1957.  Aveva lasciato la direzione di Libertà nelle mani di  Mons. Antonio Virdis, mentre la stampa proseguiva presso la Tipografia Editoriale Moderna di Largo Seminario 2. Mons. Spanedda avrebbe continuato il suo impegno a distanza, raccogliendo  migliaia di abbonamenti nella sua nuova piccola diocesi, creando una pattuglia di collaboratori diretti.

Dopo la morte di mia madre Anna, fu il vescovo a cresimarci privatamente – me e mio fratello Luigi – nella cappella del Seminario della Meridiana, che mio padre Ottorino, assessore comunale, aveva fatto restaurare in occasione del solenne arrivo del nuovo vescovo: testimonianza di un privilegio forse, soprattutto di un’attenzione che avrei sperimentato nel tempo successivamente, quando mi volle Presidente diocesano della GIAC. A Bosa il vescovo sarebbe rimasto per 22 anni, fino al 17 marzo 1979, quando fu promosso Arcivescovo di Oristano, mantenendo l’arma originaria con il castello, le stelle e l’epigrafe programmatica Caritate et veritate. In questi due decenni, grazie all’amicizia con il Presidente della Regione Giovanni Del Rio, era riuscito ad abbandonare il cadente Seminario e a far costruire il nuovo Episcopio di Viale Giovanni XXIII.

La cosa che rimane più viva nella mia memoria e sulle pagine della mia collezione di Libertà è la partecipazione del vescovo Spanedda al Concilio Vaticano II, cinquanta anni fa (1962-65): la mia età mi consente di ricostruire a distanza di tanti anni l’emozione di quei giorni e di tentare di recuperare alla memoria qualche ricordo di quegli straordinari resoconti sul Concilio che dal pulpito in Cattedrale e sul giornale faceva costantemente il nostro vescovo. Spanedda era stato chiamato a far parte della Commissione teologica internazionale, nella Commissione De doctrina fidei et mororum; egli ci raccontava il Concilio con lo stupore di chi assisteva ad un evento storico, osservava commosso le nuove aperture di una teologia troppo chiusa come quella italiana, entrava in contatto per la prima volta con i teologi francesi e tedeschi, istituiva rapporti e legami con decine di altri vescovi in particolare di oltrecortina, che si sarebbero sviluppati nel tempo. C’era nelle sue parole il sapore fresco di un avvenimento che in qualche modo settimana dopo settimana egli riusciva a farci vivere insieme con lui, soprattutto nell’Azione Cattolica, nel Centro Sportivo Italiano, in parrocchia, sul settimanale Libertà. Un avvenimento che per tre anni ci avrebbe riguardato tutti.

Ho visto che Raimondo Turtas nel volume sulla Storia della Chiesa in Sardegna ridimensiona severamente il ruolo svolto dai vescovi sardi al Concilio, mi sembra con la sola eccezione di Mons. Giovanni Pirastru, di Iglesias, impegnato a sollecitare interventi convergenti dei vescovi sardi sul versante della dignità umana e dei diritti della persona. Eppure sono convinto – ne ha convenuto sinceramente in questi giorni lo stesso Padre Turtas – che nessun altro vescovo sardo come Spanedda ebbe in quegli anni una dimensione internazionale e un ascolto altrettanto ampio. Ho visto citati da Tonino Cabizzosu i numerosi interventi scritti di mons. Spanedda, uno dei quali intitolato ad finem Concilii, gli emendamenti e le sue adesioni alle iniziative dei colleghi sui temi de apostolatu laicorum e de sacrorum alumnis formandis. Infine la sua firma su molte costituzioni conciliari, penso a quella sulle chiese orientali (con attenzione per il culto di San Costantino), sull’ecumenismo, ancora sull’apostolato dei laici.

Era del resto il vescovo nel cui territorio operava da cinquanta anni a Cuglieri il Pontificio Seminario tridentino regionale, la Facoltà di teologia e filosofia, che costituì una delle preoccupazioni dei vescovi isolani, che certo si riflettono in alcune pagine del Concilio. Mio nonno risiedeva del resto proprio a Cuglieri, dove passavo abitualmente i mesi di agosto e settembre, talora ospite di Padre Furreddu, io incuriosito per il funzionamento della stazione sismica, sempre accolto generosamente quando dovevo pubblicare i nostri mille giornaletti ciclostilati che facevamo circolare tra ragazzi in diocesi (L’urlo, Lo strillo, Il CSI per la Coppa Malaspina, ecc.). Ho ritrovato tra le mie carte una foto che scattai nell’estate 1964 dal Palazzo di mio nonno (già scomparso) con la folla che accompagnava l’arrivo (su un camion leoncino) dell’enorme statua di bronzo di Cristo Redentore, collocata nei giardini del Seminario tridentino di Cuglieri, poco prima della conclusione del Concilio su progetto dell’arch. Vico Mossa..

Erano soprattutto le origini sassaresi di mons. Spanedda, che era nato a Ploaghe, e il suo ministero che si estendeva fino a Cuglieri, a portarlo a enfatizzare con noi il ruolo del Collegium, Mazzotti e la casa di accoglienza di La Madonnina di Santulussurgiu, che allora frequentavamo spesso sotto la guida del compianto don Giuseppe Budroni.

Chiuso il Concilio il 7 dicembre 1965, fui invitato dal vescovo a partecipare, e lo feci con successo, al Concorso nazionale di borse di studio Veritas sul tema “Gli studenti e la chiesa”. La parte del diavolo fu affidata allora a Mons. Giovanni Pes, particolarmente critico nei confronti del mio elaborato ma ciò non impedì al vescovo di pubblicare a puntate su Libertà tutto il mio testo. Ero in prima al Liceo classico e ho recentemente ritrovato tra le mie carte una oscura relazione dattiloscritta di oltre 30 pagine, datata Bosa 12 luglio 1966, scritta a 6 mesi dalla cerimonia con la quale Paolo VI aveva chiuso il Concilio con la celebre allocuzione e con gli otto messaggi al mondo: ai padri conciliari, ai governanti, agli intellettuali (consegnato simbolicamente a Jacques Maritain), agli artisti, alle donne, ai lavoratori, ai poveri, agli ammalati, ai giovani. Avevo messo a frutto l’insegnamento del vescovo Spanedda con l’aiuto di mons. Antonio Francesco Spada, che mi aveva seguito nella ricerca partendo dall’antologia sui documenti del Concilio Vaticano II pubblicati dalle Edizioni Dehoniane, un volume analogo a quello edito dalle Paoline che Mons. Antonio Loriga mi ha donato un anno fa.

Avevo commentato i capitoli sul Popolo di Dio e sui laici della Costituzione sinodale Lumen Gentium del 21 novembre 1964, soprattutto avevo letto la citatissima Costituzione pastorale Gaudium et Spes dell’anno successivo, con riferimento al capitolo dedicato alla promozione del progresso della cultura e ai doveri dei giovani e dei genitori. E poi il tema vitale dell’Ecumenismo del Decreto Conciliare Unitatis Redintegratio, del 21 novembre 1964. Ancora l’apostolato dei laici nel Decreto Conciliare Apostolicam Actuositatem del 18 novembre 1965, con i capitoli dedicati ai giovani e all’Azione Cattolica. Infine la Dichiarazione conciliare Gravissimum educationis del 28 ottobre 1965 sull’educazione cristiana, con le pagine dedicate alla scuola e all’Università. Sotto quest’ultimo aspetto, mi ero permesso anche qualche critica al rapporto effettivamente un poco squilibrato tra scuola non cattolica e scuola cattolica – la bizzarra distinzione è conciliare -, per l’insistenza sui convitti e i centri universitari cattolici, sul coordinamento delle scuole cattoliche e sulle facoltà di teologia. Eppure oggi a distanza di 50 anni sorprendono le aperture del Concilio sulle scuole superiori e sull’università, se si ribadisce che le diverse discipline debbono essere <<coltivate secondo i propri principi e il proprio metodo, con la libertà propria della ricerca scientifica>>.

Infastidisce oggi in quelle mie pagine troppo acerbe – rese pubbliche su Libertà ma che suscitarono qualche caustica reazione tra i miei amici, tanto che obbligai il can. Spada a bloccarne la pubblicazione – un commento talvolta pretenzioso e saccente, qualche bigotteria, l’accettazione acritica di una realtà di fatto che il Concilio ci avrebbe costretto a superare, come la marcata divisione tra studenti e lavoratori e tra maschi e femmine in Azione Cattolica (GIAC e GF), nel CSI e nella FARI. C’era ancora in molti di noi inconsapevolmente il senso orgoglioso di una superiorità degli studenti rispetto ai giovani lavoratori, la convinzione che i giovani della GIAC, la Gioventù maschile di Azione Cattolica, fossero dei privilegiati capaci di scorgere più di altri una strada, forse anche meglio – il pensiero sotterraneo qua e là riemerge – rispetto alle colleghe della Gioventù Femminile, rigorosamente separate in parrocchia anche se frequentate a scuola. Forse è la stessa superiorità che i tesserati di Azione Cattolica e della FUCI avrebbero mostrato negli anni successivi verso gli amici di Comunione e Liberazione.

In realtà prendevo lo spunto da alcune affermazioni conciliari, perché <<lo studente è dei giovani il più rettamente formato, quello che avrà più orgoglio per la posizione acquistata>>, con la sua maturità, anche perché, recita la Gaudium et Spes <<lo scopo della Scuola è quello di suscitare uomini e donne non tanto raffinati intellettualmente, ma di forte personalità, come è richiesto fortemente dal nostro tempo>>.

Sentivamo in quei giorni la novità di un tempo nuovo, la gioia per la rinnovata dimensione universale della Chiesa, ancora il desiderio di una rinascita etica, il senso della fine di una storia, se chiudendo la mia ricerca dedicata agli studenti osservavo: <<Vorrei terminare qui con le ultime parole che il Concilio, chiudendo la sua opera, ha rivolto ai giovani: “Siate generosi, puri, rispettosi, sinceri. La Chiesa vi guarda con fiducia e con amore. Guardatela, e voi ritroverete in essa il volto di Cristo, il vero eroe, umile e saggio, il profeta della verità e dell’amore, il compagno e l’amico dei giovani. Ed è appunto in nome di Cristo che noi vi salutiamo, che noi vi esortiamo, che noi vi benediciamo”>>. E aggiungevo, dando il senso di una frattura, di una fine, forse anche di una perdita irreparabile, con parole che oggi mi sembrano eccessive e anche retoriche: <<Così il concilio muore, così si spegne. Ma no, l’opera sua rimane, lo fa rivivere, lo fa rinascere. Il Concilio non è finito, incomincia ad essere solo ora>>.

Sarebbe arrivata due anni dopo l’Università a Cagliari, le speranze del 68, l’impegno in Azione Cattolica a livello regionale, i Campi scuola nella colonia POA di Bosa Marina, a Sant’Antonio di Macomer, a Sant’Antioco di Scano Montiferro, a La Madonnina, a Bau Mela in Ogliastra; il CSI, l’esperienza politica, poi forse anche qualche dubbio e qualche tradimento e infedeltà. Eppure quelle letture sono rimaste sullo sfondo, quella esperienza è stata in qualche modo una luce e un punto di riferimento, anche a proposito di un tema che continua a dividere ma di fronte al quale non possiamo fare passi indietro, quello del diritto alla vita e del superamento dell’aborto. Il dato rivelato nei mesi scorsi degli oltre 300 milioni di aborti in Cina rimane sulle coscienze di tutti noi.

In realtà il mio primo articolo su Libertà è già del 1968, una cronaca sportiva, che doveva esser seguita da molte altre dedicata al Bosa, alla Calmedia, ai campionati del Comitato del CSI, che ci coinvolgevano profondamente: il calcio, la Coppa Malaspina, il tennis tavolo, la pallavolo, il nuoto, la marcia, l’atletica leggera, il ciclismo. Anche qui ricordo il commento ironico di qualche mio affezionato lettore, che notava come la cronaca fosse tutta a favore del Bosa, che pure perdeva regolarmente le partite in campionato dilettanti. Mi aveva colpito vedere la diffusione del settimanale cattolico in tutte le case di Bosa, come quando ero rimasto inorridito osservando un ciabattino che involgeva le mie scarpe con un numero di Libertà che conteneva i miei preziosissimi articoli. Ogni settimana portavo i dattiloscritti al piano superiore del Seminario della Meridiana nel Corso, dove abitavano mons. Giovanni Mastino e soprattutto don Antonio Motzo, che, dopo esser stato nominato Parroco a Cuglieri, sarebbe stato sostituito come redattore capo dal dott. Antonio Francesco Spada. Dopo la costruzione del nuovo Episcopio gli articoli venivano consegnati al padre o alla madre di Don Pasqualino Ricciu. Il dott. Spada mi accoglieva alla Sacra Famiglia e pubblicava generosamente tutto quello che mi veniva in testa, riservandomi un trattamento ancor più privilegiato, che sentivo di non meritare completamente. Tutti gli altri autori preferivano firmare con sigle, ma non mancavano gli articoli firmati dal vescovo, dai canonici, dai parroci, dai sacerdoti, da altri collaboratori.

Il 29 giugno 1973 dedicammo un numero speciale di Libertà al nono centenario della cattedrale di San Pietro di Bosa e alle celebrazioni alle quali aveva partecipato il card. Pietro Palazzini. Io avevo scritto due articoli, uno sulle iscrizioni romane e medioevali conservate nella chiesa e uno su Storia e leggenda dell’antica Calmedia. Ma bellissimo era soprattutto il messaggio del vescovo per la festa di San Pietro, notevoli e originali gli articoli del can. Antonio F. Spada, di mons. Sebastiano Meaggia, del prof. Giulio Piroddi, di tanti altri che l’anno dopo avrebbero contributo a pubblicare un volume per l’occasione con le Edizioni Gallizzi di Sassari (Il IX centenario della cattedrale di S. Pietro di Bosa, Sassari 1974).

Ho ritrovato tra le mie carte tanti altri articoli pubblicati settimanalmente su Libertà, prima sulla pagina della diocesi di Bosa: così l’articolo su Cuglieri e Tresnuraghes del 31 luglio 1970, quello sull’epigrafia latina di Bosa il 10 e il 17 luglio 1970 e poi a seguire tanti altri.

Nominato amministratore apostolico della diocesi di Alghero, mons. Spanedda proprio nel 1970 inaugurò una pagina unica per Bosa e Alghero: già dal 1971 parlavo di storia antica e di epigrafia di Cornus con una raffica di articoli davvero tecnici e quasi incomprensibili, che sintetizzavano le mie relazioni presentate per l’esame di Epigrafia Latina con Giovanna Sotgiu a Cagliari: così su Libertà del 28 maggio, del 4, del 18 e del 25 giugno, del 9 e del 23  luglio. Siamo quasi dieci anni prima degli scavi di Columbaris e della pubblicazione della mia monografia su Cornus per la Società Poligrafica Sarda di Ettore Gasperini, frutto della mia tesi di specializzazione presso la Scuola di Studi Sardi di Cagliari discussa con Piero Meloni.

Con il nuovo formato (più piccolo) le diocesi di Bosa e Alghero finivano in terza pagina (la seconda era riservata all’arcidiocesi di Sassari) e io tornavo a parlare di Cornus il 20 dicembre 1974, poi nella rubrica di “Cronache e problemi sardi” in sesta e ottava pagina, con una decina di interventi,  il 3, 10, 24 e 31  gennaio 1975, il 7, 14, 21, 28 febbraio, il 7 e il 14 marzo.

Il tono degli articoli è reso bene dall’ultimo pubblicato, l’undicesimo della serie: <<La città di Cornus oggi, ovvero fine di un mito. Dopo secoli di storia e dopo anni d’attento interesse e di reale ricerca da parte di studiosi appassionati e seri, su Cornus romana è calato di nuovo il silenzio. Le rovine disseppellite hanno di volta in volta evocato civiltà e mondi favolosamente lontani e, purtroppo, solo fugacemente definibili: ben presto la storia si è chiusa su sé stessa, è diventata impenetrabile ed illeggibile. Dall’eccessiva idealizzazione del secolo scorso e dei primi del nostro secolo, allorché il centro sardo-punico ed il suo capo Ampsicora venivano esaltati come campioni dell’idea sarda e come espressione di un’identità nazionale già affermata, Cornus è approdata ora ad un tranquillo, ma desolato, oblìo rotto qua e là da qualche antiquario che si assume l’onere di frugare tra polverose scartoffie. In questo quadro si inserisce ad esempio anche l’articolo recentissimo di Tommaso Grande, Cornus ultimo baluardo, comparso in “La città arte” il I gennaio 1975, dove accanto alla faticosa ricostruzione della topografia degli scavi, è contenuta l’ormai abusata visione dei cornensi come protagonisti (buoni) di un’epica lotta contro i Romani invasori. Sardi e Punici allora sarebbero stati disposti di fatto a collaborare e a vivere in pace; solo l’iniquità dell’imperialismo di Roma avrebbe deciso la fine di un’epoca felice e senza problemi. In realtà i problemi rimangono tutti aperti ancora oggi per Cornus, ad incominciare dall’esigenza di riscoprirne scientificamente il ruolo che la città effettivamente ebbe a svolgere nella storia, senza false idealizzazioni e senza inutile retorica. Il problema dei problemi è comunque quello della sopravvivenza della città, che i tecnici non sono stati in grado di garantire, compiendo degli scavi che – per quanto accurati ed attenti – a nulla altro sono serviti se non ad alimentare l’avidità dei tombaroli. Riscoprire Cornus vuol dire allora salvarla dalle aggressioni dei ricercatori clandestini e garantirne la sopravvivenza, bloccando una speculazione che a S’Archittu come a Santa Caterina sta distruggendo una delle coste più pittoresche dell’Isola>>. Non tutto quello che scrissi allora potrei ripeterlo oggi, ma continua a piacermi la denuncia dell’urbanizzazione selvaggia a S’Archittu, Su Puttu, Santa Caterina, tutti temi che avrei ripreso con più vigore l’anno dopo sulla rivista “Il Convegno” degli Amici del Libro di Cagliari, per volontà di Nicola Valle.

Nell’ambito della cronaca locale, i miei articoli a partire dal 1969 riprendevano pari pari quelli che uscivano su “L’Unione Sarda”, sempre un poco urticanti per gli amministratori costretti a subire i miei strali., perché sapevo essere intollerante e davvero antipatico: i novanta minuti necessari ai treni per raggiungere Bosa da Macomer, le sedute del consiglio comunale, la festa della Madonna del mare a Bosa Marina (14 agosto 1969).

Dell’anno successivo sono gli articoli sugli impianti sportivi, sulle dimissioni del sindaco Paolo Mereu (presto tornato in sella), sui contrasti tra democristiani e comunisti. Ho recuperato gli articoli pubblicati su Libertà nel 1971 dalle fotocopie di quelli che in parallelo pubblicavo su L’Unione Sarda: la nascita della consulta giovanile, i progetti per Bosa città, la catena di alberghi nel litorale, le barche, le reti e i pescatori sul Temo, unico  fiume navigabile, le politiche per lo sviluppo del turismo a Bosa, la nascita della Società Calmedia di Paolino Fancello (una società sportiva nel convento dei frati),  il restauro del castello dei Malaspina, il braccio di ferro fra Bosa e Magomadas per l’apertura della strada provinciale per Nigolosu, le accuse di campanilismo per le industrie a Bosa.

Del 1972 sono gli articoli sulla  “Coppa Malaspina” del CSI, la scoperta in  Planargia di un villaggio nuragico effettuata da Giovanni Battista Columbu e dalla Pro Loco, i necessari restauri per la basilica di San Pietro,  le polemiche a Bosa sul piano di fabbricazione, i troppi passaggi a livello sulla linea ferrata  Macomer-Bosa, il risanamento delle vecchie case di Sa Costa per affittarle ai turisti, il ponte sul Temo, gli sconci edilizi all’Isola Rossa.

Potrei proseguire a lungo per il 1973: le case del “rione-ghetto” di Santa Caterina invase dalle acque del Temo, il completamento della strada  Bosa-Alghero (una vera tela di Penelope che allora era ferma davanti alla base di Gladio a Poglina), un gruppo di tecnici alla ricerca delle zone archeologiche nel Bosano, le industrie a Suni, i vincoli urbanistici, l’animata riunione al Comune sulla tutela del paesaggio, i nuovi camping e le spiagge pulite per accogliere i turisti, chiuso dopo i lavori di restauro l’antico castello dei Malaspina, l’incubo della sete, la demolizione dei fortini militari, il quartiere di sa Costa che si svuotava per diventare un villaggio turistico dopo la costruzione degli 80 appartamenti popolari di Caria, la città del Temo che si preparava al boom turistico, le spiagge vergini sulla riviera esplorata soltanto dai fenici, la demolizione del nuraghe presso la parrocchiale di Suni, gli altri scempi archeologici nei comuni della Planargia, la polemica fra Ministero e Comune, i vincoli paesaggistici sul litorale verso Capo Marrargiu, lo sfratto di oltre cento campeggiatori a Tentizzos, i diplomati all’Istituto Agrario destinati a lavorare nel Veneto, l’operazione spiagge pulite a Bosa Marina, la protesta dei macellai, le direttrici del piano urbanistico, Bosa trasformata in “città delle vacanze” nei piani di Pasquale Mistretta, il sindaco accusato dall’opposizione comunista, la polemica sull’asilo, la pesca nel Temo proibita in occasione dell’epidemia di colera, il completamento della strada panoramica, le accuse alla giunta municipale democristiana, la biblioteca comunale chiusa al pubblico, un rione invaso dai topi, il Presidente della Pro Loco che si dimette per denunciare la crisi turistica, i trecento atleti che si contendono l’unico campo sportivo, Bosa Marina che rivendica l’autonomia comunale, i conventi abbandonati e le aule-tugurio che accolgono in Planargia tremila alunni, la chiusura dell’Associazione turistica Pro Loco a Bosa, l’artigianato del filet, dell’arte orafa, del ferro, del legno e l’azione delle cooperative, le nuove prospettive economiche per la Planargia, l’industria, la profilassi anticarie per gli alunni di Bosa, il ricorso contro il vincolo paesistico, gli scarichi fognari che inquinano il fiume Temo, gli studenti pendolari in Planargia costretti a disertare le lezioni, i 4000 emigrati alla ricerca di un lavoro, le sedute dei consigli comunali di Bosa e degli altri comuni della Planargia,  il Consorzio tra dieci paesi per il nuovo inceneritore, l’assenza del pretore e il caos nella giustizia a Bosa, l’ampliamento dell’ospedale gestito dai padri Concezionisti,  la battaglia per la quarta provincia. Le cronache della GIAC, del CSI, della GF, dell’Azione Cattolica, l’attività missionaria, le cresime, le feste, gli impegni del vescovo. Una collaborazione che io avrei proseguito con entusiasmo ancora per anni, chiudendo gli occhi di fronte a un’incompatibilità di fondo, perché tra il 1975 e il 1995 sarei stato per quattro legislature consigliere e assessore comunale, aiutato dall’impegno di tanti amici. Di qualche intemperanza mi sarei più tardi pentito.

Tra i tantissimi collaboratori di Libertà, voglio citare almeno il mio maestro Paolo Mereu, mio padre Ottorino, Angelo Manca, Giovanni Battista Columbu, Tilde Chelo, Gianni Fois, Tito Giuseppe Tola, Tore Obinu, Carmelo Scanu, Bruno Chessa, Antonio Francesco Spada (sul culto di Costantino imperatore, su una conferenza di Antonio Sanna sulla lingua sarda, ecc.). Ma molti articoli terminano solo con una sigla e a distanza di anni gli autori sono difficilmente identificabili.

Sarebbe stato il successore di Mons. Spanedda, mons. Giovanni Pes a porre termine a partire dal 1979 alla collaborazione con l’Arcidiocesi di Sassari per Libertà e a convocare un gruppo di studiosi che dovevano progettare un nuovo giornale per le diocesi di Alghero e Bosa che nel 1986 si sarebbero unite: ricordo tra gli altri Antonello Mura, Antonio Francesco Spada, Vanni Lobrano, io stesso. che avevo contrastato con eccessiva foga l’idea del vescovo di attribuire al nuovo quindicinale il titolo di Albo, nel senso di Al(ghero) e Bo(sa). Passò, con qualche sofferenza e malumore, la mia proposta di un titolo diverso, Dialogo, quasi obbligato dopo le polemiche causate dalla fine della diocesi di Bosa dopo oltre nove secoli. Il quindicinale Dialogo continua ancora oggi a essere una palestra di dibattito, di informazione e di collegamento del vescovo con il suo territorio e la sua chiesa, seguendo il modello definito prima da Antonio Francesco Spada e poi, con rinnovato entusiasmo, da Antonello Mura, che oggi regge come vescovo la diocesi di Ogliastra. Se dovessimo giudicare dalla qualità del giornale diocesano ogliastrino, dovremmo riconoscere che la lezione di Dialogo non è andata perduta.

Foto: Il Leoncino che trasporta fino il Seminario Regionale di Cuglieri la statua del Redentore (replica della scultura di Carmela Adami). La foto è stata scattata dall’autore nell’estate 1964 dal balcone del secondo piano della casa del nonno Attilio Mastino.




Ricordo di Gabriella Mondardini Morelli.

Ricordo di Gabriella Mondardini Morelli
International Inner Wheel – Club Porto Torres, 7 aprile 2015

Il 18 agosto 2014, quando ero ancora Rettore, avevo annunciato con dolore a tutti i colleghi dell’Ateneo la scomparsa di Gabriella Mondardini, che poi avevamo ricordato un mese dopo a Stintino in occasione degli incontri stintinesi 2014 promossi dal Centro studi sulla civiltà del mare e per la valorizzazione del Golfo e del Parco dell’Asinara, per volontà di Salvatore Rubino ed Esmeralda Ughi.

Gabriella aveva raggiunto in pace la figlia Laura scomparsa a 47 anni il 22 febbraio di due anni fa, ricercatrice di “Genetica” nella Facoltà di Scienze Matematiche fisiche e naturali e poi nel Dipartimento di scienze della natura e del territorio, dove si era dedicata al tema della variabilità genetica in popolazioni umane e alla ricerca di varianti genetiche associate a malattie complesse.

Proprio per l’anniversario di Laura avevo incontrato per l’ultima volta Gabriella nella sala Filippo Canu di Porto Torres assieme a Gaetano ed ai ragazzi Francesca e Lorenzo, quando Assovela, l’associazione dei suoi amici di mare, aveva promosso assieme ad altri amici, enti e associazioni, una giornata per ricordare Laura e per presentare un libro di Gabriella. Anche Gabriella era presente a quell’incontro, un po’ in disparte, in terza fila, accarezzando i nipotini amati; si era emozionata molto e mi aveva confidato, quasi con curiosità e senso di mistero, ma anche con serenità, che avrebbe voluto sapere per quanti mesi ancora sarebbe riuscita a sopravvivere alla figlia. Mi aveva raccontato che era certa che non sarebbe riuscita a superare il dolore per la scomparsa di Laura, con la quale aveva sviluppato anche un lungo e fecondo rapporto culturale e scientifico. Eppure gli amici mi avevano confidato che negli ultimi mesi aveva iniziato a fare progetti per una collaborazione con tanti insegnanti di scuola media, riprendendo a vivere grazie all’amore per Vittorio e per tutti i suoi cari.

Poi però non ce l’aveva fatta davvero più e il 17 agosto ci lasciava anche lei. Grazie all’Inner Wheel, cara Presidente, per aver voluto l’incontro di oggi, per avermi chiamato a parlare e a ricordare, richiamando con questo incontro le passioni di Gabriella, l’amore per il mare le barche i pescatori, le sue curiosità, il gusto per la scoperta che sempre l’ha accompagnata. Ci manca sempre il suo sorriso e la sua amicizia, ma anche la sua capacità di investigare, di ricercare, di ottenere dei risultati scientifici, di esplorare una terra incognita alla quale si affacciava con umiltà, sempre piena di desideri.

Per stasera, sono riuscito a farmi riportare in Dipartimento a Palazzo Segni grazie alla straordinaria cortesia di Francesca Spanedda, non solo le due corpose cartelle conservate nell’Archivio storico dell’Università ma anche la cartella di studentessa presso il corso di laurea di Pedagogia, che inizia col diploma di maturità di abilitazione magistrale conseguito presso l’Istituto Magistrale San Francesco di Sales a Lugo in provincia di Ravenna nella sessione autunnale, il 26 settembre 1960, con un ritardo di sessione causato da motivi di salute. Dopo il trasferimento di Vittorio in Sardegna aveva iniziato ad insegnare presso le Elementari di Ottava, una scuola alla quale avrebbe poi dedicato uno studio scientifico voluto da Alberto Merler, che vi saluta tutti. Dopo la nascita di Laura il 27 gennaio 1967, si era iscritta presso il corso di laurea di Pedagogia della Facoltà di Magistero e si era laureata il 15 novembre 1973, come risulta dal verbale firmato da Massimo Pittau. Aveva discusso la sua impegnativa tesi con l’indimenticabile sociologo Gavino Musio che io stesso ho avevo avuto modo di conoscere nel settembre 1968 in un corso-seminario davvero entusiasmante, riservato ai migliori diplomati della Sardegna promosso dall’UNLA, che si era svolto presso l’Hotel Turas a Bosa, dunque a casa mia. Correlatore era stato il prof. Giovanni Serafino Taddei.

La laurea arrivava dopo un corso di studi brillantissimo, con 19 esami tutti con trenta e lode tranne un 29 in Pedagogia con Massimo Pittau e un 27 in inglese con Mario Manca.

Il titolo della tesi, che ho potuto sfogliare con emozione, è Antropologia dello sviluppo, adattamento tecnologico nella petrolchimica di Porto Torres di un campione di contadini di Sorso e di pescatori di Porto Torres: dunque gli ex contadini e gli ex pescatori che dovevano fare i conti con il duro lavoro in fabbrica, i nuovi orari di lavoro, le nuove aspettative affettive in famiglia, i consumi, il tempo che doveva misurarsi in un altro modo, i problemi tecnici e umani dell’insediamento industriale di Porto Torres, con un’accuratissima analisi di dati partendo da oltre trecento questionari distribuiti tra i contadini di Sorso, 200, tra i pescatori di Porto Torres, 73, ma con un confronto con una realtà che le era più familiare, Ravenna, dove aveva raccolto 30 questionari. L’attenzione si estendeva alle famiglie, alle donne, all’alimentazione.

Le altre due cartelle conservate nell’Archivio dell’Università consentono di ricostruire il suo curriculum scientifico, che inizia nella Facoltà di Magistero presso la cattedra di Igiene il I novembre 1974, esattamente un anno dopo la laurea, passa dall’anno successivo ad Antropologia culturale, la sua vera materia come assegnista, ma anche ad Antropologia sociale e a teoria della comunicazione, in alcuni laboratori scientifici, nella scuola media tra il 76 e l’82, poi come incaricata dal 1977, ricercatrice confermata per dieci anni dal I agosto 1980, professoressa associata per 11 anni dal 6 agosto 1990. Sono gli anni di Marcello Lelli e di Mario Aldo Toscano.

Infine per volontà di Giulio Angioni, che oggi ci fa l’onore di ricordarla con noi a Porto Torres, professoressa ordinaria in discipline demo antropologiche dal 22 dicembre 2004, fino al pensionamento il I novembre del 2011, spostandosi tra l’Istituto di scienze dell’educazione, l’Istituto di scienze geografiche, antropologiche e sociali e il Dipartimento di economia istituzioni e società a Magistero, dal 90 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, nel corso di laurea di Pedagogia poi di Scienze dell’educazione e presso la Scuola di specializzazione per insegnanti. Ma aveva svolto supplenze dappertutto, anche presso il diploma universitario per infermieri nella Facoltà di Medicina e Chirurgia. Infine la Scuola del dottorato di ricerca, diretta da Tonino Fadda. La collaborazione con gli antropologi di Lettere, di Storia, scienze dell’uomo e della formazione, di Scienze Umanistiche e sociali, di Scienze Politiche. La presenza oggi di Antonietta Mazzette vuole ricordare oggi questi legami, testimoniati dalla presenza di Andrea Vargiu, Maria Antonietta Cocco, Franco Lai. Ma anche Romina Deriu così come Silvia Pigliaru si considerava un poco anche una sua allieva. Ancora la Scuola di specializzazione per insegnanti. Luciamo Cicu mi ha ricordato il periodo trascorso nel Consiglio di amministrazione dell’Università, le risorse che aveva ottenuto per l’ampliamento della Presidenza di Lettere in Via Zanfarino.

Aveva chiesto e ottenuto di mantenere la sua residenza fuori sede a Porto Torres in Via Gramsci, poi sul Lungomare 22 e poi in Via Sassari 59, dove poteva studiare l’attività dei carpentieri, dei maestri d’ascia e dei pescatori, seguire le mostre a questo Museo del porto, come a Stintino per le tonnare, sull’Asinara per il Parco Nazionale, a Castelsardo, a San Teodoro, ad Alghero, e venti anni fa a Bosa alle origini del futuro Museo del mare. Poi la casa di Sassari in Via Manno 11, con questo straordinario balcone interno, che sempre ci stupiva per uno spazio davvero originale, che ho pari pari copiato per la mia casa di Bosa.

Ci sono tanti suoi libri che ci sono cari, l’ultimo di pochi mesi fa intitolato Compagne di viaggio, le donne dei paesi di mare si raccontano, ma sono particolarmente legato al volume del 1995 I figli di Glaukos, temi e materiali di culture marinare, che è quello che mi sembra esprima meglio un legame, una passione, un’ammirazione quasi fisica per la gente di mare, per le barche, per i pescatori, per gli strumenti di pesca, per la nautica, per l’economia fondata sulla cultura e sulla produzione alieutica. Ma si era occupata anche di parchi, di donne, di saperi locali, di sanità al femminile come attorno al parto, nei villaggi e nelle città, ma anche lontano dalla Sardegna, come nel 2002 con il volume sull’antropologia della salute in Mozambico, di fronte al Madagascar.

Tra i tanti messaggi di condoglianze avevamo ricevuto quelli degli amici di Assovela, a firma di Lorenzo Nuvoli, che non avevano dimenticato quello che lei ha fatto per l’Associazione (oggi presieduta dal nostro carissimo Gian Paolo Davini), dove era riuscita a farmi entrare come socio onorario ma solo dopo che avevo faticosamente preso la patente nautica. Voglio però citare almeno il messaggio di un suo amico lontano, Luciano Caimi, dall’Università Cattolica di Sacro Cuore.

I suoi amici all’università erano davvero commossi e Paola Ruggeri e Anna Maria Piredda mi avevano giustamente ricordato che era nata a Sarsina, in provincia di Forlì, la patria di Plauto: ecco oggi vorrei ricordarla a voi tutti per questo suo carattere plautino, per la sua ironia, il suo sorriso, il suo scetticismo verso le piccole cose degli uomini, eppure con la sua fede nell’uomo, questo cosmo meraviglioso in cui fermamente credeva.




Aristotele e la natura del tempo: la pratica del sonno terapeutico davanti agli eroi della Sardegna.

Attilio Mastino
Aristotele e la natura del tempo:
la pratica del sonno terapeutico davanti agli eroi della Sardegna*

Geografia, storia, mito.

In contemporanea con la presentazione all’Accademia dei Lincei dei risultati davvero sorprendenti della campagna 2014 nel vasto spazio santuariale di Mont’e Prama (dal quale provengono altri giganti in pietra), i tre volumi su Le sculture di Mont’e Prama pubblicati in questi giorni da Gangemi hanno notevolmente arricchito l’orizzonte interpetativo, aprendo nuove questioni e nuovi interrogativi sull’<<heroon che cambia la storia della Sardegna e del Mediterraneo>>[1].

Si individuano ora anche, attraverso ulteriori indagini scientifiche, le linee di sviluppo a breve termine, che saranno portate avanti congiuntamente dalla Soprintendenza archeologica per la Sardegna e dalle Università di Cagliari e di Sassari, con il contributo della Regione Autonoma della Sardegna e della Fondazione Banco di Sardegna.

Proprio in occasione dell’incontro di Roma, Mario Torelli ci aveva ricondotto alla geografia e ci aveva fatto notare come l’orizzonte geografico e culturale del ritrovamento dei misteriosi “giganti” sia rappresentato dal Montiferru incombente sul Sinis e dal ruolo che le risorse del territorio debbono aver rappresentato nella fase tardo nuragica, nella prima età del ferro, in un momento che precede immediatamente quella che Alessandro Usai chiama <<la crisi e la degenerazione-dissoluzione (Primo Ferro)>> della civiltà nuragica[2].

Come è noto fin qui si è supposto che il Montiferru prenda il nome da miniere di ferro dell’area vasta Sinis-Montiferru, in particolare dalla possibile presenza sul Rio Siris, sul versante sud occidentale del monte, di miniere di galena argentifera e soprattutto di ferro[3], il cui sfruttamento da parte delle officine metallurgiche tharrensi rimonterebbe almeno ad epoca punica[4], ma che si immaginava avviato già durante il Bronzo Finale, in collegamento alle intraprese mediterranee dei prospectors levantini, Ciprioti e Filistei[5]. Tali miniere sarebbero state sfruttate nel medioevo, quando però si sarebbe verificato un processo di rideterminazione paretimologica di un originario *Mons ferri «Monte del ferro», che lo avrebbe ribattezzato Mons verri «monte del verro (il maschio del maiale)»[6]. I geologi oggi tendono però a negare la presenza di miniere di ferro e segnalano semmai solo piccoli depositi di piombo tra is Arenas – Torre del Pozzo e Santa Caterina nel rio Pishinappiu, cioè proprio sul basso corso del Siris, anche se nella carta IGM quasi tutte le miniere sono indicate come miniere di ferro, causando evidentemente qualche equivoco[7].

Se veramente Mons ferri poté essere l’oronimo di origine romana del Montiferru[8], è plausibile che esso rientrasse pure nella denominazione generale greca di Mainomena Ore in Tolomeo[9] o di Montes Insani[10] del massiccio montano sardo, che partendo proprio con il Montiferru sulla costa centro occidentale, prosegue con il Marghine, il Goceano e giunge alla costa tirrenica a sud di Olbia, dividendo l’isola nel Capo di Sopra e nel Capo d\i Sotto[11]; area particolarmente accidentata, tanto che Floro parla dell’immanitas dei Montes Insani, sui quali si erano rifugiati i Sardi ribelli, sicuramente gli Ilienses, nel corso delle campagne di Tiberio Sempronio Gracco (177-176 a.C.): Sardiniam Gracchus arripuit. Sed nihil illi gentium feritas Insanorumque – nam sic vocatur – immanitas montium profuere[12].

Mario Torelli è arrivato ad ipotizzare che l’area monumentale dei Giganti, con i suoi originali contenuti cultuali votivi e funerari, collocata proprio sulla strada che scendeva dal Montiferru toccando prima Capo Mannu nel Sinis in direzione di Capo San Marco, evitando gli stagni di Cabras, potesse esser collegata ad una frontiera prossima dove i nuragici forse riscuotevano i dazi sui materiali proveniente dall’area Cornuense. Tale ipotesi appare notevolmente rafforzata dopo la pubblicazione dei sorprendenti risultati delle analisi petrografiche, che ora dimostrano che le statue di Mont’e Prama sono state scolpite sulle pietre calcaree prevenienti dal territorio meridionale del Comune di Cuglieri, tra Santa Caterina di Pittinuri e Cornus[13]. Anche il recente articolo di Alessandro Usai ha dimostrato l’esistenza di una specificità culturale del bacino geografico del Sinis con la sua via di attraversamento che vede al centro Mont’e Prama, con caratteri propri, quasi insulari rispetto al continente Sardegna, all’interno di quella <<notevole varietà nelle modalità del popolamento, dell’insediamento e dell’organizzazione territoriale e comunitaria>>: si potrebbero definire alcune categorie quali <<fragilità, instabilità, dinamismo, competizione, capacità di adattamento e reazione, creatività>>[14].

Tenteremo allora di verificare la possibilità di ancorare a quest’area geografica la notizia già nella Fisica di Aristotele (inizio della seconda metà del IV secolo a.C.) relativa alla pratica iatro-mantica del sonno terapeutico che si svolgeva in Sardegna presso gli eroi, para tois erosin, riprendendo un’ipotesi da noi formulata oltre trent’anni fa[15], anche grazie ai risultati della recentissima totale revisione delle fonti effettuata da Ignazio Didu e Giuseppe Minunno[16].

Dobbiamo premettere che diamo per scontato l’atteggiamento dei Greci che guardavano con ammirazione alle costruzioni megalitiche della Sardegna e più in generale alla civiltà nuragica, ma erano convinti che i barbari dell’isola non fossero stati in grado da soli di sviluppare una cultura architettonica tanto evoluta senza l’impulso degli eroi greci. Più in generale, la civiltà nuragica non poteva essere autonoma, senza lo stimolo degli “eroi fondatori” del mito greco, primo tra tutti Dedalo, chiamato dalla Sicilia da Iolao, al quale si tendeva ad attribuire le tholoi nuragiche citate dallo Pseudo Aristotele[17]. Insomma, occorre sottolineare l’uso “politico” dei miti da parte dei Greci e dei Romani, ora per distanziare la Sardegna in una dimensione di alterità barbara (come avveniva con le bithiae di Solino), ora per creare parentele funzionali all’espansione coloniale[18]. È un pre-giudizio che nega il fondamento stesso dell’originalità culturale della “nazione sarda” e che dobbiamo assolutamente tener presente prima di procedere oltre, anche per evitare di confondere osservazioni etnografiche sull’isola (registrate in età storica e accuratamente descritte da Aristotele) con i miti, le leggende e i culti importati dai Greci e forse dai Cartaginesi.

Il sonno terapeutico davanti agli eroi

Se la geografia ha un senso, forse proprio all’area della Sardegna centro occidentale e alla componente tardo-nuragica sembra riferirsi Aristotele nella Fisica quando – secoli dopo – parlava di antiche tradizioni relative al rito dell’incubazione che si svolgeva in passato in Sardegna davanti agli eroi, interrogandosi su cosa sia il tempo, affermando l’inesistenza del tempo se non in rapporto al movimento e alla effettiva percezione da parte del singolo individuo.

Nella traduzione di Luigi Ruggiu: <<Ma il tempo non è neppure senza mutamento. Quando infatti noi non mutiamo nella nostra coscienza, oppure, pur essendo mutati, ci rimane nascosta, a noi non sembra che il tempo sia passato. Allo stesso modo non sembra che il tempo sia trascorso neppure per coloro che, in Sardegna, secondo la leggenda [secondo quanto alcuni raccontano, tois muthologouménois] dormono presso le tombe degli eroi [in realtà: presso gli eroi, parà tois erosin]: essi infatti uniscono l’”ora” precedente con quello successivo, facendo di entrambi un unico istante, rimuovendo cioè, a causa dell’assenza di percezione [dia ten anasthesian], l’intervallo fra i due istanti. Così come, dunque, se l’”ora” non fosse diverso ma sempre identico e uno, non vi sarebbe tempo, del pari, se tale alterità ci rimane nascosta, non sembra che vi sia del tempo nell’intervallo tra i due. Se dunque la convinzione che non esiste tempo noi l’abbiamo quando non distinguiamo alcun mutamento, ma la coscienza sembra rimanere immutata in uno stesso istante indivisibile; mentre invece, quando percepiamo l’”ora” e lo determiniamo, allora diciamo che del tempo è trascorso; è allora evidente che non esiste tempo senza movimento e cambiamento. È chiaro pertanto che il tempo non è movimento, ma neppure è possibile senza il movimento>>[19]. E Ruggiu precisa: <<Il tempo lo si conosce quando si determina il movimento mediante prima e poi (…). E prima e dopo che sono nello spazio, sono quindi anche nel movimento e nel tempo>>[20].

Appare certo che Aristotele conoscesse attraverso racconti ambientati in Sardegna, forse nella fine dell’età nuragica, una pratica incubatoria antichissima: ci sembra di poter sostenere, emendando la traduzione di Luigi Ruggiu, che il collegamento con la religione dei morti e con le tombe degli eroi non è direttamente affermato da Aristotele. Eppure è senz’altro suggerito dai commentatori del filosofo stagirita. La parafrasi del sofista Temistio di Paflagonia nel IV secolo d.C. sembra ricaldare ad verbum il testo della Fisica, tanto da riprendere il concetto di di “mancanza di coscienza”, dià tèn anaisthesìan. <<Questo è quanto raccontano accada a quelli che in Sardegna si dice dormano presso gli eroi, quando si risvegliano: giacché neppure questi hanno percezione del tempo che hanno consumato nel sonno, ma collegano il precedente “adesso” al successivo “adesso”, e ne fanno un tutt’unico eliminando il frammezzo a causa della mancanza di coscienza (dià tèn anaisthesìan)>> [21]. Pare abbastanza probabile che Aristotele e Temistio alludano ad una condizione psichica indotta dall’assunzione di droghe o doi narcotici, visto che come vedremo il sonno terapeutico si sviluppava per più giorni.

Riprendendo evidentemente fonti più antiche rispetto ad Aristotele, altri commentatori aggiungono dei particolari preziosi: per Giovanni Filopono (VI secolo d.C.) è chiaro che si trattava di un sonno terapeutico, per curare una malattia: <<si raccontava che taluni, essendo malati, si accostassero agli eroi in Sardegna e che guarissero e che accostatisi dormissero per cinque giorni di seguito; quindi, svegliatisi, ritenessero che quello fosse il momento in cui si erano posti accanto agli eroi>>[22].

Tertulliano riferendosi ad Aristotele aveva notizia di <<un certo eroe della Sardegna che libera dalle visioni quelli che giacciono a dormire nel suo tempio>>, dunque un eroe unico capace di allontanare <<le apparizioni spaventevoli>>: Aristoteles heroem quendam Sardiniae notat incubatores fani sui visionibus privantem [23].

 

Un evidente inquinamento: il mito riferito da Simplicio

C’è chi ha ritenuto di ridimensionare l’importanza della citazione aristotelica sul sonno terapeutico che si praticava presso gli eroi[24], per il fatto che a partire dall’età dei Severi alcuni commentatori finiscono per inquinare la vicenda inserendo forzatamente elementi relativi al mito di Eracle e dei suoi figli 50 figli, gli Iolei, identificati con gli Iolei o i Sardi Pelliti dei Montes Insani[25]. Più precisamente il filosofo bizantino Simplicio, seguendo Alessandro di Afrodisia (III secolo d.C.), esegeta delle opere di Aristotele, commentava nel VI secolo d.C. il passo della Fisica, spostandolo ad ambito greco: egli collegava la notizia aristotelica al mito dei nove figli di Eracle rimasti in Sardegna, i cui corpi restavano non soggetti a putrefazione ed intatti ed apparivano come dormienti, più precisamente offrivano la mostra (fantasìan) di persone solo addornentate: <<ed erano questi eroi in Sardegna. Presso questi a causa di sogni o di qualche altra necessità era naturale che taluni simbolicamente dormissero sonni profondi>>[26]. È significativo il successivo riferimento ad un episodio avvenuto ad Atene, dove il sonno sarebbe stato provocato dall’eccesso di vino e dall’ubriachezza degli officianti le Apaturie, le feste delle fratrie che segnavano il passaggio dalla giovinezza all’efebia: essi avevano perso il senso della successione delle feste, saltando la data della Cureotide, cioè il giorno della tosatura dei bambini nati nell’ultimo anno e iscritti nel registro dei cittadini[27]: <<Dicono infatti – riferisce Eudemo – che essendoci un pubblico sacrificio alcuni banchettassero in una spelonca sotterranea, ed ebbri dormissero fino al giorno, sia loro che i loro servi e che dormissero ancora il resto della notte e poi un giorno ancor fino a notte; svegliatisi infatti come videro le stelle, un’altra notte ancora sopraggiunta, se ne andarono a dormire. Giunto il giorno successivo, come si destarono in relazione a come era stato percepito il tutto, celebrarono la Cureotide in un giorno successivo alle altre feste>>[28].

L’elemento più significativo della tradizione riportata da Simplicio per la Sardegna è il fatto che gli eroi, immobili nella morte, sembravano essi stessi addormentati (per Giuseppe Minunno, sleepers)[29], se i loro corpi restavano non soggetti a putrefazione ed intatti ed apparivano come dormienti, modello comunque del sonno simbolico per coloro che cercavano una guarigione presso gli eroi.

Per queste ragioni Didu acutamente ritiene che siano confluite nella fonte di Simplicio (VI secolo d.C.) due distinti filoni, uno dei quali, di tipo funerario, quello di Iolao (il giovane amico-compagno di Herakles) e dei nove Tespiadi: mito che non è certo originariamente presente nella Fisica di Aristotele. Il passaggio dalla concretezza storica di Aristotele al mito sarebbe avvenuto già nell’età dei Severi, al tempo del commentatore (perduto) Alessandro di Afrodisia e di Tertulliano (che parla del tempio di un solo dio): sono esattamente anni in cui in Sardegna si ricostruiva il tempio del Sardus Pater, in un’area che appare originariamente sepolcrale, nella prima età del ferro.

Le osservazioni etnografiche sulla Sardegna nella Fisica aristotelica (con le varanti rappresentate da Temistio di Paflagonia e Giovanni Filopono) sembrano provenire da fonti ben più antiche del IV secolo a.C. e sono state citate dal filosofo solo cursivamente e in modo incompleto. L’uso dell’espressione tois muthologouménois è emblematica, nel senso che rimanda a vicende ben conosciute da secoli. Proprio quest’espressione ha fatto erroneamente pensare ad un mito greco noto ad Aristotele, che invece intendeva descrivere una pratica etnografica reale, ambientata presso gli eroi, raccontata da fonti precedenti.

Dunque rimane un aspetto di fondo da chiarire, perché il punto di partenza non può essere solo Aristotele, che ammette di citare autori precedenti, che raccontavano vicende lontane nel tempo: insomma lo sforzo interpretativo dei commentatori del filosofo stagirita può essersi spinto più indietro, attingendo a fonti distinte e più antiche, utilizzate per chiarire a distanza di secoli il complesso ragionamento di Aristotele. A mio avviso dobbiamo ammettere <<una conoscenza molto antica e prolungata nel tempo>> dell’etnografia della Sardegna da parte dei Greci. E questo potrebbe aver determinato l’introduzione di elementi mitici originariamente non presenti nel ragionamento del filosofo.

Come si vede, sia Temistio di Paflagonia sia Giovanni Filopono aggiungono ad Aristotele infornazioni nuove (i cinque giorni di durata del rito che comportava una “assenza della presenza”, la malattia dei fedeli, gli incubi notturni ecc.), originariamente non contenute nella Fisica di Aristotele, evidentemente presenti in una fonte più antica alla quale aveva attinto lo stesso filosofo. Quanto alle droghe, non sembra fondato un collegamento con l’erba che provocava il riso sardonio, che conosciamo per la pratica dell’uccisione dei vecchi accompagnata da quelle che Pettazzoni riteneva <<risa inumane>>[30].

Potrebbe essere in qualche modo connesso a quanto scrive Aristotele anche l’ironico giudizio di Cicerone sul trascorrere del tempo in Sardegna, una terra che fa tornare la memoria e ricordare le cose dimenticate. Noi sappiamno che, collocata nell’estremo Occidente, l’isola appariva notevolmente idealizzata, soprattutto a causa della leggendaria lontananza e collocata fuori dalla dimensione del tempo storico.  In una lettera del 17 gennaio del 56 a.C., ironizzava sull’otium del fratello Quinto nel suo soggiorno ad Olbia, in un’isola che appariva quasi inserita in una sua dimensione crono-spaziale. Quinto aveva scritto qualche settimana prima per avere informazioni sul progetto della nuova casa disegnato dall’architetto Numisio e sulla riscossione dei crediti dovuti da Lentulo e Sestio per saldare Pomponio Attico: la tranquillità di cui si può godere in Sardegna, l’otium, il modo stesso del trascorere del tempo che si misurava in altro modo, era la migliore cura contro le amnesie, faceva ricordare le cose dimenticate: sed habet profecto quiddam Sardinia adpositum ad recordationem praeteritae memoriae[31].

Se veramente Cicerone teneva sullo sfondo la notizia aristotelica, dandola per scontata, a maggior ragione poteva citare argutamente l’episodio di un secolo prima, quando Tiberio Sempronio Gracco si era improvvisamente ricordato solo dopo esser arrivato a Karales di non aver seguito l’esatta procedura nello svolgimento dei comizi elettorali per i nuovi consoli, subito revocati e non rieletti nelle elezioni suppletive, autoaccusandosi di aver effettuato in modo irregolare l’auspicium, l’esame del volo degli uccelli, per due volte dallo stesso auguraculum, dallo stesso punto di osservazione, dopo esser entrato e uscito dal pomerio. Si capisce la soddisfazione degli aruspici etruschi ma anche il commento caustico di Cicerone.[32] Ma ovviamente in età romana la riflessione sulla natura e la durata del tempo è profondamente rinnovata[33].

Se Aristotele, come sostiene Didu seguendo proprio le posizioni di Raffaele Pettazzoni, intendeva dare una descrizione scientifica e realistica di una pratica iatro-mantica effettivamente documentata in Sardegna, egli doveva descrivere un rito animistico più antico, fose risalente alla fine dell’età nuragica, che si celebrava presso le tombe di antenati eroi divinizzati, senza alcun contatto con la vicenda della mitica colonizzazione dei Tespiadi; la confusione potrebbe esser attribuita allora ad alcuni dei commentatori di Aristotele, caduti in un vero e proprio <<equivoco>>, mischiando a osservazioni etnografiche reali il mito greco dei Tespiadi.

Si può concordare con Didu su gran parte del ragionamento ma dobbiamo ammettere che il numero di nove sia in realtà un’inversione del racconto mitico nel quale è stabilito che dei cinquanta Tespiadi, arrivati all’età virile solo quarantuno partissero per la Sardegna, sulle navi costruite da Eracle; infatti, sette restarono a Tespie, due si fermarono a Tebe (tre secondo lo Pseudo Apollodoro)[34]: e proprio Tebe era celebre per ospitare il culto di Iolao defunto; alcuni poi forse dalla Sardegna si ritirarono a Cuma[35]. Sulla questione è utile sia il capitolo di Laura Breglia Pulci Doria, pur con qualche imprecisione, su Il culto di Iolao e l’incubazione[36] e soprattutto il successivo recentissimo intervento di Giuseppe Minunno[37].  Se osserviamo un poco a distanza tutta la vicenda, registriamo l’alternanza tra 9 e 10 per il numero dei figli di Eracle che non avrebbero raggiunto la Sardegna e tra 41 e 40 il numero dei capostipiti del popolo sardo degli Iolei, alcuni dei quali però si sarebbero trasferiti in Campania; da qui l’incertezza sul numero degli eroi rimasti in Sardegna, che è stata ben messa in evidenza da Ignazio Didu.

 

Sardi, Nasamoni, Getuli e Augilae africani

In ogni caso, chi si affidava al sonno per Aristotele non erano i nove figli di Eracle addormentati (sleepers), il cui collegamento al passo aristotelico è sicuramente erroneo, ma semmai erano i frequentatori sardi del santuario, per i quali si può facilmente immaginare contatti con le culture e le tradizioni funerarie nord-africane. Si potrebbe allora pensare all’antica religiosità nuragica di lunga durata confluita, secondo Pettazzoni[38], più tardi anche nel culto salutifero di Merre, interpretato come Eshmun, Esculapio e Asclepio a S. Nicolò Gerrei[39].

A questo riguardo si possono fare riscontri con terrecotte figurate della prima età romana dal tempio di Esculapio a Nora (Punta ‘e su coloru) che rappresentano un devoto dormiente avvolto tra le spire di un serprente[40], un elemento che apparentemente è comune con il Nord Africa punico, nell’ambito di quei rapporti culturali con la riva sud del Mediterraneo che appartengono non al mito ma alla realtà storica (pensiamo al serpente fittile da Cartagine esposto al Museo del Bardo di Tunisi) [41]. Le terrecotte figurate di Nora non possono essere collegate, come fa Salvatore Settis, all’ <<immagine dei figli di Laocoonte>>[42]: Simonetta Angiolillo rivaluta l’interpetazione originaria di Gennaro Pesce[43], che ritiene <<valida e ben suffragata dai confronti finora avanzati a livello figurativo con la stele di Oropos e, a livello letterario, con il racconto della guarigione di Pluto in Aristofane>>[44]. Pur in periodo tardo-repubblicano, si tratterebbe <<di una iconografia originale, che si rifà ad una tradizione e a un culto ben consolidati nel mondo greco e da questo passati in area punica e italica>>; segnatamente a quest’area rinvierebbe <<l’uso, largamente attestato nei santuari italici, di dedicare ex voto in terracotta raffiguranti il devoto, oltre al linguaggio formale e ad alcuni dettagli iconografici quali la resa dei capelli>>[45].

Didu giustamente avvicina l’incubazione praticata in Sardegna a quella testimoniata già nel V secolo a.C. per i Nasamoni africani che secondo Erodoto seppellivano i loro morti seduti[46], esattamente come nelle sepolture a pozzetto semplice dell’area settentrionale di Mont’e Prama, ad Antas e a Su Bardoni[47]: i Nasamoni – scrive Erodoto – praticano la divinazione recandosi presso i sepolcri degli antenati e addormentandosi su di essi dopo aver pregato: ognuno poi utilizza come vaticinio la visione che ha avuto in sogno[48]. A parte le suggestioni che il passo erodoteo propone per chi studia le relazioni e gli scambi di popolazione tra Sardegna e Nord Africa nei primi decenni dell’occupazione cartaginese dell’isola, sembra rilevante il riferimento ai sepolcri degli antenati per la pratica dell’incubazione presso i Nasamoni, un dato che forse potrebbe consentire di valorizzare ulteriormente la notizia aristotelica, se non altro in termini di livelli cronologici, se Aristotele ha potuto utilizzare fonti di almeno V secolo che conoscevano dall’interno la Sardegna cartaginese[49].

Nel recente articolo su Gli inumati nella necropoli di Mont’e Prama, Ornella Fonzo ed Elsa Pacciani precisano che è ora possibile definire il tipo di deposizione e <<di confermare che i defunti venivano seduti sul fondo dei pozzetti con le ginocchia riportate verso il petto e le caviglie spesso incrociate, le braccia più o meno flesse al gomito e le mani riportate davanti al torace. Il cranio doveva inclinarsi verso il petto, per poi disarticolarsi e ricadere nello spazio fra l’addome e le cosce>>[50]. E Marco Minoja precisa che tale deposizione doveva avvenire <<dopo la cessazione del rigor mortis, che corrisponde a qualche giorno dopo il decesso>>[51].

Molte altre comparazioni sono evidentemente possibili: allo stesso modo gli Augilae vicini ai Nasamoni per Pomponio Mela praticavano un rito che collegava la religione dei morti con il sonno apportatore di visioni divinatrici: Augilae manes tantum deos putant; per eos deierant, eos ut oracula consulunt, precatique quae volunt, ubi tumulis incubuere, pro responsis ferunt somnia[52]. Vd. anche Plinio il vecchio: Augilae inferos tantum colunt[53].  Già Pettazzoni indicava il <<carattere spiccatamente ordalico e quindi magico>> del giuramento prestato dagli Augilae sui defunti (se intendiamo per eos (manes) dei erant non dei erant, che pure appare lectio facilior) e richiamava il tema dell’incubazione e della profezia presso i Nasamoni[54].

Secondo Ignazio Didu l’accostamento sarebbe abbastanza problematico, perché se per il Pettazzoni, era spiegabile in una comune sfera di <<pensiero religioso primitivo>>, in realtà <<le finalità appaiono divergenti: da un lato (vedasi Tertulliano) si trattava di liberarsi dalle visioni, dall’altro di una ricerca di “sogni rivelatori”>>, comunque con una finalità profetica e mantica[55].  Che in realtà le due cose si debbano saldare in realtà ce lo ricorda Cicerone nel Cato Maior de senectute interpretando Senofonte, quando osserva che nulla è tanto simile alla morte quanto il sonno; e gli animi di coloro che dormono mostrano  massimamente la loro natura divina: infatti quando sono rilassati e liberi riescono a prevedere molte cose future; dal che si comprende come essi diventeranno, quando saranno sciolti del tutto dai legami dei corpi: iam vero videtis nihil esse morti tam simile quam somnum. Atque dormientium animi maxime declarant divinitatem suam; multa enim, cum remissi et liberi sunt, futura prospiciunt. Ex quo intelligitur quales futuri sint, cum se plane corporis vinculis relaxaverint. Ed è per questo che Ciro il Grande in punto di morte avrebbe chiesto di essere venerato come un dio, sic me colitote, inquit, ut deum[56].

La caratterizzazione dei Sardi Pelliti è avvicinata a quella dei Getuli Africani da Varrone, per il quale si trattava di tribù (nationes) di pastori vestiti di pelli di capra[57]. I Getuli per Sallustio non conoscevano ancora nel II secolo a.C. neppure il nome dei Romani: un genus hominum ferum incultumque et eo tempore ignarum nominis Romani.[58] E Consentio, citando alcune espressioni straniere entrate abitualmente nel lessico latino, avvicina la mastruca, il vestimentum Sardorum portato dai Pelliti, ai magalia, cioè alle Afrorum casae[59].

Sappiamo che Silio conosceva la migrazione delle popolazioni libiche, sintetizzate nel mito di Sardus, figlio di Eracle libico-Maceride (rappresentato con un copricapo di penne analogo a quello dei Nasamoni Africani)[60], nell’ambito di quella che Pettazzoni chiamava la <<connessione etnica sardo-africana>>[61], una vicenda che Ignazio Didu ritiene derivi da fonti pre-sallustiane come testimonia Pausania, che pure non ignora il fatto che gli Iliei della Sardegna <<assomigliano ai Libi nell’aspetto fisico e nell’arnatura e in tutto il regime di vita>>[62].  Più in generale, appare davvero fertile il tema del rapporto dei Sardolibici isolani con la Numidia, la loro terra d’origine almeno a partire da Ellanico di Mitilene e dal V secolo a.C.

 

Le tombe dei giganti

Per la Sardegna si è pensato in passato che la pratica incubatoria di tipo magico e animistico descritta da Aristotele e dai suoi commentatori potesse svolgersi sul bancone dell’esedra delle tombe dei giganti[63]. L’ipotesi è ancora valida, anche se la denominazione dei monumenti funerari dell’età nuragica risulta moderna e compare già con La Marmora nei primi decenni dell’Ottocento[64]. Del resto le tombe dei giganti sono sepolture collettive, anche se la presenza di una sorta di altare nella testata del corridoio ha fatto pensare ad alcuni superficiali interpreti a una sorta di cuscino sul quale il gigante sepolto (o addormentato ?) poggiava il capo. In realtà, se stiamo alla lettera del passo della Fisica, Aristotele non parla di tombe ma di eroi, evidentemente statue ai cui piedi doveva svolgersi il rito terapeutico: ci rendiamo conto che la suggestione di pensare al santuario di Mont’e Prama può apparie una forzatura, ma è fortissima. Meno valore ha la notizia di Tertulliano, che pure parla di un tempio (un fanum) di un eroe e non di una tomba, per cui andrebbe esclusa per il sonno terapeutico l’esedra di una tomba dei giganti di età nuragica, che appunto ha carattere “collettivo”. Non possiamo però trarne la conclusione che effettivamente l’incubazione veniva praticata all’interno di un tempio, in un ambiente chiuso.

Oggi gli scavi di Mont’e Prama aprono un’altra prospettiva, che si rivela davvero promettente. Per rendere esplicito il problema, c’è da valutare l’ipotesi che i Greci che hanno dato alla Sardegna il nome di Ichnussa o Sandaliotis (che presuppone una visione “a volo d’uccello”, magari con gli occhi mitici di Dedalo o di Talos) abbiano potuto osservare la sfilata di arcieri, pugilatori, guerrieri con scudo rotondo tardo-nuragici di Mont’e Prama presso un santuario e ormai oggetto di culto[65]. Statue lavorare nel calcare di Cornus e collocate presso le tombe di un gruppo di inumati prevalentemente giovani o adolescenti[66]: <<la categoria quasi esclusivamente rappresentata è dunque quella dei maschi giovani (…) caratterizzata da robustezza, tono muscolare, abitudine allo sforzo, concentrazione dell’attività in azioni selezionate a carico delle braccia e delle gambe, tutte caratteristiche che rivelano una gioventù vigorosa e verosimilmente atta all’uso delle armi>>[67].

Né va sottovalutato il tema della profezia praticata presso i Nasamoni, che sembrerebbe sottesa in Sardegna dal recente ritrovamento (2014) tra i giganti della statua sul modello del bronzetto rinvenuto a Vulci in Etruria (Mandrione di Cavalupo), che Lilliu interpretava come un sacerdote tardo nuragico ma che oggi viene inteso come un tipo originale di pugilatore.

Proprio a questo proposito, Didu e Minunno pongono indirettamente un’obiezione che vorrei esplicitare: se Simplicio parla di un sonno che misteriosamente avvolgeva anche i nove (o quarantun) Tespiadi, come si può ammettere che le statue di Mont’e Prama possano rappresentare gli eroi <<dormienti o simili a dormienti oltre la morte>>, dal momento che le statue li mostrano in realtà pienamente combattivi, addirittura nell’atto di addestrarsi in un ginnasio, all’esterno magari di un heroon coperto ? L’obiezione ha un suo fondamento reale, ma allora dovremmo ammettere che Aristotele parlava proprio dei Tespiadi, il che è assolutamente impossibile, visto che viceversa il tema è quello del rapporto tra natura e cultura, tra mito e realtà di una pratica etnografica magari fraintesa a distanza di secoli. Conclusivamente ci piace citare le parole di C. Kerényi il quale nel 1950 commentava come si determina <<l’incontro con una più alta forma d’esistenza, l’esistenza al di fuori del tempo, al di sopra della vita e della morte>>[68]. Forse <<i nove eroi sardi incarnavano questa specie di esistenza, in statue o in configurazioni naturali interpretate come eroi morti o anche indipendentemente da ogni raffigurazione>>, anche se Didu sostiene che non può essere aprioristicamente escluso che <<l’ambito di M. Prama abbia conosciuto rituali riconducibili all’incubazione, vista la sacralità dell’insiene, nel più generale contesto di una ideologia funeraria diffusa>>; ma si tratterebbe di una <<ipotesi aggiuntiva e non convincente>>.

Gli Iolei-Iolaeis-Iolenses greci

A spiegare comunque il travisamento dell’infornazione aristotelica può forse aver contribuito la collocazione geografica dello spazio santuariale di Mont’e Prama, posto sulla strada che arrivava nel Sinis da Gourulis nea, Cuglieri, nuova in relazione alla Gourulis palaià, Padria: la loro storia apparentemente si intreccia con la vicenda mitica dei 50 figli di Eracle raccontata in età cesariana da Diodoro Siculo, arrivati in Sardegna interpretando un oracolo di Apollo di Delfi. Essi, secondo Pausania il Periegeta (che scriveva nell’età degli Antonini), avrebbero fondato in Sardegna Olbìa; gli Ateniesi, guidati da Iolao padre assieme ai Tespiadi, contemporaneamente avrebbero fondato Ogrùle o Agraulé-Agrulé, che gli studiosi tradizionalmente avvicinano alla Gourulis palaià del geografo alessandrino Tolomeo (forse a Padria nel Meilogu, dove è documentato un santuario di Eracle) e alla Gourulis nea del Montiferru[69]. A questo mito sarebbero collegate le città sarde, di impossibile localizzazione, di Erakleia e Thespeia di Stefano Bizantino.

Non sappiamo quanto fosse radicata una tale localizzazione. Eppure, breve distanza dalle due Gouroulis si collocano, sui Montes Insani del Montiferru o del Marghine, i Sardi Pelliti ricordati da Tito Livio come alleati di Hampsicora[70], identificati con gli Ilienses, che i Romani invece immaginavano originari di Ilio, compagni di Enea dopo la fuga da Troia in fiamme. Proprio nelle vicinanze di Cornus Tolomeo colloca i Kornénsioi oi Aichilénsioi; la tradizione manoscritta è incerta (anche Aigichlàinoi, Aigichlainénsioi), ma il testo può essere forse interpretato con riferimento ai Cornensi coperti di pelli di capra, se il secondo componente dell’etnico non allude a Gurulis, nel senso di Gurulensioi, ma contiene la radice della parola aix, aigós “capra”: andrebbe dunque inteso con riferimento ad una tribù locale interna rispetto a Cornus, caratterizzata per il fatto che i suoi componenti erano vestiti di pelli di capra. Insomma, Tolomeo quando collocò sulla carta le città e i popoli della Sardegna conosceva profondamente il mito e pensò necessario valorizzare il legame che univa Kornos e i Kornensioi ai vicini Sardi Pelliti, che indossavano la caratteristica mastruca.

Occorre forse rivalutare il peso della presenza di tradizioni greche sulla Sardegna in età arcaica, come testimoniano i nesonimi delle isole circumsarde e la denominazione di Ichnussa o Sandaliotis attribuita dalla marineria massaliota o siracusana a Sardò, la Sardinia dei Romani[71]. Certo non può escludersi che alcuni toponimi (ad es. Herakleus nesos, Kallodes nesos, Molibodes Nesos, Leberides nesoi) siano solo la versione greca di nomi latini, ma questo non è possibile ad esempio per il tolemaico Korakòdes limén, oggi Su Pallosu, il porto frequentato dai cormorani, a Sud di Cornus. L’interesse di Siracusa per le coste sarde, forse documentato dalla presenza dei Siculensioi nella Sardegna sud-orientale, potrebbe addirittura precedere la fondazione di Olbia alla metà del IV secolo a.C. da parte dei Cartaginesi, il che pone il problema della presenza del toponimo greco, del connesso culto di Ercole cacciatore del leone nemeo, del mito dei Tespiadi (in particolare dei gemelli Hippeus e Antileone figli della tespiade Prokris) e del recente ritrovamento di materiale arcaico ad Olbia e nella pianura retrostante[72].

Fu Iolao e non Aristeo, come pure risultava da una tradizione nota a Sallustio e a Pausania[73], a far venire Dedalo dalla Sicilia: l’artista cretese costruì numerose e grandi opere, che da lui si chiamarono dedalee, ancora conservate al tempo di Diodoro: questi erga pollà kai megàla mèchri tòn nun kairòn diamènonta, strutture grandi e numerose, opere restate fino al nostro tempo, edificate da Dedalo in Sardegna. Anche l’anonimo autore del De mirabilibus auscultationibus, uno scritto pseudo-aristotelico forse dell’età di Adriano, ricorda come Iolao e i Tespiadi fecero edificare costruzioni realizzate secondo «l’arcaico modo dei Greci» e tra esse edifici a volta di straordinarie proporzioni. Giovanni Ugas ha da molti anni incentrato la sua attenzione sul rapporto fra la cronologia mitica di Dedalo e la costruzione dei nuraghi. Scrive Ugas nell’Alba dei Nuraghi che le <<tradizioni letterarie antiche concernenti la costruzione dei nuraghi e delle altre coeve opere dell’architettura protosarda ad opera di artisti riconducibili ad ambito egeo minoico e miceneo>> affidano a Dedalo un valore simbolico, ripotandoci al tempo dei protonuraghi, implicitamente riconoscendo <<la perizia degli architetti protosardi nell’edificare <le> tholoi e le connessioni dell’architettura sarda con quella egea>>, con <<una datazione pienamente coerente con le ricerche archeologiche attuali>>[74].

Silio Italico conosce i Tespiadi e Iolao, un mito centrale non solo in Diodoro Siculo ma anche in Pausania e nelle loro fonti, che appaiono più antiche di quanto fin qui non si sia immaginato e riferisce infine il mito di Aristeo, figlio del dio della luce (Apollo) e della ninfa Cirene. Noi sappiamo che la vicenda di Aristeo va collegata all’arcaica età dei Lapiti e dei Centauri: egli sarebbe stato il primo eroe greco a raggiungere la Sardegna, introducendo la coltura degli alberi da frutto, la raccolta del miele e l’allevamento delle api, il vino, l’olio, in una terra che ancora non conosceva le città. La rotta da lui seguita per raggiungere l’isola dalla Grecia sarebbe quella dei Micenei, attraverso le Cicladi, Creta e la Cirenaica infine la Sicilia: Cyrenen mostrasse ferunt nova litora matrem (v. 369), partendo ancora una volta dal Nord Africa. Pausania avrebbe rimesso le cose a posto, denunciando l’incongruenza cronologica, almeno a livello di cronologia mitica, della sua fonte, che è diversa da quella impiegata da Diodoro Siculo e che è sicuramente pre-sallustiana.

 

La tomba di Iolao padre in Sardegna

Ci sono nelle fonti numerosi riscontri che incatenano l’antica vicenda mitica greca degli Iolei ad epoca ellenistica, comunque ben prima della seconda guerra punica, quando Annibale giura l’alleanzza con Filippo V di Macedonia anche in nome del dio Iolao: come è noto Polibio nel VII libro delle Storie racconta che, subito dopo la battaglia di Canne, Annibale rinnovò il giuramento contro i Romani che il padre Amilcare gli aveva fatto fare bambino, a nove anni, nel tempio di Saturno a Cartagine. Gli dei chiamati a testimoniare sono per parte macedone Zeus, Era, Apollo; per parte cartaginese il Genio di Cartagine (il Daímon Karchedoníon, sicuramente la dea Tanit), il mitico progenitore Melkart-Eracle e Iolao, l’eroe che secondo il mito greco aveva colonizzato la Sardegna assieme ai 50 figli che Eracle aveva avuto dalle 50 figlie del re Tespio: da questo dio, assimilato a Sid ed al Sardus Pater, <<deus patrius>> capace di sostituire <<all’idea di tribù l’idea di nazione>>, avrebbe preso il nome il popolo barbaricino degli Iolei-Iolaei da un lato e Ilienses-Ili dall’altro, che invece Pausania, interpretando una tradizione romana già in Sallustio, distingue nettamente. Da Iolao deriverebbe il nome delle <<regioni Iolee>> attribuito ad alcune aree della Sardegna nell’età imperiale romana, mentre <<Iolao è fatto oggetto di venerazione da parte degli abitanti>>, ancora ai tempi di Pausania[75].

Il ricordo di Iolao nel giuramento di Annibale richiama la saga greca dei Tespiadi, che il mito voleva sicuramente sepolto nell’isola, in un heroon che le fonti considerano eretto su una vera e propria tomba-santuario: per Solino (metà III secolo d.C.) <<Iolenses a eo dicti sepulcro eius templum addiderunt, quod imitatus virtutem patrui malis plurimis Sardiniam liberasse>>[76]. Gli ultimi studi hanno confermato che il mondo greco ammetteva che l’heroon di Iolao a Tebe davanti alle Porte Pretidi (la porta d’ingresso alla rocca Cadmea, dalla quale si accedeva alle tombe a camera micenee della città, oggi Megalo Kastelli) era solo un cenotafio davanti al quale secondo Aristotele i soldati del battaglione sacro, eromenoi ed erastai, giuravano mutua fedeltà in battaglia[77]:: secondo una tradizione conosciuta da Pindaro[78], le feste che si celebravano presso la tomba comune di Amphtryon e di Iolaos prendevano il nome di Iolaeia e di Herakleia[79]. Pausania precisa: <<c’è anche il ginnasio che ha il nome da Iolao e inoltre uno stadio e un tumulo di terra come quelli di Olimpia ed Epidauro; qui viene anche mostrato un santuario di Iolao. Che lo stesso Iolao sia morto in Sardegna insieme agli Ateniesi e ai Tespiesi che erano andati con lui lo ammettono anche i Tebani>>[80].

Nell’immaginario greco, quello di Iolao era un heroon leggendario ormai distrutto, che doveva ricordare un <<demiurgo nazionale>> tradotto dai Greci per proteggere il corpo di un benefattore defunto, un dio che aveva conosciuto la morte o un morto deificato: il mistero della morte in un santuario si allontana non poco dalla realtà archeologica di un complesso come quello di Mont’e Prama, dove secoli prima non avevano sfilato dei Sardi Pelliti, coperti con la mastruca, ma arcieri, lottatori, pugilatori addestrati nelle palestre (i gymnasia sardi del mito?), di una nazione ancora non soggetta al predominio cartaginese o romano, forse assistiti da sacerdoti. Come dimenticare Diodoro ? <<Iolao, allora, sistemate le cose relative alla colonia e fatto venire Dedalo dalla Sicilia, eresse molte e grandi costruzioni che permangono fino ai tempi d’oggi e sono chiamate dedalee dal loro edificatore. Costruì anche ginnasi grandi e magnifici, kaì gumnàsia megàla te kaì polutelè, ed istituì tribunali e quant’altro contribuisce al vivere felice>>[81]. E ancora: <<Iolao, il nipote di Eracle messo a capo dell’impresa, presone possesso (della Sardegna) fondò città degne di nota e, divisa in lotti la terra, denominò le genti da se stesso, Iolee, edificò inoltre ginnasi e templi agli dei ed ogni cosa benefica per la vita umana, cose delle quali fino a questi tempi permane memoria>>[82]. Molte sono le fonti che ci informano sul culto di Eracle e di Iolao nelle palestre greche. Un heroon ormai distrutto, quello di Iolao, <<demiurgo nazionale>> tradotto dai Greci, che – se dovesse coincidere con Mont’e Prama – sarebbe collocato al piede meridionale del Montiferru, comunque a poca distanza dal sito dove Livio avrebbe localizzato lo scontro tra Hostus e Toquato, se si precisa che l’urbs Cornus era caput eius regionis, capoluogo della regione nella quale si era svolta la battaglia.

 

Iliei, Ilieis, Iliesi, Ilienses Troiani consanguinei dei Romani

Che le due tradizioni, originariamente distinte, si siano incrociate è sicuro: Pausania (e prima di lui Sallustio) conosce da un lato la vicenda (greca) degli Iolei, i compagni di Iolao giunti in Sardegna, e quella, romana, degli Ilieis-Ilienses, che compaiono in Livio solo a partire dal 181 a.C. e che ora localizziamo nel Marghine-Goceano[83]: <<caduta Ilio, un certo numero di Troiani scampò e tra questi, quelli che si salvarono con Enea; una parte di questi, trasportata dai venti in Sardegna, si congiunse agli Elleni che già vi abitavano. Ma fu impedito ai barbari di venire a battaglia con Greci e Troiani; infatti erano equivalenti in tutto l’apparato militare e il fiume Thorso che scorreva nella regione incuteva ugualmente ad entrambi il timore del guado>>[84]. Si tratta di una vicenda mitica nata sicuramente tra il 234 e il 146 a.C., dunque tra il probabile trattato di Tito Manlio Torquato che fissava il confine tra Roma e Cartagine alle Arae Neptuniae e la distruzione di Cartagine, se Servio commentando Virgilio avrebbe ricordato gli scogli dedicati a Nettuno dove i Punici ed i Romani avrebbero firmato un trattato di pace, dopo l’occupazione romana della Sadegna: ibi Afri et Romani foedus inierunt et fines imperii sui illic esse voluerunt[85]. Insomma, il mito degli Iliei (= Ilienses) della Barbaria sarda come lo leggiamo in Pausania potrebbe esser stato sistemato cronologicamente prima delle grandi rivolte in Sardegna e potrebbe in gran parte ascriversi direttamente al XII libro degli Annales di Ennio oppure al IV libro delle Origines di Catone. Insomma, solo nel  II secolo a.C., i Romani tentarono di  favorire un’assimilazione dei Sardi nella romanità e spiegare la straordinaria civiltà nuragica alla luce di una mitica origine troiana, che imparentava i Sardi con Enea, abbandonando così la tradizionale visione greca imperniata su Eracle e i suoi figli, accompagnati da Iolao. In questa visione, sembra possibile scorgere l’azione di Catone, ostile alla grecità[86]. Il mito delle origini troiane è troppo noto, così come la sua utilizzazione strategica da parte romana nell’ottica dell’espansione nella penisola e nei territori extra italici, in particolare in una grande provincia transmarina come la Sardegna nei primi decenni del II secolo a.C. Il tentativo era quello di utilizzare leggende locali o leggende ellenistiche già esistenti, al fine di creare un apparentamento etnico tra Romani e alcune genti o città tale da giustificare rapporti di alleanza, utili ai fini di azioni militari di conquista o di assoggettamento di popoli e territori. Ma nel racconto del Bellum Sardum di Livio riscontriamo un vero e proprio rifiuto del mito greco degli Iolei, che non sarebbe sorprendente se venisse da Catone.

Dunque i Romani hanno utilizzato e se si vuole strumentalizzato nel corso dell’occupazione della Sardegna leggende più antiche della diaspora troiana.

In occasione del recente Convegno di Cuglieri sulla Sardegna romana, credo che abbiamo dimostrato che la narrazione del Bellum Sardum del 215 a.C. riflette fatti storici reali e che deriva dalle Origines di Catone, che sempra fare di Hampsicora e Hostus due sardi-libici alleati dei Sardi Pelliti e dagli Annales di Ennio, che invece fa di Hampsagoras e di suo figlio due esponenti del popolo degli Ilienses-Teucri della Barbaria, imparentati con i Romani attraverso Enea e i profughi troiani approdati sull’isola dopo esser stati sbattuti dalla tempesta attorno alle Arae Neptuniae, a occidente di Trapani. Fu proprio Ennio a tradurre la hierà anagraphé, la sacra historia del siciliano Evemero di Messene e a portarla a conoscenza dei Romani attorno al 180 a.C. Evemero idealizzava l’isola di Pancaia, sede di una repubblica ideale: uno stato collettivistico, gestito da sacerdoti-artigiani, coltivatori e soldati. Evemero immaginava razionalisticamente che gli dei erano stati in passato degli eroi, ai quali sulla terra e in vita veniva attribuita un’adorazione divina. Se veramente c’è il rischio di una mitizzazione di fatti reali, allora dovrebbe derivarne di conseguenza l’ipotesi che il poeta Ennio in persona abbia mitizzato la guerra alla quale aveva partecipato e abbia travisato volutamente gli avvenimenti da lui vissuti in Sardegna, evemeristicamente chiamando le divinità ad affiancare i combattenti vittoriosi: questa sarebbe un’ottima spiegazione per l’inverosimile intervento di Apollo che compare solo nella versione di Silio Italico che risale proprio ad Ennio e poi a Sallustio.

Possiamo per un momento pensare al tempio del Sardus Pater ad Antas, in quello che è veramente il luogo alto dove è ricapitolata tutta la storia del popolo sardo nell’antichità, nelle sue chiusure e resistenze, ma anche nella sua capacità di adattarsi e confrontarsi con le culture mediterranee. Il collegamento con un culto funerario di bronzo finale-prima età del ferro potrebbe essere testimoniato ad Antas come a Mont’e Prama dalla necropoli con le arcaiche sepolture a pozzetto analoga a quella di Su Bardoni[87]. Significativo appare il collegamento con l’area mineraria vicina.

E’ necessario far riferimento alla statua metallica di Sardus collocata dai Barbari dell’Occidente, i Sardi, nel santuario di Apollo a Delfi. Scrive Pausania il periegeta, richiamando il ruolo della Pitia nella colonizzazione della Sardegna.: <<Dei barbari d’occidente, le genti di Sardegna inviarono (a Delfi) una statua di bronzo del loro eponimo (Sardus Pater)>>[88]. Pausania non colloca nel tempo questo avvenimento, che però sarà più comprensibile se si pensa al ruolo dell’oracolo panellenico di Delfi nel corso della guerra annibalica e all’antica azione del santuario greco nell’espansione verso l’occidente barbarico, nel rapporto tra natura e cultura.

Significativa è poi la citazione da parte di Silio Italico dei Teucri-Ilienses dopo la distruzione di Troia, alleati di Annibale nello scontro di Cornus: dice Silio che affluirono in Sardegna <<anche i Troiani dispersi sul mare dopo la caduta di Pergamo e costretti a stabilire lì le loro dimore>>)[89]. Ma i Troiani non sono Greci, come si è osservato. Se veramente la leggenda delle origini troiane degli Ilienses va collocata cronologicamente in epoca successiva alla conquista romana della Sardegna ma prima della distruzione di Cartagine, tra il 234 ed il 146 a.C., siamo evidentemente di fronte ad una tradizione più recente rispetto a quella ellenistica, che ugualmente aveva tentato di appropriarsi delle monumentali testimonianze della civiltà nuragica ed aveva collegato di conseguenza il popolo della Barbaria Sarda ad Iolao, il nipote e compagno di Eracle, attribuendo a Dedalo la costruzione dei Daidaleia, le torri nuragiche[90].

 

Le stratificazioni dei miti

Ci sembra che sia allora posibile sintetizzare il sovrapporsi e l’intrecciarsi nel tempo di tre distinti miti.
Innanzi tutto il mito di Eracle, Iolao Padre, i Tespiadi, eponimi del popolo sardo degli Iolei-Iolaei, un mito funzionale agli interessi greci di VI secolo per sostenere la fondazione di colonie sulle coste di Ichnussa-Sandaliotis. Piero Meloni, avviando nel 1942 questo filone di studi, arrivava a sostenere che forse tracce del culto di Iolao sopravvivevano in Sardegna, perché il mito dell’eroe potrebbe ricordare l’arrivo di elementi greci che importarono il culto di Iolao da Tebe e dalla Sicilia, in epoca assai precedente alla prima grande colonizzazione occidentale dell’VIII-VII secolo a.C.

Successivamente il mito del Sardus Pater figlio di Maceride africano, <<il deniurgo benefattore>>, che però sostanziamente riconosce l’apporto di popolazioni libiche in Sardegna: viene collegato col Sid punico ed è in rapporto con l’arrivo di colonizzatori numidi in Sardegna, alle orgini della vicenda di Hampsicora. Il mito che appare rifunzionalizzato nell’età di Ottaviano e innalzato sul piano religioso ad Antas, attorno ad un’area sepolcrale: per Pettazzoni egli avrebbe <<i tratti dell’essere supremo, padre della nazione, guaritore delle malattie, difensore della lealtà, punitore dello spergiuro>>, anche se il tempio nascerebbe da una tomba per <<quel processo storico che dal culto dell’avo attraverso al culto dell’eroe assurge al culto del dio>>[91].

In terzo luogo, infine, il mito dei nostoi troiani, dell’arrivo in Sardegna di Teucri, collocati sulla sponda destra del Tirso al confine con la Barbaria, staccatisi da Enea dopo il naufragio alle Arae Neptuniae e provenienti da Troia: un mito collegato con l’esigenza romana di inizio II secolo a.C. di creare una parentela etnica tra Sardi e Romani: un obiettivo apparentemente legato alle figure di Ennio e Catone, per le vantate origini troiane di Hampsagoras, dunque la sua appartenenza al popolo degli Ilienses della Sardegna (namque, ortum Iliaca iactans ab origine nomen: fiero del nome che faceva derivare da Troia), affermata da Silio attraverso fonti molto più affidabili e concrete di quanto non si sia immaginato. In particolare l’origine troiana è sottolineata dal richiamo ai Teucri effettuata da Silio ai vv. 361-362.

 

Apollo e Dioniso

Per inciso si osservi che l’emergere prepotente di Apollo non è un fatto isolato nel mito: la freccia che uccide Hostus si voleva fosse stata forgiata sul Rodope, un monte che prende il nome dalla sposa di Apollo, madre di Cicone; e Apollo era anche lo sposo di un’altra ninfa, Cirene, madre di Aristeo, l’eroe che dopo la morte del figlio Atteone nato da Autonoe avrebbe colonizzato per primo la Sardegna, seguendo le istruzioni ricevute proprio dalla madre ninfa. E fu la Pizia, l’oracolo di Apollo a Delfi ad indicare ad Eracle la via della Sardegna per i figli avuti dalle 50 Tespiadi: per Diodoro secondo l’oracolo relativo alla colonia, coloro che avessero partecipato alla sua fondazione sarebbero rimasti per sempre liberi. E Diodoro poteva constatare: <<è effettivamente accaduto che l’oracolo, contro ogni aspettativa, abbia salvaguardato, mantenendola intatta fino ad oggi, la libertà degli abitanti dell’isola>>. Nello scontro con l’eroe Hostus Apollo protegge il poeta Ennio, caro alle Muse, considerato degno di competere con Esiodo. Infine Apollo è chiamato in causa nel giuramento di Annibale di fronte agli ambasciatori di Filippo V di Macedonia, accanto ad Iolao, all’indomani di Canne[92]. Ma il quadro mediterraneo è definito dal richiamo al vaggio degli Argonauti (arrivati fino al fondo della grande Sirte), in particolare scontratisi in Tracia col giovane re Cizico. Tracce del culto di Apollo sono documentate successivamente a Karales (tempio sulla strada sacra che raggiungeva il praetorium provinciale, a stare alla Passio S. Ephisii), a Tharros (il nome della città è stato collegato a quello cretese di Apollo Tarraios), a Neapolis (in rapporto al santuario di Marsias), infine a Nora (dove è ricordata l’interpretatio dell’oracolo di Apollo di Claros da parte di Caracalla). Silio Italico sembra forse aver voluto contrapporre Apollo a Dioniso, il dio della luce e del sogno al dio dell’ebbrezza, con sullo sfondo la cultura simposiaca, i vasi destinati al vino, la miscela di vino e di acqua nel cratere, come facevano i Sardolibici isolani, che secondo Ellanico di Mitilene nel V secolo a.C. (da cui Nicolò Damasceno nell’età di Augusto) in viaggio non portavano con se altra suppellettile che una tazza per bere il vino e un corto pugnale, kulix e machaira, ispirati da Dioniso, come Simplicio riferisce per gli officianti le Apaturie, al momento dell’ingresso dei giovani nell’efebia[93]. Come non pensare ad un collegamento di Dioniso con il fiume Tirso (il Thorsos di Pausania), che delimitava il territorio occupato dalle popolazioni della Barbaria ? Più in generale penserei alla contrapposizione natura e cultura, mondo barbarico e mondo civile greco e romano.

 

Ancora Cornus: Hampsicora e i Sardi Pelliti

Mentre Livio sostiene che l’allontanamento da Cornus di Hampsicora era dovuto al suo viaggio tra i Sardi Pelliti alla ricerca di alleanze e di rinforzi, Silio Italico appare meglio informato e supera decisamente Livio il quale all’interno della galassia dei Sardi Pelliti non distingueva ancora i celeberrimi populi storicamente documentati in Sardegna, Ilienses, Balari e Corsi che emergeranno nelle Historiae solo a partire dal 181 a.C., a proposito della rivolta di Marco Pinario Rusca, domata quattro anni dopo dal padre dei Gracchi. Quaranta anni prima da quest’ultima data Silio ricorda che il ribelle Hampsagoras, princeps di un territorio che aveva come capitale la città di Cornus, vantava un’origine troiana, perché originario del popolo degli Ilienses, popolo ora localizzato grazie all’iscrizione sull’architrave del nuraghe Aidu Entos di Mulargia nel Marghine e nel Goceano, dunque sui Montes Insani sulla destra del Tirso[94]: lo stesso popolo che Livio conosce più tardi e ricorda in guerra contro i Romani dall’inizio del II secolo a.C. (con riferimento all’avanzata ad oriente delle città costiere, tra la Campeda ed il Monte Acuto) e che nell’età di Augusto non era ancora del tutto pacificato, almeno a giudizio dello storico patavino: gens nec nunc quidem omni parte pacata[95]. Per inciso il testo della singolare epigrafe incisa all’inizio della successiva età imperiale sull’architrave del nuraghe Aidu Entos per contenere il nomadismo naturale degli Ilienses conserva un esplicito riferimento agli iura gentis, ai tradizionali diritti naturali delle comunità della Barbaria sarda, riconosciuti dai Romani, con riferimento alle popolazioni sarde in contatto con la cultura e l’economia romane[96].

Proprio all’inizio del II secolo a.C. scrissero le loro opere sia Ennio che Catone: riteniamo che solo un personaggio di tale livello abbia potuto da un lato decidere di abbandonare l’antica interpretazione ellenica che collegava il popolo del Marghine-Goceano agli Iolei figli di Eracle, secondo una tradizione che è arrivata fino a Timeo da una fonte molto più antica. E insieme decidere di salvare la sostanza, cioè creare una parentela etnica tra Sardi e Romani, gli uni e gli altri immaginati come provenienti da Troia, e ciò per favorire l’integrazione, sul modello proposto secoli prima proprio dai Greci nel rapporto tra Eracle, i suoi 50 figli Tespiadi e gli Iolei della Sardegna interna. Pomponio Mela afferma espressamente che gli Ilienses sono il popolo più antico dell’isola (in ea [Sardinia] populorum antiquissimi sunt Ilienses)[97] e dunque sicuramente si tratta di una tribù locale, in qualche modo “autoctona” e barbara: credo che essa debba essere dunque decisamente riferita ad ambito indigeno o meglio barbaricino, in un’area montuosa. Sappiamo che Floro collegava gli Ilienses ai Montes Insani, da identificarsi con la catena del Marghine o con il Montiferru, con riferimento alla vittoria di Tiberio Sempronio Gracco nel 176 a.C.: Sardiniam Gracchus arripuit. Sed nihil illi gentium feritas Insanorumque – nam sic vocantur – immanitas montium profuere[98]. Al Montiferru farebbe del resto pensare il geografo alessandrino Tolomeo quando come si è detto nei pressi di Cornus indica i Kornénsioi oi Aichilénsioi, i Cornensi ed i Pelliti coperti di pelli di capra, testimoniando la conoscenza del mito ancora nel II secolo a.C. Dunque la missione di Hampsicora partito da Cornus per arruolare i giovani nel vicino territorio dei Sardi Pelliti, ad iuventutem armandam, potrebbe essere comprensibile, soprattutto se i Pelliti di Livio fossero quelli del Montiferru nord-orientale o del Marghine. L’imprudenza di Hostus, adulescentia ferox, si spiega meglio se il giovane immaginava l’imminente arrivo di rinforzi dai villaggi vicini. Ne deriva ci sembra che Livio abbia seguito una fonte che ancora non conosceva gli Ilienses, forse le Origines di Catone, mentre Silio sembra conoscere meglio la realtà della Sardegna, seguendo forse gli Annales di Ennio. Crediamo si debba ammettere che Ennio e Catone avevano comunque sullo stesso episodio scritto cose notevolmente diverse.

La vicenda sarda è stata sottoposta di recente ad una severa critica da parte di Federico Melis[101]: l’elemento fondamentale, il perno di tutta la dimostrazione demolitrice asarebbe rappresentato dai nomi sospetti dei Sardorum duces, in particolare di Hostus, in realtà proto-sardo, ed Hampsicora-Hampsagoras, che unisce una radice libica Hampsic-/Hampsag- con un suffisso mediterraneo –ora/-ura, paleo-sardo[102]. La squenza Hampsicora (padre) e Hostus (figlio), potrebbe trovare un prezioso parallelo nei due antroponimi Osurbal (padre) e Asadiso (figlio) del cippo funerario del I secolo d.C. di Ula Tirso (Orruinas), che ricorda il bimbo Asadiso Osurbali (filius)[103], con nome sicuramente encorico, ma figlio di un Osurbal punico.

Insomma, il mito dei nove (oppure quarantuno) Tespiadi addorementati in Sardegna è stato creato con l’intento di ridimensionare l’originalità della cultura nuragica, che proprio nella statuaria eroica di Mont’e Prama trova la sua più coerente e matura espressione. Ne deriva una visione rinnovata, ci pare, dell’identità della cultura nazionale sarda, inquinata dal mito greco e romano, ma riconosciuta proprio da Aristotele, con i suoi continui rapporti con le culture mediterranee e in particolare con il Nord Africa.

Non sembri fuori luogo e improprio parlare di “nazione Sarda” in questa sede, dal momento che utilizziamo una espressione – natio – presente nella Pro Scauro di Cicerone, sia pure con una sfumatura polemica e spesso in alternativa a gens oppure a genus[104]. La natio dei Sardi era articolata in una molteplicità di populi, i più celebri dei quali per Plinio erano gli Ilienses, i Balari e i Corsi. Troviamo illuminante soprattutto il passo del De re rustica di Varrone, proprio a proposito dei Sardi Pelliti alleati di Cornus durante la guerra annibalica, avvicinati ai Getuli africani: quaedam nationes harum (caprarum) pellibus sunt vestitae, ut in Gaetulia et in Sardinia[105]. Ancora una volta l’Africa mediterranea.


* L’A. ringrazia Mario Atzori, Giacomo Oggiano, Paola Ruggeri, Luigi Ruggiu, Mario Torelli e Raimondo Zucca per le preziose informazioni.

[1] Le sculture di Mont’e Prama, a cura di Antonietta Boninu, Andreina Costanzi Cobau, Luisanna Usai, Maro Minoja, Alessandro Usai, Gangemi, Roma 2014. Vd. anche A. Bedini, C. Tronchetti, G. Ugas, R. Zucca, Giganti di pietra, Monte Prama, l’Heroon che cambia la storia della Sardegna e del Mediterraneo, Cagliari 2012.

[2] A. Usai, Alle origini del fenomeno di Mont’e Prama. La civiltà nuragica nel Sinis, in Le sculture di Mont’e Pramacit., Contesto, scavi e materiali, p. 31.

[3]L.Piloni, Le carte geografiche, cit., tav. CXX (Carta mineraria dell’ Isola di Sardegna con l’ indicazione delle miniere concesse e in esplorazione a tutto il 1870: Miniere di Galena Argent(ifer)a e Blenda. 232 – Precone Bachis Zedda–Seneghe; 233- Riu Olorchi-Seneghe. Miniere di Ferro. 412- Monte Ferru-Seneghe; 413- Coa S’ Ambidda-Seneghe).

[4]G. M. Ingo, G. Bultrini, G. Chiozzini, Microchemical Studies for locating the Iron Ores Sources exploited at Tharros during Phoenician-Punic Period, Tharros XXI-XXII, «Rivista di Studi Fenici», XXIII, supplemento, 1995, pp. 99-107; G.M. Ingo et alii, Primi risultati delle indagini chimico-fisiche sui materiali rinvenuti nel quartiere metallurgico di Tharros (Sardegna), in L’ Africa romana, XI, Ozieri 1996, pp. 853-872.

[5]G. Garbini, I Filistei. Gli antagonisti di Israele, Milano 1997, p. 115.

[6]G. Meloni, in G. Meloni, P. F. Simbula, Demografia e fiscalità nei territori del Regno di Sardegna al principio del XV secolo, XV Congreso de Historia de la Corona de Aragon. Actas. Tomo I, 3. El poder real en la Corona de Aragon (Siglos XIV-XVI), Zaragoza 1996, p. 168, n. 83; vedi anche F. C. Casula, Dizionario storico sardo, Sassari 2001, p. 1863.

[7] S. Fadda, M. Fiori, S. Pretti, The sandstone-hosted Pb occurrence of Rio Pischinappiu-Sardinia, Italy: a Pb-carbonate end-member, “Ore Geology Reviews” 12 , 1998, pp. 355–377; da ultimo: P. Mameli, G. Mongelli, G. Oggianu, D. Rovina, First finding of early medieval iron Slags in Sardinia: a geochemical-minerogical Approach to insights into ore provenance and Work Activity, “Archeometry”, 2013.

[8]Per le fonti relative allo sfruttamento delle miniere di ferro in Sardegna in età antica cfr. Y. Le Bohec, Notes sur les mines de Sardaigne à l’ époque romaine, in Sardinia antiqua. Studi in onore di Piero Meloni in occasione del suo settantesimo compleanno, Cagliari 1992, pp. 255-264.

[9]Ptol. III, 3, 6, cfr. P. Meloni, La geografia della Sardegna in Tolomeo (Geogr. III, 3, 1-8), “Nuovo Bullettino Archeologico Sardo”, III, 1986, pp. 207 ss.

[10]Liv. 30, 39, 2-3; Flor. I, 22, 35; Claud. De bello Gild. I, 482 s.

[11]E. Pais, Sulla vera posizione dei Montes Insani, in Due questioni relative alla Geografia antica della Sardegna, Torino 1878, pp. 3-11; B. R. Motzo, La posizione dei Montes Insani della Sardegna, Atti del II Congresso Nazionale di Studi Romani, I, Roma 1931, pp. 385 ss.; M. Gras, Les Montes Insani de la Sardaigne, in Mélanges offerts à R. Dion, Parigi 1974, pp. 349 sgg.; G. Paulis, Sopravvivenze della lingua punica in Sardegna, in L’ Africa Romana, VII, Sassari 1990, pp. 636 ss.; A. Mastino, I Montes Insani e gli Ilienses della Sardegna interna: Montiferru, Marghine o Gennargentu ?, in A. Mastino, Le testimonianze archeologiche di età romana del territorio di Santulussurgiu nel Montiferru, AA.VV., Santu Lussurgiu. Dalle origini alla “Grande Guerra”, a cura di G. P. Mele, I, Nuoro 2005, pp. 137-139.

[12] FLOR. I, 22,35.

[13] Per tutti, vd. G. Oggiano, P. Mameli, S. Cuccuru, Indagine preliminare di rocce carbonatiche relative ai reperti di Mont’e Prama, in Le sculture di Mont’e Prama, Conservazione e restauro, a cura di A. Boninu e A. Constanzi Cobau, Roma 2014, pp. 103 ss.

[14] A. Usai, Alle origini del fenomeno di Mont’e Prama.cit., p. 58.

[15] A. Mastino, La voce degli antichi, in Nur, La misterosa civiltà dei Sardi, Milano 1980, p. 270; vd. poi Id., I miti classici e l’isola felice, in in Logos peri tes Sardous, Le fonti classiche e la Sardegna, a cura di R. Zucca, Roma 2004, p. 18: <<Le suggestioni per l’archeologo sono infinite e sono state variamente colte dagli studiosi, alcuni dei quali nelle costruzioni dedalee hanno visto gli edifici a volta dei nuraghi o dei pozzi sacri; nelle grotte, nelle spelonche, nelle costruzioni sotterranee ricordate da Diodoro e Pausania, i nuraghi a corridoio; nei ginnasi, i recinti dei santuari nuragici; nei tribunali, le capanne del parlamento o del senato; nelle tombe degli eroi, dove si svolgeva il rito del sonno terapeutico, e nel fanum di Iolao sarebbe possibile infine vedere le tombe di Giganti o anche le aree funerarie-cultuali sul tipo di quella di Monti Prama-Cabras>>.. Cfr. I. Didu, Aristotele, il mito dei Tespiadi e la pratica dell’incubazione in Sadegna, “Rivista storica dell’antichità”, XXVIII, 1998, pp. 59 ss. in particolare a n. 17.

 

[16] I. Didu, I Greci e la Sardegna. Il mito e la storia, Cagliari 2002, pp. 139 ss.; Id., Iolei o Iliei ?, in Poikilma, Studi in onore di Michele Cataudella in occasione del 60° compleanno, Firenze 2002, pp. 397 ss.; Didu, Aristotele cit., pp. 59 ss.; G. Minunno, A Note on Ancient Sardinian Incubation (Aristotle, Physica IV, 11), in O. Loretz, S. Ribichini, W.G.E. Watson, J.A. Zamona (edd.), Ritual, Religion, and Reason. Studies in the Ancient World in Honour of Paolo Xella (Alter Orient und Altes Testament, Band 404), Münster 2013, pp. 553-560. Gli studi sul passo di Aristotele partono dall’Ottocento: vd. E. Rohde, Sardinische Sage von der Neunschläfern, in “Rheinisches Museum für Philologie”, 35, 1880, pp. 157-163; Id., Zu der Sage von den Sardinischen Heroën, ibid., 37, 1882, pp. 465-468.

[17] Pseudo Arist., 100; per Dedalo vd. Diodoro, IV, 30, 1: G.F. Chiai, Sul valore storico della tradizione dei Daidaleia in Sardegna (a proposito dei rapporti tra la Sardegna e i Greci in età arcaica), in Logos peri tes Sardous, cit., pp. 112 ss.; vd. ora gli atti del Convegno Internazionale di Studi “Daedaleia. Le torri nuraghiche oltre l’Età del Bronzo”, Cagliari, Cittadella dei Musei, 19 aprile 2012 (in stampa).

[18] E. Galvagno, I Greci e il “miraggio” sardo, in AA.VV., Da Olbìa ad Olbia, I, a cura di A. Mastino, P. Ruggeri, Sassari 1996, pp. 149-163.

[19] Arist. Phys., IV, 11, 218 b, ll. 23-33 e 219 a, ll. 1-2.

[20] Aristotele, Fisica, Saggio introduttivo, traduzione, note e apparati di Luigi Ruggiu, testo greco a fronte, Mimesis 2007, p. 460; vd. il testo e la traduzione alle pp. 170 ss.

[21] Commentaria in Aristotelem Graeca V,2 Them, in Arist. Phys. Parphrasis 314 (Schenkl).

[22] Commentaria in Aristotelem Graeca XVII, p. 715 (Vitelli).

[23] De anima, 49,2. Vd. J.H. Waszink, Quinti Septimi Florentis Tertulliani De Anima (Suppl. Vigiliae Christianae, 100), Leiden-Boston 2010.

[24] Tutto in Didu, I Greci e la Sardegna cit, pp. 94 ss.; Id., Aristotele, p. 59 ss.

[25] Didu, Iolei o Iliei ?, cit., pp. 397 ss.

[26] Commentaria in Aristotelem Graeca IX, pp. 707 s. (Diels).

[27] Platone, Timeo 21; Alcifrone, Alciphronis epistolae, 3, 46.

[28] Eudemo, in Simplicio, Commentaria in Aristotelem Graeca IX, pp. 707 s. (Diels). La traduzione è di Didu, I Greci e la Sardegna cit, p. 180.

[29] Minunno, A Note on Ancient Sardinian Incubation cit., pp. 554 ss.

[30] R. Pettazzoni La religione primitiva di Sardegna, Piacenza 1912, p. 147; G. Paulis, Le “ghiande maine” e l’erba del riso sardonio negli autori greco-romani e nella tradizione dialettale sarda, in “Quaderni di semantica”, I, 1993, pp. 9 ss.; S. Ribichini, Il riso sardonico, Storia di un proverbio antico, Sassari 2003; Didu, I Greci e la Sardegna, pp. 139 ss., con bibliografia precedente

[31] Cic., Q. fr. 2,2, vd. P. Cugusi, Epistolographi Latini minores, Torino 1979, II, 2, frg. 21. Vd. A. Mastino, Olbia in età antica, in Da Olbìa ad Olbia, 2500 anni di una città mediterranea, Atti del Convegno maggio 1994, I, Olbia in età antica, a cura di A. Mastino e P. Ruggeri, Sassari 2004 (seconda edizione), pp. 55 ss.

[32] Val. Max. I, 13; vd. anche Cic., divin. I, 17, 33 e 36; nat. deor. II, 4, 10 sg.; Ps. Aur., Vict., vir. Ill. 44,2; Plut., Marc. V,1 ss.; Liv., Periocha XLVI. Vd. ora R. Fiori, Auspicia ubana e militaria, in Gli auspici e i confini, in “Fundamina”, 20 (1) 2014, pp. 309 ss.

[33] Vd. N. Baran, L’expression du temps et de la durée en latin, in Aiôn, Le temps chez les Romains, Paris 1976, pp. 1 ss.

[34] Ps.-Apollodoro II, 7, 6.

[35] Didu, Aristotele cit., pp. 59-84.

[36] La Sardegna arcaica tra tradizioni euboiche ed attiche, in “Nouvelle contribution à l’étude de la société et de la colonisation eubéennes”, Cahiers du Centre J. Bérard, VI, Napoli 1981, pp. 82-91.  Per le imprecisioni, vd. p. 84, dove attribuisce ad Aristotele la notizia relativa agli <<eroi addormentati in Sardegna>> e ai commentatori il fatto cche <<gli eroi erano ammalati e si svegliarono guariti>>; ma vd. Minunno, A Note on Ancient Sardinian Incubation cit.,  p. 554 n. 13.

[37] Ibid., pp. 553 ss.

[38] Pettazzoni La religione primitiva di Sardegna cit., p. 87.

[39] CIL I,22 2226 e a.1986 add. III = X 7856 = ILS 1874 = ILLRP I, 41= IG XIV 608 = IGR I 511 = CIS I,1 143 = ICO Neop. 9. Vd. G. Tore, Religiosità semitica in Sardegna attraverso la documentazione archeologica: inventario preliminare, in Religiosità telogia e arte. La religiosità sarda attraverso l’arte dalla preistoria ad oggi, a cura di P. Marras, Città Nuova editrice, Roma 1989, p. 48.  Per il collegamento tra riti di incubazione e culto di Asclepio presso i Nasamoni, gli Augiliae ed i Sardi, vd. A. Russi, Un Asclepiade nella Daunia. Podalirio e il suo culto tra le genti daune, «ASP» 19, 1966, p. 281 e n. 18, con specifica attenzione per il culto di Podalirio in Daunia.

[40] C. Tronchetti, Nora, Sassari 1986, pp. 59 ss.; R. Carboni, “Il dio ha ascoltato la sua voce e lo ha risanato”. Riflessioni sui culti salutari nella Sardegna di età tardo-punica e romana, in R. Carboni, Ch. Pilo, E. Cruccas, Res Sacrae. Note su alcuni aspetti cultuali della Sardegna romana, Cagliari 2012, p. 38; S. Angiolillo, Falesce quei in Sardinia sunt, in Ruri mea vixi colendo, Studi in onore di Franco Porrà, a cura di A.M. Corda e P.G. Floris, Sandhi Editore, Cagliari, pp. 24 ss.

[41] A. Mastino, Le relazioni tra Africa e Sardegna in età romana, “Archivio Storico Sardo”, XXXVIII, 1995, pp. 11 ss.

[42] S. Settis, Laocoonte. Fama e stile, Roma 1999, p. 70.

[43] G. Pesce, Due statue scoperte a Nora, in Studi in onore di A. Calderini e R. Paribeni, Milano, pp. 284 -304.

[44] Aristoph., Pl. 732 ss.

[45] S. Angiolillo, A proposito di un monumento con fregio dorico rinvenuto a Cagliari. La Sardegna e i suoi rapporti con il mondo italico in epoca tardo-repubblicana, in Studi in onore di G. Lilliu per il suo settantesimo compleanno, Cagliari 1985, pp. 105 ss:, ; Ead., Falesce quei in Sardinia sunt, in Ruri mea vixi colendo, Studi in onore di Franco Porrà, a cura di A.M. Corda e P.G. Floris, Sandhi Editore, Cagliari 2012, pp. 24 s.

[46] Herod. IV, 172 e 190, vd. Pettazzoni La religione primitiva cit., pp. 8 e 141.

[47] Vd. G. Ugas, G. Lucia, Primi scavi nel sepolcreto nuragico di Antas, in Atti Convegno La Sardegna nel Mediterraneo fra il secondo e il primo millennio a.C., Selargius-Cagliari 1986, Cagliari 1987, pp. 255 ss., Un commento è in P. Bernardini, Necropoli della Prima età del ferro in Sardegna. Una riflessione su alcuni secoli perduti o, meglio, perduti di vista, Tharros Felix 4, Roma 2011, pp. 354 ss. (sulle necropoli nuragiche con tombe a pozzetto).  Vd. ora O. Fonzo, E. Pacciani, Gli inumati nella necropoli di Mont’e Prama, in Le sculture di Mont’e Prama, Contesto, scavi e materiali, cit., pp. 175 ss.

[48] IV 172, vd.  Russi, Un Asclepiade nella Daunia, p. 281 e n. 18.

[49] Al VI secolo pensava A. Brelich, Sardegna mitica, in Atti del convegno di studi religiosi sardi, Cagliari 24-26 maggio 1962, Padova 1963, pp. 23 ss.

[50] Le sculture di Mont’e Prama. Contesto, scavi e materiali, cit., p. 174.

[51] Conclusioni, ibid., p. 364.

[52] Mela Chor. I, 39, vd. Pettazzoni, La religione primitiva in Sardegna, cit., pp. 154 e 169 ss.

[53] V, 8, 45. Pettazzoni, La religione primitiva in Sardegna, cit., pp. 7 ss., p. 154, pp. 169 ss.; Didu, I Greci e la Sardegna cit., pp. 94 ss.; Id., Iolei o Iliei ? cit., pp. 397 ss. Il mito è ridiscusso nel volume Lógos perì tês Sardoûs. La Sardegna nelle fonti classiche, Atti convegno Lanusei, a cura di R. Zucca, Roma 2004.

[54] Pettazzoni, La religione primitiva in Sardegna, cit., pp. 139 ss.

[55] Didu, Aristotele cit., p. 63.

[56] Cic., Cato maior 22, 81, cfr. Senof. Cyr. 8,7, 6. .

[57] De re r. II, 11, 11.

[58] LXXX,1.

[59] Cons. Ars grammatica V, 386.

[60] Dione Crisostomo, Orat. 72 Dindorf, II, p. 247, vd. Pettazzoni, La religione primitiva in Sardegna, cit., p. 164. .

[61] Pettazzoni., La religione primitiva in Sardegna, cit., p. 168.

[62] Paus. X, 17,7. Didu, I Greci e la Sardegna cit., pp. 66 ss., vd. ora Mastino, Cornus e il Bellum Sardum di Hampsicora e Hostus, in c.d.s.

[63] A. Mastino, T. Pinna, Negromanzia, divinazione, malefici nel passaggio tra paganesimo e cristianesimo in Sardegna: gli strani amici del preside Flavio Massimino, in Epigrafia romana in Sardegna. Atti del I Convegno di studio, Sant’Antioco, 14-15 luglio 2007 (Incontri insulari, I), a cura di F. Cenerini e P. Ruggeri, Carocci Roma 2008, pp. 41-83. Vd. già A.R. Agus, Le pratiche divinatorie e i riti magici nelle insulae del Mare Sardum nell’antichità, in Insulae Christi, Il cristianesimo primitivo in Sardegna, Corsica e Baleari, a cura di P.G. Spanu, Oristano 2002, pp. 33 ss.

[64] A. De La Marmora, Voyage en Sardaigne, II, Torino 1840, pp. 34 s. Vd. R. J. Rowland, The Periphery in the Center. Sardinia in the ancient and medieval worlds, BAR I.S. Oxford 2001, pp. 42 ss.; S.L. Dyson, R. J. Rowland,  Shepherds, Sailors & conquerors, Archaeology and History in Sardinia from the Stone Age to the Middle Ages, Philadelphia 2007, pp. 82 ss.

[65] vd. ora L. Usai, Le statue nuragiche, in Le sculture di Mont’e Prama. Contesto, scavi e materiali, cit., pp. 219 ss.

[66] Vd. R. Cameriere, S. De Luca, D. Basile, D. Croci, O. Fonzo, E. Pacciani, L’età dei defunti di Mont’e Prama: un aspetto interessante e cruciale, ibid., pp. 201 ss.

[67] M. Minoja, Conclusioni, ibid., p. 364.

[68] C. Kerényi, Il mitologema dell’esistenza atemporale nell’antica Sardegna, in Id., Miti e misteri, Torino 1950, pp. 407-429.

[69] Pausania X, 17,5: Steph. Byz, Ethn. 21, 7 s., vd. Didu, I Greci e la Sardegna cit., p. 100. Vd. A. Mastino, R. Zucca, Urbes et rura. Città e campagna nel territorio oristanese in età romana, in Oristano e il suo territorio, 1, Dalla preistoria all’alto Medioevo, a cura di Pier Giorgio Spanu e R. Zucca, Roma 2011, pp. 578 ss.  Vd. anche M. Gras, Ogrile, in Bibliografia topografica della colonizzazione greca in Italia e nelle isole tirreniche, XII, 1993, pp. 451 s.

[70] Livio XXIII, 40,1.

[71] R. Zucca, Insulae Sardiniae et Corsicae. Le isole minori della Sardegna e della Corsica nell’antichità, Roma 2003.

[72] A. Mastino, Nota su Olbia arcaica: i gemelli dimenticati, in Ministero peri Beni e le attività culturali, Bollettino di archeologia online, volume speciale, XVII, www.beniculturali.it/bao, pp. 1-7; R. D’Oriano, Olbia e la Sardegna settentrionale, MAXH: la battaglia del mare Sardonio. Catalogo della mostra, Oristano 19981999, a c. di P.-P. G. SPANU, R. ZUCCA, Cagliari-Oristano 1999, pp. 205 ss

[73] Hist. II, 1 frg. 6 p. 63 Maurembr.; Paus. X, 17.

[74] G. Ugas, L’Alba dei nuraghi, Cagliari 2005, p. 31.

[75] S. Ribichini, Annibale e i suoi dèi, tradotti in Magna Grecia. Un approccio comparativo, in La Calabria nel Mediterraneo. Flussi di persone, idee e risorse, Atti del Convegno di Studi (Rende, 3-5 giugno 2013), a cura di G. De Sensi Sestito, Soveria Mannelli 2013, p. 33.

[76] I, 61.

[77] Arist. fr. 97, vd. A. Brelich, Gli eroi greci, Adelphi 2010, p. 409 n. 127.

[78] Schol. Pind., Ol., 9, 148 cd.

[79] Schol. Pind., Ol. 7, 153 e, vd. Brelich, Gli eroi greci,  cit., p. 160.

[80] IX,23,1. Diversamente Schol. in Pind. Pyth. IX, 137c per la tomba a Tebe e Schol. in Pind. Nem. IV, 32, per il cenotafio, mnema, in Sardegna.

[81] IV,30.

[82] V, 15.

[83] A. Mastino, Analfabetismo e resistenza: geografia epigrafica della Sardegna, in “L’epigrafia del villaggio”, a cura di A. Calbi, A. Donati, G. Poma (Epigrafia e Antichità, 12), Faenza 1993, pp. 457 ss.

[84] Pausania X, 17, 6.

[85] SERV., ad Aen. I, 108.

[86] Vd. ora A. Mastino, Cornus e il Bellum Sardum di Hampsicora e Hostus storia o mito ? Processo a Tito Livio, in Convegno internazionale di studi “Il processo di romanizzazione della provincia Sardinia et Corsica”, Cuglieri, 26 marzo 2015, a cura di S. De Vincenzo, in c.d.s.

 

[87] Vd. ora O. Fonzo, E. Pacciani, Gli inumati nella necropoli di Mont’e Prama, in Le sculture di Mont’e Prama, Contesto, scavi e materiali, cit., pp. 175 ss.

[88] Paus. X, 17, 1 e 18,1; vd. R. Zucca, Sardos in Lexicon iconographicum mythologiae classicae, VII, 1, Zürich-München, 1990 [1994], p. 693 nr. 3.

[89] Traduzione di Maria Assunta Vinchesi, Silio Italico, Le guerre Puniche, BUR 2001.

[90] Diodoro, IV, 30, 1, vd. gli atti del Convegno Internazionale di Studi “Daedaleia. Le torri nuraghiche oltre l’Età del Bronzo”, Cagliari, Cittadella dei Musei, 19 aprile 2012 (in stampa).

[91] Pettazzoni, La religione primitiva in Sardegna cit., pp. 204 ss.

[92] Pol. VII, 9, 2-3; Liv. XXIII, 234, 1, vd. Pettazzoni, La religione primitiva in Sardegna cit., p. 74.

[93] FgrHist. 90 F 103r; 4 F 67; NIC. DAM. Frg. 137 Müller.

[94] Mastino, Analfabetismo e resistenza cit., e G. Paulis, La forma protosarda della parola nuraghe alla luce dell’ iscrizione latina di Nurac Sessar (Molaria), in L’ epigrafia del villaggio, cit., pp. 537 ss. Vd. anche L. Gasperini, Ricerche epigrafiche in Sardegna (I), 5. Bortigali, La scritta latina del nuraghe Aidu Entos, in Sardinia antiqua cit., pp. 303 ss. M. Bonello Lai, Il territorio dei populi e delle civitates indigene in Sardegna, in La tavola di Esterzili. Il conflitto tra pastori e contadini nella Barbaria sarda, a cura di A. Mastino, Sassari 1993, pp. 161 ss.

[95] LIV. 40, 34, 13; vd. anche 41, 6,6 (a. 178) e 12,5 (a. 177).

[96] E. Melis, Amsicora, Hostus e la Gens Manlia, Proposta di lettura storico-religiosa di alcune pagine di Tito Livio sulla Sardegna, “Theologica & Historica, Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna”, XVIII, pp. 337 ss.

[97] Mela II, 123.

[98] Flor. I, 22,35.

[99] X, 17, 6.

[100] EE VIII 729, vd. A. Mastino, Storia della Sardegna antica, Nuoro 2009, pp. 77 e 81.

[101] Melis, Amsicora, Hostus e la Gens Manlia cit., pp. 337 ss.

[102] . Mastino, Zucca, Urbes et rura cit., pp. 411-601.

[103] R. Zucca, Ula Tirso, Un centro della Barbaria sarda, Dolianova 1999, p. 35; vd. anche p. 59 s. e 63.

[104] Pro Scauro, 17,38: postremo ipsa natio, cuius tanta vanitas est ut libertatem a servitute nulla re alia nisi mentiendi licentia distinguendam putent. Cicerone usa in parallelo e come sinonimo di natio anche il termine gens: 19, 15, 20 e 43; per genus, vd. 19, 25.

[105] De re r. II, 11, 11.




su I Greci e la Sardegna, Il mito e la storia, di Ignazio Didu.

 

su I Greci e la Sardegna, Il mito e la storia, di Ignazio Didu
Cagliari, 13 gennaio 2003
Casa dello studente
Intervento di Attilio Mastino

Dobbiamo salutare con viva soddisfazione l’uscita di questo volume su I Greci e la Sardegna, Il mito e la storia, di Ignazio Didu, per me un amico carissimo da più di trent’anni ma anche uno dei più acuti studiosi della Facoltà di Lettere dell’Università di Cagliari, che con quest’opera, che mi auguro possa essere presto presentata anche a Sassari,  si è dedicato ad un tema che mi è caro e che è stato affrontato negli ultimi tempi da molti studiosi, spesso con punti di vista divergenti, con ottiche molto diverse e con analisi forse troppo puntuali, fondate su specifici aspetti della tradizione.

Ignazio Didu tenta un approccio gobale, esamina le fonti letterarie greche e latine, non trascura la documentazione archeologica, le monete, le iscrizioni, si cimenta anche come fotografo. Gli stimoli e le occasioni per estendere oggi il dibattito sono infiniti e mi limiterò perciò a sottolineare lo sforzo, che risulta veramente felice, di mettere in evidenza le diverse stratificazioni mitiche, il sovrapporsi di leggende di origine differente, la cronologia di un complesso sistema mitografico che ci è conservato solo in parte certo con molte omissioni e che appare ora con una sua logica interna, ad iniziare dalla leggenda di Phorcus, figlio di Nettuno e di una Ninfa, padre delle Gòrgoni dell’estremo occidente, Medusa, Stenno ed Euriale, che era stato re della Sardegna e della Corsica e che veniva venerato come una divinità marina.

Questo volume inizia con i nomi stessi della Sardegna e discute la pretesa greca che il nome più antico dell’isola fosse greco, Ichnussa oppure Sandaliotis, nomi presenti rispettivamente già in Mirsilo di Metimna ed in Timeo, che testimoniano comunque un’approfondita conoscenza cartografica della Sardegna da parte della marineria greca in età precedente al III secolo a.C.

Ignazio Didu ha il merito di porre con chiarezza il problema delle fonti di Timeo, studiando le fase pre-timaica testimoniata in Diodoro e pree-sallustiana testimoniata in Pausania, risalendo indietro nel tempo fino ad Omero ed al riso sardonico, il cui collegamento con la grande isola tirrenica è stato di recente dimostrato da Giulio Paulis. Ne consegue che il nome più antico dell’isola dalle vene d’argento fu in realtà Sardò, Sardinia, che le fonti avvicinano all’eroe libico Sardus Pater, il figlio del dio Maceride, il Melkart fenicio o l’Eracle greco, oppure in alternativa ad una Sardò, moglie di Tirreno, l’eroe eponimo del popolo etrusco. Proprio Tirreni sarebbero per Strabone i più antichi abitatori della Sardegna, mentre più prudente è Pausania, che dice di ignorare l’origine dei primi sardi e parla di una seconda migrazione di popolazioni libiche guidate appunto da Sardus, il dio che i Sardi vollero rappresentare in una statua donata al santuario oracolare di Delfi e che era venerato ad Antas, in un tempio che è veramente il luogo alto dove è ricapitolata tutta la storia del popolo sardo nell’antichità, nelle sue chiusure e resistenze, ma anche nella sua capacità di adattarsi e confrontarsi con le culture mediterranee. E’ merito di questo volume aver avvicinato il mito di Sardus ai Shardana noti in Egitto tra il XIV ed il XII secolo a.C., un popolo di guerrieri noto fin dai tempi di Amenofi IV, impegnati nel mercenariato ancora nell’età di Ramesse III, in un’area vasta, che partiva dalle regioni ad occidente dell’Egitto ed arrivava sino alla Palestina ed alla Siria.  Il difficilissimo tema dei Shardana e dei popoli del mare si innesta con un altro aspetto essenziale trattato in questo volume, quello dei traffici micenei e degli esiti che la documentazione archeologica ormai riconosce nell’isola, indicando un’origine peloponnesiaca, cretese o cipriota per ceramiche che arrivano a collocarsi nel XIII e nel XII secolo a.C., proprio nel momento di massimo sviluppo della civiltà nuragica, che sul piano architettonico sembra aver maturato almeno nella fase iniziale soluzioni sostanzialmente autonome dalle suggesioni orientali. Eppure proprio le torri nuragiche vengono avvicinate nel mito alle tholoi micenee, con riferimento al magistero di Iolao e prima ancora di Aristeo e di Dedalo, per quanto Pausania denunci l’incongruenza cronologica, almeno a livello di cronologia mitica, della sua fonte, che è diversa da quella impiegata da Diodoro Siculo.

C’è dietro questo mito tutta la sorpresa dei Greci e se si vuole l’ammirazione per una civiltà evoluta sul piano architettonico come la civiltà nuragica e insieme c’è l’orgoglio greco e la pretesa di ricondurre alla civiltà ellenica le splendide realizzazioni di un popolo barbaro che, agli occhi dei Greci, in realtà si era imbarbarito di recente ma in origine poteva essere ricondotto a tutti gli effetti all’area della grecità.

Aristeo, nell’età dei Lapiti e dei Centauri, fu il primo eroe greco a raggiungere la Sardegna, introducendo la coltura degli alberi da frutto, la raccolta del miele e l’allevamento delle api, il vino, l’olio, in una Sardegna che ancora non conosceva le città. La rotta da lui seguita per raggiungere dalla Grecia la Sardegna sarebbe quella dei Micenei, attraverso le Cicladi, Creta e la Cirenaica infine la Sicilia. Ad ambito miceneo rimanda anche la figura di Talos, l’automa bronzeo costruito da Efesto, che Simonide collega alla Creta di Minosse e Zenobio alla Sardegna. Pausania ricorda poi Norace, il figlio di Ermes e di Erizia, la figlia del mostro iberico ucciso da Eracle, che diede il nome all’isolotto che chiude il golfo di Cadice. Egli sarebbe giunto in Sardegna da Tartesso ed avrebbe fondato la prima città, Nora. Ignorato da Diodoro Siculo, il mito di Norace è stato interpretato in chiave fenicia da Bondì, anche se una traccia ci potrebbe portare indietro nel tempo fino al VII secolo a.C. ed alla Gerioneide di Stesicoro. Né manca del resto un’interpretazione differente, iberica, che intende sottolineare i rapporti culturali tra la Sardegna e il mondo iberico e balearico.

La figura centrale del mito non solo in Diodoro ma anche in Pausania e nelle loro fonti, che appaiono più antiche di quanto fin qui non si sia immaginato, è senza dubbio Iolao, il nipote e compagno di Eracle, che arricchisce la saga ed il mito del conquistatore dell’occidente, ripercorrendo una vicenda che inizia negli anni giovanili di Eracle alle falde del Monte Citerone quando il re Tespio con un inganno fece unire le sue 50 figlie con l’eroe-cacciatore, che generò così i 50 Tespiadi che alla morte del padre avrebbero colonizzato la Sardegna, garantendo ai loro discendenti una libertà che l’oracolo di Apollo aveva promesso per sempre. Per Diodoro fu Iolao a fondare Olbia ed Ogrile (ma pensiamo anche alle leggendarie Eracleia e Thespeia) ed a far arrivare dalla Sicilia Dedalo, il costruttore di daidàleia, di gumnàsia e di dikastéria e fu Iolao a dare il suo nome alla pianura della Sardegna ed al popolo degli Iolei, variamente confusi con i Diaghesbei di Strabone e con gli Iliensi del mito di Pausania ma anche con il popolo storico ricordato da Livio e testimoniato dall’epigrafe di Nurac Sessar di Mulargia, il cui nome comunque potrebbe essere alla base della nascita anche del mito di Iolao.

Piero Meloni, avviando nel 1942 questo filone di studi, arrivava a sostenere che forse tracce del culto di Iolao sopravvivevano in Sardegna, perché il mito dell’eroe potrebbe ricordare l’arrivo di elementi greci che importarono il culto di Iolao da Tebe e dalla Sicilia, in epoca assai precedente alla prima grande colonizzazione occidentale dell’VIII-VII secolo a.C.

Pausania e la sua fonte Sallustio, che parlava della Sardegna nelle storie probabilmente in una digressione legata alla spedizione antisillana di Marco Emilio Lepido e di Perperna fino a Tharros, conoscono la tradizione mitografica su Iolao, ma la affiancano a quella degli Ilienses, i compagni di Enea dispersi da Eolo al largo delle isole Eolie ed approdati secondo Servio inizialmente alle Arae Neptuniae, lo scoglio tra Carales e Cartagine che segnò il confine per oltre un secolo tra l’impero cartaginese e l’impero romano: un luogo mitico ma non troppo, oggi lo scoglio tunisino di Keith nella secca di Scherki, dal quale Enea sarebbe partito per raggiungere la Cartagine di Didone e da dove gli Eneadi invece avrebbero proseguito per sbarcare in Sardegna, diventando i capostipiti del popolo barbaricino degli Ilienses.  Ritengo che uno dei meriti principali di questo volume e più ancora dell’articolo che Ignazio Didu ha recentemente pubblicato sugli studi in onore di Michele Cataudella sia quello di aver nettamente distinto il mito degli Iolei dal mito degli Iliensi e ciò attraverso una scrupolosissima analisi delle fonti ed attraverso l’individuazione di due distinti filoni mitografici che appartengono a tempi e ad ambienti del tutto diversi. Intanto si può dire che il mito che collega il popolo della Barbaria ad Ilio, ad Enea ed alla distruzione di Troia è certamente più recente  del mito di Iolao, che è arrivato a Timeo da una fonte molto più antica.

Gli Ilienses sono tra i populi celeberrimi della Sardegna, ma il loro nome non compare negli Annalisti per i primi 60 anni della presenza romana, se Livio li cita solo a partire dalla rivolta del 181 a.C. domata quattro anni dopo dal padre dei Gracchi. Il nome che Livio usa per indicare gli Ilienses sembra più generico, quello di Sardi Pelliti, con riferimento agli alleati di Ampsicora in rivolta contro i romani. Eppure Silio Italico collega proprio i Sardi Pelliti alleati di Annibale ai Teucri-Ilienses, se Ampsicora può vantare le sue origini troiane: namque ortum Iliaca iactans ab origine nomen.

Rimane veramente il sospetto, che era già di Ettore Pais, che la costruzione di una sorta di parentela etnica tra i Romani ed i Sardi attraverso le comuni origini troiane sia antica e risalga indietro nel tempo, fose anche molto prima di quando le Arae Neptuniae avevano iniziato ad essere veramente un punto di confine nel Mare Africano tra l’impero di Roma e l’impero di Cartagine e ciò non dopo il 3° trattato tra Roma e Cartagine del 306 ma più tardi, probabilmente a partire dal 234 a.C. in occasione di quello che riteniamo il 6° trattato, dopo la conclusione della prima guerra punica e la rivolta dei mercenari, dopo anche il trionfo di Tito Malio Torquato quando fu chiuso il tempio di Giano e la Sardegna entrò definitivamente all’interno della sfera di influenza romana.

Per Servio, il punto del Mediterraneo sul quale erano stati gettati i Troiani divenne un luogo sacro, votato a Nettuno, sul quale i sacerdoti cartaginesi da tempo immemorabile effettuavano sacrifici, ibi Afri et Romani foedus inierunt et fines imperii sui illic esse voluerunt.

Sull’altro versante, non si può ovviamente andare più in basso del 146 a.C. dopo la distruzione di Cartagine, anche se l’ambiente che può aver maturato e sviluppato il mito degli Ilienses sardi, certamente già organizzato in ambito greco ed ellenistico da alcuni secoli, non sembra lontano dal poeta Ennio, nato nel 239 a.C. in Apulia, che nel corso della rivolta di Ampsicora aveva 24 anni. A lui Silio Italico attribuisce l’uccisione di Hostus il figlio di Ampsicora, mentre è certo che Catone nel 204 a.C. lo portò con sé a Roma ormai trentacinquenne alla fine della sua questura. Voglio dire che in sostanza il mito degli Ilienses della Barbaria sarda come lo leggiamo in Pausania potrebbe esser stato sistemato cronologicamente prima delle grandi rivolte del II secolo a.C. e potrebbe in gran parte ascriversi ad Ennio direttamente o più tardi alle Origines di Catone.

Il mito delle origini troiane di Roma è troppo noto: in un recente  saggio su L’identità incompiuta dell’Italia romana Andrea Giardina scrive che <<in un certo momento della loro storia, i Romani si erano convinti di essere discendenti dei Troiani>>. L’assunzione e la valorizzazione di questo mito delle origini secondo lo studioso può fornire una chiave di lettura <<degli orientamenti secolari del dominio romano>>, se è vero che il mito delle origini troiane dei Romani era funzionale allo scopo di creare una parentela etnica alternativa a quella con l’ethnos greco avvertito come diverso. Tale percezione sopravvisse più o meno contraddittoriamente con la crescente grecizzazione della società romana, successiva all’espansione in Magna Grecia e alla conquista dell’Oriente greco, tanto da avere un’attualità ancora ai tempi di Plinio il Vecchio. Del resto non va dimenticato che il sottofondo propagandistico della stessa spedizione di Pirro era stato quello di presentare l’azione del re epirota quale quella del nuovo Achille che riattualizzava lo scontro tra Achei (macedoni, epiroti) e Troiani (nella veste dei loro discendenti Romani). Quella di Giardina, come si può osservare, è una posizione che si discosta dalla consueta assimilazione Troiani-Greci e che propone una lettura diversa del mito delle origini troiane dei Romani, certamente presente proprio attraverso la mediazione magnogreca nel Lazio fin dal VI secolo a.C.

L’aspetto più interessante e più immediatamente percepibile in rapporto alla funzionalità del mito delle origini troiane dei Romani è però quello che riguarda la sua utilizzazione strategica da parte romana nell’ottica dell’espansione nella penisola  e nei territori extra italici, in particlare in una grande provincia transmarina come la Sardegna. Il tentativo era quello di utilizzare leggende locali o leggende ellenistiche già esistenti, al fine di creare un apparentamento etnico tra Romani e alcune genti o città tale da giustificare rapporti di alleanza, utili ai fini di azioni militari di conquista o di assoggettamento di popoli e territori.

I popoli che vantavano origini troiane erano: gli Iliensi della Troade ai quali, secondo quanto testimoniato da Svetonio, l’imperatore Claudio concesse l’esenzione perpetua dai tributi in quanto Romanae gentis auctores; alcune genti libiche; gli Elimi della Sicilia nord occidentale, fondatori delle città di Segesta, Erice ed Entella; i Choni della Siritide nella Lucania; i Veneti; gli Arverni; gli Edui. Infine gli Iliensi della Sardegna, l’unico altro popolo il cui etnico sembrerebbe direttamente derivato dal poleonimo Ilio, almeno se è valida la trascrizione dell’epigrafe di Mulargia.

L’alleanza  diplomatica connessa a fini strategici appare evidente  ad esempio nel caso dei Veneti in concomitanza con le operazioni militari romane in Istria nel 129 a.C.; nel caso degli Edui nel periodo degli interventi  in Gallia degli anni 125 e seguenti, come pure nel caso degli Elimi allorché i Romani strinsero un’alleanza con Segesta in funzione anticartaginese. Acutamente Lorenzo Braccesi nota che: «la pubblicistica contemporanea fu pronta a recepire e diffondere il messaggio propagandistico: Nevio ad esempio canterà d’Enea e del suo arrivo in Sicilia, Accio d’Antenore e del suo approdo in terra venetica».

Non risulta che gli Ilienses della Sardegna si siano mai alleati ai Romani, ma forse il mito era un tentativo inteso ad agevolare rapporti che poi non ebbero sviluppo. Dunque il problema principale in rapporto alle origini troiane di alcune genti e città è  quello di tentare di stabilire l’epoca di formazione di tali tradizioni. La fase delle alleanze stabilite tra Romani ed altri popoli sulla base di una presunta consaguinitas risulta infatti successivo e molto più tardo al costituirsi dei singoli nuclei di tradizioni leggendarie. In sostanza l’uso strumentale del passato mitico da parte dei Romani sembra basarsi su un sostrato ideologico precostituito che appare già ben consolidato in epoche precedenti, in alcuni casi già nel V secolo a.C.

In questo senso è esemplificativo il caso degli Elimi e della loro presunta origine troiana. Secondo Tucidide (6, 2, 3): «Dopo la presa di Troia alcuni Troiani fuggendo agli Achei giunsero in Sicilia su barche, e, abitando al confine dei Sicani, tutti insieme furono chiamati Elimi: e le loro città erano Erice e Egesta. Si aggiunsero ad abitare con loro anche alcuni Focesi provenienti da Troia, in quel tempo gettati da una tempesta prima nella Libia e poi in Sicilia». Il passo evoca per Braccesi le navigazioni esplorative dei Focei in Occidente, nel corso dell’VIII secolo, lungo le rotte connesse dalla leggenda ai nòstoi troiani. Del resto sono noti storicamente gli interessi commerciali Focei in Sicilia. Tucidide avrebbe dunque tramandato una tradizione composita, all’interno della quale sarebbe avvenuta una saldatura tra racconto leggendario, quello dell’arrivo di genti troiane in Sicilia che presero il nome di Elimi e realtà storica, presenza commerciale focea nella Sicilia nord-occidentale. Tale tradizione sarebbe nata in ambito ateniese nel V secolo per motivi di ordine politico nell’ottica dell’esaltazione di Atene quale metropoli del mondo ionico, pronta ad affermare il suo ruolo in Occidente ai danni dell’elemento dorico così efficacemente rappresentato a livello economico e militare dalla dorica Siracusa. Era perfettamente calzante all’affermazione di questo ruolo ateniese la synghéneia tra Atene, rappresentante del mondo ionico e Segesta, città della Sicilia fondata dagli Elimi-Troiani che si erano fusi ab initio ai Focei della Ionia.

Non desta meraviglia la valorizzazione, che ritroviamo ad esempio nella notizia tucididea ma che riguarda altre popolazioni comi i Choni della Siritide, della synghéneia tra ethnos greco e ethnos troiano: nel V secolo e ancora dopo le guerre persiane l’iconografia del troiano nella foggia dell’abito e nel tratto esteriore non differiva da quella dell’elleno, esisteva tuttalpiù una distinzione di carattere culturale registrata dalla riflessione storiografica. Tutto ciò doveva però drasticamente cambiare nel IV secolo quando i Troiani divennero i bàrbaroi per eccellenza.

Dunque i Romani hanno utilizzato e se si vuole strumentalizzato leggende più antiche della diaspora troiana. Proseguendo su questa strada occorre forse rivalutare il peso della presenza di tradizioni greche sulla Sardegna in età arcaica. Racconti marinari di avventurose navigazioni di marinai greci, tempeste, naufragi, incontri con spaventevoli mostri marini nei mari tra la Sardegna e la Corsica risalgono alcuni già ad età arcaica e si svilupparono ancora nel V e nel IV secolo nell’ambito dei rapporti tra Sicilia e Sardegna.

Paola Ruggeri ha studiato di recente il nesonimo Phintonis insula di Plinio e di Tolomeo, oggi Caprera, nello stretto delle Bocche di Bonifacio (l’antico Taphros di Plinio), che mette in rapporto con i versi del poeta viaggiatore Leonida di Taranto che nel IV secolo a.C. ricordava il naufagio di un nocchiero, Fintone, figlio di Baticle nativo di Ermione in Argolide, ucciso dal mare in tempesta sotto la furia dell’impetuoso vento di settentrione scatenato da Arturo, la fulgida ma sinistra stella della costellazione di Bootes. Su una spiaggia di un’isola sarda forse era possibile scorgere il tumulo che copriva le ossa di un marinaio greco naufragato nel IV secolo a.C. o anche prima.

Una presenza greca ancora più antica sulle coste della Sardegna sembra suggerita dalla geografia, dalla denominazione stessa di alcune isole, la stessa Asinara come Herakleus nesos, o la Kallodes nesos che ha un nome apparentemente di origine ionica, oppure la Molibodes Nesos oggi Sant’Antioco, o l’isola dei bagni di Era presso Olbia o infine le Leberides nesoi, che tradizioni marinare massaliote farebbero meglio intendere come Balearides, ma il cui nome sarebbe travisato nella traduzione latina Cuniculariae. Certo non può escludersi che alcuni toponimi siano solo la versione greca di nomi latini, ma questo non è possibile ad esempio per  il Korakodes limen, oggi Su Pallosu, il porto frequentato dai cormorani, oppure per lo stretto di Tafros che in Plinio compare anche con l’equivalente latino Fossae, derivato da un nome che sembra assegnato dalla marineria massaliota.

Inquietante è del resto la collocazione sulla costa meridionale della Corsica di quel Surakousanòs limen che sembra in rapporto con la politica di Ierone di Siracusa nel V secolo a.C. sviluppata poi da Dionigi il vecchio all’inizio del secolo successivo, nell’ambito della ripresa di un’attività antietrusca.

In tale periodo sarebbe nato, sull’altra sponda delle Bocche, il toponimo greco Lòngones, riferito a Santa Teresa di Gallura, che pare ugualmente del V-IV secolo a.C. e di origine siracusana.

L’interesse di Siracusa per le coste sarde, forse documentato dalla presenza dei Siculensioi nella Sardegna sud-orientale, potrebbe addirittura precedere la fondazione di Olbia alla metà del IV secolo a.C. da parte dei Cartaginesi, il che pone il problema della presenza del toponimo greco, del connesso culto di Ercole cacciatore del leone nemeo e del recente ritrovamento di materiale arcaico ad Olbia e nella pianura retrostante, come il frammento di anfora chiota datata da Rubens D’Oriano a partire dalla seconda metà del VII secolo a.C., oppure come le anfore ioniche di VI secolo o massaliote di V o la fibula di Golfo Aranci ancora di V secolo a.C.

La prudenza ereditata dal nostro maestro consiglia ad Ignazio Didu di tenere al momento un poco da parte tale documentazione e di resistere alle suggestioni di chi vorrebbe immaginare un tentativo di colonizzazione focese oltre che ad Alalia in Corsica anche in Sardegna ad Olbia alla metà del VI secolo a.C. alla vigilia della battaglia del mare sardonio.

Loro sanno che io stesso ho sostenuto in passato una posizione diversa.

Ma se il discorso di Didu viene accolto, ne scaturisce di conseguenza, attraverso un rigoroso esame delle fonti, una rilettura che ridimensiona alquanto l’importanza della citazione aristotelica sul sonno terapeutico che si praticava presso le tombe degli eroi, forse le tombe dei giganti, e che Simplicio commentava nel VI secolo d.C. con riferimento proprio al mito dei 9 figli di Eracle rimasti in Sardegna, i cui corpi restavano non soggetti a putrefazione ed intatti ed apparivano come dormienti. Eroi che secondo Tertulliano liberavano dalle visioni coloro che giacevano a dormire nel loro tempio.

Didu ritiene che siano confluite nella fonte di Simplicio, probabilmente già nell’età dei Severi, due distinti filoni, uno dei quali, quello di Iolao e dei 9 Tespiadi, non sarebbe stato originariamente presente nella Fisica di Aristotele.

Quel che è certo è che Aristotele conosceva in Sardegna una pratica incubatoria che Didu giustamente avvicina a quella testimoniata già nel V secolo a.C. per i Nasamoni africani in Erodoto: i Nasamoni – scrive Erodoto – praticano la divinazione recandosi presso i sepolcri degli antenati e addormentandosi su di essi dopo aver pregato: ognuno poi utilizza come vaticinio la visione che ha avuto in sogno.

A parte le suggestioni che questo passo propone per chi studia le relazioni e gli scambi di popolazione tra Sardegna e Nord Africa nei primi decenni dell’occupazione cartaginese dell’isola, mi sembra rilevante  il riferimento ai sepolcri degli antenati per la pratica dell’incubazione presso i Nasamoni, un dato che forse potrebbe consentire di valorizzare ulteriormente la notizia aristotelica, se non altro in termini di livelli cronologici, se Aristotele ha potuto utilizzare fonti di almeno V secolo che conoscevano dall’interno la Sardegna cartaginese.

Come si vede, a me sembra che questo volume rappresenti un nuovo punto di partenza per una ricerca sui rapporti tra Sardegna e mondo greco dall’età micenea fino ad età ellenistica e mi pare che la prudenza e perfino in qualche caso il salutare scetticismo dell’autore alla fine consentano di fondare una fase nuova che parta da alcuni dati di fatto sicuri e dalla consapevolezza della complessità del quadro mitografico che abbiamo di fronte.

Siamo pervenuti forse ad un nuovo punto di equilibrio tra i risultati e le prospettive della ricerca archeologica e un esame rigoroso delle fonti letterarie, senza più la pretesa di ricostruire un sistema coerente e unitario soprattutto in rapporto alle accertate articolazioni cronologiche del mito, che ha raccolto  stimoli differenti sul piano culturale, impulsi egei, greci, ellenistici, orientali, ma anche apporti fenicio-punici o libici o iberici o nuragici o romani, soprattutto fenomeni di sincretismo tra le figure del mito e le divinità, se Sardus Pater ad esempio ha lo stesso titolo di Iolao pater in quanto fondatore ed un tempio in comune  col punico Sid e con l’enigmatico Baby.

Vi ringrazio.




Giornata di studio su Cinzia Vismara.

Giornata di studio su Cinzia Vismara
Attilio Mastino
Cassino 3 febbraio 2015

Mi emoziona parlare oggi assieme ad Alberto, davanti a Cinzia, a tanti amici e soprattutto al mio maestro di Cagliari Fausto Zevi, che mi riporta ad anni davvero lontani.

L’arrivo di Cinzia Vismara a Sassari presso un Istituto concorrente rispetto al mio Dipartimento di Storia è avvenuto nella Facoltà di Magistero il 28 novembre 1983, come professoressa associata di Archeologia delle province romane, poche settimane prima che si celebrasse il primo convegno internazionale su L’Africa Romana, dunque 31 anni fa.

A distanza di tanti anni e a causa della mia età e dell’alzheimer incipiente, ho preferito andare sul sicuro e ho scritto nei giorni scorsi al capo ufficio del personale docente dell’Università di Sassari per avere la cartella con tutta la documentazione che mi era necessaria per la festa di oggi: decreti di assunzione e di conferma di Cinzia, materie insegnate, soprattutto provvedimenti disciplinari adottati dal Rettore nei suoi confronti, che sono stati numerosi.

Ricordo il nostro primo incontro, al piano terra della Caserma Ciancilla, davanti al suo Istituto, presso l’edificio che ospitò negli anni 30 la Milizia volontaria di sicurezza nazionale fascista.

L’avevo trovata eccessivamente espansiva, almeno per il mio carattere, ero sospettoso per la sua euforia, soprattutto risentito per il fatto che si era accasata in un altro Istituto. Avevo tentato senza riuscirci di tenerla un poco a distanza, ma poi non c’era stato nulla da fare.

Mi aveva colpito il suo entusiasmo, quello di essere di nuovo in Sardegna dopo gli scavi di Porto Torres, la sua passione per l’epigrafia, l’attenzione per i suoi cinghiali, gli studenti, anche qualche severità nei nostri confronti.

Pur essendo più piccola di un anno, aveva assunto immediatamente l’atteggiamento della sorella maggiore e dunque mi rimproverava in continuazione, già a partire dal 15 dicembre 1983 e dall’apertura del I convegno de L’Africa Romana, davanti al Direttore del mio Dipartimento Manlio Brigaglia e al Preside Pasquale Brandis. Non le andava il colore delle mie cravatte o dei calzini, l’abito, la sciarpa, la mia pettinatura.

Il convegno era stato effettivamente un po’ confuso,  con soli 30 partecipanti: Hedi Slim aveva svolto una lezione ai miei studenti sull’architettura domestica e poi aveva parlato di anfiteatri a Thysdrus, la moglie Latifa di necropoli, Ammar Mahjoubi di Belalis Maior e di culti pagani a Vaga, io stesso delle stele di Mactaris e di epigrafia latina in Tunisia. Nella tavola rotonda c’erano Giorgio Bejor, Angela Donati, Giancarlo Susini, Carlo Tronchetti, Raimondo Zucca. Marcel Le Glay aveva svolto una conferenza sulla vita religiosa in Nord Africa e poi aveva riscoperto l’ara di Bubastis trovata a Porto Torres da Ercole Contu. Le belle e indulgenti conclusioni erano state di Susini.

Cinzia – che poi avrei definito una giovane e brillante collega ricordando quelle giornate nel XIX volume –  aveva presentato una sintesi 5 pagine 5 sui rapporti tra Africa e Corsica, gli scavi di Castellu, precisando nel testo scritto che l’articolo manteneva un carattere discorsivo legato all’occasione in cui era stato presentato.

Nell’86 ci confermammo associati, io il 21 marzo in Storia romana, lei il 28 novembre per Archelogia delle province romane, anche se poi avrebbe insegnato fino al 1990 anche Archeologia a Materie Letterarie e negli ultimi anni Archeologia e storia dell’arte greca e romana nella nuova Facoltà di Lettere e Filosofia. Si era trasferita al Dipartimento di storia abbandonando Moravetti per me e aveva ottenuto allora un posto di tecnico laureato che fu poi coperto da Alessandro Teatini. Ho sempre sospettato malignamente che le piacesse soprattutto la sede del nostro Dipartimento a Palazzo Segni, il suo studio nella casa dell’ex Presidente della Repubblica che con qualche megalomania avevamo comprato.

I suoi scavi in Sardegna risalgono alla preistoria, al 76 a Porto Torres presso il cantiere della Navalmeccanica e fino al 1978 al Ponte romano e alle fornaci sul Rio Mannu. Dopo la sua presa di servizio come professoressa associata nel 1985 scavò su richiesta del Rettore Milella nell’area della Facoltà di Agraria ad Ottava, 8 miglia da Turris Libisonis, per salvare la documentazione di una necropoli repubblicana prima della realizzazione del campo sportivo del CUS dentro l’Azienda agraria. Scrisse poi un articolo e discusse una tesi con V. Mariane.

Seguirono gli anni della controversa collaborazione con la Soprintendenza archeologica, poi l’avventura di Uchi Maius tra il 1995 e il 2000, assumendone la direzione scientifica visto che la missione era affidata ad un epigrafista che in modo riprovevole dedicava il suo tempo alle scritture antiche. Ne parlerà Maddalena Sparagna.

Fondò con noi, con Giovanni Brizzi e Raimondo Zucca, il Centro di studi interdisciplinari sulle province romane, nato il 14 novembre 1990 a cavallo tra Dipartimento di Storia e l’allora Istituto di Antichità Arte e discipline etno-demologiche della Facoltà di Magistero e poi di Lettere e Filosofia, che diresse dal 1994 al 1998, con l’intento di promuovere studi e ricerche interdisciplinari sulla storia e l’archeologia delle province romane. La denominazione era ricalcata sulla sua disciplina, ma ancora oggi il Centro promuove ricerche interdisciplinari sull’organizzazione provinciale romana, sulla cultura, l’urbanizzazione, l’economia, la vita religiosa dell’area occidentale del Mediterraneo in età romana, con particolare attenzione per le persistenze e le sopravvivenze locali, puniche ed ellenistiche nelle diverse parti dell’impero. Il Centro anche grazie a Cinzia è riuscito a diventare  progressivamente punto di riferimento per la cooperazione scientifica internazionale. La Commissione Scientifica è infatti composta da studiosi isolani e di altre università italiane e straniere; si è inoltre favorito il collegamento tra docenti e ricercatori che, pur in ambiti disciplinari ed istituzionali diversi, si dedicano ai vari aspetti del mondo antico.  Attraverso il Centro, abbiamo tentato di creare dei nuclei di ricerca incentrati sullo studio delle Province Romane e dell’Africa in particolare, nel campo delle discipline storico-archeologiche-filologiche-linguistiche, facendo emergere l’area del Mediterraneo come spazio di contatto, di cooperazione, di integrazione fra popoli differenti.

Se ci volgiamo indietro a guardare la strada percorsa possiamo in sintesi ricordare le attività promosse dai direttori che si sono succeduti, Giovanni Brizzi, poi io stesso, Cinzia Vismara dal 1995 al 1998, Raimondo Zucca dal 1998, infine Paola Ruggeri nell’ultimo anno. Ha attivamente operato un Comitato scientifico che ha sostenuto quella rete di rapporti internazionali che ha reso possibile la celebrazione dei Convegni internazionali de L’Africa Romana.

Decise poi di abbandonarci per Cassino il I novembre 1998, accolta dal Preside Marco Palma, interrompendo le sue lezioni di arabo, spiegandoci che non era un tradimento nei miei confronti, nei confronti di Emilio Galvagno, di Sandra Parlato, di Alberto Moravetti, di Patrizia Patrizi, di Laura Fortini, di Peppinetta Fois, di Guido Melis e di tutta la sua greffa, che in qualche modo era diventata anche la mia, con Paola Ruggeri, Esmeralda Ughi, Cecilia Cazzona, Antonio Ibba. Sarebbe tornata a Sassari molto di frequente anche per la tesi di Alberto Gavini sui culti orientali o per il dottorato, di cui continuò a far parte.

Proprio al Centro si debbono i volumi de L’Africa Romana, che Cinzia ha sempre riletto e corretto, curandone fin nei dettagli l’edizione, firmando i volumi dall’XI al XVIII, dunque dal 1994 al 2010, per 16 anni, inseguendo la mia follia tra Cagliari, Sassari, Oristano, Olbia, Nuoro e poi Rabat, Cartagine, Tozeur, Djerba, Siviglia. Dal XIX volume ha lasciato il testimone ai nostri allievi Maria Bastiana Cocco, Alberto Gavini, Antonio Ibba. Un gesto di generosità che non dimentichiamo. Scrisse molte introduzioni e conclusioni, consigliò molti temi e prese di posizione anche di tipo politico-istituzionale, scrisse presentazioni di libri e recensioni, corresse le bozze perdendoci un poco la vista, collaborando con Antonella Laganà. Era entrata profondamente in Africa con le sue escursioni sempre più avventurose e arrischiate, le sue ricerche, le sue riflessioni non convenzionali sul tema della romanizzazione delle province, gli impianti produttivi, i frantoi, gli anfiteatri, l’epigrafia. Più ancora in Sardegna e in Corsica, con i volumi sulla Sarda Ceres, su Turris Libisonis firmato anche da me, ora lo splendido Sardinien und Korsika in römischer Zeit del 2011 per Zabern.

E poi gli altri temi: gli ebrei, le necropoli, i supplizi, le province, in particolare le Gallie, la Narbonese, Alpes  Maritimae, Aquitania. Sempre con una documentazione incredibilmente completa, addirittura raccolta con pignoleria, che sfociava in mostre nelle quali ci coinvolgeva a Cartagine con l’Institut National du Patrimoine, a Rabat con l’Addetto culturale italiano, a Sassari con il Museo Sanna. A Milano, a Roma, dove ha mantenuto il cordone ombelicale con Sassari attraverso Marco Rendeli.

Temi che ricorrono nelle numerosissime tesi di laurea, tesi di dottorato, nei suoi corsi dedicati alle singole province, alle città, ai monumenti da spettacolo, ai mosaici, alle ville (fino alla sua conferenza a Tokio), agli anfiteatri con munera e venationes (tesi di A. Corraduzza). Per l’Africa ha spaziato da Mactaris (con Pina Derudas e Antonio Pinna) a Gightis (con Mariangela Pisanu), da Thuburbo Maius (Mariangela Sau),  a Numluli (Valentina Porcheddu), da Agbia (Donatella Cherchi) a Uchi Maius (Rita Sanna), da Thignica (con Salvatorica Ledda) a Cirta, da Thamugadi (M. Simula) a Thabraca, da Volubilis (Francesca Murgia e Caterina Pes), a Banasa (Gabriella Tiziana Contu) e a Sala colonia (Pier Paola Nieddu). In Sardegna da Gavoi a Fonni, da Ottava al Goceano. La tesi sull’evergetismo africano di Esmeralda Ughi, quella sul viaggio di  Guérin nella Reggenza di Tunisi di Maria Lucia Manca, sulle sodalitates anfiteatrali in Africa con Gavinetta Galzerino.

Le cose più belle sono però legate alla didattica, le sue lezioni, le sue preziose diapositive, le esplorazioni, le indagini territoriali, la cartografia informatizzata, le escursioni in Italia e all’estero e in particolare la tradizionale settimana romana che richiedeva doti di maratoneta tra il Museo della civiltà romana all’EUR e il Campidoglio. Oppure ad Ostia o a Villa Adriana a Tivoli. La proiezione verso altri centri di ricerca.

Naturalmente sullo sfondo c’è sempre stata la sua simpatia, i pranzi e le cene a Sassari, le sue imitazioni come quelle della maestra Floriani Squarciapino. In Tunisia era diventata un despota, che gestiva la cassa con eccessiva parsimonia, propinandoci a cena (sui banchi scolastici che Khanoussi aveva fatto trasportare per noi) veri e propri intrugli, minestroni e pappe che non mi sognavo di assaggiare, ma che avevano deliziato il ragioniere capo dell’Università. Dunque il ricordo dei primi anni a Thebusouk è legato alla fame, al caldo, visto che preferiva scavare ad agosto dalle 5 del mattino, il mal di schiena perché solo dopo tre anni ero riuscito a farle comprare una sedia per le mie pennichelle dopo il lauto pranzo sullo scavo; pranzo che raggiungevamo a piedi perché le auto dovevano essere parcheggiate alla base della collina, specie quando pioveva. Mi divertiva vederla in difficoltà con gli operai, gli innumerevoli Sliti, soprattutto con l’autista del nostro autobus che non accettava ordini perentori da una donna e le faceva continuamente dispetti, rifiutandosi di trasportare i ragazzi carichi di attrezzatura sotto la pioggia. Allora telefonava e aspettava con ansia il mio arrivo. Del resto sarebbero innumerevoli gli aneddoti da raccontare questi lunghi anni. Al di là degli scherzi, dava il meglio di sé con gli studenti e le studentesse, riprese in continuazione per il loro abbigliamento, rispedite a casa per cambiarsi d’abito e costrette ad arrivare quasi col burqa sullo scavo;  e poi il controllo generale sugli orari degli studenti, sul loro impegno che voleva sempre più intenso, ma anche coccolati e difesi in tante occasioni, soprattutto durante le tante epidemie gastrointestinali che periodicamente li colpivano a Theboursouk.

Qualche anno dopo ci abbandonò di nuovo, quando nel 2000 scelse il Rif del Marocco con Ahmned Sirahj di Mohammedia, lasciando i sui scavi tunisini a Giampiero Pianu e Alessandro Teatini, infine a Marco Milanese. Ma intanto pubblicava Uchi Maius 3, dedicato ai frantoi, sfruttandomi ogni giorno, costringendomi a ricordare il funzionamento del nostro arcaico frantoio di famiglia a Bosa negli anni 50, il cavallo, le macine, le presse, i fiscoli, la pasta delle olive, le sanse, gli operai, un mondo  lontano anni luce che in qualche modo ha saputo far riemergere anche dalla mia memoria.

Vederla oggi dirigere Antiquités Africaines ci riempie di orgoglio: soprattutto volevamo dire, io e Alberto che ha preparato con me un irriverente power point, che le vogliamo bene, che abbiamo contratto nel tempo un debito che non si cancella, che la nostalgia non può essere il solo sentimento che ci legherà in futuro, pur ricordando un lungo periodo di studi, di ricerche, di attività, che è stato anche un lungo e felice periodo della vita di ciascuno di noi, un percorso fatto di curiosità e di passioni profonde.

Volevamo dire che Cinzia troverà sempre in Sardegna degli amici veri, che continuerà a rappresentare per le Università della Sardegna un punto di riferimento di cui tener conto, soprattutto un punto di vista originale fatto insieme di severità, di rigore, di competizione, ma anche di complicità e di affetto.




Monte Prama: Le ragioni e le strategie dello scavo.

Attilio Mastino- Raimondo Zucca
Monte Prama: Le ragioni e le strategie dello scavo
Roma, Accademia dei Lincei, 21 gennaio 2015

Qui in questa sala dell’Accademia dei Lincei dieci anni fa abbiamo avuto l’onore di commemorare la figura di  Giancarlo Susini, che oggi vogliamo ricordare perché egli era stato chiamato dall’Ateneo di Cagliari nel 1985 a presentare il volume Studi in onore di Giovanni Lilliu per il suo settantesimo compleanno, davanti ad una vivace platea di docenti e di studenti. Abbiamo riletto quell’intervento di Susini sul XV volume della Rivista storica dell’antichità,  ritrovando le parole che erano state rivolte ai tanti giovani che avevano trovato in Giovanni Lilliu un maestro di archeologia, di didattica, di vita vera. In quell’occasione Susini aveva voluto mettere in luce il contributo specifico di tanti giovani colleghi, ispettori archeologi, formati nelle nostre università, che faticosamente ma fermamente svolgevano una ricerca scientifica di grandissimo valore nelle soprintendenze archeologiche d’Italia, additandoli al plauso generale ed in primis dei docenti universitari di ambito antichistico allora liberi dai compiti burocratici.

Con quell’intervento Giancarlo Susini rendeva omaggio a Giovanni Lilliu, con la sua generosità, la sua acuta sensibilità, lo sguardo interdisciplinare che aveva dedicato e allora continuava a <<dedicare ogni sua energia intellettuale all’indagine multiversa degli aspetti più civiltà sarda, sia nei connotati delle culture antiche sia nei tratti più generali e persistenti>>. Giovanni Lilliu aveva iniziato la sua carriera in Sardegna come “novantista” (ossia con un contratto precario di tre mesi) proprio nella Soprintendenza alle antichità della Sardegna nel 1944, accanto all’insegnamento universitario nell’Ateneo cagliaritano, mantenendo il ruolo di Ispettore fino al 1955, quando raggiunse il rango di Cattedratico di Antichità Sarde.

Dobbiamo ricordare che una parte rilevante dei Docenti di Archeologia dei nostri Atenei hanno maturato una esperienza fondamentale nelle soprintendenze alle Antichità (poi archeologiche e ai Beni archeologici e infine “Archeologia”)  italiane.

Nel nostro Ateneo turritano abbiamo fatto tesoro delle parole di Giancarlo Susini, accogliendo con amicizia e ammirazione i nostri colleghi delle Soprintendenze nelle iniziative congressuali promosse da noi, a partire dai Congressi internazionali su “L’Africa romana” sin dal 1983, fondati proprio da Giancarlo Susini, Giovanni Lilliu, Marcel Le Glay, Angela Donati.

Per questa ragione allorquando abbiamo avviato nell’ambito del Parco geominerario  della Sardegna la ricerca archeologica nella città di Neapolis si è proposto alla Soprintendenza per i Beni Archeologici di Cagliari di attivare ai sensi dell’art. 14 comma 4 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 441 (Regolamento recante norme di organizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali), una  convenzione tra la Soprintendenze per i Beni Archeologici e l’Università di Sassari, attraverso la quale si sono realizzate cinque campagne di scavi archeologici a Neapolis in comune di Guspini, regolarmente edite a cura della Soprintendenza e dell’Università.

D’altro canto la stessa formula è stata adottata con gli accordi-quadro dell’Ateneo di Sassari con l’Institut National du Patrimoine di Tunis per gli scavi pluriennali a Uchi Maius, Numluli, Zama regia e Neapolis in Africa Proconsularis, sin dal 1994, e con l’Institut National des Sciences de l’Archeologie et du patrimoine di Rabat per le campagne di scavo di Lixus, in Marocco.

È apparso, di conseguenza, coerente con la politica di ricerca archeologica dell’Ateneo di Sassari, nella primavera del 2011, una volta maturato uno studio autonomo sul giacimento di Monte Prama da parte dei professori Bernardini e Zucca, che avevano partecipato nell’estate-autunno 1979 alla campagna di scavo a Monte Prama, diretta da Carlo Tronchetti, funzionario archeologo della Soprintendenza archeologica di Cagliari, rivolgersi da un lato all’Università di Cagliari, che con il Prof. Gaetano Ranieri aveva progettato una ricerca geofisica nell’area di Monte Prama, dall’altro alla Soprintendenza per i Beni Archeologici, diretta da Marco Edoardo Minoja, per la presentazione  di un  progetto comune dal titolo “Archeologia di Monte Prama” alla Regione Sardegna, sul Bando relativo alla Promozione della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica in Sardegna.  Progetti di ricerca fondamentale o di base – Annualita’ 2012 (L.R. 7 del 2007). Il progetto è stato cofinanziato dalla Regione Sardegna con 140.000 euro e con 60.000 euro dalle due Università.

Il Soprintendente Marco Edoardo Minoja, che nel contempo lavorava sia per la Musealizzazione del complesso delle sculture di Monte Prama, realizzato il 22 marzo 2014, sia per un intervento urgente di ricerca archeologica a Monte Prama, con finanziamento ARCUS SpA[1],  ha condiviso la proposta delle due Università, giungendo alla stipula di un protocollo d’intesa, il 2 maggio 2014, tra la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici, la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Cagliari, le Università di Cagliari e di Sassari, il Comune di Cabras, la Casa Circondariale di Oristano e il ConsorzioUno per la promozione degli Studi Universitari di Oristano, che gestisce la Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici dell’Ateneo sassarese nella sede di Oristano.

Nel Protocollo si richiamano esplicitamente il «d. lgs. 22.01.2004 n. 42, con particolare riferimento agli artt. 88-89 sulle attività di ricerca archeologica in gestione diretta del Ministero competente e in regime di concessione» e «la nota della Direzione Generale per le Antichità del Ministero per i Beni e le Attività Culturali prot. n. 5803 del 28 giugno 2011, che ha confermato che “solo la concessione è lo strumento ordinario per consentire a terzi l’attività di scavo di cui agli artt. 89 e 90 D. Lgs. 42/2004”, mentre “eventuali convenzioni o intese comunque nominate verranno consentite solo su proposta motivata”» e si prevede «la direzione scientifica congiunta dei funzionari archeologi della Soprintendenza, Dott. Alessandro Usai ed Emerenziana Usai, e dei docenti dell’Università di Sassari, Proff. Paolo Bernardini, Pier Giorgio Spanu e Raimondo Zucca».

Nel giorno 5 di maggio del 2014 gli archeologi della Soprintendenza per i Beni Archeologici di Cagliari e dell’Università di Sassari, insieme all’équipe geofisica del Prof. Gaetano Ranieri dell’Ateneo cagliaritano, sono tornati sul sito di Monte Prama; si è dato inizio in quella data ad un’impresa difficile ed ardua che ancora oggi continua e che continuerà ancora a lungo.

Nonostante la lunghezza del cantiere archeologico, che è entrato nel suo nono mese consecutivo, l’incontro tra gli archeologi e gli specialisti (bioarcheologi, geofisici, geologi, pedologi, etc.) di Soprintendenza e di Università nel giacimento di Monte Prama ha segnato un risultato estremamente positivo, che si presenta per la prima volta in questa sede prestigiosa dell’Accademia dei Lincei, grazie alla volontà del nostro antico  Maestro cagliaritano Prof. Mario Torelli, che ha voluto inserire questa Giornata Lincea nell’ambito delle ricerche promosse in seno della Fondazione Balzan, in rapporto al prestigioso premio per l’Archeologia che gli è stato assegnato nel 2014.

Si deve nominare a questo punto, e con piacere,  il Consorzio Uno di Oristano, partner prezioso e imprescindibile, oltreché per le competenze e responsabilità logistiche e di sicurezza, per la disponibilità del proprio personale archeologo, le dottoresse Luciana Tocco e Adriana Scarpa,  e per la funzione di raccordo con quel serbatoio indispensabile di saperi, di tecniche e di esperienze costituito dagli allievi della Scuola di Specializzazione, che operano con entusiasmo sul cantiere; la Casa Circondariale di Oristano grazie alla cui disponibilità la ricerca archeologica si è rivestita dell’impagabile valore aggiunto dell’impegno sociale e rieducativo; il Dipartimento di Scienze biomediche, sezione Microbiologica, diretta da Salvatore Rubino, di nuovo dell’Ateneo sassarese, che tanto si è prodigato con i suoi bioarcheologi nello scavo e nel recupero in condizioni sterili del contenuto biologico dei sepolcri mettendo in campo livelli sofisticati di analisi dei resti umani e vegetali che vi si sono rinvenuti. Gaetano Ranieri dirà, senz’altro meglio di me, quanto la sofisticata strumentazione di analisi dei suoli ha contribuito, e in modo eccezionale, a disegnare la mappa del sottosuolo del giacimento e a orientare, anticipandone in gran parte i risultati, la ricerca di scavo.

Come si vede, la ripresa delle indagini a Monte Prama si è dotata di un impianto metodologico e tecnologico robusto e pienamente adeguato; ma qui siamo già nel campo della strategia dell’intervento e dobbiamo invece soffermarci sulle ragioni che hanno mosso questa splendida avventura.

Dopo il raffinato restauro delle sculture recuperate tra il 1975 e il 1979, dopo una lunga serie di studi su Monte Prama apparsi tra il vecchio e il nuovo secolo, dopo un libro fortunato che ha proposto una ricostruzione del giacimento archeologico, cresceva un senso di insoddisfazione, di provvisorietà di quanto fino allora era stato prodotto accanto alla consapevolezza profonda che di Monte Prama era nota soltanto la classica punta dell’iceberg; che la storia di questo sito era, in sostanza, ancora tutta da scrivere.

E, soprattutto, che essa andava scritta utilizzando approcci, tecniche e tecnologie differenti rispetto a quanto finora si era messo in campo.

Oggi, grazie alle metodologie dell’archeologia dei paesaggi, magistralmente coordinate da Piergiorgio Spanu, con la collaborazione della Dott.ssa Barbara Panico, nostra Dottoranda, e all’indagine geofisica di Gaetano Ranieri abbiamo un’idea più chiara del contesto antico nel comparto di Monte Prama e dell’enorme ampiezza dei depositi archeologici.

I quali, come già indicava l’intuizione del grande maestro Giovanni Lilliu, potrebbero appartenere ad un vasto spazio di santuario, i cui edifici vengono segnalati da ritrovamenti per ora erratici di conci pertinenti ad architetture raffinate e dal comporsi delle anomalie della ricerca geofisica.

Tutta da capire è, in questo scenario, la funzione della cintura necropolare, assai più ampia e articolata di quanto appariva finora, e la reale disposizione e il significato delle sculture, il cui rapporto stretto con i sepolcri rimane ancora tutto da dimostrare.

Per quanto riguarda le sculture i nuovi tipi statuari rivelati dagli scavi recenti, riportabili all’immagine del c.d. sacerdote-militare rinvenuta nella necropoli vulcente di Cavalupo, fanno ritenere estremamente verosimile un accrescimento delle iconografie antropomorfe e gettano nuova luce sulle vicende di formazione e di sviluppo della “fabbrica” di Monte Prama e sui suoi rapporti con la bronzistica figurata nuragica.

Avremo modo di affrontare nella giornata di oggi la discussione di dettaglio sullo “statuto eroico” di Monte Prama, sia a livello di organizzazione degli spazi che di contestualizzazione storica e di apparato ideologico-celebrativo.

Preme qui sottolineare come la ricerca appena iniziata, e che auspicabilmente ha davanti a sé almeno un triennio di fervide indagini sul campo, si ponga come momento cruciale della protostoria sarda dei secoli IX e VIII prima di Cristo; come, con fatica, con entusiasmo, con grande professionalità, Monte Prama, finalmente, inizi a raccontare la sua storia reale che appartiene certamente ai Sardi, ma in primo luogo all’umanità tutta e all’avvincente storia della conoscenza.

Questo patrimonio comune di scienza elaborato a Monte Prama dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici (oggi “Archeologia” della Sardegna) e dalle Università riteniamo non debba essere perduto.

Noi siamo convinti che la nuova organizzazione del MIBACT, come ricordato dal Sottosegretario on.le Francesca Barracciu, offra lo spazio per una ripresa di cooperazione tra Soprintendenze Archeologia, Poli Museali regionali e Università, nel quadro anche dei compiti della nuova Direzione  Generale Educazione e Ricerca, di cui all’art. 13 del DPCM 171 del 29 agosto 2014, entrato in vigore il 10 dicembre 2014.

Vogliamo ricordare che la Circolare del 16 marzo 2011 del Direttore Generale per l’Antichità (oggi Archeologia) nel ribadire l’abrogazione, ai sensi dell’art. 23 del D.P.R. 10 giugno 2004 n. 173 dell’art. 14 comma 4 del DPR 28 dicembre 2000, n. 441 (Regolamento recante norme di organizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali), concernente l’istituto della convenzione per l’ esecuzione di scavi archeologici  tra le Soprintendenze per i Beni Archeologici e le Università, nel quadro di programmi pluriennali di ricerca” ,  indicava la persistenza implicita di tale abrogazione nei successivi Regolamenti recanti norme di organizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali dei DPR  26 novembre 2007, n. 233 e  2 luglio 2009, n. 91.

Ora l’art. 41 comma 1 del DPCM 171 del 29 agosto 2014  fa cessare il vigore proprio del DPR  26 novembre 2007, n. 233 e successive modifiche.

Ne consegue che può avere vigore nella materia de quo l’art.. 13 comma 1g  relativo alla Direzione generale “Educazione e ricerca”, che collabora con il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca e con il CNR e altri enti di ricerca italiani o esteri  alle attività di coordinamento dei programmi universitari e di ricerca relativi ai campi di attività del Ministero.

Noi vogliamo qui ricordare l’appassionata richiesta di cooperazione tra università e soprintendenze archeologiche venuta coralmente dal mondo dell’Università, che in Roma, nella adunanza della CRUI del 13 marzo 2013 ha votato all’unanimità una proposta dell’Ateneo di Sassari  per sancire anche normativamente una collaborazione istituzionale per la ricerca archeologica fra Soprintendenze e Università all’ interno di programmi di ricerca pluriennali da definire su base territoriale con le relative soprintendenze.

Noi non vogliamo fare ricorso alla possibilità dell’art. 89 del  Codice dei Beni Culturali di richiedere entro il 31 marzo di quest’anno la Concessione di ricerca archeologica a Monte Prama. Noi vogliamo, ancora una volta, nel solco della esperienza secolare di rapporto fra Università e Soprintendenze, seguitare nella ricerca archeologica di Monte Prama  fianco a fianco della Soprintendenza Archeologia della Sardegna. Vogliamo che questo sia e continui ad essere un luogo di amicizia, di fraternità e di scienza, dove ogni divergenza possa essere superata e dove vengano valutate le ragioni di tutti.


[1] La Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Sardegna è stata ammessa al finanziamento di 700.000 euro, attraverso ARCUS SpA,  per il progetto, curato dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici di Cagliari “Aree archeologiche di Tharros e Mont’e Prama-Interventi urgenti” approvato con  Decreto Interministeriale del 30 dicembre 2009, cui è seguita la convenzione tra ARCUS e la Direzione Regionale il 18 novembre 2011.




Scritto sulle epigrafi: malattie, cause di morte e medici in età imperiale romana.

Attilio Mastino
Scritto sulle epigrafi: malattie, cause di morte e medici in età imperiale romana
Sassari, 11 ottobre 2014

Il tema che propongo oggi in occasione della nascita del Centro studi antropologici, paleo patologici, storici dei popoli della Sardegna e del Mediterraneo è davvero inusuale: riservandomi un approfondimento nel testo scritto, vorrei tentare di leggere in estrema sintesi le scritture antiche, di ricostruire le parole incise sulla pietra, partendo da quelle epigrafi che ci conservano in particolare una serie di notizie, spesso frammentarie, sulle malattie, sulle cause di morte e sui medici in età imperiale romana. Il testo non pretende di esaurire una documentazione ampia, complessa e fin qui poco studiata, ma si propone di fornire solo alcuni esempi particolarmente significativi. .

Il tema può essere solo accennato nelle sue linee essenziali, per indicare piste di ricerca che riescano a partire dalle caratteristiche dell’epigrafia sacra e funeraria nel mondo antico. A differenza delle iscrizioni funerarie moderne, gli epitafi latini conservano le più svariate informazioni sulla vita e sulla morte dei defunti, sulla salute, sulle malattie, sulle cause del decesso, sul dolore dei parenti sopravvissuti, sulla durata della vita, sull’agonia, come ad Olbia per l’epitafio cristiano di Valeria Nispenini di dolcissima memoria, ricordata dal marito Pribatio e dal figlio Balentinus, morta a 55 anni nel corso del IV secolo, compianta anche per le sofferenze di una morte che è arrivata implacabile dopo 13 lunghi giorni di agonia, doluit dies XIII. Così a Roma Probina, vissuta 17 anni, 100 soli giorni con il marito, ammalata per 45 giorni, aegrotavit dies XXXXV prima di riposare in pace (ICUR I 3903 = CLE 1339 = ILCV 3330).

 

L’agonia

Il tema della terribile durata dell’agonia dei moribondi, particolarmente rilevante in Sardegna, è stato studiato recentemente anche con riguardo alle competenze del dio Viduus, venerato ai margini del municipio di Karales. In passato Paola Ruggeri ha affrontato l’iscrizione di Sanluri che nomina una divinità poco nota, legata al rapporto coi morti e richiamata da Varrone a proposito delle arcaiche formule degli Indigitamenta. Si tratta di Viduus, al quale un liberto del municipio di Cagliari, C. Iulius Felicio si rivolge grato, ponendo una dedica in occasione dell’ampliamento dell’area sacra del dio (CIL X 7844). Siamo di fronte a un unicum epigrafico, che documenta nell’isola il culto riservato a un dio il cui compito, in base a quanto scrivono Varrone, Tertulliano e Cipriano, era quello di presiedere al distacco dell’anima dal corpo, cioè al momento terminale (nel senso di terminus latino) che segna la frontiera tra la vita e la morte, rendendo più breve e meno dolorosa l’agonia del malato: per Tertulliano Viduus è il dio qui anima corpore viduet, quem intra muros cludi non permittendo damnastis. Dunque un dio che, per quanto Cipiriano considerasse feralis et funebris, era benefico e salutare, sentito come amico dei moribondi, anche se il suo culto non poteva esser praticato se non all’esterno, addirittura ai margini della città, comunque extra muros. Emergono da queste poche righe del nostro testo aspetti misteriosi di tradizioni religiose e competenze che in Sardegna sono documentate dall’inizio dell’età imperiale ma che si estendono nel tempo fino all’età medioevale. Al momento del passaggio del paganesimo al cristianesimo, religione e magia si fondono, come nella vicenda del governatore della Sardegna sotto Valentiniano e Valente nel IV secolo d.C., Flavio Massimino, e del suo amico sardo, capace di evocare le anime dei morti e trarre presagi dagli spiriti: per Ammiano hominem Sardum … eliciendi animulas noxias et praesagia sollicitare larvarum perquam gnarum (Mastino, Pinna 2006). Del resto il tema della durata dell’agonia in Sardegna è in qualche modo riassunto dalla vicenda che Polibio attribuisce a Timeo sull’uccisione dei vecchi settantenni nel corso del III secolo a.C. in età cartaginese e che prosegue sul piano strettamente etnografico già giù fino a Sas Accabadoras della leggenda sarda fino al pieno Ottocento.

L’attenzione per il momento in cui l’anima ritorna alla quiete del sepolcro è ben documentata in Sardegna e nell’impero romano: si ricordi la Securitas, il desiderio di proteggere le ossa dopo la cremazione, che ritorna a Karales nell’ipogeo dei Vinii, nella necropoli di Tuvixeddu collocata fuori le mura. Con l’avvento del cristianesimo, conosciamo le maledizioni che colpiscono i violatori della tomba (la sorte di Giuda traditore, la lebra di Giezi servo del profeta Eliseo ecc.): il corpo deve riposare nella tomba, protetto dalla croce, che a Trapani è definita speranza dei Cristiani, rovina del Diavolo, resurrezione dei Cristiani, cacciata dei demoni, arma invincibile, vita per quelli che credono, invece morte per quelli che non credono. E ciò fino al momento in cui il corpo si riunirà con l’anima nel giorno del giudizio universale, nel dies tremendus iudicii, nel dies ultimus, nel dies novissimus, quando sarà possibile che grazie alla potenza di Cristo la carne riesca vivere di nuovo e il defunto possa godere la gioia dell’ultima luce: Christi ope rursus sua vivere carne et gaudia lucis nobae ipso dominante videre (nell’iscrizione del diacono Silbius a Olmedo, CIL X 7972).

Sullo sfondo rimangono le specifiche caratteristiche della medicina in età antica, spesso confusa con i culti religiosi salutari, il culto di Esculapio-Asclepio, in Sardegna Merre; il culto del Sardus Pater; il culto delle Ninfe salutari come a Forum Traiani oppure di Hygia. Sempre a contatto con la magia, in rapporto a invincibili maledizioni come sulle defixiones o a competenze tradizionali, spesso solo immaginate ed improbabili. I medici appartenevano ad uno strato sociale basso ed erano il più delle volte considerati i colpevoli finali della scomparsa del paziente. In altri casi, come per Antonio Musa, il medico di Augusto, i medici erano apprezzati e ricompensati: per Musa fu espressa la generale gratitudine della repubblica per aver salvato il principe da una pericolosa malattia, collocando una statua presso quella di Esculapio: statuam aere conlato iuxta signum Aesculapii statuerunt. Allo stesso modo il militare M. Ulpius Honoratus riconosce onestamente il successo dell’opera di L. Iulius Helicus, medicus, qui curam mei diligenter egit secundum deos, e scioglie un voto a Esculapio e Hygia a Roma, ILS 2194. Ancora a Roma al Testaccio sappiamo che fu un collegium salutar(iorum) a costruire un tempio Aesculapio et Saluti Aug(ustae), ILS 3840. Ma dove i medici erano impotenti, assenti o incapaci, interviene la Bona Dea che riusciva a far guarire il paziente disperato, come a Roma per il servo pubblico Felice, conduttore di asini per conto del collegio de pontefici, che aveva sciolto il voto Bonae deae agresti .. ob luminibus restitutis, derelictus a medicis, post menses decem beneficio domiaes medicinis sanatus per eam (ILS 3513). Del resto gli stessi medici riconoscono i benefici della pratica religiosa, come i medici torinesi costituiti nel collegio intestato ad Esculapio e Hygia, subito dopo la morte del divo Traiano (ILS 3855 a).

La traslatio cadaveris

Sappiamo di morti improvvise avvenute lontano dalla propria patria, che imponevano la translatio cadaveris, un tema che ha molti riflessi, in rapporto al rituale funerario, inumazione o incinerazione. Si pensi alle tombe mausoleo o ai cenotafi, come quello del marinaio Fintone morto in marre ma ricordato con un cenotafio sulla spiaggia di Caprera, ricordato dal poeta Leonida di Taranto. Un’epigrafe trovata presso i resti della Colonia Aurelia Augusta Pia Canosa e presentata nel 1966 da Erminio Paoletta scritta in lingua greca recita: <<Mia patria Mira, e traggo i natali dalla Licia. Essendo mercante d’arte, venni a causa della morte dell’infelice fratello Zosimo, che qui posi a ricordo per i mortali; non così infatti crebbe Nireo (il più bello dei Greci a Troia) nella bella Smirne, non i Dioscuri, i figli di Leda presso la vorticosa corrente dell’Europa. Pose Ametisto, fratello di Zosimo>>. Ametisto accorre a Canosa per rendere le estreme onoranze al fratello Zosimo, scomparso lontano da Mira in Licia: anch’egli forse era stato un mercante d’arte nella Canosa del II secolo d.C.

Il tema è quello della morte improvvisa e della sepoltura lontano dalla patria: il v(ir) s(pectabilis) Pascalis, onorato dalla comunità cittadina della colonia di Turrris Libisonis per i suoi meriti, è definitivamente sepolto in terra straniera, dunque nell’isola lontana da Roma, tra persone sconosciute: hic iace[t] peregrina morte raptus (AE 2002, 634 a). Diversamente il corpo del messo pontificio Annius Innocentius morto in Sardegna fu traslato a Roma: si trattava di un attivissimo acol(uthus), che ob eclesiasticam dispositionem itinerib(us) saepe laborabit. Inviato per due volte alla corte di Costantinopoli, ma anche in Campania, Calabria ed Apulia, infine morì in Sardegna; le sue ossa furono traslate alla metà del IV secolo a Roma, nel cimitero di Callisto: postremo missus in Sardiniam, ibi exit de saeculo; corpus eius huc usq(ue) est adlatum (ICUR IV, 11805). Analogo trasferimento ebbero le ossa di Papa Ponziano dalla Sardegna a Roma (nelle catacombe di Callisto), riportate in pompa magna dal clero romano e da Papa Fabiano durante il regno di Gordiano III.

In epoca pagana, la traslazione doveva essere autorizzata dai pontifices, dall’imperatore, da un governatore. E’ il caso delle ossa del liberto imperiale M. Ulpius Phaedimo, morto a Selinunte il 12 agosto 117, il cui corpo fu trasferito a Roma nel 130: reliquiae traiectae eius ex permissu collegii pontific(um) piaculo facto (ILS 1792). Allo stesso modo le spoglie del liberto imperiale M. Ulpius Hermia furono trasferite a Roma dalla Dacia: cuius reliquiae ex indulgentia Aug(usti) n(ostri) Romam (ex Dacia) latae sunt (ILS 1593). Il corpo del diciottenne cavaliere L. Vetidius Maternus Vetidianus fu traslato da Cartagine a Roma grazie all’autorizzazione del governatore : permissu praesidis a Khartagine de studio relatis reliquis (ILS 7742 a). Le ossa di Herennia Lampas, concubina di Herennius Postumus, furono portate a Tivoli dalla Sardegna nel corso del II secolo, cuius ossa translata ex Sardinia (CIL XIV 3777: un percorso che è documentato dalle epigrafi di Herennia M. f. Helvidia Aemiliana, regina (patrona) del cavaliere Ti. Claudius Liberalis Aebutianus, tra Elmas in Sardegna (EE VIII 718) e Tivoli presso il tempio di Ercole Vittore (CIL XIV 4239).

Le malattie e la loro eziologia

Altre malattie ci sono note dal racconto fatto sull’epitafio dal defunto in prima persona: così ad Iulium Carnicum per Laet[i]lius C(ai) [f(ilius) G]a[ll]us, che ricorda le febbri altissime provocate da un’infezione: regrediens incidi febribus acris at pres[s]us graviter [a]misi cu[m] flore i[u]vent[a]m (CIL V 8652 (p 1095) = CLE 00629). A Tarragona il giovane auriga Eutyches muore a 22 anni ancora a causa di una febbre violenta contro la quale i medici sono apparsi impotenti: ussere ardentes intus mea viscera morbi, vincere quos medicae non potuere manus (CIL II 4314 (p 973) = CLE 1279 = ILS 5299 = AE 1972, 283). In altri casi a raccontare la morte della persona cara è un parente che è sopravvissuto, come a Roma per Ephesia Rufria, ma[ter et coniux bona], qua[e mala periit febri] quam medici praeter e[xspectatum adduxerant] solamen (CIL VI, 25580 (p 3532) = CLE 00094).

Ad Auzia in Mauretania Cesariense i genitori piangono i due bambini Clemens e Vincentia strappati alla vita da una malattia contagiosa nel fiore degli anni. Il termine pestis difficilmente allude a una vera epidemia: pestis acerba abstulit hos pueros (CIL VIII 9048 = CLE 1610). Allo stesso modo un trentenne a Cartagine è stato strappato da una pestilenza: eripuit pestis (CIL VIII, 25008 = ILTun 1002). Così ad Ostia l’accusa di chi sopravvive è nei confronti della pestis dira (CIL XIV 632 (p 482) = CLE 845).

Frequente anche il termine lues, da tradurre lue, peste, contagio, epidemia, più genericamente flagello o calamità, come a Bedaium nel Norico, con un epitafio che ricorda Iulius Victor e altri cinque defunti, qui per luem vitam functi sunt, scomparsi tutti assieme nell’anno 184 d.C., Mamertino et Rufo co(n)s(ulibus) (CIL III 5567 (p 2328,201) = AE 2008, 1018). Altre volte il patrono esprime il compianto per l’infelice dolcissima alumna, come a Parma per Xanthippe sive Iaia, che l’infuocata malattia ha reso febbricitante: lues ignita torret (CIL XI 1118 (p 1251) = CLE 98).

Incerta è la natura del morbo che ha colpito M. Cornelius Optatus ad Anticaria ib Betica, ancipiti morbo recreatus votum a(nimo) s(olvit) (CIL II 746 = 2036).

A Cordova il centurione T(itus) Acclenus T(iti) f(ilius) Qui(rina) e sua moglie morbo excruciati morte obierunt (CIL II 287 = 2215 (p 886) = ILS 8477 = AE 2002, 167). A Cirta i mala fata hanno strappato al marito l’amata Ca[eli]a C(ai) Audasi fil(ia) R[ufa], [infesto mod]o quam dolu[i morbo es]se per[emptam] (CIL VIII 7255 = 19454 = ILAlg. II,1 830 = CLE 560). A Melta in Moesia inferior la defunta maledice i saeva e impia fata, ricordando i crudelis thalamos post mor[bi accessum] (ILBulg 248 = AE 2009, 1201).

Cristiano è il carmen urbano per Alexander, tormentato da gravi malattie ora rinato in Cristo con l’aiuto del martire: [gravibus m]orbis iactatus tempore [longo] redd[i]tus est v[itae mar]tyris auxil[io] (ICUR– IX 24312 = ILCV 1990).

 

Malattie: la malaria

Non raramente le iscrizioni citano le malattie che hanno portato alla morte, prima tra tutte in Sardegna la malaria, attestata nelle fonti già da epoca repubblicana. In questa sede baserà ricordare il Bellum Sardum combattuto da Ampsicora contro i Romani dopo la battaglia di Canne: Tito Livio ricorda che una ambasceria dei principes sardi, dunque espressione sicuramente delle principali città sardo puniche (escluse le antiche colonie fenicie, forse parzialmente rimaste fedeli ai Romani) e di alcuni popoli della Sardegna interna, si recò a Cartagine, chiedendo un appoggio militare alla rivolta che serpeggiava ovunque nell’isola, dove i Romani avevano poche truppe (una legione) e dove il governatore Q. Mucio Scevola si era ammalato alla fine della primavera ed era invalido, apparentemente a causa della malaria: Livio ci propone un sintetico quadro clinico, un morbo lungo e noioso ma non pericoloso (non tam in periculosum quam lagum morbum implicitum), specificandone l’eziologia (gravitate caeli aquarumque advenientem exceptum). Chi aveva preso l’iniziativa della triplice alleanza tra Sardi Pelliti, Sardi delle città costiere attorno a Cornus e Cartaginesi era stato proprio Hampsicora, battuto nel 215 a.C. da Tito Manlio Torquato, chiamato come privato cittadino a sostituire il pretore ammalato come privatus cum imperio.

Quattro secoli dopo, propter adversam corporis valitudinem forse per il ripetersi di febbri malariche, l’imperatore Filippo l’Arabo scioglie dal giuramento e dal servizio militare nell’anno 246 il giovane M(arcus) Aurelius Mucianus originario della Moesia inferiore, vigile a Roma della Coh(ors) II vig(ilum) Philippiana che aveva svolto un servizio militare in Sardegna: un nuovo diploma recentemente acquistato dal Museo di Mainz contiene durante l’età di Filippo l’Arabo un riferimento alla Sardinia, nell’ambito di una serie di missioni speciali fuori dalla capitale, probabilmente in compagnia di altri colleghi. Le date di soggiorno in Sardegna (28 maggio-15 agosto 245) rimandano ad un particolare periodo dell’anno, che sembra coincidere con la mietitura e la raccolta di frumento da spedire da Olbia verso Pisa (ulteriore destinazione di Muciano l’anno successivo), proprio nella stagione in cui nella grande isola mediterranea la malaria colpiva gli stranieri, in un modo però forse meno aggressivo di quando non si introdurrà in età medioevale il temibile Plasmodium falciparum. Ci sono del resto molti elementi per interrogarsi sui misteriosi contenuti degli incarichi affidati a Muciano nel corso della sua breve e sfortunata carriera, che a causa della malattia si conclude con il grado di soldato semplice proprio come era iniziata: quest’unica attestazione della presenza di un vigile e di un rappresentante della guarnigione urbana nell’isola può forse aver avuto più di una ragione.

 

Le malattie provocate da una maledizione

Le malattie che colpiscono i pazienti sono citate nelle iscrizioni per ragioni diverse e spesso vengono spiegate di malati o dai parenti del defunto con l’invidia, la maledizione, il malocchio di persone ostili, nemici personali o avversari. Un capitolo complesso e di difficile comprensione è rappresentato dalle tabellae defixionum, che in questa sede richiamerei solo cursivamentemente, come quando si augura un nemico nel nome di Proserpina e Plutone la febris quartana tertiana cottidiana a Roma (CIL I 2520, p 967). Oppure anche (sulla Via Appia): patiatur febris, frigus tortionis palloris sudores obbripilationis meridianas interdianas serotinas nocturnas (CIL VI 33899 = AE 2004, 201).

Alla stessa categoria sembra appartenere lo pseudo-epitafio dedicato a Carmona in Betica in vita Dis M(anibus) feris, invocati perché colpiscano violentemente una Luxsia figlia di Antestius: caput cor co(n)s[i]li<u>(m) valetudine(m) vita(m) membra omnia accedat morb<u>(s) cotid(i)e (AE 2010, 108).

Ad Augusta Treverorum il defiggente invoca l’intervento della dea, la domina Iside, per provocare un profluvium, probabilmente una emorragia o una dissenteria, a danno di un odiato liberto, un Tib. Claudius Germanus, della nazione dei Treviri: profluvium mittas et quidquid in bonis habet in morbum megarum, espressione intesa ora da Daniela Urbanova nel senso di un augurio inquietante: <<tutto ciò che ha di sano venga colpito da una malattia inguaribile>>, senza escludere una diretta allusione all’epilessia (Kropp-2008, 4,1,3/16). Il dio al quale si chiede la malattia o la morte verrà premiato con un sacrificio, come a Treviri per Hostilla, quae mihi fraudem fecit, se verrà tormentata a morte (si tu consumpseris) (CIL XIII 11340, V2 = Kropp 2008). Allo stesso modo il lato B della celebre tavoletta urbana con la defixio contro Plotio è stato interpretato recentemente dalla Urbanova <<che [Plotio] muoia male, perisca male e crepi. Lo passi, lo consegni, affinché non possa vedere, scorgere, guardare la luce del mondo – cioè affinché non possa vivere>> (CIL I,2 2520). A Bath in Britannia nel IV secolo ci è conservata una “preghiera di giustizia” contro un ladro, …ut mentes suas perda(at) et oculos suos in fano ubi destinat (Tomlin 1988), da tradurre. <<che il ladro perda la ragione e la vista nel tempio dove risiede la dea>>. L’augurio più frequente che si rivolge ai defissi è quello di perdere le mani, i piedi, tutte le membra, la vista.

Particolamente elaborata la defixio urbana che invoca Dite, Proserpina, il cane infernale tricipite, le larve, le furie, altri dei inferi, perché la vendetta riguardi tutte le membra della nemica Caecilia Prima: Orcini tricipites vos exedit[is] iocinera pulmones cor cum venis viscera membra medullas eius diripiatis dilaceretis lumina eius . … peruratis lumina stomachum cor eius pulmones adipes cetera membra omnia illius, peruratis; ossum frangant medullas exedint iocinera pulmones dirimant vosque Ossufragae inferae tradatis illam; … eripias somnum , soporem obicias illae amentiam dolares stupores malam frontem usque donec pereat intereat extabescat (AE 2010, 109). Con la conclusione già citata: febres cotidianas tertianas quatarnas usque dum animam eius Caeciliae Primae eripiatis.

A Pompei c’è ripetuta la preghiera: Or(o) te aegrotes (CIL IV 2960), oppue Aegrota / Aegrota / Aegrota (CIL IV 4507). Numerose altre defixiones augurano che il corpo dell’avversario possa decomporsi presto: N(umerius) Vei Bareca tabescas a Pompei in età repubblicana (CIL IV 75 = CIL I 1644c = ILLRP 1141); Quis (h){e}ic [ulla(?)s]cr[ipser]it [t]abe[scat] n[eque] nominetur (CIL IV 7521); oppure a Capua: Cn(aeum) Numidium Astragalum v(oveo?) il(l)ius(?) vita(m) valetudin(em) qua<e>stum ipsu(m)q(ue) uti tabescat morbu [ac(?)] C(aius) Sextiu(s) tabe/[scat] ma(n)do rogo (CIL X 3824). Passano i secoli e l’uso si mantiene anche tra i cristiani: Agnella teneatur ardeat de{s}tabescat usque ad infernum semper (AE 1941, 138, Roma). In Corsica a Mariana ci si augura la vendetta contro C. Statius, ut male contabescat usque dum morie[t]ur (AE 1982, 448).

L’óstrakon di Neapolis in Sardegna (un frammento di parete d’anfora), probabilmente del III secolo d.C., contiene una formula magica, su un testo di quattro linee, in cui l’estensore chiede a una divinità, Marsuas, che Decimo Ostilio Donato diventi misero, muto e sordo: «O Marsuas di Neapolis, rendi misero, muto e sordo Decimo Ostilio Donato, per quanto tu possa rispondere all’uomo» (AE 2007, 690).

Bisogna infine tener presente le tante iscrizioni che attribuiscono una morte improvvisa alla malvagità di un mago: eripuit me saga manus crudelis ubique, cum manet in terris et nocit arte sua (a Verona, ILS 8522). Sceleratissimi servi infando latrocinio nomina ordinis decurioum defixa monumentis (ILS 3001).

 

Povertà e malattia

Il tema del rapporto tra povertà e malattia viene tracciato nel recente volume, che ho presentato a Palermo a Villa Wittaker, Poveri ammalati e ammalati poveri, Dinamiche socio-economiche, trasformazioni culturali e misure assistenziali nell’Occidente romano in età tardoantica, a cura di Rosalia Marino, Concetta Molé, Antonino Pinzone, con la collaborazione di Margherita Cassia

Sarebbe utile stabilire, almeno indicativamente, se nell’immaginario collettivo degli antichi la povertà sia collegata con la malattia o alla rovescia con la salute. E’ un fatto che i poveri erano più esposti a pestilenze, malaria, polmonite soprattutto se contratta da una donna in gravidanza, tubercolosi, tetano. Le cause principali spesso derivavano da topi, cani rabbiosi e altri animali che si aggiravano liberamente nelle città, per le strade e per le case, con tutto il bagaglio di infezioni che potevano portarsi appresso e trasmettere all’uomo (quali la leptospirosi e la salmonellosi), aggravate dal sovraffollamento e dalla mancanza di servizi igienici adeguati, l’utilizzo di latrine pubbliche e di acqua infetta. Le donne dei ceti superiori avevano invece a disposizione domus o ville luminose e arieggiate, oltre a schiavi e liberti che evitavano loro le più malsane incombenze.

Eppure il corpo del povero, ed è Valerio Neri (La rappresentazione del corpo del povero fra salute e malattia) a spiegarcelo, assurge ad emblema di salute, secondo un filone della letteratura filosofica, etica e medica che percorre la cultura antica (da Antistene e Socrate) sino ad arrivare alla tarda antichità e ai Padri della chiesa, in quanto il povero conduce un vita secondo natura (katà phusin); del resto in Occidente Agostino descrive la salute come patrimonium pauperis. La salute del povero è frutto della sobrietà nel regime alimentare ed è corroborata dall’attività fisica. Al povero sano viene contrapposta la rappresentazione del ricco, crapulone e lussurioso che spesso contrae malattie come la podagra, dovute alla sua avidità alimentare.

La rappresentazione del povero malato, così come si ritrova sistematizzata negli scritti dei Padri della Chiesa, gli conferisce una sorta di status privilegiato sotto il profilo etico: in particolare è ritenuto esemplare il pauper verecundus, caduto in miseria rispetto ad una pregressa condizione sociale elevata. Riprovazione sociale si riversa al contrario sul mendicus, valido fisicamente, che non si impegna in alcuna attività e preferisce raccogliere in giro le oblazioni. Per Salviano di Marsiglia il termine mendicus conserva una simbologia negativa secondo l’accezione pagana e viene utilizzato ad indicare l’individuo privo di qualunque capacità di riscattarsi a livello economico e di incidere nel contesto sociale. Si tratterebbe dell’articolazione più bassa all’interno della paupertas, se il mendicus aveva veramente un ruolo addirittura inferiore a quello del pauper e dell’egens.

Osserviamo l’affermarsi a livello epigrafico del parallelismo lessicale tra pauperes e peregrini: per la Sardegna ancora nella prima metà del IV secolo attestato piuttosto il parallelismo peregriniinopes, come si ricava dall’iscrizione di Matera, auxilium peregrinorum saepe quem censuit vulnus; e poco oltre: quem matrum aut inopum decernerat ipse parentem, proveniente dalla Basilica di San Gavino a Porto Torres (AE 2002, 632 = 2003, 689). A Tharros pauperum mandatis serviens è Karissimus di AE 1982, 430. Ancora a Porto Torres Flavia Cyriace rem suam [pauperibus] / linquit (AE 1994, 796).

 

Strutture di assistenza

Le iscrizioni documentano come il cristianesimo e le istituzioni ecclesiastiche seppero creare una formidabile rete di assistenza per il soccorso e la cura dei poveri ammalati. Sul modello dell’Oriente anche l’Occidente latino fu in grado di sviluppare strutture per l’accoglienza e il ricovero dei poveri che si trasformarono in ospedali per ammalati. Arnaldo Marcone e Isabella Andorlini (Salute, malattia e prassi ospedaliera nell’Egitto tardoantico) ricostruiscono analiticamente il quadro in cui si articolavano le diverse strutture ospedaliere nell’Egitto tardo-antico: dai nosokomeia (ospedali), agli xenodocheia (luoghi di accoglienza) sino ai lochomeia (residenze per donne/maternità o ad esempio i lebbrosari (kelyphokomeia). Il lessico per designare i luoghi di cura dell’Oriente greco fu importato con una certa semplificazione in Occidente: qui fu xenodocheion il termine generalmente usato per designare la struttura ospedaliera. Andrebbero riesaminati in questo senso il lessico epigrafico e i formulari cristiani nei quali spesso ci si imbatte in espressioni, talvolta superficialmente ritenute convenzionali e retoriche, come inopum refugium, peregrinorum auxilium oppure fautor che potrebbero piuttosto far riferimento alla presenza di xenodocheia. in Sardegna, a Olbia, a Tharros e a Turris Libisonis. L’espressione auxilium peregrinorum ricorre più volte in Sardegna in iscrizioni del IV e V secolo che contengono concetti riferiti alla classe sociale dei ricchi possessores; esse sembrano conservare a giudizio di Letizia Pani Ermini un emblematico elemento di continuità l’immagine del ricco proprietario, uomo di grande integrità morale, padre degli orfani, rifugio dei poveri, aiuto dei pellegrini: ad Olbia il cristiano Secundus, è esaltato come magnae integritatis vir bonus, pater orfanorum, inopum refugium, peregrinorum fautor, religiosissimus adque exercitatissimus totius sinceritatis disciplin(ae) (CIL X 7995); a Tharros si ricorda in un’epoca che per il De Rossi il IV secolo, ma che per il Duval appena più tarda, Karissimus, amicorum omnium pr(a)estator bonus, pauperum mandatis serviens (AE 1982, 430). A Turris Libisonis Matera è esaltata dal vulgus di fine IV secolo come auxilium peregrtinorum (AE 2002, 632 = 2003, 689, vd. AE 1994, 796). Del resto dall’epistolario di Gregorio Magno sappiamo che proprio a Turris Libisonis il vescovo Mariniano, arrivando fino all’esarca d’Africa, aveva dovuto difendere contro il dux Theodorus i poveri della sua Chiesa, in tutti i modi vessati e afflitti da svariate usure: civitatis suae pauperes omnino vexari et commodalibus affligi dispendiis.

 

I medici

Il naturale contraltare della figura del povero ammalato è rappresentato dalla figura del medico e si può tentare di analizzare la relazione interna al triangolo ippocratico, medico-malato-malattia, ossia il nesso inscindibile tra paziente, medico curante e l’interazione tra questi due soggetti che incide sul decorso della malattia e sugli effetti della terapia. Sottesa costantemente a questa problematica la dicotomia tra la fides e l’avaritia del medicus che viene alternativamente considerato disinteressato e amico oppure avido, incompetente e preoccupato solo dal tornaconto economico.

Tutto ciò in una prospettiva diacronica che prende le mosse dall’evergetismo di stampo ellenistico di Cesare e Augusto e a cui fa da sfondo la differente sensibilità culturale al giuramento ippocratico e al suo valore etico da parte del medico, delle istituzioni imperiali e delle istituzioni ecclesiastiche. Come non pensare del resto ancor oggi all’universalità del modello ippocratico che si traduce nelle società occidentali odierne nello scontro tra il diritto alla cura di alto livello per tutti nelle forme principalmente della sanità pubblica e il privilegio della cura specialistica per i pochi che ne hanno la possibilità ?

Le iscrizioni cristiane esaltano quei medici che hanno dato gratuitamente la propria opera per assistere i pazienti, come il diacono (levita) Dionysius, artis honestae functus et officio quod medicina dedit, huius docta manus famae dulcedine capta dispexit pretii sordida lucra sequi saepe salutis opus pietatis munere iuvit dum refovet tenues dextera larga viros  obtulit aegrotis venientibus omnia gratis (ICUR VII 18661 = CLE 1414 = ILCV 1233).

Numerosi sono i medici citati nelle iscrizioni, come a Lione il medico cristiano Felice, che sconsolato si accusa della colpa di non esser riuscito a trovare una cura per la propria malattia, lui che si era tanto impegnato per alleviare il dolore di tanti malati: vita dicata mihi hic ars medicina fuit, aegros multorum potui relevare dolores, morbum non potui vincere ab arte meum (CIL XIII 2414 = ILCV 612).

I medici possono essere schiavi, come Agathopus medic(us) servus (ILS 1514), liberti (come C. Hostius C.l. Pamphilus medicus che conosciamo per aver comprato una tomba per se, la moglie, i liberti, i posteri: haec est domus aeterna, hic est fundus, heis sunt horti, hoc est monumentum nostrum, ILS 8341; oppure come Q. Caecilius Caeciliae Crassi l. Hilarus medicus, ILS 9433), liberti imperiali (T. Aelius Aminias, Aug. lib., medicus auricularius, ILS 7810). Sono tutti esempi urbani. Conosciamo odontoiatri (auricularii), oculisti (M. Fulvius Icarus Pontuficiensis medicus ocularius, ILS 7808 Aguilar de la Frontera; M. Latinus M. l. medicus ocularius ILS 7807, Bologna; M. Geminius M.l. Felix medicus ocularius a compitu aliario, ILS 7809, in quartiere di Roma), chirurghi (Celadus Anton(i) Drusi medicus chirurgus dedica la tomba alla conserva, ILS 7811). Alcuni con più di una specializzazione, come ad Assisi P. Decimius P. l. Eros Merula medicus clinicus chirurgus ocularius (ILS 7812). Tutti erano assistiti da scribae incaricati di scrivere le ricette (a Roma T. Aurelius Telesphorus di ILS 7817). Alcuni stipendiati da municipi e colonie, come nel caso di Viterbo dove conosciamo un M. Ulpius, medicus salariarius civitatis splendidissimae Ferentiensium, ILS 2542.

Infine i medici militari, come tra i pretoriani a Roma Ti. Claudius Iulianus medicus clinicus cohortis IIII praerotiae (ILS 2093) oppure Sex. Titius Alexander medicus cohortis V praetoriae che dedica un’ara Asclepio et Saluti commilitonum (ILS 2092). Oppure al servizio di una legione, di un’ala oppure di una coorte ausiliaria (ILS 2542).

Tutti possedevano un armamentario di ferri chirurgici e libri, come quelli rappresentati per definire la professione sulla stele funeraria di P. Aelius Pius Curtianus medicus amicus benemeritus a Preneste (ILS 7788).

I medici partecipano a iniziative evergetiche a favore della comunità: così ad Ostia D. Caecilius D(eciorum duorum) l(ibertus) Nicia medicus assieme ad altri mag(istri) Vici è impegnato a ricostruire un compitum, una cappella collocata in un crocicchio, a sue spese realizza il muro a secco e una delle colonne, maceriem et columnam (ILS 5395). Spesso sono riuniti in collegia come a Benevento (ILS 6507), scholae medicorum con propri edifici (ILS 5481 a Roma), soli o con altri specialisti (così ad Aventicum conosciamo un collegio di medici et professores, ILS 7786); ancora a Roma un collegium salutar(iorum) (ILS 3840).

Non mancano i medici veterinari, come ad es. L. Crassicius, Gaiae libertus Herma, medicus veterinarius nelle Venezie (ILS 7815), oppure il C. Marius di un’epigrafe urbana, medicus equarius et venator (ILS 7813); ancora un Ap. Quintius Ap. l. Nicephor(us) medicus iumentarius nell’agro pontino (ILS 7483), oppure il Secundinus mulomedicus, che ha costruito la propria domus aeterna sulla via Appia (ILS 7814).

 

La profilassi

La documentazione epigrafica relativa alla professione medica è abbondante ed è stata studiata da Bernard Remy, che conosce per la sola Gallia almeno 24 casi, compresa a Lione una medica donna (CIL XIII 2019). Un caso analogo di donna medico è noto a Emerita in Lusitania (CIL II 497). A Costantinopoli troviamo l’equivalente in greco di iatrìne. Ci sono medici pubblici, pagati dalla città, come quello di Cordova, un medicus c(olonorum) c(oloniae) P(atriciae) .

In generale la menzione dei medici è collegata ai vota per la salute di un paziente. In Lucania, tra Atina e Volcei, conosciamo uno schiavo originario di Tralles in Caria, medico personale di Quintus Manneius, originario di Volcei, che rendendogli la libertà gli attribuisce il nome di L. Manneius Quinti medicus, nel senso di Quinti libertus; a ricordare il medico è la compagna Maxsuma Sadria. La particolarità è rappresentata dal fatto che si tratta di un fusikòs oinodotes, di un medico che curava le malattie semplicemente con il vino. L’iscrizione è in latino ma la professione di medico enologo è in greco (CIL X 388 = ILS 7791). Plinio il vecchio ricorda che la terapia che si realizza attraverso il vino era stata suggerita da Asclepiade di Prusa, che l’aveva esercitata all’inizio del I secolo a.C. e che era considerato come il fondatore di una nuova scuola, alla quale apparteneva certamente il nostro medico alla fine dello stesso secolo (vedi Plinio 7, 37, 124).

 

I Carmina epigrafici

Irma Bitto (Medici, malattie e cause di morte nei CLE bcheleriani) ha recentemente studiato gli epitafi metrici dei Carmina Latina Epiugraphica che, affiancati alle testimonianze letterarie, forniscono uno strumento per ricostruire un quadro coerente dello sviluppo della pratica medica in epoca altoimperiale e cristiana. Alcuni Carmina funerari risultano destinati esplicitamente ai medici, spesso ricordati con espressioni elogiative, altri ai pazienti sottoposti, a volte con poco successo, alle loro cure, i cui parenti, dedicatari degli epitafi, denunciano casi di vera e propria malasanità. Per il periodo imperiale a cui si fa riferimento, la condizione sociale dei medici era prevalentemente servile o libertina (come si trae dall’onomastica grecanica e più in generale orientale), e tali figure professionali spesso specializzate (ad es. ocularii, auricolarii, chirurghi) venivano impiegate come medici pubblici nei vari corpi militari, anche presso la flotta, nelle comunità cittadine, al sevizio della collettività delle scuole di gladiatori, delle fazioni del circo, oltre che medici operanti a vario titolo presso le domus private, o presso i personaggi della domus imperale. Il generale clima di restaurazione postaugusteo, se si esclude la parentesi neroniana, credo abbia innestato una polemica a livello politico ed intellettuale basata sull’esigenza di trovare una sintesi autonoma, di tipo tradizionale, rispetto al modus operandi del medico legato al contesto greco-orientale, di cui si sottolinea l’avidità ed ecco a questo proposito la stigmatizzazione di Plinio sui Graeci medici e le disposizioni di Domiziano in calce all’editto di Vespasiano, esposto a Pergamo, copia di quello pubblicato nel tempio di Giove Capitolino, nelle quali si condanna l’avaritia medicum et praeceptorum e si commina come pena la perdita dell’immunitas. Del resto occorre prendere atto che l’apporto che definiamo riferibile alla grecità d’Occidente ha avuto tali rilevanza e ruolo nel lungo percorso di formazione di una tradizione più spiccatamente occidentale che non può essere negato, come ben ha sottolineato Antonino Pinzone a proposito della Sicilia, terra di tradizioni mediche antichissime, se è vero che uno dei primi indirizzi nella storia dell’arte medica fu proprio quello siciliano, che ebbe il suo fondatore in Empedocle di Agrigento, ricordato dalle fonti per il miracoloso risanamento igienico di Selinunte e Agrigento, messo in atto grazie alle sue conoscenze scientifiche; e in Acrone di Agrigento, Pausania di Gela e altri suoi continuatori (Malattia e rimedi nella Sicilia romana bizantina, tra certezze e dilemmi).

 

Le acque termali

L’apporto della tradizione medica greco-orientale, incarnato nella prassi da medici provenienti da aree geografiche di impronta culturale greca, ionica e anatolica, viene ascritto in un certo senso da Margherita Cassia ad un macrocosmo culturale caratterizzato da un respiro internazionale, rispetto al quale in epoca tardo-antica, con l’affermarsi del cristianesimo si contrappone l’universo chiuso delle circoscrizioni ecclesiastiche, il localistico microcosmo delle anime purganti e dei poveri ammalati descritto negli edificanti racconti gregoriani (Saggezza straniera un medico orientale nell’Italia tardo-antica). Partendo dal caso del medico Diodotus, originario di Tyana in Cappadocia probabilmente uno iatraliptes, attivo sul finire del III secolo d.C. nell’area delle Aquae Ceretanae e del suo alumnus Charinus, noti da un’iscrizione rinvenuta nel 1981 in una località tra Tolfa e Cerveteri, Margherita Cassia sottolinea in generale la continuità d’uso delle acque termali in epoca cristiana e nello specifico delle Aquae Ceretanae, menzionate ancora nel V secolo da uno scrittore di medicina come Celio Aureliano. D’altro canto, in epoca cristiana, si avviarono delle profonde trasformazioni con l’introduzione di indicazioni di tipo morale e religioso che regolavano la frequentazione delle acque termali e si affiancarono, in alcuni casi, alle strutture termali, chiese extra-urbane e probabilmente strutture di accoglienza che comprendevano personale medico. Si verificò una trasformazione dell’orizzonte ideale, come viene testimoniato da Gregorio Magno con alcuni exempla edificanti: nel caso dell’area laziale gli antichi fruitori delle acque termali, i domini delle ville, inseriti in un contesto rinnovato dai valori cristiani, si trasformano in umili famuli, anonimi servitori addetti persino alle più basse mansioni, spiriti penitenti in veste di inservienti ad obsequium di presbiteri, vescovi e, più in generale, di tutti i frequentatori dei balnea, soprattutto dei poveri, anzi dei più poveri fra i poveri, cioè degli ammalati.

Del resto dalla Sardegna viene un esempio della riqualificazione in epoca cristiana di stazioni termali, legate al culto delle antiche divinità pagane, quello delle Aquae Ypsitanae (Forum Traiani, odierna Fordongianus), votate ad Esculapio e alle Ninfe salutari, sulla sponda sinistra del fiume Tirso, al confine con la Barbaria sarda. Un esempio emblematico del nuovo corso è offerto ancora una volta dal dio Esculapio, ringraziato da un Lucio Cornelio Sylla, a scioglimento di un voto, in un’iscrizione incisa su una piccola ara proveniente dalle antiche Aquae Ypsitanae (Fordongianus); da qui deriva il falso recentemente segnalato dal Nucleo tutela del patrimonio dell’Arma dei Carabinieri (ELSard. B 130). Nella dedica, che risalirebbe all’età sillana, il dio guaritore è ormai l’Aesculapius romano, non più assimilato ad Asclepio e ad Eshmun Merre. Nella storia del famoso complesso termale attivo già in età tardo repubblicana e dell’edificio di culto ad esso annesso, nell’area delle sorgenti di Caddas, sulla sponda sinistra del Tirso, può leggersi in filigrana il percorso di una progressiva appropriazione politico-culturale che attraversa anche il fenomeno religioso, esprimendosi pienamente nel corso dell’epoca imperiale: oltre alla dedica di età sillana, Aesculapius compare in associazione alle Nymphae Augustae in un’iscrizione di età imperiale (ILSard. I 186, vd 187; CIL X 7859-7860). La devozione nei confronti della divinità salutifera si radicò nella Sardegna romana tra il I ed il II secolo d.C. e ne abbiamo due attestazioni epigrafiche provenienti da Carales, la capitale della provincia, dove il culto di Esculapio pare essere collegato a quello imperiale. Entrambi i personaggi menzionati nelle due iscrizioni sono infatti sacerdoti di tale culto, l’uno con il ruolo di magister Augustalium (Lucius Iulius Mario) (CIL X 7552), l’altra come flaminica perpetua (CIL X 7604); vi è poi da aggiungere che il dio nella dedica effettuata dal magister porta l’appellativo di Augusto (Aesculapius Augustus).

A Fordongianus sono numerosi i casi di ex voto, uno dei quali ricorda il procurator metallorum et preaediorum ammalato documentato a Forum Traiani nell’età di Caracalla e Geta (AE 1998, 671). Su un modesto colle trachitico, presso il suburbio meridionale, una struttura ipogeica, sottostante la chiesa medioevale del XII secolo di San Lussorio di Fordongianus, stata identificata come la depositio del martire Luxurius: appare chiaro che dovettero esservi flussi di pellegrinaggio verso la tomba del martire, collegati probabilmente ad una eventuale sosta ristoratrice presso le antiche sorgenti termominerali delle Aquae Ypsitanae, dove era fiorito in età classica il santuario delle Ninfe salutari e di Esculapio (ELSard. B 130).

 

I medici in età paleocristiana

La prospettiva si modifica parzialmente proprio per la tarda antichità cristiana; resta a far da sottofondo il motivo non banale della condanna della venalità del medico e il disinteresse che egli deve mostrare nei confronti del compenso straordinario, soprattutto quando la sua opera venga prestata nei confronti di tenuiores e al contempo si assiste alla nascita di un servizio sanitario pubblico per Roma, istituito da Valentiniano I (a. 368) e alla creazione nella città del primo ospedale, patrocinato da Fabiola, nobildonna convertitasi al cristianesimo (a. 380). Come dire che almeno per Roma, pubblico e privato creano una sinergia di elementi in grado di concorrere ad una modernizzazione della struttura sanitaria e al diritto alla cura per i ceti economicamente più deboli. Mela Albana fa rivivere questo processo di trasformazione: Valentiniano I si conferma come l’imperatore dell’innovazione, articolando l’organizzazione sanitaria di Roma attraverso l’assunzione di 14 archiatri, tante quante erano le regiones urbane, che si andarono ad aggiungere ai tre specialisti già preposti alla zona del Portus (per gli impiegati del porto), allo stabilimento di Xystus (per gli atleti) e alle Vestali, per un totale di 17 specialisti, la cui attività doveva essere improntata a principi di soccorso in favore dei tenuiores, gli indigenti. La costituzione (CTh, 13, 3, 8) con cui si istituiva il nuovo servizio sanitario risulta chiarissima in questo senso: Archiatri honeste obsequi tenuioribus malint quam turpiter servire divitibus. Viene richiamata la responsabilità del medico che in quanto fruitore di compensi imperiali deve essere al servizio della collettività e in particolare delle fasce meno agiate senza pretendere da privati alcuna retribuzione. Scrive infatti l’autrice: La legge di Valentiniano sembra espressione di una morale squisitamente laica fondata su una solida base giuridica vale a dire sul principio che alla percezione di una retribuzione deve corrispondere la prestazione di un servizio stabilito.

In realtà a ben guardare, secondo Gaetano Arena (Il potere di guarire L’attività medica fra politica e cultura nella Tarda Antichità), i precedenti del programma di Valentiniano I sono da ricercarsi nell’azione politica, tenacemente perseguita da Giuliano. Dobbiamo mettere a confronto la figura di due archiatri originari della Pisidia, distanti cronologicamente e in parte culturalmente, L. Gellius Maximus, archiatra di Caracalla e probabilmente insegnante o ricercatore presso il Museo di Alessandria e C. Calpurnius Collega Macedo, retore, filosofo, archiatra (fedele?) nella teoria e nella pratica ai precetti di Ippocrate nell’età di Giuliano. I due archiatri vengono presi quasi a simbolo di un cambiamento ideologico: Gellio Massimo, ancora legato alla sola visione utilitaristica della professione medica, pare considerarla come uno strumento di ascesa sociale per se per il proprio figlio, si pone quasi come nume tutelare di un paziente privilegiato come l’imperatore e dei suoi parenti stretti. D’altro canto Collega Macedo, forte di una formazione che aveva privilegiato non soltanto il sapere medico ma anche la retorica e la filosofia, probabilmente di orientamento neoplatonico, sembra incarnare lo spirito della politica di Giuliano: l’archiatra si pone come filantropo, privilegia l’aspetto umanitario, dedicandosi indistintamente alla cura di quanti abbiano bisogno del suo sapere e della sua tecnica. Del resto, Giuliano vuole individuare nella medicina una terza via culturale, alternativa sia alla sofistica pagana, sia alla santità cristiana : in lui la tradizione medica classica vista in discontinuità col cristianesimo, diviene strumento culturale di uno scontro di mentalità. Una proposta perdente che rivelerebbe la fragilità del programma di Giuliano.

Anche Teodorico ed Atalarico, re dei Goti tra la fine del V e la prima metà del VI secolo, si impegnano a varare una riforma della politica sanitaria a beneficio dei sudditi, conferendo visibilità e prestigio ai medici, esaltando l’ars medica, favorendo il risanamento ambientale attraverso bonifiche delle aree paludose e valorizzando le terapie naturali (terme, passeggiate al sole, clima montano), le erbe ed alcuni alimenti come il latte. Lucietta di Paola (Naturalis siquidem cura est aegris dare laetitiam: medici malattie, cure naturali e terapie mediche nella testimonianza di alcuni autori tardo-antichi) analizza un gruppo di Variae e delle Institutiones di Cassiodoro, il testo epigrafico CIL X 6950, alcune lettere di Ennodio, indirizzate al medico Elpidio e alcuni passi della sua Vita Epiphanii e dell’Eucharisticum de vita sua, l’epistolario di Avito per seguire il percorso teorico attraverso il quale tali autori ridefiniscono la figura del medico in rapporto alla sua professionalità e al suo ruolo nel sociale. L’intento è quello di far emergere negli scritti di questi autori gli elementi, rimasti sino ad ora in ombra, riferibili alla medicina del tempo e ai suoi operatori. Particolarmente interessante si rivela la Varia cassiodorea (6,19) relativa alla formula comitis archiatrorum, che ben definisce il modello di medico che Cassiodoro ha in mente: il medico deve essere tenuto ad un forte senso di responsabilità nei confronti del paziente perché peccare in hominis salutem rappresenta un crimen homicidii. Secondo Marina Usala (Deontologia medica in Cassiodoro) proprio nella formula comitis archiatrorum sarebbero ravvisabili elementi di una medicina pubblica reinterpretata in chiave cristiana; Cassiodoro avrebbe avviato un processo di rimodulazione deontologica alla professione medica alla luce della morale cristiana.

Cachet di oculisti, colliri, pomate, balsami, e altri prodotti curativi

Gli oculisti utilizzavano dei vasi per conservare i loro colliri, preparati secondo ricette conosciute ampiamente nei trattati medici: ci restano i tappi con forma prismatica in pietra, larghi qualche centimetro, che portano delle scritte su uno o più lati, per ricordare il contenuto del vaso. Un primo inventario in particolare dei signacula medicum oculariorum è stato proposto dal Dessau in ILS 8734-872, con molti tipi di colliri, come quello mixtum adatto per ogni sorta di malattia tranne le infiammazioni oculari, secondo la ricetta di Q. Albius Vitalio in Gallia, che riprende il collyrium che Celso chiamava memgménon; oppure quello melinum acre ad pulver(em) et caligine, analogo a quello fatto col miele e studiato da Galeno; o i remedia contra initia glaucomatum et suffusionum noti già a Plinio il vecchio, realizzati con erbe (ILS 8734). Tre cachet di oculista trovati a Porolissum in Dacia AE 1982 837 ricordano tre differenti colliri realizzati dal medico Publio Cornelio Colono: chelidonium opobalsam(atum), un balsamo realizzato con succo di celidonia ad caligines, per combattere la cecità, prodotto effettivamente usato secondo Plinio per curare le infiammazioni agli occhi (anche a Vertillum Lingonum, col citato medico Q. Albius Vitalio, ILS 8734 e a Metz per Q. Valerius Sextus, ILS 8742); un secondo collirio credo realizzato con l’aceto studiato per trattare la secchezza della pupilla, dioxus ad aspri(tudines) et genas callos(as) e un terzo collirio era un vero e proprio balsamo che affrontava i primi sintomi di una cataratta, diaspor(sicum) opobalsam(atum) ad clari(tatem), ove la claritas è ovviamente la vista perfetta. Ad Apulum in Dacia il medico T. Attius Divixtus usava un prodotto specifico orientale contro le infiammazioni agli occhi, diazmyrnes post imp(etum) lip(pitudinis) e altri prodotti su ricetta asiatica o libanese (ILS 8736; prodotti analoghi venivano offerti ai pazienti ad Este in Italia, ILS 8738).

In Britannia conosciamo i contenitori di Biggleswade (CIL XIII, 10021,186 = RIB-2-4, 2446,2), con i nomi dei medici e dei rimedi (pomate, balsami, colliri, prodotti colorati), da loro studiati per combattere reumatismi, l’oscuramento della vista, l’oftalmia causata forse dal tracoma o da altre infiammazioni agli occhi (lippitudo) oppure in positivo per garantire una vista più acuta o più genericamente per curare mali diversi e sovrapposti: Il medico C(aius) Val(erius) Amandum proponeva un dioxum ad reumatic(a) oppure uno stactum ad cal(iginem). Il suo collega C(aius) Val(erius) Valentnus un diaglauc(ium) post imp(etum) lip(pitudinis) oppure un mixtum ad cl(aritatem), un diox(um), stac(tum), diaglauc(ium), mixt(um).

In Germania Superiore conosciamo una serie di documenti relativi a preparati suggeriti dai medici per curare le più diverse malattie: così nel municipio di Arae Flaviae il medico Honestus Latinus per guarire acidità, vecchie cicatrici, tracoma e piaghe suppurate, partendo dall’insegnamento di Dioscoride (AE 1917/18, 86): dialepid(os) ad aspritudine(s), diamisus ad veter(es) cicatri(ces), dial(i)banum ad impet(um) lippit(udinis), diagesam(ias) ad suppurat(iones) (per le s(uppurationes) vd. anche l’amimetum prodotto da C. Titius Balbinus in Arvernia, ILS 8740; per le cicatrices e le aspritudines, vd. anche l’euodes di L. Valerius Latinus in Britanna, ILS 874,dove si cita anche un apalocrocodes ad diatesi), a Seppois le Haut da parte del medico di origine orientale Euelpistus (CAG-68, p 284 = EDCS-54600025), a Mogontiacum da parte del medico Q. Carminius Quintilianus: dialep(idos) crocodes ad asprit(udinem), penicille ad omne(m) lipp(itudinem) ex ov(o) (CIL XIII 10021,32). A Epamanduodurum da parte del medico C. Claudius Immunis : diapsor(icum) opo(balsamatum) ad claritat(es), penicil/le ad impet(um) lippit(udinis) ex ovo, coeno[n] ad aspr(itudines) et claritates , diasmyrnes post imp(etum) lipp(itudinis) ex ovo (CIL XIII 10021, 44 = ILS 8737, vd. 8736) oppure da parte del medico M. Urbicus Sanctus : amethyst(inum) delac(rimatorium) del(enitorim?), melin(um) delacr(imatorium), per lippit(udo), aspritudo e cic{h}atr(ices) (CIL XIII, 10021,202). A Cesseys sur Tille per C. Claudius Prinus e C. Iulius Libycus: terentianu(m) croc(odes) ad asprit(udines) et cic(atrices); diasmyrnes post impet(um) lippitud(inis), turinum [ad] suppurat(iones) oculor(um), diacholes ad suppur(ationes) et vete(res) cicatr(ices) (CIL XIII 10021,50). A Bavai tra i Nervi il medico L. Antonius Epitetus preparava un dialepidos ad diathehesis, un collirio calmante, soprattutto un diamisyos ad c(icatrices), un collirio adatto per Marcello empirico ad eliminare le irritazioni oculari e a ridurre la lacrimazione (ILS 8735; analoghi prodotti in ILS 8739, Voucluse). Simili preparati sono quelli del medico M. Lupius Merca a Cenabum in Lugdunensis (AE 2005, 1044), di L. Pompeius Nigrinus ad Alluy (CIL XIII 10021, 153): (h)arpas/ton ad recent(em) lippitu/dine(m) od(i)ent(em) die(m) ex ovo; fo{o}s ad lipp(itudinem) ex ovo. Per passare alla Belgica, si possono richiamare i prodotti di M. Claudius Martinus e M. Filonianus a Durocortorum (CIL XIII 10021, 46) e di Q. Iun(ius) Taurus a Nasium (CIL XIII 10021, 114): isochrys(um) ad scabrit(ias) et clar(itatem) op(obalsamatum); diasmyrn(es) post impet(um) lippit(udinis). Ancora in Belgica, vd. il medico C. Manucius Iunius a Divodorum : diar(hodon) ad l(ippitudinem), col(lyrium) ad clar(itatem) anodyn(um), on(guentum) aur(eum) ad o(culos) (CIL XIII 10021, 132). Tra i Remi, vd. M. Valerius Sedulus (CILXIII 10021, 190): penicille ad omne(m) lipp(itudinem) ex ovo, diasmyrn(es) post imp(etum) lip(pitudinis) ex o(vo), euodes ad asprit(udines) et cica(trices) vet(eres), diamisus croco(des) ad aspr(itudines) ve(teres). A Rugles conosciamo un collyrium fos post impet(um), un diapsoricum delacrimator(ium), un Dicentetum post impetum, un Dielaeum len(e) ad siccam lipp(itudinem), con l’istruzione: redu<p>licare ex sputo in ang(u)lo / f<o>ntan(a)e (CIL XIII 10021,211).Vd. anche CIL XIII 10021,55 e 71 (località incerta). Insomma, i medici arrivavano a praticare la professione dopo aver acquisito conoscenze e competenze che erano simili in tutto l’impero romano.

 

La bioetica

Ciò che colpisce è l’estrema attualità di alcuni temi legati già in epoca antica e tardo-antica al dibattito sul valore etico che deve improntare la ricerca e sul freno da porre ad una sperimentazione che travalichi allora come oggi gli ideali di humanitas. Gli attuali dibattiti sulla bioetica e anche le inquietanti notizie sui traffici di organi e la sperimentazione criminale su minori in difficoltà sembrano avere una singolare corrispondenza in alcune pratiche di vivisezione, realizzate nell’Egitto tolemaico, con finalità scientifiche, dai medici Erofilo, Erasistrato e Eudemo e nella dissezione dei cadaveri di bambini esposti cui fa riferimento Galeno nei Procedimenti anatomici. Il profondo articolo di Gabriele Marasco su Le conoscenze anatomiche nella ricerca e nell’insegnamento sotto l’impero romano conduce nel cuore della contrapposizione tra medicina dogmatica ed empirica, con la prima apertamente schierata a favore dell’utilità della vivisezione dal momento che la morte di pochi criminali avrebbe potuto salvare molti innocenti e la seconda recisamente contraria in nome degli ideali di humanitas e che condannava la crudeltà del medico inutilmente assassino, insistendo sul destino crudele delle povere vittime. Il legame con l’attualità diventa ancor più perspicuo se si riflette sulle radici della conoscenze scientifiche in campo medico-anatomico, laddove Galeno afferma l’utilità del ricorso alla dissezione del corpo della scimmia per via della sua somiglianza all’uomo: quasi si tratti di un’intuizione antesignana dell’evoluzionismo; e per converso pare andarsi affermando, già in antico, una qualche forma di sensibilità sociale nei confronti della dissezione e vivisezione su animali che porta lo stesso Galeno a richiedere l’assenso preventivo degli spettatori ad esperimenti pubblici in tal senso. Un recente caso di cronaca, avvenuto a Pavia tre anni fa, che forse alcuni di voi ricorderanno, dove una donna si sottopose a fecondazione assistita dando alla luce due gemellini dal cui cordone ombelicale furono tratte cellule staminali che dovevano servire a salvare la vita del bimbo più grande, affetto da talassemia, richiama poi alcune suggestioni di fondo presenti nel caso proposto da una declamazione latina dello Pseudo Quinto, cui fa riferimento Marasco, nella quale si pone la fattispecie di due gemellini ammalati, uno dei quali viene sacrificato dal medico, dietro il consenso paterno, per poterne esaminare gli organi interni al fine di salvare l’altro. La ricerca e la sperimentazione nel campo della medicina giustificano da una parte l’utilizzo della tecnica al fine di creare artificialmente vite che servano, almeno nelle intenzioni, allo scopo di salvarne altre e dall’altra possono alleviare l’istintivo orrore di una vita soppressa in favore di un’altra? Naturalmente non ho una risposta a questi quesiti.

Il dato di fatto che emerge quello di un filo rosso che lega culturalmente il passato e il presente delle società occidentali in rapporto alla riflessione etica e bioetica in materia di ricerca, di sperimentazione, di progressi, in taluni casi, più o meno avventuristici della medicina. Nel tardo-antico dell’Occidente accanto al filone della medicina ufficiale, del sapere medico che poggia le sue basi nell’elaborazione scientifica, etica, filosofica della medicina di epoca classica nel solco del quale si inseriscono i medici e gli archiatri formatisi presso scuole di medicina e su testi di solido impianto scientifico, perdura quello della medicina popolare, dei remedia empirici, della magia e dell’irrazionale.

 

Medicina, religione e magia

Accanto alla figura del malato si affianca in maniera imprescindibile, non solo quella del medico, ma anche del mago e poi, in ambito cristiano, dell’esorcista e del santo taumaturgo, scrive Sergio Giannobile (Malanni fisici e malanni spirituali nelle iscrizioni magiche tardoantiche) che porge alla nostra attenzione un quadro assai esaustivo di iscrizioni magiche su supporti di vario tipo (laminette in oro, argento, bronzo, o metalli più vili come il piombo, gemme, filatteri) per contrastare patologie come il mal di testa, l’infiammazione della gola, le coliche, la podagra come pure per compiere esorcismi in grado di scacciare le entità demoniache.

Del resto lo stesso Liber de medicamentiis di Marcello Empirico del principio del V secolo, come ben sottolinea Daniela Motta (Ab agrestibus et plebeis remedia: terapie mediche e riti magici in Marcello Empirico) si muove sul crinale tra medicina ufficiale e medicina popolare: i fortuita atque simplicia remedia ricavati ab agrestibus et plebeis, i rimedi dei pauperes e dei rustici hanno validità dal punto di vista scientifico, secondo Empirico, in quanto testati dalla sperimentazione.

Anche il contributo di Lia Marino (Patologie tra etica e politica in Ammiano Marcellino) credo che in parte restituisca la sensazione di questa convivenza del piano del razionale e dell’irrazionale: Ammiano scrive la Marino vuole riscattare il ruolo del medico sulla base di suggestioni culturali di antica risalenza. L’autrice altresì sottolinea con efficacia che nella deriva che logorava i puntelli ideologici su cui poggiava l’impero, sembra far capolino un sottile gioco di sponda tra l’esigenza di conferire dignità all’esercizio della medicina e l’affidamento a pratiche popolari e all’illicita divinatio seguita anche da alcuni imperatori, come Giuliano esperto di vaticini.

 

Le cause di morte nelle iscrizioni

Adda Gunnella (La mort au quotidien dans le monde romain, a cura di F. Hinard) ha studiato le iscrizioni che illustrano le cause dei decessi, distinguendo le morti accidentali (annegamenti, cadute, incidenti di lavoro ecc.) e morti avvenute per mano altrui come omicidi o uccisioni di civili in rapporto a disordini, guerre, assalti di ladroni; a questa seconda categoria, che definiremo di “male morti”, di morti brutali, appartenevano anche le morti attribuite ad avvelenamenti o più in generale a sortilegi e opere di magia e addirittura le morti avvenute durante i parti, che in qualche modo minacciavano la continuità di una famiglia o di un gruppo sociale.

Tra le morti più drammatiche, non solo per la sorte delle vittime, ma anche per l’impatto sui vivi, vi sono quelle attribuite ai sortilegi, alla magia e al veleno, che richiedevano competenze ben documentate in età imperiale in Sardegna: un veneficium vero o presunto era punito già in età repubblicana dalla lex Cornelia de sicariis et veneficiis, che colpiva la fabbricazione, la somministrazione e la vendita di sostanze venefiche.

In questo quadro molte iscrizioni contengono accuse contro i medici, del resto già formulate nelle opere di Plauto, Petronio o Marziale.

L’infausto risultato di terapie, ritenute fatali per la sorte del paziente, viene menzionato in numerosi epitafi nei quali, accanto alle consuete parole di cordoglio dei familiari, vengono formulate gravi accuse nei confronti dei medici, indicati apertamente come responsabili del decesso dell’amato.

Così un liberto imperiale P. Aelius Peculiaris non esita a denunciare le colpe dei medici per la scomparsa improvvisa – mors subita – a poco più di 27 anni, dell’amato alumnus Euhelpistus, quem medici secarunt et occiderunti (CIL VI 373367 = ILS 9441).

In un carmen urbano il defunto vuole far conoscere al passante l’infausto esito di un intervento chirurgico, che gli ha causato la morte (CIL VI 30112): semanimis iacui, medici male membra secarunt corpori.

Ucciso da un medico, precisus a medico, tmethìs upò iatrou è il bimbo cristiano ricordato in un testo bilingue da Nicomedia fatto incidere dal padre afflitto (CIL III 14188).

Per culpa curantium è deceduta a soli 28 anni l’amata moglie, mentre il marito era assente dalla Pannonia (CIL III 3355).

Ephesia Rufria è ricordata dal marito a Roma per esser deceduta a causa dell’ignoranza dei medici: “morì per una febbre maligna che le provocarono i medici e oltrepassò le loro previsioni”, se anche non si trattò di un fatto criminale, perché la febbre non fu curata forse dolosamente: qu[ae mala periit febri], quam medici praeter e[xpectatum adduxerant] (CIL VI 25580).

L’ignoranza dei medici è evidente a tutti anche perché sono i primi che non riescono a porre rimedio alle loro stesse malattie: così Alexander morto per una ferita al ginocchio, volnus genoris (CIL VI 9604), o come l’africano Marcellus bruciato dalla febbre, valida febre crematus (CIL VIII 11347). Oppure C. Plinius Valerianus medicus, morto a 22 anni, ricordato dai genitori a Como (ILS 7787).

Del resto i medici sono in grado di blandire, di consolare, non di curare davvero: offrono solamen e animi consolatio, non medicine efficaci: Medici illum perdiderunt, immo magis malus fatus; medicus enim nihil aliud est quam animi consolatio, secondo Petronio 42.

Il giudizio negativo sulla professione medica è esteso, ma non generalizzato. Eutyches, un auriga di Tarragona in Spagna riflette serenamente sulla propria sorte, sentendo arrivare la morte a 22 anni di età: le sue viscere sono state bruciate da un morbo nascosto, contro il quale nulla hanno potuto i medici di buona volontà: ussere artentes intus mea viscera morbi, vincere quos medicae non potuere manus (CIL II 4314).

 

Il parto

Il parto era un momento molto pericoloso per le donne nell’antichità e per i loro figli, perché avveniva spesso in condizioni igieniche precarie e senza l’adeguata assistenza ad esempio per nascite premature, parti podalici, setticemie puerperali. Un’epigrafe di età imperiale rinvenuta in Croazia CIL III 2267 ricorda così il dramma vissuto da una giovane schiava dalmata, Candida morta a 30 anni: <<Ella soffrì crudelmente per quattro giorni nel tentativo di partorire, ma non partorì e così lasciò la vita. Quae est cruciata ut pariret diebus IIII et non peperit et ista vita functa. La ricorda Giusto, il suo compagno di vita e schiavo assieme a lei>>.

Plinio il giovane ci riferisce delle due sorelle Helvidiae, appartenenti a una gens senatoria, morte entrambe di parto alla fine del I secolo d.C. Dopo aver messo al mondo una bambina viva e sana ciascuna. Tutto questo era conseguenza del fatto che se i medici avevano a disposizione ben pochi mezzi e medicinali inefficaci, per cui potevano tutt’al più alleviare il dolore ma non estirpare il male, ancor meno potevano farlo le pure numerose ostetriche o mammane alle quali le donne romane ricorrevano anche per gli aborti procurati, altra frequentissima causa di morte.

 

Iconografia

Su un sarcofago ritrovato a Pompei è scolpita una donna che posa una benda su uno scheletro appoggiato a terra: secondo Laura Montanini la benda o la corona mortuaria erano un omaggio al defunto che, in quanto tale, aveva partecipato e vinto l’agone della vita e insieme un invito a prender parte al banchetto funebre che si svolgeva presso la tomba: la Nike alata simbolo della vittoria si ritrova spesso rappresentata su stele o tumuli in n atto di offrire queste insegne a uomini o donne.

 

Credo ci si possa limitare a questa esemplificazione: ho fornito solo pochi esempi di un repertorio quanto mai vasto e articolato. Il mondo antico ci parla ancora oggi e noi ci proponiamo di rileggere le parole incise sulle pietre con l’obiettivo di ritrovare una storia che ancora ci appartiene nel profondo.




Apertura della 12th Conference of the International Committee for the conservation of mosaics ICCM

Attilio Mastino
Apertura della 12th Conference of the International Committee for the conservation of mosaics ICCM
Sassari, 27 ottobre 2014

Cari amici,

sono onorato di accogliere tanti colleghi, tanti ricercatori, tanti illustri ospiti provenienti da 24 diversi Paesi nell’Aula Magna dell’Università di Sassari, negli ultimi giorni del mio mandato di Rettore: già ieri sera ad Alghero l’Ateneo vi ha accolto sul mare del Golfo delle Ninfe, nei nuovi locali del Dipartimento di Architettura design e urbanistica, ma oggi volevo portare il saluto dei colleghi antichisti, archeologi e storici dell’Arte dei nostri altri Dipartimenti, il Dipartimento di storia, scienze dell’uomo e della formazione, il Dipartimento di scienze umanistiche e sociali, il Dipartimento Scienze della natura e del Territorio, che apprezzano l’azione svolta dall’International Committee for the Conservation of Mosaics, a partire dalla sua costituzione nel 1977 e che seguiranno questa 12a Conferenza triennale dell’ICCM, al quale oggi aderiscono oltre cento Stati.

Tratterete in questi giorni tanti aspetti differenti, legati alla specificità della conservazione del patrimonio musivo, con riferimento alle nuove tecnologie legate alle indagini territoriali, agli scavi, alla documentazione, al restauro: le risorse economiche, i costi, il management, le diverse metodologie di scavo, la musealizzazione, lo sviluppo del turismo, l’insegnamento e l’educazione, gli scambi internazionali di esperienze.

Grazie a chi ha scelto per questa dodicesima edizione la Sardegna, l’isola dalle vene d’argento, tanto ricca di novità e di nuove scoperte anche in ambito musivo: grazie al Presidente del Comitato organizzatore Demetrios Michaelides, presidente dell’ICCM e professore nell’Università di Cipro; grazie a Roberto Nardi, vice presidente dell’ICCM, del Centro di Conservazione Archeologica di Roma, che abbiamo visto all’opera in Sardegna nel restauro delle statue dei Giganti di Monte Prama; grazie alle Soprintendenze archeologiche della Sardegna, in particolare ad Antonietta Boninu e ora a Gabriella Gasperetti; grazie al Comune di Porto Torres. Infine grazie a The Getty Conservation Institute di Los Angeles.

Sono molto onorato di far parte del Comitato Scientifico coordinato dall’amica Aicha Ben Abed, che comprende tanti nomi illustri provenienti da tutto il mondo, conosciuti non solo nel nostro ambiente, Evelyne Chantriaux, Stefania Chlouveraki, Stefano De Caro direttore dell’ICCROM, Sabah Ferdi, Anne-Marie Guimier-Sorbets, John Stewart, Jeanne Marie Teutonico del Getty Museum. Voi tornate in Italia dopo la prima Conferenza di Roma nel 1977, la seconda di Aquileia nel 1983, la decima di Palermo nel 2008, dopo esser passati per Soria e Palencia in Spagna, per Faro e Conimbriga in Portogallo, per Nicosia a Cipro, per Saint-Romain-en-Gal e Arles in Francia, per Salonicco in Grecia, per Hammamet in Tunisia, per Meknés in Marocco.

Per preparare questo incontro, il 20 marzo scorso a nome dell’Università di Sassari ho siglato un accordo di cooperazione accademica con il Presidente dell’ICCM Demetrios Michaelides, che ci ha consentito di percorrere una strada comune,  grazie anche all’impegno dei nostri impareggiabili Maria Bastiana Cocco, Alberto Gavini e Paola Ruggeri, che seguiranno i vostri lavori. Dal numero delle relazioni, dei poster, delle visite guidate penso che quello che oggi inauguriamo sarà un incontro davvero fecondo e ricco di risultati scientifici, che come di consueto saranno consacrati nel volume di Atti. Dagli abstracts ho visto il quadro internazionale, la capacità di spaziare nel tempo e nello spazio, dall’età antica quasi fino ai nostri giorni. Soprattutto mi ha colpito il ruolo che nei vostri lavori verrà occupato dal patrimonio musivo del Nord Africa e in particolare della Libia, un paese che ho visitato di nuovo, poco prima della rivoluzione, ricavandone aancora una volta un’impressione fortissima di vitalità e di ricchezza, come nella villa di Silin, a Lepcis Magna, a Sabratha, nel Museo di Tripoli, a Cirene, a Bengasi. L’orma dell’imperatore africano Settimio Severo. Oggi, quel patrimonio è messo gravemente a rischio e tutti noi sentiamo forte l’esigenza di un processo di pace al quale l’Europa deve partecipare con serenità, senza anteporre interessi nazionali o valutazioni economiche per una politica che costruisca davvero un Mediterraneo di pace. Auguro che i prossimi anni possano vedere la fine di una lunga crisi che ha portato instabilità e tragiche divisioni.  Solo così alcuni vostri progetti, come quello del King’s Colleg London intitolato “Conserving and Managing Mosaics in Libya” potranno trovare pratica realizzazione.

Colgo l’occasione per adempiere ad un compito che onora me e il nostro Ateneo, quello di consegnare il sigillo storico dell’Università di Sassari a un Maestro di fama internazionale, il Presidente onorario dell’ICCM Gaël de Guichen dell’Università di Paris I-Sorbonne, ispiratore del percorso che in questi anni ha portato alla definizione della teoria della conservazione preventiva. Lasciatemi ricordare gli interessi africani del nostro Ateneo per spiegare come con questo segno vogliamo rendere omaggio al fondatore dell’Ecole du Patrimoine Africain di Porto-Novo, Bénin e del Program for Museum Development in Africa, ora Centre for Heritage Development in Africa a Mombasa, Kenya.

 

Cari amici,

a Porto Torres tra due giorni visiterete il Parco Archeologico di Turris Libisonis, con le nuove scoperte, il mosaico di Orfeo e gli emozionanti resti delle ville che si affacciano sulle mura  della colonia e sul corso del Rio Mannu a breve distanza dal ponte romano: dieci anni fa presentammo a Siviglia in occasione del XVII Convegno internazionale de L’Africa Romana la straordinaria iscrizione rinvenuta all’interno di una ghirlanda sul pavimento a mosaico di una di queste ville. Togliendo gli aspetti più imbarazzanti e un poco minacciosi leggo il testo in questo modo: quod benistis, contenti estote, tuti fecistis, qui probissimi superbenistis. Il richiamo alla probitas è già nel Bellun Iugurthinum di Sallustio, con riferimento alle doti morali di Gaio Mario e ritorna nel discorso di Aderbale in Senato e nel prologo dell’opera. Desidero allora augurarvi con amicizia e simpatia <<Benvenuti in Sardegna>>, sicuro che siete arrivati con le migliori intenzioni, probissimi, dopo aver preparato relazioni rigorose ed originali, spero che ve ne ripartirete a fine settimana contenti e auguro che possiate raggiungere tuti, in piena sicurezza le vostre sedi.




Conclusioni al Convegno su “Bosa, la città e il suo territorio dall’età antica al mondo contemporaneo”

Attilio Mastino
Conclusioni al Convegno su
“Bosa, la città e il suo territorio dall’età antica al mondo contemporaneo”
Bosa, 24-25 ottobre 2014

Cari amici,

dopo due giorni di lavori davvero intensi, dopo tante novità, tante piste aperte, tanti colori e tante immagini, spetta a me concludere questo Convegno, fortemente voluto dal direttore del Centro interdipartimentale di studi storici Antonello Mattone e dai direttori del Dipartimento di storia, scienze dell’uomo e della formazione Maria Margherita Satta e ora Marco Milanese.

Grazie ai Vescovi Mauro Maria Morfino, Paolo Atzei, Pietro Meloni, grazie a mons. Antonio Francesco Spada, a Suor Alessia per la straordinaria ospitalità nell’auditorium del Palazzo Vescovile di Bosa, al Rettore Emerito dell’Università di Cagliari Pasquale Mistretta, a Tonino Oppes, a Maria Antonietta Mongiu, a Roberto Porrà, a Guido Melis, ai tanti relatori, agli autori dei 40 posters, ai nostri carissimi studenti, alle autorità, ai tantissimi cittadini presenti, primo tra tutti il sindaco di Bosa, mio fratello Luigi Mastino, l’Assessore Foffo Campus, l’ex Sindaco Piero Casula e l’ex Assessore Lilli Piu. I tanti amministratori dei comuni della Planargia e del Montiferru che hanno voluto essere con noi.

 

Grazie ai decani dei nostri studi, i carissimi Massimo Pittau e Manlio Brigaglia.

Grazie a chi ha organizzato queste giornate, Maria Bastiana Cocco, Pier Paolo Longu, Alberto Gavini, Simone Pisci, Cinzio Cubeddu, Gianni Madeddu, Davide Fiori, agli autisti dell’Università Laura Deriu e Salvatore Solinas. A Bosa grazie a Rita Mozzo, Vincenzo Mozzo, Giovanni Carta, Maria Carmina Masala, Giancarlo Mannu. Grazie ai tanti laureati nei due Atenei isolani che hanno fornito dati e documenti dalle loro tesi di laurea. Grazie alla Soprintendenza archeologica e a Gabriella Gasperetti, agli assegnisti Laura Biccone, Luca Sanna e Alessandro Vecciu. Grazie a Bernardo Demuro per la sua bella e inconsueta Ode a Bosa, che compare su un poster. Grazie ai componenti del Coro a Traggiu e del Coro di Bosa, all’Università della terza età, all’Associazione turistica Pro Loco, alla Biblioteca civica, alle diverse cooperative, La città del sole, L’antico tesoro, l’Associazione culturale La Foce, che hanno reso possibile l’accesso ai monumenti, ai musei, all’archivio storico.

Grazie a Salvatore Naitana e ad Andrea Rotta per il filmato sui delfini del Mare Sardo trasmesso questo pomeriggio ma girato ieri al largo dell’Isola Rossa, nel quadro della ricerca Sardegna Nord Cetacei. Grazie ai tanti allievi e colleghi che hanno lavorato intensamente in questi mesi, coltivando curiosità e passioni vere. Sono state unite tante energie diverse, per ricostruire un mosaico articolato e originale, per cercare di capire in profondità una città che ci è cara e il suo territorio.

Possiamo osservare tante novità, tanti passi in avanti, tanti frammenti di uno specchio che si sta progressivamente ricomponendo. Tanti punti di vista, tante sensibilità diverse, tanti modi per osservare e per conoscere.

So che l’Editore Carlo Delfino, oggi presente con noi, si impegna a procedere rapidamente, come concordato, alla stampa del volume degli Atti, con la partecipazione di oltre un centinaio di autori.

Grazie per la dimostrazione di affetto nei miei confronti negli ultimi giorni del mio mandato di Rettore dell’Università di Sassari; soprattutto nei confronti della mia città, anche per i gli straordinari risultati dovuti a una riflessione non convenzionale su un luogo amato dai poeti, dai turisti, da noi tutti.

Avete ricostruito in questi giorni nelle relazioni, nelle comunicazioni presentate da tanti giovani ricercatori, nei poster, la storia e la geografia di un intero territorio, partendo dall’età protostorica e dall’età nuragica, con la saporita polemica sulle origini di Bosa animata da Massimo Pittau e Raimondo Zucca; ma un’altra polemica ha visto contrapposti Antonio Francesco Spada e Roberto Porrà a proposito dell’archivio diocesano e dell’archivio della Cattedrale: una piccola testimonianza di un’attenzione e di un impegno per il futuro. Sono stati presentati dopo tanti anni i risultati degli scavi archeologici e delle esplorazioni topografiche effettuati a Sa Idda Ezza, a Messerchimbe, a San Pietro, sul fiume, alla foce: la localizzazione della città romana, le iscrizioni a partire dall’enigmatica lastra marmorea studiata da due maestri, Lidio Gasperini e Marc Mayer, che ci ha conservato il ricordo della dedica delle quattro statue d’argento nel tempio di Roma e di Augusto e ci ha informato sull’organizzazione cittadina e provinciale del culto imperiale nell’età degli Antonini. E poi Cornus, la città di Ampsicora e la sua partecipazione al Bellum Sardum dalla parte di Annibale, la colonia romana in età imperiale. Ancora il cristianesimo, con le basiliche di Cornus e a Bosa il culto di Elena e Costantino, i corpi santi di Emilio e Priamo e la loro scoperta nel 1603 ad opera del vescovo Gavino Manca de Cedrelles, l’inventore dieci anni dopo come arcivescovo di Sassari dei santi martiri Gavino, Proto e Gianuario nella basilica di Porto Torres: l’immagine dei tre martiri turritani sarebbe stata adottata in quegli anni dai Gesuiti nel sigillo storico dell’Università. Ancora a Cuglieri la rivalutazione della tradizione intorno alla misteriosa figura della famula Dei Imbenia. E poi il mito di Calmedia fin dal Seicento, le iscrizioni falsae e la visita a Bosa nel 1881 di Johannes Schmmidt, allievo di Theodor Mommsen, il ruolo di Gavino Nino, forse uno dei falsari (con Salvatorangelo De Castro) delle Carte d’Arborea, le monete, la zecca catalana. E il territorio della Planargia e del Montiferru al margine meridionale del giudicato logudorese con le antiche curatorie, fino Cornus, con Magomadas, Tresnuraghes, Sennariolo, Scano Montiferro, Cuglieri, Flussio, Suni, Tinnura, Modolo, Sagama, Sindia, Montresta e oltre.

Ancora le indagini archeologiche sul colle di Serravalle, il Castello dei Malaspina, la signoria alla fine dell’età bizantina e del regno giudicale del Logudoro. Le tante novità sulla situazione topografica della valle del Temo, a partire dalle isole alla foce, il delta fluviale, il porto, forse la scoperta dell’isola che non c’è, quella sulla quale era stata costruita la chiesa di San Paolo Eremita, ben distinta dall’Isola Rossa.

L’età catalano-aragonese e poi la presenza arborense fino agli ultimi giorni del Giudicato, il lento travaso urbano, l’abbandono della Bosa Manna erede del municipio romano, ricordata dal Libellus iudicum Turritanorum come patria all’inizio del XII secolo di Marcusa de Gunale, la madre di Gonario di Torres, il fondatore di N.S. di Corte a Sindia. E ormai la nuova Bosa alle falde del colle di Serravalle, con le sue mura e i suoi fondaci, con le caratteristiche aree a corte sede delle attività dei rappresentanti consolari stranieri interessati allo sviluppo dei commerci. Nel sito della Bosa Vetus bizantina e giudicale, come la chiamò Giovanni Spano, restava la cattedrale costruita nel 1073 dal primo vescovo Costantino De Castra, ben prima dell’arrivo dei Malaspina. Dietro ciascuno di questi temi rimangono problemi aperti di difficilissima soluzione, con una cronologia che continuamente viene corretta e rettificata sulla base delle nuove scoperte.

Le indagini sull’età medioevale e moderna sono state possibili soprattutto grazie alle ricerche d’archivio, al ruolo della cooperativa La Memoria Storia e della Soprintendenza archivistica, penso a Cecilia Tasca, a Roberto Porrà, ad Amalia Santona. Due anni fa per Carocci editore è uscito il volume di Cecilia Tasca Bosa città Regia 1421-1826, capitoli di corte, leggi e regolamenti, che in qualche modo sintetizza una storia, definisce gli statuti e i privilegi urbani, rinnova alla radice i dati della tradizione. In questi giorni Cecilia Tasca ci ha regalato un altro volume per AM&D Edizioni, Bosa nel tardo medioevo, Fonti per lo studio di una città mediterranea, con una piccola grande scoperta, quella degli attributi che si attribuivano alla città spagnola : Illustre, Fidelissima y Zelant com la millor del Regne.

Emergono allora i documenti sulla baronia, il feudo dei Villamarì, l’amministrazione civica, il seicento barocco spagnolo che si manifesta pienamente nella Relacion de la antigua ciutat de Calmedia, da ultimo nell’iscrizione inedita su marmo di Carrara della Domus Regia o Domus Curiae, già di proprietà della Principessa di Salerno, poi Casa di città, oggi di proprietà d Amalia Mastinu in Vico Palazzo e Via del Carmine. Dunque di nuovo la città Regia, con le sue tante richieste ai Parlamenti spagnoli: le mura, il ponte, l’acquedotto, il porto, i dazi, le terre pubbliche, più tardi il lento passaggio verso la proprietà perfetta, le chiudente sul Marrargiu. L’arrivo dei Savoia, il Settecento e lo sviluppo dell’Ottocento, le visite di Carlo Alberto, l’urbanistica con il nuovo strumento urbanistico, il Piano d’Ornato, il Risorgimento in Planargia con i Deputati come Gavino Nino e i Senatori come Salvatore Parpaglia, tante altre figure che si incrociano con la storia di Bosa, come nei diari di Paolo Mantegazza o nella biografia di Pasquale Mola. Infine il ruolo di Palmerio Delitala nella nascita del Partito Popolare e della Democrazia Cristiana.

Il Novecento, con il Fascismo, le guerre, la povertà senza limiti, come quella che Tata Carboni ha voluto descrivere per gli anni 40. La riforma agraria, l’agricoltura fondata sull’olivicoltura e le celebrate olive bosane, la vite, la produzione di malvasia, la pesca, l’allevamento. Ancora le tradizioni che sopravvivono, la musica, l’arte, il carnevale, le tante altre feste popolari, appuntamenti insieme variopinti e scherzosi, ma anche elementi preziosi giunti fino a noi di un’identità lontanissima, che è insieme alla radice dei tanti valori di oggi e insieme si trasforma continuamente. Le figure di Melkiorre, Federico e Olimpia Melis sintetizzano un gusto che ritroviamo in Antonio Atza ma anche in tanti altri artisti e più in generale nei prodotti di tante artigiane del quartiere di Sa Costa impegnate nella lavorazione del filet, nell’arte di dipingere con l’ago: <<di ricamare sulla tela di lino uccelli incantati in selve incantate e simboli per le mense eucaristiche>>.

E poi l’ambiente naturale incontaminato, sintetizzato dai grifoni, esaltati di recente dalla straordinaria opera d’arte donata all’Università di Sassari dal maestro Elio Pulli, capace di raffigurare un grifone che trionfa su un cinghiale della Sardegna. Per me i grifoni che volano larghi e si muovono tra le falesie di Capo Marrargiu e i canaloni vulcanici che conducono a Montresta passando per i costoni di Badde Orca continuano a ricordare una giovinezza lontana e luminosa, continuano a rappresentare un simbolo di libertà, un elemento identificativo della biodiversità della nostra isola. Il rimpianto per la recente scomparsa di un amico, l’ornitologo Helmar Schenk, di cui ci ha parlato Vincenzo Tiana. L’ambiente fluviale così caratterizzato e originale. Le polemiche sulla nascita dei parchi e delle riserve naturali, l’area marina protetta, i Siti di interesse comunitario, le risorse ambientali e naturalistiche di interesse paesaggistico, i giardini, le zone verdi. I musei, i monumenti, il patrimonio dei beni culturali, fino alle chiese, agli affreschi, alle tante opere d’arte, agli organi a canne. E poi il bellissimo monumento ai caduti con una spettacolare Vittoria alata, la diga di Monte Crispu, il nuovo porto, lo sviluppo verso il turismo nautico.

In passato ho osservato che <<per tracciare un profilo storico di Bosa dall’antichità si può partire dalla geografia: il fiume, il mare, l’altopiano e la montagna hanno profondamente condizionato le forme dell’insediamento umano, le dimensioni stesse delle case e delle barche, che sono rapportate alla ricettività degli approdi portuali, alle forme della linea di costa, ai fondali, ricchi di corallo e di pesci. E’ la geografia che condiziona il bizzarro percorso della ferrovia, che sembra studiato per unire tra loro i comuni della Planargia; la geografia spiega molte delle caratteristiche del popolamento e molte attività economiche, le miniere, le antiche gualchiere sul Rio Mannu, le concerie, i mulini, fino alla cantina sociale di Flussio per la produzione della malvasia. Ma anche la pastorizia e l’agricoltura nella valle del Temo>>.

Un capitolo significativo in questo quadro è rappresentato dalla letteratura, la cultura, le scuole: si può partire dal fondatore della storia e della geografia della Sardegna Giovanni Francesco Fara alla fine del Cinquecento, poi i grandissimi poeti e intellettuali della Sardegna, come Pietro Delitala (che seguiva il modello di Torquato Tasso), il poeta plurilingue Gerolamo Araolla, il vescovo Nicolò Canelles, fino ad arrivare all’Ottocento, fino a Gavino Nino e poi nei primi anni del Novecento a Giovanni Nurchi: fu lui a preconizzare una Bosa Redenta, rispondendo trionfalmente alle malignità del poeta Melkiorre Murenu, perché la città in pieno degrado, derruta, istenuada dae tanta maladia doveva finalmente affermarsi come una realtà nuova, una Bosa risuscitada. Certo qualche decennio prima la città si era sentita ferita dalla feroce ironia del poeta di Macomer, che con Sas Isporchizias de Bosa, facendo leva su una realtà distorta e sul clima malarico, aveva voluto denunciare in modo implacabile un luogo che sentiva ostile.

Deo, cun tottu ch’hapo ment’abbizza,

s’animu non mi bastat chi lu conte,

unu chi s’incontresid in su ponte

M’iscriet chi l’hat fattu meravizza,

in tres minutos vasos settemizza

De merd’a su fiumen’ hant bettadu.

Ma la lezione di Giovanni Nurchi ormai aveva fatto scuola, come dimostra il rimpianto per la “Divina Calmedia” sulle pagine del diario di Amalio Stinotti o tante altre pagine di viasggiatori. A interpretare meglio questo sentimento è stato il poeta della disperazione Orlando Biddau, che descrive il paesaggio, la marina, le case, la stazione degli eucalipti: «La mia inerzia si scioglieva al sole

lungo il viale o dalla città alla marina,

o più spesso lungo la strada inversa

presso la stazione si destava al singulto del vento».

E  ancora:

«La pioggia indolente rimena

un antico torpore assopito,

si perdono le acace nella nebbia

presso la vecchia stazione

che sa le partenze e le soste,

la via del fiume lungo i giunchi

e i canneti, il mare aperto».

Dunque la marina, all’estuario del Temo, dove tornano alla mente gli sconsolati gabbiani che planavano lenti sul greto:

«Respira il mare ed io son vivo,

le barche in secca a un porticciolo di sassi

come ramarri al sole. Venimmo

un mattino a quest’isola verde

per sciogliere il voto, ed il passo

e il respiro era incerto a violare

le intatte scogliere ove cielo

e mare si fondevano.

Candide ali si aprivano

sulle braccia nude dei fanciulli,

colombacci marini; tra frusci

d’azzurro e spumeggi

si tuffavano in acqua, emergevano

con un riso acerbo, agguantando

esultanti un’orata!

Tenera come la gola della lucertola

la memoria della spina di ieri.

Dietro il faro e la torre

un pane frugale, e di ritorno

con un fiore di giunco.

Come lungo cammino della memoria,

come arsura bramosa dell’oblio,

un fiore di giunco».

Questa città e questa Sardegna speciale è stata raccontata da tanti, che hanno saputo cogliere anche il lato oscuro di una storia e di una tradizione: così in una famosissima pagina del romanzo Procedura, Salvatore Mannuzzu descrive Bosa come una cittadina di provincia tutta avvolta in un passato senza presente e senza futuro, in cui i vecchi palazzi del Corso d’una qualche tradizione civile, che denunciano una prosperità purtroppo perduta, diventano la teca ideale per custodire le fotografie ingiallite della memoria: lo scenario è letterariamente perfetto per accogliere una volontaria prigionia, per seppellire la solitudine cupa di una donna bambina precocemente invecchiata.

Eppure mi sembra che sia stato soprattutto Billia Muroni (dopo Salvatorangelo Spanu e Ottorino Mastino) ad insegnarci ad amare un territorio straordinario, ricco di memorie storiche e di emergenze culturali: egli ci ha mostrato che anche la microstoria della Planargia ha una sua dignità e caratteri peculiari, all’interno della più vasta storia della Sardegna, segno della diversità e della originalità di queste comunità. Da qui bisogna partire per fare veramente di Bosa e della Planargia insieme un ideale e sofisticato luogo di soggiorno, in un ambiente di elevata qualità, molto caratterizzato ed originale. Muroni sapeva bene che la causa dell’isolamento di questo territorio e del frazionamento delle comunità è soprattutto da ricercarsi nei condizionamenti, nei limiti e nella prospettiva della gente di Bosa, un capoluogo che spesso ha rinunciato alla sua funzione di coordinamento e che si è ripetutamente ripiegato su se stessa. Giovanni Sistu, in alcune tra le più belle pagine scritte su Bosa, nel volume pubblicato sulle città dell’isola dal Banco di Sardegna, è riuscito a spiegare questo aspetto della storia di Bosa, richiamando quel “senso di insularità” che un noto studioso inglese riscontrava nelle comunità medioevali chiuse dentro le mura, delle quali sottolinea l’importanza psicologica. Per Bosa questo senso di insularità sarebbe una costante storica, che sembra persistere al di là della scomparsa delle mura, della demolizione dell’elemento fisico dell’isolamento. In realtà questo Convegno a consentito di correggere in parte quest’impressione, ha messo in luce il fervore dei commerci a partire dal medioevo, il porto, il fiume, la raccolta del corallo, le concerie, le miniere, i traffici e le relazioni con l’”altra” Sardegna e verso altri porti del Mediterraneo.

Altrove Muroni ha parlato di Bosa come di una nobildonna decaduta; io credo che anche lui condividesse però il giudizio sulla diversa qualità dello sviluppo civile di questo centro, nei suoi rapporti con il territorio circostante, che ha profondissimi elementi di identificazione ed ha marcati segni di identità, risultato di una storia lunga, che ciascuno di noi è consapevole di portarsi dietro, con una rete di rapporti, di relazioni e di eredità che rappresentano veramente la ragione per la quale noi per Bosa parliamo di città e di ambiente urbano, anche quando la crescita demografica presenta – come oggi – un saldo negativo. Anche quando i monumenti si sbriciolano, come la Cattedrale, già nell’anno del Grande Giubileo.

Oggi Bosa non è solo un insieme di monumenti, un paesaggio, una forma urbana espressione di determinanti storiche; è un modo di vivere, forse un clima, un’atmosfera, una rete di sentimenti e di sensazioni, un piccolo mondo articolato e al suo interno straordinariamente complesso. Questo paese disteso sulla collina come un vecchio addormentato ha una sua precisa fisionomia ed una sua identità, non può essere condannato ad una perpetua malattia, alla noia, all’abbandono, al niente. I bosani non possono essere votati alla disgregazione, alla fuga ed alla nostalgia. Ben vengano dunque le idee, i progetti, le novità, per costruire una città più moderna, ma sempre nel rispetto di una identità, di una realtà nobile e delicata, di un’eredità che non è fatta solo di pietre e che non si può disperdere al vento in vista di un’utilità immediata.

Chi ha voluto questo convegno intendeva folrnire un contributo alla valorizzazione di una città nobile e di qualità, oggi in crisi di identità, profondamente ferita e delusa, che rischia di rinnegare sé stessa, di annullare il proprio passato, di dimenticare le proprie radici. Ottorino Mastino rivolgeva ai giovani l’invito di non vergognarsi mai di essere sé stessi, di guardarsi dagli speculatori e dagli affaristi, di difendere, assieme ai valori monumentali e del paesaggio, all’ambiente naturale, soprattutto un ideale di nobiltà e di distacco.

Pasquale Mistretta si chiedeva poco fa come sarà Bosa tra quarant’anni, partendo dal suo straordinario articolo firmato con M. Lo Monaco intitolato Modificazioni di assetto territoriale in ambiente tipico. Bosa e la Planargia, uscito in “Critica Tecnica” nel 1974, un lavoro incredibilmente profondo, che avevo commentato quaranta anni fa sulle colonne de L’Unione Sarda, mettendo in evidenza il ruolo della Planargia nelle prospettive di sviluppo della Sardegna: le nuove funzioni, il turismo, l’agricoltura, l’allevamento, la pesca, i servizi. Ancora oggi io sono convinto che la città riuscirà a svilupparsi, a costruire il suo futuro partendo – sono parole di Pasquale Mistretta – dalla qualità del suo ambiente urbano e naturale, dal particolare livello socio-culturale, dalla sua tradizione umanistica. Se guardo val futuro, non posso immaginare passi indietro o disperazione, anche in un momento di crisi come quello di oggi, con tanti giovani che rimangono inspiegabilmente nella disperazione dei senza lavoro.

Forse questa è l’occasione per rilanciare tanti progetti: il Museo archeologico di Bosa e della Planargia (con il completamento dell’allestimento e ordinamento scientifico), la protezione degli scavi di Cornus, gli itinerari religiosi nel Montiferru, il fiume Temo che già negli anni settanta Antonio Romagnino voleva bonificare, la torre dell’Isola Rossa e le altre torri spagnole tra Foghe, S’Ischia Ruggia, Columbargia, Argentina; il turismo nautico, le produzioni di qualità che si affermano grazie all’ingegno di tanti operatori.

Allora vorrei chiudere anche facendomi trasportare per un momento dalla commozione: lasciate che dica che mi considero fortunato perché siamo riusciti a mobilitare tanti amici per questa occasione preziosa. Il sentimento che provo è innanzi tutto di gratitudine e di apprezzamento per l’impegno e la sensibilità di tutti.

Questo incontro cade negli ultimi giorni del mio mandato di Rettore: grazie per la presenza anche in quest’occasione al Prorettore Vicario Laura Manca, ai direttori dei Dipartimenti Andrea Montella (Scienze Biomediche), Salvatore Naitana (Medicina Veterinaria), Maria Margherita Satta e Marco Milanese (Storia, scienze dell’uomo e della formazione). Li ho sentiti sempre vicini e amici. Il nuovo Rettore Massimo Carpinelli per un equivoco causato da me non è potuto essere presente e se ne scusa. Venerdì prossimo io chiuderò il mio mandato davanti ai nostri cento migliori studenti, con la voglia di passare il testimone a persone che sono sicuro faranno meglio di noi.

Ma intanto, oggi, vogliamo dire grazie a tutti voi per aver voluto dedicare questi due giorni a riflettere sulla Sardegna e su una città che amiamo, in un momento di crisi come quello terribile che sta attraversando. Forse inizia davvero una nuova primavera.