Attilio MASTINO – Raimondo ZUCCA. Insular identity.

Attilio MASTINO Raimondo ZUCCA
Insular identity
Barcellona, 5 novembre 2015

(testo letto da Raimondo Zucca)

0. Identità insulare nell’antichità

Il tema identitario costituisce uno dei filoni più fecondi della storiografia moderna ed in quanto tale rappresenta uno degli approcci contemporanei ad un ambito, nel nostro caso antichistico, della ricerca. I nostri strumenti, tuttavia, sono le fonti, tutti i tipi di fonti antiche (letterarie, epigrafiche, giuridiche, numismatiche, toponomastiche,  storico-artistiche, archeologiche, antropologiche etc.) attraverso l’interpretazione delle stesse che ci guidano alla individuazione sia delle manifestazioni identitarie autoctone (culturali, linguistiche etc.), sia dei modi di vedere autoctoni gli “altri”, sia, infine,  delle classificazioni identitarie che le altre culture, entrate in rapporto con gli autoctoni, diedero dei sistemi antropogeografici presi in esame.

Per l’antichistica  ci piace ricordare  il volume miscellaneo Cultural Identity in the Ancient Mediterranean curato da Erich S. Gruen (2011), il lavoro  coordinato da Antonio Caballos Rufino e Sabine Lefebvre, Roma generadora de identidades: la experiencia hispana. Collection de la Casa de Velázquez, (2011), e per il tema insulare gli Atti del VI Congresso di Erice, curati da Carmine Ampolo, Immagine e immagini della Sicilia e di altre isole del Mediterraneo antico (2009).

Il nostro lavoro si sofferma su alcuni aspetti delle identità insulari del Mediterraneo romano, rinunciando senz’altro ad individuare delle costanti, poiché la chiave di lettura del mondo insulare deve essere individuata nella dinamica storica dei paesaggi antropogeografici di ogni isola.

 

1. Île-carrefour / île-prison – conservatoire

Uno dei fondatori delle Annales, Lucien Febvre, ha dedicato alle isole il secondo capitolo «Les petits cadres naturels: les unités insulaires», nel quadro  delle «possibilités et genre de vie», troisième partie della sua opera «La terre et l’évolution humaine. Introduction géographique à l’histoire». Il volume di L. Febvre è un classico della geografia umana ad onta della sua data di pubblicazione, il 1922, come riflettono le varie edizioni e ristampe fino all’ultima del 2014 e la sua continuativa utilizzazione da parte di studiosi di vario ambito, antichisti, medievisti[1], modernisti, storici del diritto etc.

È stato osservato che La Terre et l’évolution humaine di L. Febvre costituisca la critique basique du déterminisme insulaire[2], che va a colpire il concetto tradizionale antico di insula come terra mari cincta, e qunque isolata  poiché, secondo Festo, Isidoro ed altri le insulae dictae quod in salo sint[3].

Prenderemo, dunque, le mosse da una celebre pagina di Febvre sovente citata negli studi sulle isole dell’antichità:

Les rivages sollicitent, notions-nous, tous ceux qui, prenant un point d’appui sur eux, s’élancent à travers le libre espace marin et mènent la vie aventureuse du navigateur. — Mais, nous l’avons dit auparavant : l’île est donnée, couramment, comme le type même du domaine d’isolement sur la mer. Contradiction. Comment la résoudre ? Disons-le tout de suite, il n’y a pas à la résoudre ; il n’y a qu’à accuser la contradiction, aussi nettement que possible. Et qu’à essayer, pour commencer, de comprendre comment s’est créé le thème de l’isolement insulaire. (…)Évidemment, il y a des îles perdues dans l’espace océanique, tout à fait à l’écart des grandes routes et des grands courants de circulation maritime. (…) Pourquoi même aller si loin ? En pleine Méditerranée, un îlot comme Scarpanto, l’ancienne Karpathos, entre la Crète et Rhodes, donne l’impression, aux rares voyageurs qui y abordent d’aventure, du plus absolu des isolements. (…)Mais, par contre, il y a des îles placées sur les grandes routes du globe, à des points de bifurcation des principaux itinéraires mondiaux : à des carrefours maritimes. Comment les comparer aux premières ? Voici la Sicile et la Crète dans la Méditerranée d’autrefois (…)Que l’on pense à la Sicile, tour à tour phénicienne (pour ne point remonter plus haut), puis grecque, puis carthaginoise, puis romaine, puis vandale et gothique et byzantine — arabe, et puis normande, et puis angevine, aragonaise, impériale, savoyarde, autrichienne… Arrêtons-nous: l’énumération complète serait interminable. Et sans doute à tous ces changements politiques n’a pas correspondu un changement total de civilisation, l’établissement d’une culture et d’une vie matérielle toute nouvelle; la remarque n’a pas besoin d’être faite. Mais chacune de ces vagues successives qui ont recouvert, plus ou moins longtemps, l’antique sol sicilien a laissé quelque chose sur le rivage en se retirant au loin. Autant de dominations, autant d’expériences, à tout le moins. Sociétés insulaires ? Mais qui va comparer une île de cette sorte, une île-carrefour, à ces îles-prisons qui semblent autant de conservatoires de vieilles races éliminées, de vieux usages, de vieilles formes sociales bannies des continents ? Qui va comparer, pour ne pas chercher plus loin, cette Sicile convoitée, disputée, colonisée sans répit, avec la Corse voisine ou la Sardaigne ?

Al concetto chiave febvriano di île-carrefour contrapposto à îles-prisons- conservatoires si sono richiamati Sylvie Vilatte per le le isole greche[4] e, più recentemente, Carmine Ampolo  che nel suo Isole di storie, storie di isole[5] attenua la opposizione febvriana fra Sardegna e Sicilia:

Credo che nel caso specifico questa opposizione tra Sicilia – île carrefour e Sardegna e Corsica îles-conservatoires o persino isole-prigione – sia ormai inaccettabile, almeno per chi si occupa di preistoria e protostoria o anche di storia antica (malgrado periodi di relativo isolamento o ad esempio di una Sardegna luogo di condanna ad metalla e di una Corsica luogo di esilio di un Seneca).

Alle stesse conclusioni è giunto Stephane Gombaud, nel suo studio Iles, insularité  et îleité:

Enfin, le thème de la navigation et de l’isolement insulaire doit être repris dans une perspective historique. Si quelques îles nous apparaissent comme des prisons, il ne s’agit que d’un point de vue subjectif. Un bout du monde peut devenir une destination prisée voire un relais sur une nouvelle route maritime. Le thème de l’isolement insulaire est une fiction, un thème créé à partir de quelques considérations accidentelles (les îlots “perdus”au milieu des océans) et soutenu en réalité par un tour d’esprit anhistorique. La Sicile n’est pas davantage une île-carrefour qu’une île-prison, quand ce serait l’inverse pour la Sardaigne. En réalité, chaque île apparaît comme close ou ouverte en fonction de la civilisation qui la domine et, sur la longue durée, cette domination ne cesse de changer[6].

Il tema dell’identità insulare mediterranea deve essere declinato storicamente al plurale poiché la definizione nesonomastica, mitografica, geografica, etnografica, storica, socio-antropologica di ogni isola lungi dall’essere fissa nel tempo, si evolve in rapporto alle dinamiche antropologiche e naturali che delineano il palinsesto del paesaggio storico.

 

2. Il canone delle isole

L’identità insulare del periodo romano non può prescindere dalla formazione di una identità o di molteplici identità nelle fasi preromane. Un punto di partenza può essere costituito dal “canone” delle isole, fondato dalla geografia greca, in cui il primo posto era stato assegnato alla Sardegna:

Erodoto, nella narrazione della rivolta ionica, ricorda che

Biante di Priene nel Panionio consigliava che con una flotta comune  gli Ioni salpassero e navigassero verso Sardò e poi fondassero  una sola città di tutti gli Ioni e così, liberatisi dalla schiavitù [dei Persiani], avrebbero avuto una vita felice, abitando la più grande di tutte le isole[7].

Evidentemente il “canone” delle isole, si era formato  entro il V secolo a.C. se Erodoto riconosceva in Sardò  la più grande di tutte le isole in confronto alle altre.

È possibile che il canone si fosse già formato dal secolo precedente se al VI secolo, sulla scorta di Peretti, deve attribuirsi il passo del Peryplus di Scilax  in cui sono elencate le eptà nesoi, in quest’ordine:

La più grande Sardò, seconda Sikelìa, terza Krete, quarta Kypros, quinta éuboia, sesta Kyrnos, settima Lesbos.

Isola

Sardò

Sikelìa

Krete

Kypros

Euboia

Kyrnos

Lesbos

 

Questo dovette essere l’elenco delle eptà nesoi nel testo originario di Scilax, poiché l’intestazione descrittiva dell’opera  specifica: kai ai nesoi kai ai epta ai oikoumenai

La sequenza delle isole è derivata dal periplo di ciascuna isola, unico strumento  in possesso degli antichi, per determinare, seppure approssimativamente, l’estensione delle isole.

Comunque lo  sviluppo costiero delle sette isole mediterranee ci dà un elenco solo parzialmente corrispondente a quello di Scilax:

 

Isola

sviluppo costiero

Sardò

1897 km

Sikelìa

1637 km

Kyrnos

1046 km[8]

Krete

1046 km

Euboia

700 km

Kypros

648 km

Lesbo

350 Km

 

Nella realtà l’elenco delle isole per effettiva estensione  è il seguente:

 

Isola

Estensione

Sikelìa

25.460 km²

Sardò

24.100 km²

Kypros

9.251 km²

Kyrnos

8.687 km²

Krete

8 336 km²

Euboia

3.655 km²

Lesbo

1.632 km²

 

Questo canone attestato successivamente al Peryplus di Scilax in Timeo, Alexis[9], nel De mundo aristotelico[10], in un epigramma ellenistico di Chio, in uno scolio alle Vespe Aristofanee,  ed è ancora riecheggiata in autori di età romana (Diodoro, Strabone, Anonimo della Geographia compendiaria[11], Tolomeo[12]), comprendeva originariamente, come si è detto, sette isole secondo un canone che, nel numero, è ricorrente per i sette sapienti, i sette mari e, in epoca ellenistica, le sette meraviglie del mondo.

A queste sette isole, forse, nella redazione del Peryplus Scilacis del  IV sec. a. C. furono aggiunte, da una fonte greca che prendeva in considerazione esclusivamente le isole del Mediterraneo orientale:

Ottava Rodos, nona Chios, decima Samos, undecima Kòrkyra, dodicesima Kasos, tredicesima Kephallenìa, quattordicesima Naxos, quindicesima Kos, sedicesima Zàkynthos, diciasettesima Lèmnos, diciottesima Aìgina, dicianovesima Imbros, ventesima Thasos.

È sintomatico del processo di formazione arcaica di questo canone il fatto che le isole più occidentali  dell’elenco siano Sardò e Kyrnos.

L’«ammissione» della prima isola del Mediterraneo occidentale nel canone delle isole è un portato della cultura ellenistica. Il siceliota Timeo di Tauromenio fu il primo ad aggregare l’isola di Maiorca al canone tradizionale, benché in realtà l’insula Maior delle Baliares sia al settimo posto, prima di Lesbos, nella serie delle isole mediterranee per estensione[13]:

Timeo afferma che la più grande di queste isole [Gymnesiai – Baleari] risulta essere la più estesa dopo le seguenti sette: Sardegna, Sicilia, Cipro, Creta, Eubea, Cyrnos e Lesbo[14].

L’ottava posizione della maggiore delle isole Baleari è ribadita da Diodoro[15] e da Strabone[16] ed è mantenuta, nel II secolo d. C., da Ampelio nella sua elencazione delle clarissimae insulae, che include, inoltre, al nono e decimo posto, la Baliaris minor ed Ebusus.

Appare rilevante da un lato la persistenza dell’arcaico canone delle isole fin nell’età tardo antica, anche con i riferimenti alle eptà nesoi sparsi negli Ethnikà di Stefano di Bisanzio, dall’altro la percezione ancora in età romana della sequenza delle isole mediterranee   da oriente (Kypros) ad occidente (Sardò kai Kyrnos), che consacra una rete interinsulare attiva con certezza dal Miceneo IIIA (XIV sec. a. C.) e successivamente nel Tardo Minoico III e Tardo Cipriota III e nel Cipro Geometrico, quindi con le rotte associate degli Eubei e dei Fenici dall’800 a. C., quelle di età arcaica, classica ed ellenistica, fino alle rotte romane di età repubblicana ed imperiale, con la diffusione nel Mediterraneo centrale e occidentale di merci orientali.

D’altro canto i circuiti mediterranei con le rotte d’altura, affiancate alle rotte interinsulari e di cabotaggio (fonti in  Pascal Arnaud) dimostrano, pur nell’ambito di variazioni statistiche nel lungo periodo, che le grandi isole del Mediterraneo appartengono essenzialmente  alla categoria dell’ île-carrefour.

 

3. La forma delle insulae

Gli schemata delle isole dovettero entrare ben presto nelle rappresentazioni dell’oikoumene. Tralasciando i dati, soprattutto letterari, di ambito greco ci soffermiamo sulla documentazione delle figure delle isole nel periodo romano.

Per il 174 a. C. Livio[17] menziona la dedica ad Iuppiter di una tabula picta nella aedes Matris Matutae, con il seguente index:

sotto il comando e gli auspici del console T. Sempronio Gracco la legione e l’esercito del popolo romano soggiogò la Sardinia; vi furono uccisi e catturati più di 80.000 nemici.

Nella tabula, aggiunge Livio,

Sardiniae insulae forma erat, atque in ea simulacra pugnarum picta.

La definizione cartografica della Sardinia era il suggello della conquista, così come in età augustea la carta picta del mondo di Marco Vipsanio Agrippa all’interno della porticus Vipsania[18].

Per avvicinarci alle formae delle insulae dovremmo ricorrere agli Itineraria picta, superstiti per noi nella incompleta Tabula Peutingeriana, in cui l’attenzione dell’autore è rivolta essenzialmente alle isole di Sardinia e Corsica, alla Sicilia, a Girba, all’insula Cretica e a Kypros.

Le notazioni urbane sono presenti nelle cinque isole, ma solo per la Sicilia, Creta e Cipro sono documentate le viae.

Ad onta degli insularii (i nesiotikà del mondo greco) posseduti non disponiamo di una cartografia incentrata sulle isole, ma un mosaico dell’Africa Proconsularis, scoperto  ad Ammaedara, sulla riva sinistra dell’Oued Haidrà, presso il maggiore mausoleo della necropoli meridionale, ci ha restituito una “tabula” in mosaico con la rappresentazione di quindici isole, edita da Fathi Bejaoui à l’Academie des Inscriptions nel 1997[19].

Il mosaico, oggi trasferito nei depositi del Museo del Bardo, occupava una sala quadrangolare di m 6 x 5, 30, dotata su tre lati di esedre rettangolari ed  accessibile attraverso un lungo corridoio mosaicato, pertinente ad un grande edificio la cui natura appare incerta, ma che non sembra una domus.

Il pavimento, marginato sui  quattro lati da una cornice geometrica, rappresenta un mare popolato da pesci, amorini, navi e barche su cui emergono quindici isole, di cui tre parzialmente perdute a causa dell’esondazione dell’oued Haidrà.

Ciascun isola conservata presenta la didascalia in alfabeto latino:

Scyros // Cypros // Idalium // Cnidos // Rhodos // Paphos // Cytherae // Erycos // Lemnos // Naxos // Egusa // Cnossos[20].

Osserviamo che i nesonimi in nominativo riflettono prevalentemente l’originaria forma greca, benché in molti casi sia attestata nel latino la terminazione in –os, alternativa a quella in –us. Abbiamo, tuttavia, il latino Idalium al posto del greco Idalion, l’erroneo pluralia tantum latino Cytherae al posto del nominativo neutro plurale Cythera, la monottongazione in E del dittongo Ae- di Aegusa, nesonimo greco di Favignana, la più vasta delle Egadi, nota anche con la forma latina Capria, ed infine Erycos, che parrebbe la forma greca dell’oronimo Erycus mons, piuttosto che l’adattamento di Eryx, il figlio di Afrodite e Bytos, eponimo della città elimo-punica-romana di Eryx, al genitivo Erykos.

Si osservi che l’isola con Cnossos dovrebbe rappresentare per sinèddoche Creta, mentre le isole ideali di Paphos e Idalium rappresentano luoghi di Cipro, peraltro interni, come vedremo; infine Cnidos ed Erycos sono due centri, il primo localizzato all’estremità della penisola di Triopio in Caria, il secondo sul monte San Giuliano, a dominio del golfo falcato di Drepanon (Trapani), all’estremo occidentale della Sicilia. Se per Cnidos l’isola richiama il monito dell’oracolo delfico riferito da Erodoto concernente  il divieto per i Cnidi di mutare la natura del chersonesos in nesos tramite lo scavo di un canale (“non fortificate e non scavate l’istmo, perché Zeus l’avrebbe fatta isola se avesse voluto”[21]), l’isola di Erycos in Sicilia è come per Paphos e Idalium una costruzione simbolica.

Le isole sono rappresentate da figure geometriche irregolari, caratterizzate prevalentemente da un profilo costiero assai mosso con  promontori angolari o tozzi e baie semicircolari o insenature a rias.

Benché le dimensioni delle singole isole siano variabili appare evidente la mancanza di proporzione tra Cypros (km2 9251) da un lato e le altre sei isole  di Rhodos km2 1398  Lemnos km2 476, Naxos km2 428, Cytherae km2 299,4, Scyros km2 209, Egusa km2 19.

Inoltre non si legge una coerenza geografica nella posizione delle isole immaginate all’interno del Mediterraneo centrale e orientale (con il dubbio per le tre isole prive di nesonimo a causa del cattivo stato di conservazione).

Le isole e le località del mosaico in esame sono caratterizzate da un paesaggio vegetale di conifere, palmizi (Cypros, Idalium e Lemnos) e da vigneti (Scyros, Cytherae e un isola di cui non si conserva il nesonimo). Gli elementi morfologici interni delle isole sono limitati all’orografia (tre rilievi isolati a Paphos, Erycos e Scyros) ed all’idrografia (ruscelli a Scyros,  Rhodos).  Ciascuna isola (o località) è dominata da un complesso edilizio  di difficile lettura.

In dettaglio abbiamo:

Scyros:

Complesso di strutture delimitate, anteriormente, da una cinta semicircolare, che difficilmente potrebbe alludere  alla rappresentazione di un porto.

Cypros:

Un complesso longitudinale, con un tempio su podio gradato, è perpendicolare  ad una villa di tipo africano con muro di recinzione turrito.

Idalium:

Grande edificio, a corte centrale con quadriportico, recintato da una muraglia turrita.

Cnidos

Edificio conservato in due ali murarie che si serrano ad un alta torre con copertra displuviata.

Rhodos

Edificio triporticato, aperto sul mare (?) su un lato. Sulla fronte del portico di destro un tempio su podio gradato.

Paphos

Complesso con cinta semicircolare porticata dotato alle due estremità di due edifici su podio gradato. Sul retro a sinistra un tempio su podio con scalinata, un’ara (o betilo?) ed un rilievo scarpato.

Cytherae

Edificio triporticato simile a quello di Rhodos, con un ambiente elevato al centro del portico di fondo.

Erycos

In primo piano una costruzione complessa con mura turrite che serrano all’interno edifici articolati. Sullo sfondo, tra gli alberi, si staglia un monte.

Lemnos

Edificio  con mura turrite visto frontalmente con la rappresentazione lungo l’asse longitudinale  di un secondo complesso edilizio.

Naxos

Complesso edilizio con un portico semicircolare.

Egusa

Struttura  a quadriportico con due torri anteriori e due posteriori.

Cnossos

Complesso edilizio  con cinque torri connesse da strutture murarie.

Scyros, Paphos e Naxos presentano un complesso edilizio semicircolare, le altre isole (o città) una struttura quadrangolare.

Fathi Bejaoui ha notato nell’editio princeps del mosaico la complessità delle rappresentazioni in cui l’isola è l’elemento fondamentale, connotata oltreché dal nesonimo da una costruzione, mentre il mare è rappresentato con il consueto stilema a zig-zag dei flutti, la fauna marittima, e le barche talora guidate da eroti, talaltra vuote e legate con una cima ad una pertica.

Le strutture rettangolari si richiamano alle rappresentazioni delle ville dei grandi domini rurali africani, mentre per quelle semicircolari Bejaoui ha richiamato oltre a villae maritimae anche le rappresentazioni di porti, per i quali si richiama lo schema del portus di Roma nella Tabula Peutingeriana ma anche il portus rappresentato all’interno della vasca dell’impluvium B della Nymfarum domus della Neapolis dell’Africa proconsularis.

L’editore del mosaico, seguito da Maurice Euzennat, Daniele Manacorda e Carmine Ampolo, ha proposto l’interpretazione generale del mosaico- privo comunque di figure divine- come rappresentazione del navigium Veneris attraverso le isole (o le località) relative al culto di Venus.

Miwa Takimoto ha proposto, nel 2015, una nuova lettura del mosaico di Ammaedara suggerendo la figurazione topografica del ciclo cretese di Teseo e Arianna[22].

Se il mosaico derivasse da un testo letterario non possiamo dimenticare che il carmen 64 di Catullo evoca Venus sia come Erycina, sia come dea dell’Idalium frondosum in relazione al tragico amore di Arianna per Teseo.

Tuttavia la scelta delle isole del mosaico di Haidra  sembra effettivamente convenire al culto di Venere.

Allora questi schemata delle isole parrebbero una chiave di lettura di tradizioni mitografiche e rituali di età romana imperiale (forse fine III – inizi IV secolo d. C.) che definivano luoghi e riti identitari pluristratificati delle isole.

Un esame puntuale delle figurazioni non è possibile in questa sede, ma alcuni esempi si impongono: innanzitutto Paphos, da intendersi Palaipaphos, località non costiera a circa 18 km ad est di Paphos, caput provinciae di Cipro. Il santuario di Venus – Aphrodite,  in una posizione di collina a dominio della costa, dove sarebbe nata Afrodite, distante 1 km, nella sua struttura romana di età medio imperiale  presenta un betilo all’interno di un santuario con una recinzione semicircolare antistante, documentata dalla monetazione del koinon ton Kyprion.

In questo caso la collina, il tempio, forse l’ara o il betilo, e il porticato semicircolare del mosaico potrebbero essere l’evocazione nei modi dei musivari africani di un paesaggio cultuale dei nesiotai di Cipro in età romana.

L’altro esempio è Erycos, sede del culto di Ashtart Ericina, divenuta Venus Erucina[23], ed introdotto a  Roma  con il tempio capitolino dell’Erucina votato nel 217 a.C. dal dittatore Quinto Fabio Massimo e dedicato nel 215 a.C. ed il secondo tempio sul Quirinale, votato nel 184 a.C. e dedicato il 23 aprile del 181 a.C. dal console Lucio Porcio Licino.

Diodoro ricorda che (V, 83) che “i consoli e i pretori che giungono nell’isola (di Sicilia), e tutti coloro che la visitano con qualche autorità, quando vanno ad Erice adornano il santuario con sacrifici ed onori splendidi, e mettendo da parte l’aspetto austero dell’autorità passano a scherzi e alla compagnia di donne con molta allegria, ritenendo di rendere gradita alla dea la loro presenza  solo in questo modo”.

Abbiamo con Erice, dunque, un luogo di culto elimo, punico, greco e romano, che compendia l’identità della Sicilia occidentale e dell’intera Sicilia, espandendosi poi in Africa (Sicca Veneria), in Sardegna (Karales) e nell’Impero.

La isola di Erycos, con la rappresentazione del monte san Giuliano, forse è anche qui per sinèddoche l’intera Sicilia, compendiata in tutti i principali capitoli culturali della sua storia.

Accanto e di fronte a Erice è Aigousa, Favignana, per la quale  deve richiamarsi una statua acefala di una copia romana dell’adattamento ellenistico (forse rodio) dell’Afrodite Ouranìa, edita, ma non riconosciuta, da Anna Maria Bisi e forse l’importante sistema ipogeico della Grotta del pozzo, una grotta- santuario con iscrizioni puniche e rappresentazioni di navi.

L’isolario di Ammaedara è così un quadro del basso impero, specificatamente dell’Africa proconsularis, di rappresentazioni insulari connesse a Venere, che individua nel culto plurimillenario della dea un elemento identitario delle diverse culture mediterranee.

 

4. Le insulae provinciali  e le provinciae delle insulae

Ulpiano indica in un passo del IX libro Ad edictum la correlazione giuridica delle isole minori all’Italia ed a ciascuna provincia:

 

Insulae Italiae pars Italiae sunt et cuiusque provinciae[24].

 

Il passo, inserito nel commento ulpianeo all’ Edictum provinciale, va senz’altro riferito alla sfera giuridica che discende dal principio citato[25], ossia l’ imperium del governatore della provincia si estendeva a tali isole minori ed esse erano soggette allo stesso regime giuridico e fiscale della provincia.

Maggiore rilievo assume la definizione delle pertinenze insulari di una provincia in rapporto alla pena  della deportatio in insulam e della relegatio in insulam .

Si noti, innanzi tutto, che Augusto sancì il divieto per gli esiliati di risiedere in un’ isola distante meno di 400 stadi (circa 40 miglia nautiche) dal continente, con l’ eccezione di Cooo, Lesbo, Samo e Rodi[26].

Nel libro X De officio proconsulis Ulpiano si occupa della deportatio in insulam[27]e

della relegatio in insulam:

Il quadro che ne scaturisce appare illuminante a proposito del ius dispiegato dal governatore di una data provincia sulle insulae che sono pars provinciae: nel caso della deportatio il governatore provinciale non ha il potere di infliggere la poena, ma deve limitarsi a trasmettere all’ imperatore il  nominativo dell’ accusato, il capo d’accusa e la proposta di deportatio in una data insula.

Nella fattispecie delittuose  più lievi una delle poenae previste era la relegatio in insulam, che poteva essere perpetua o temporanea, ed era irrogata direttamente dal governatore provinciale che disponeva dell’ ius relegandi.

Acquisiamo la nozione di una forma provinciae che comprendeva, ove presenti, le insulae minori, dato essenziale per l’estrinsecazione definita territorialmente dell’ ius del governatore provinciale.

L’ambito geografico della competenza giuridica del governatore va, naturalmente, distinto dal regime  amministrativo  delle singole isole costituenti pars provinciae o pars Italiae. Theodor Mommsen raccolse nel X volumen del CIL i testimonia di tale regime amministrativo[28]. Questi testimonia sono relativi a tre ambiti insulari: l’ insula Pandateria dell’ arcipelago delle Pontine, al largo della regio I, le insulae Melit(a) et Gaul(us) che componevano una pars provinciae Siciliae e le insulae Baliares, pertinenti alla provincia Hispania Tarraconensis.

In definitiva Theodor Mommsen evidenziava nell’ ambito delle insulae minori  una duplicità di gestione amministrativa: da un lato l’attribuzione dell’ amministrazione insulare ad un procurator Augusti, di rango libertino, come nel caso di Pandotira per l’ Italia e di Melita et Gaulos per la provincia Sicilia, certamente da considerarsi eccezionale e ristretta ad una fase iniziale dell’ organizzazione procuratoria[29], dall’ altro l’attribuzione dell’ amministrazione militare e civile di un’isola o di un gruppo insulare ad un praefectus equestre, dipendente dal governatore provinciale sia nelle provinciae amministrate dal senato , come nel caso di Cyprus, nel 58 a.C., dipendente dalla provincia Cylicia[30] ,  sia in quelle imperiali (le insulae Baliares apparternenti alla Hispania Tarraconensis , retta da un legatus Augusti propraetore ed amministrate da un praefectus pro legato).

Appare evidente tuttavia che la  costituzione di un praefectus con prerogative amministrative, militari e talora giurisdizionali  in ambito insulare indica l’avvio di un processo di autonomia di tali  aree insulari, sicché ad esempio Cyprus e le Baliares guadagneranno il rango di provinciae, mentre la procuratela imperiale di isole minori  appare connessa a isole di ridotte o ridottissime dimensioni, prive all’epoca di tali procuratele di importanza strategica o di rischi di pirateria che ne imponessero l’attribuzione ad un praefectus, ma ricadenti nella sfera di interesse dell’ imperatore.

La dottrina[31] ha ammesso un terzo caso di amministrazione delle insulae minori, ossia un procurator di rango equestre, documentato in età tiberiana per Lipara, Cornelius Mansuetus[32].

Tale regime non poté durare a lungo: nella provincia senatoria della Sicilia è specificatamente documentato per il  103-114 d.C. un \pítropow  a[tokrátorow Kaísarow  Néroua  Traianoû  Sebastoû  Germanikoû  Dakikoû  \parxeíaw  Sikelíaw  kaì  tôn  ƒllvn  tôn  Sikelퟠ suntelousôn  n}ssvn,  G. &Ioúliow  Dhmosyénhw[33] , dunque un procurator equestre, di rango centenario[34],  del patrimonium provinciae Siciliae che estendeva la propria specifica competenza amministrativa sia all’ isola principale, sia alle isole minori circostanti[35], il cui governo competeva, d’altro canto, al proconsul  Siciliae[36].

Se nell’ambito delle  insulae provinciali cogliamo esclusivamente il rapporto amministrativo e  giudiziario che legava il governatore romano  alle insulae di una provincia, differente è il caso delle provinciae delle insulae.

E’ ben noto che l’evoluzione giuridico semantica del lessema provincia, che in origine indicava l’ambito delimitato assegnato a ciascun magistrato, pervenuta a definire l’ambito geografico cui era destinato il magistrato provinciale, si compì in relazione alle prime due provinciae insulari: la Sicilia e la Sardinia et Corsica nel 227 a. C.

Dopo queste due provinciae si dovette attendere il 67 a. C. per la costituzione della provincia Creta et Cyrenae e il 58 a. C. per la conquista di Cyprus con la sua unione alla provincia Cilicia.

Nella suddivisione provinciale del 27 a. C. il Senato ebbe le provinciae insulari di Sicilia,  Sardinia et Corsica, Creta et Cyrenae e di Cyprus, ormai autonoma rette tutte da proconsules.

La Corsica si emancipò dalla Sardinia in età augustea o tiberiana e, comunque, entro il 67 d.C., assegnata ad un praefectus.

Sotto Diocleziano è documentata la costituzione della provincia di Creta, divisa definitivamente dalla Cirenaica, e delle Insulae, corrispondenti alle isole dell’Egeo e del Dedecaneso.

Ultima provincia insulare furono le Baliares.

L’annessione del gruppo insulare delle Baliares alla provincia dell’ Hispania citerior venne  compiuta, probabilmente,  all’ indomani della conquista delle isole, nel 123 a.C., da parte di Quinto Cecilio Metello e ratificata con un atto normativo che non c’è pervenuto [37].

Metello, nella qualità di proconsul della Citeriore per l’anno 122  a.C. dovette predisporre vari provvedimenti relativi alle Baliares, raccolti verosimilmente nell’ edictum provinciale, che pur nel  suo carattere tralatizio, doveva essere adeguato  alle circostanze particolari della provincia.[38]

Sotto Diocleziano l’antico  conventus Carthaginiensis fu elevato a provincia, di cui fecero parte anche le Baliares. Di questa nuova provincia è documentato un  solo governatore anonimo, un praeses, per il 323[39].

L’ordinamento dioclezianeo delle provinciae della diocesis dell’ Hispania si mantenne intatto per diversi decenni, subendo nel corso del IV secolo un’unica modifica, con la costituzione della provincia delle Insulae Baleares distaccata dalla Carthaginiensis [40].

La data di istituzione della nuova provincia balearica non è nota con precisione, ma può essere delimitata tra il 365/369 (data di redazione del Breviarium di Festo, che non menziona la provincia delle Baleares) e il 385 o il 398/399, in rapporto alla discussa cronologia del Laterculus di Polemius Silvius [41], che, per primo, attesta la provincia delle Insulae Baleares

 

Le personificazioni delle provinciae insulari si riducono alla Sicilia, Creta e Cipro, documentate la prima in monete e mosaici, le altre in rilievi e (Cipro) nelle immagini simboliche della Notitia Dignitatum.

Si tratta di personificazioni romane basate su modelli ellenistici di un personaggio femminile (provincia) con i suoi attributi: certa è la corona a Triskeles della Sicilia, più comuni le rappresentazioni di Cipro e Creta.

Evidentemente queste personificazioni erano create dalla cancelleria imperiale in funzione delle parate di tutte le provinciae in raffigurazioni tese a glorificare l’impero di Roma.

Più sottile e significativo sul piano identitario fu l’utilizzo romano di figure mitiche eponime della singola provincia.

Livio conosceva sull’origine del nome Baliares,  accanto alla  vulgata opinio che lo derivava da bállein, una seconda versione che  indicava  in Balius l’eponimo delle isole.

Balius, non noto ad altre fonti[42], era Herculis comes, abbandonato nelle Baleari, cum Hercules ad Geryonem navigaret [43].

La  versione originaria della spedizione di Eracle  verso l’estremo Occidente, dove aveva sede Gerione,  pur prendendo  le mosse da Creta «perché quest’isola ha una felice posizione naturale per le spedizioni in tutta la terra abitata»[44], non sembra che  interessasse le isole  del terzo bacino del Mediterraneo,  benché gli eponimi di Sardegna e Corsica, Sárdos  e Kúrnos, siano entrambi figli di Eracle[45].

Proprio Sardus, Herculis filius, diviene una sintesi delle culture autoctona, punica e romano-italica della Sardinia, rappresentando perfettamente le identità plurime della provincia.

Alla metà del II secolo a. C., nel sud ovest della Sardinia, presso la valle di Antas (Fluminimaggiore), nell’area del tempio punico di Sid Addir, succeduto ad una divinità indigena Baby, sorse un tempio tetrastilo, con decorazione del frontone fittile, di matrice italica, con rappresentazione di Sardus e del padre Hercules.

Intorno al 38 a. C. fu battuta una moneta con l’avo di Ottaviano sul D/ e Sard(us) Pater sul rovescio.

Nel II secolo d. C. Tolomeo documentava il Sardopatoros ieron,   attestato ancora nelle fonti della Cosmographia del Ravennate e di Guidone.

L’individuazione di una statuina bronzea, nella tomba a pozzetto della seconda metà del  IX sec. a. C., rappresentante un personaggio ignudo con lancia[46] (attributo di Sardus pater negli assi del periodo di Ottaviano[47] e forse anche di Sid[48]) è un elemento di rilievo per ipotizzare un luogo di culto, cui connettere forse in parte i bronzetti nuragici figurati di Antas, ove non provenienti tutti dalle tombe[49]. Ci attenderemmo, conseguentemente, ad Antas un sepolcreto di tombe individuali con accesso riservato, del genere dell’area funeraria coeva di Monte Prama- Cabras[50].

Come ha notato Paolo Bernardini:

È verosimile che la necropoli indigena vada interpretato nell’ambito di un culto degli antenati e che di conseguenza la figurina [in bronzo di un personaggio virile stante, ignudo, con mano destra alzata in segno di benedizione e l’altra impugnante una lancia, rinvenuta nella tomba a pozzetto nr. 1] sia l’immagine antichissima di Sardus[51].

La lettura di P. Bernardini sul culto degli antenati connesso alla figura divina dell’hegemon dei Sardi, Sid (B’by), che si specifica, probabilmente, in una iscrizione punica di Antas come ’b Sdpater Sid[52], consentirebbe di comprendere una delle motivazioni dell’assunzione, come epiteto, da parte di Sid e successivamente di Sardus Pater rispettivamente  del teonimo encorico B’by / Bby[53] e Bab[..][54], in quanto non si ritiene  plausibile l’affermata origine egizia o semitica del teonimo B’by[55].

Giovanni Garbini ha voluto individuare una puntuale corrispondenza tra  B’by / Bby e Babi da un lato e  ‘b e Pater dall’altro,  come versioni punica e latina del teonimo paleosardo. In entrambi i casi vi sarebbe una specificazione etnica nel nome Sd, dio eponimo di Sidone e Sardus, dio eponimo dei Sardi[56].

Vi è però da notare che nella formazione del teonimo Sardus pater, più recente del nome Sardus / Sardos[57],  noto sul rovescio dell’asse  di M. Atius Balbus, e nella titolatura del dio del tempio di Antas, deve aver giocato anche un altro elemento, l’epiteto di Pater come proprio del summus Pater, dunque di Iuppiter, ma anche di divinità a lui assimilate come Ianus pater, Thibris pater, Numicius pater[58], pater Soranus[59], Dis Pater. Pater nella dottrina romanistica  è il Signore dotato di potestas, “così nelle formule rituali[60] e poetiche d’invocazione alla divinità”[61].

Pater nel teonimo Sardus pater, allora, potrebbe assumere una valenza simile anche all’epiteto di genàrches di Helios[62] Sol “capo del lignaggio” ossia Sol Indiges che non a caso a Lavinium è Pater Indiges[63] e Indige{n}s [Pa]ter[64], dove Indiges, con il correlato dio Numicus (il fiume), assimilato a Iuppiter, è, come sostenuto limpidamente Mario Torelli, “un summus pater dai caratteri ctoni, personificazione degli antenati divini del nomen Latinum[65].

Se Sardos diviene in ambito romano Sardus pater, forse tra il 39 e il 27 a. C., è possibile che nel teonimo Sardus di origine toponimica o etnica unito all’epiteto Pater vi fosse un parallelismo, anche di carattere antiquario, che rapportava il dio capo del lignaggio dei Sardi agli altri dèi dotati dell’epiteto Pater, assimilati a Iuppiter. In particolare la gens Iulia di Cesare (che considerava la Sardinia, nella malevola interpretazione di Cicerone, un praedium suum[66]) e del figlio adottivo Ottaviano[67] avrebbe potuto costituire una liaison fra il pater Aeneas e ancor più il Pater Indiges lavinate e il dio Sardus “capo del lignaggio dei Sardi”, considerato che, secondo Attilio Mastino, sin dalla prima metà del II secolo a. C., probabilmente Catone, aveva reinterpretato paretimologicamente un bellicoso populus della Sardinia gli Ili, come Ilienses, ossia Troiani, divisi dal pater Aeneas dalla tempesta ed approdati in Sardegna, e dunque come affini per stirpe ai Romani, discendenti dal pater Aeneas.

In altre parole se l’epigrafia punica e latina di Antas ci rivela uno dei rari teonimi indigeni della Sardegna deve ricercarsi un inquadramento topografico del luogo di culto di B’by-Babi ad Antas, da cui potesse scaturire l’interpretatio punica e romana di Sid B’by e di Sardus Babi.


[1] R. Estangüi Gómez, La réclusion politique à Byzance. L’exil dans l’ile de Lemnos (mi-XIV- mi-XV siècles), Hypothèses 2007 Travaux de l’école  doctorale d’histoire. Université Paris I- Panthéon- Sorbonne, dir. P. Schmitt Pantel,  p. 174 (pp. 173-182)

[2] St. Gombaud, Iles, insularité  et ˆıleit ́e Le relativisme dans l’ étude des espaces archipélagiques. Geography. Université de la Réunion, 2007, pp. 264 ss.

[3] F. Borca, Terra mari cincta. Insularità e cultura romana, Roma 2000, pp. 15-24.

[4] S. Vilatte, L’insularité dans la pensée grecque: au carrefour de la Géographie, de l’Ethnographie, de l’Histoire, Revue Historique, T. 281, Fasc. 1 (569) (JANVIER-MARS 1989), pp. 3-13.

[5] C. Ampolo, Isole di storie, storie di isole, C. Ampolo (a cura di), Immagine e immagini della Sicilia e di altre isole del Mediterraneo antico, I, Atti delle seste giornate internazionali di studi sull’area elima e la Sicilia occidentale nel contesto mediterraneo
. Erice, 12-16 ottobre 2006, Pisa 2009, pp. 4-5.

[6] St. Gambaud, Iles, insularité  et îleité. Le relativisme dans l’étude des espaces archipélagiques. Geography. Université de la Réunion, 2007, pp. 267-268.

[7] Hdt. I, 170, 2. Vedi anche Hdt. V, 106, 6.

[8] http://uk.france.fr/en/information/corsican-coastline

[9] Alex., 517 CAF III.: Alesside il comico sostiene che delle sette isole che per estensione appaiono ai mortali come le più grandi, la Sicilia-come risulta scontato- è la più estesa, mentre la Sardegna è la seconda, terza invece è Cyrno mentre quarta è Creta nutrice di Zeus, , eubea è la quinta di forma alquantop ristretta per propria natura,  sesta Kypros e per ultima Lesbo riceve in sorte la settima piazza. PERRA pp. 885-6.

[10] Arst. De Mundo 393 a: Fra le isole degne di essere ricordate abbiamo: la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, Creta, Eubea, Cipro e Lesbo.

[11] Anonymi geographia compendiaria, VIII, 27, in GGM, II, p. 501.

[12] Ptol., VII, 5, 11.

[13] https://it.wikipedia.org/wiki/Isole_del_mar_Mediterraneo, da cui si ricava la seguente tabella relativa alle isole con superficie pari o superiore ai 50 km2:

N.

Isola

Stato

superficie in km2

1

Sicilia

Italia

25 460

2

Sardegna

Italia

23 813

3

Cipro

Cipro

9 251

4

Corsica

Francia

8 681

5

Creta

Grecia

8 261

6

Eubea

Grecia

3 655

7

Maiorca

Spagna

3 640

8

Lesbo

Grecia

1 632

9

Rodi

Grecia

1 398

10

Chio

Grecia

842

11

Cefalonia

Grecia

781

12

Minorca

Spagna

694

13

Corfù

Grecia

592

14

Ibiza

Spagna

577

15

Gerba

Tunisia

523

16

Lemno

Grecia

476

17

Samo

Grecia

476

18

Nasso

Grecia

428

19

Zante

Grecia

406

20

Cherso

Croazia

406

21

Veglia

Croazia

405

22

Brazza

Croazia

395

23

Andro

Grecia

380

24

Taso

Grecia

379

25

Leucade

Grecia

303

26

Scarpanto

Grecia

301

27

Lesina

Croazia

300

28

Coo

Grecia

290

29

Pago

Croazia

285

30

Imbro

Grecia

279

31

Cerigo

Grecia

278

32

Curzola

Croazia

276

33

Nicaria

Grecia

255

34

Malta

Malta

246

35

Elba

Italia

224

36

Sciro

Grecia

209

37

Paro

Grecia

196

38

Tino

Grecia

194

39

Samotracia

Grecia

178

40

Milo

Grecia

151

41

Ceo

Grecia

129

42

Amorgo

Grecia

121

43

Marmara

Turchia

117

44

Isola lunga

Croazia

114

45

Calino

Grecia

111

46

Chergui

Tunisia

110

47

Sant’Antioco

Italia

109

48

Io

Grecia

109

49

Meleda

Croazia

100

50

Termia

Grecia

100

 

[14]FGrHist, III B 566F, frag. 65.

[15] Diod., V, 17: La maggiore delle due isole Baleari è la più grande di tutte le isole dopo le seguenti sette: Sicilia, Sardegna, Cipro, Creta, Eubea, Corsica, Lesbo.

[16] Strab. XIV, 2, 10.

[17] Liv. XLI, 28, 8

[18] (Plin., Nar. hist., III, 17)

[19]

[20] AE 1997, 1638.

[21] Hdt, I, 174, 5.

[22] M. Takimoto, Une nouvelle lecture de la mosaïque des îles d’Haïdra (Tunisie) : la figuration topographique du cycle crétois, poster présenté au XIIIe colloque de l’AIEMA (Association internationale pour l’étude de la mosaïque antique), du 14 au 18 septembre 2015, Universidad Carlos III de Madrid.

[23] B. Lietz, La dea di Erice e la sua diffusione nel Mediterraneo. Un culto tra Fenici, Greci e Romani, Edizioni della Normale, Pisa 2012, pp.454; R.M. Albanese Procelli, Sicani, Siculi, Elimi. Forme di identità, modi di contatto e processi di trasformazione, Milano 2003 (Biblioteca di Archeologia, 33).

 

[24]Vlp. D. V, 1, 9.

[25]G. Humbert-Ch. Lécrivain in Dar.-Sagl.III, 1 [18CC], p. 547, s.v. insula.

[26]Dio. Cass. LVI, 27.

[27]Vlp. D. XXXXVIII, 22, 6.

[28]Th. Mommsen  in CIL X, 1, 6785.

[29]Appare illuminante, al riguardo, il giudizio di P. R. C. Weaver, Familia Caesaris, pp. 277-8: «Two Imperial freedmen, possibly in the first century, held powers that were similar to those of procuratorial governors of equestrian provinces. One, Metrobius Aug. lib ‘praefuit longum Pandotira per aevum’ (X 6785); he was put in charge of Pandateria, a small island in the Tyrrhenian Sea used as a place of confinement for exiles, and died there (under the Flavians ?) after a long terme. The other, Chrestion Aug. lib. X 7494= D 3975 proc. insul. Melit. et Gauli, may also have belonged to the first century. Both places were unimportant in the administrative scheme of things and are not to be compared with the provinciae. Freedman procuratores provinciae cannot be of equal status with their equestrian homonyms but are the senior freedman in the administration of each province».

[30]Cicerone, proconsole della Cilicia, adottò per l’ isola di Cipro, annessa a quella provincia nel 58 a.C., inviandovi il praefectus Q. Volusius con compiti di amministrazione giudiziaria.(Cic. ad Att. 5, 21, 6; 6, 2; 6, 3. Cfr. M.Salinas de Frías, El gobierno de las provincias Hispanas, p. 156, n. 4;  R. C. Knapp, Aspects of the Roman experience in Iberia, cit., pp. 101-102, distingue questo praefectus iure dicundo dai praefecti che accompagnavano il governatore provinciale. Su Q.Volusius cfr.H. Gundel in RE IX, A 1, [1961], cc. 903-904, s.v. Volusius-5.

[31]H. G. Pflaum, Les procurateurs, p. 14, n. 1.  Contra S. Calderone in Diz. Ep. IV, [1964], s.v. Lipara, pp. 1407-1408; G. Manganaro, La Sicilia da Sesto Pompeo a Diocleziano, ANRW, II, 11, 1, Berlin -New York 1988, p. 25 ( Cornelius  Mansuetus è ritenuto un procuratore speciale incaricato della gestione di industrie estrattive, ad esempio l’allume e la pomice).

[32]CIL X 7489.

[33]IGR, III, 487, 500, col. II, 56, 60. Sul personaggio cfr. M. Wörrle, Stadt und Fest im kaiserzeitlichen Kleinasien, pp. 55-69; H. Devijver, Prosopographia militiarum equestrium quae fuerunt ab Augusto ad Gallienum, V, suppl. II, Leuven 1993, p. 2137, nr. 55.

[34]H. G. Pflaum, Les carrières procuratoriennes, I,  pp. 12; 53, n. 4; 175, n. 6; 178; 218; 337; II, pp. 173; 175, n. 1; 184, n. 3; 195, n. 14; 230, n. 8; 285; 1044.

[35]R. H. Lacey, The Equestrian Officials of Trajan and Hadrian: Their careers, with some notes on Hadrian’s Reforms, Princeton 1917, p. 8, n. 67, che specifica le  ƒllai n}ssoi  nel modo seguente: Aeoliae, Aegates, Gaulus, Melita, Cossura; H. G. Pflaum, Les procurateurs, p. 12, e

[36]Per le competenze  del procurator Augusti patrimoni nelle provinciae senatorie cfr. L. Zuckermann, Essai sur les fonctions des procurateurs de la province de Bithynie-Pont sous le Haut-Empire, «Revue Belgique», 46, 1968, pp. 42-58; H. G. Pflaum, Une lettre de promotion de l’ empereur Marc aurèle pour un procurateur ducénaire de Gaule Narbonnaise, «Bonner Jahrbücher», 171, 1971, p. 353( a proposito di AE 1960, 167 da Bulla Regia attestante le competenze ristrette del ul proc(urator) Aug(usti) patrimoni provin(ciae) Narbonensis ( ma in generale del procurator Augusti patrimoni ) all’ interno delle provinciae senatorie); M. Wörrle, Stadt und Fest im kaiserzeitlichen Kleinasien, p. 55.

[37]Le insulae Baliares dovettero essere annesse alla provincia dell’ Hispania Citerior, secondo un procedimento speculare a quello adottato alla fine della II guerra punica per Melita e Gaulos, che dopo la conquista militare del 217 a.C., vennero incorporate nella provincia Sicilia già costituita nel 227 a.C.(Cic. Verr. IV, 46-47; Plin. nat. III, 8, 92. Cfr. J. Weiss in  RE , XV, 1 [1931], c. 546; F. P. Rizzo, Malta e la Sicilia in età romana. Aspetti di storia politica e costituzionale, «Kokalos», XXII-XXIII, 1, (1976-1977), pp. 190-191) o per Cyprus annessa alla provincia di Cilicia( Cic. pro dom. 52; pro Sest. 57. Cfr. D. Vaglieri, in Diz. Ep. II, 2, p. 1428, s.v. Cyprus).

 

[38]Sull’ edictum provinciale cfr. W. W. Buckland, L’edictum provinciale, «Revue Historique du Droit», 1934, pp. 81 ss.; W. T. Arnold, The Roman system of provincial administration to the accesion of Constantine the Great, Roma 19683, pp. 55-57; G. I. Luzzatto, Roma e le province, p. 44; per le province iberiche, in particolare, M.Salinas de Frías, El gobierno de las provincias Hispanas, pp. 123-125.

[39] E. Garrido Gonzàles, Los gobernadores, pp. 59-60.

[40]F. De Martino, Storia della Costituzione romana, V, pp. 319-320.

[41] E. Albertini, Les divisions administratives, p.123; A. Chastagnol, Les Espagnols dans l’aristocratie gouvernamentale à l’époque de Théodose, Aa.Vv., Les Empereurs d’Espagne, Paris 1965, p. 279; F. De Martino, Storia della Costituzione romana, V, pp. 319-320; L.A. Garcia Moreno, España y el Imperio en época teodosiana. A la espera del bárbaro, Aa. Vv., I Concilio Caesaraugustano, Zaragoza 1980, pp. 33-34; E. Garrido Gonzàles, Los gobernadores, pp. 58-59; M. Mayer, Aproximació a la societat de les Illes Baleares, p. 172.

[42]Non pare raccordabile al nostro Balius il Bálios , ecista divinizzato della omonima città presso Cirene( ThLG,II, c.81)  o il cavallo di Achille    Balios (ThLG, II, c.80).

[43]Liv. perioch. 60.

[44]Diod. IV, 17.

[45]Myth.lex.,II, 1, s.v. Kúrnow-2, c.183 ; Myth.lex., IV, s.v. Sardos, 1, cc. 383-386. Si osservi  che la saga degli Eraclidi in Sardegna  è esplicitamente fissata  da Diodoro ( IV, 29) « quando ebbe compiuto le imprese», mentre l’ `dòw ^Hrákleia , lungo  l’Iberia, la Provenza e la penisola italiana  esclude del tutto la rotta delle isole( cfr. R.Zucca,La Corsica romana, p.43, n.34).

[46] Barreca1985, pp. 266-267; Ugas, Lucia 1987, pp. 257-259; Bernardini, Botto 2010, pp. 40, 44, 46-47.

 

[47]Didu 1975, pp. 108-121.

[48]Discussione sulla iconografia di Sid  in Minunno  2005, p. 277.

[49] Lilliu 1988, pp. 562-3. Sui bronzi cfr. Acquaro 1969 c, pp. 127-129; Lilliu 1997, p. 315, n. 145; Bernardini 2011, p. 370; Zucca 2013, p. 65, fig. 1. Il falcetto in bronzo di Angiolillo 1995, p. 335, nr. 48, fig. 23  deve essere assegnato, ugualmente,  a produzione nuragica della prima età del Ferro (cfr. Lilliu 1982, pp. )).

[50] Bernardini, Scarpa, Zucca 2015.

[51] Bernardini 2002,  p. 17.

[52]Garbini 1997, pp. 113, 289, nr. 289; Garbini 2000, p. 121 (la lettura dell’epiteto ’b “padre” di Sid non è sicura).

[53]Il teonimo B’by, giustapposto al fenicio Sd ’dr, è registrato nelle iscrizioni puniche di Antas  I, (Fantar 1969, pp. 54-55), VI+ XIII Fantar 1969, p. 84 , VIII (Fantar 1969, pp. 78-79),  IX (Fantar 1969, pp. 80-81 con la forma bby, con caduta dell’aleph, mater lectionis), XI (Fantar 1969, p. 82), ossia in cinque iscrizioni  rispetto a tre epigrafi  che menzionano Sd senza il teonimo B’by (VII- Fantar 1969, p. 88; XVIII- Fantar 1969, pp. 88-89 e l’orecchino aureo Uberti, Costa 1980, pp. 195-199). Incerte le iscrizioni frammentate X- Fantar 1969,  pp. 81-2 e XII- Fantar 1969,  p. 83) e  l’epigrafe XX con le due lettere ’ S, intese ipoteticamente ’(dn)  S(d) ((Fantar 1969, p. 91)). Cfr. Garbini 1969, pp. 318-321, che per primo ha interpretato B’by come epiteto di Sid di matrice paleosarda, seguito da Barreca 1974, pp. 124-125  e dalla maggioranza degli studiosi.

[54]Sotgiu 1968-1970, pp. 7-20 (= AE, 1971, 119, 120; 1972, 227). Le integrazioni possibili sono Bab[i] e Bab[ai]. La lettura incerta di  Du Mesnil Du Buisson 1973, p. 228 dell’iscrizione latina  (Cecchini 1969, p. 158, tav. LXIII, 1a-e) incisa su un anello in argento rinvenuto in una tomba romana del III sec. d. C. del villaggio a sud ovest del tempio di Sardus Pater (Sida (vel Sidia) Babi dedi dono (vel donum) denarios XCIV) farebbe preferire l’integrazione  Bab[i], che risulterebbe più coerente con l’impaginato della I linea dell’iscrizione del tempio.

[55] Mazza 1988, pp.  47-56; Lipiński 1994, pp. 61-74.

[56] Garbini 1969, p. 331; Garbini 1994, pp.  23-29.

[57]Fonti in  R. Zucca 1990, pp. 692 – 694; Zucca 2004, pp. 86 ss.;

[58] Momigliano 1966 p. 633;  Schilling 1982, pp.  559-75.

[59]Colonna 2009, pp. 101-134; Miller 2009, p. 165, n. 158.

[60] Per gli indigitamenta cfr. Del Ponte 1999, pp. 159-160; per il Carmen Saliare cfr. Sarullo 2014, pp. 148-149, per le divinità con l’epiteto Pater.

[61] Bonfante 2007, p. 292, n. 1.

[62] Lyd. De mens. IV, 155.

[63] Ori. Gent. Rom.  14, 4.

[64] CIL X 8348= ILS 63 = Inscr. It. XIII, 3; 85.

[65] Torelli 1984, pp. 173-179.

[66] Cic. Ad fam. IX, 7, 2.

[67] Su questa posizione Bianchi 1963 a, p. 49; Bianchi 1963 b, pp. 109-111; Melis 2013, pp. 231-233.




Mosaïques du fundus Bassianus (Volume pour le Musée du Bardo, 18 mars 2016)

Mosaïques du fundus Bassianus
(Volume pour le Musée du Bardo, 18 mars 2016)


1. Découverte en 1902 à l’occasion de la réalisation de l’Arsenal sur la rive sud-est du lac de Bizerte (fouilles de la Direction des Antiquité dirigées par M. Pradère), la mosaïque provient de la salle froide (frigidarium) des thermes constuits, probablement, à l’époque vandale (Ve siècle), dans le Fundus (domaine agricole) Bassianus, près d’Hippo Diarrhytus.  Elle est inventoriée dans le Cat. Mus. Alaoui, suppl. p. 15 nr. 231 (m. 4,35 x 2,50).

En opus tessellatum, la mosaïque figure de manière naturelle et un peu naïve, mais fidèlement un paysage marin et idéalisé, certainement en rapport avec le lac d’Hippo Diarrhytus sur la bordure sud duquel apparaît, sur une colline, l’ensemble des édifices du Fundus Bassianus: une villa avec la demeure du propriétaire (à droite) et ses annexes: thermes, ferme, étables, écuries. Le mosaïste n’était pas un grand artiste, mais a réussi à reproduire le site avec fidélité et un peu de fantaisie, avec quelques aspects de réalisme et d’impressionisme qui envoient à une realité paradisiaque. Dans le lac entre les vagues nagent des baigneurs, un garçon plonge des rochers, des pêcheurs à la ligne sont à l’oeuvre, dont l’un soulève un poulpe qui agite ses tentacules avant d’être mis dans un panier. Dans le golfe, quatre pêcheurs nus, debout sur une petite barque à rames, tirent avec des cordes liées aux deux extrémités, un filet chargé de poissons et en particulier de rougets et de sparidés. Sur la plage, entouré de poissons divers (rougets, races, mullets ou loups de mer) et de mollusques (poulpes, seiches, bivalves, un gastéropode), un autre personnage nu offre un plateau avec un poisson (encore un rouget ?), tandis qu’un monstre marin (plus pécisement un mérou de grandes dimensions), est en train d’avaler un nageur imprudent. La bordure est finement décorée sur trois côtés de tridents, dauphins, coquilles et spirales à pointe. Sur le côté droit sont représentés de manière stylisée les vagues du lac.

 

2. Disctinct mais retrouvé à la même occasion, le second pavement, qui servait de seuil à cette mosaïque, a été inséré en atelier de restauration dans la lacune du filet des pêcheurs, Il est formé par un cadre inscrit renfermant l’inscription inventoriée au nr. A 232.

L’inscription incomplète et lisible seulement en partie, liée avec la mosaïque tout en étant indépendante, s’insère parfaitement dans la catégorie des poèmes (carmina) qui étaient en rapport avec les thermes. Hexamètre dactylique avec l’acrostiche SIDONI compris par Cugusi comme s’il était sous entendu opus qui rappellerait le nom de l’artiste. Bassianus est un cognomen trés frequent en Afrique (aussi Caracalla avant l’adoption). Sidoni au génitif (qui est mentionné aussi bien dans l’acrostiche qu’à la ligne 4) est le signum du propriétaire du Fundus Bassianus, dans le sens de “le fenicien” ou “le carthaginois”, sans rapport avec le nom du mosaïste ou de l’auteur des vers.

Le texte, de 6 lignes à l’origine, a été jusqu’ici amplement étudié par les spécialistes, après l’édition dans CIL VIII 25425= ILTun. 1184: Engström nr. 103; CLE nr. 1910; ILCV nr. 788 e II 509; Pickhaus 1994, nr. A79; AE 1999, 1758; CLEAfr. 1, p. 130. Un très bon commentaire: J. Gómez Pallarès, “L’Africa Romana”, XI, 1996, p. 196 nr. 3. Pour d’autres poèmes étudiés pour leur présence dans les édifices thermaux, surtout d’époque tardive: S. Busch, Versus balnearum, Leipzig 1999. La paléographie confirme l’époque tardive du texte qui, à notre avis, ne dépasse pas le Ve siècle.

 

3. Le caractère chrétien est explicitement nié par Gómez Pallarès, en raison de la description réaliste des composantes de la ferme avec ses thermes et des scènes marines de pêche et de distraction (comme dans la mosaïque païen de El Alia; on connait très bien la survivance de thémes du repertoire traditionnel païen en époque tardive, comme à Sétif e Henchir Errich). L’ensemble, inscription, mosaïque et pavement, semble en plein accord avec le lieu de découverte, au bord du pittoresque lac de Bizerte, dans un établissement thermal, cognomine Baiae invent(a)e, appelé avec l’indication “les eaux des Baiae retrouvées”. L’expression fait allusion au lac, analogue à celui de Baiae (à l’ouest de Pouzzoles) mais sourtout aux bains thermaux naturels, très célèbres aux Campi Flegrei. Déjà Monceaux a rapporché inventae de Baiae, évidemment avec un rappel aux domaines de la cité campanienne, riche en eaux chaudes thermales, recherchée pour le luxe et le traitement des maladies, lieu de repos et de villégiature fréquenté par les patriciens romains. Dans notre cas, la référence à Baiae en Campanie est bien certaine, même si l’expression est attestée dans la mosaïque de la salle froide (frigidarium) des thermes des Venantii à Bulla Regia (Les ruines de Bulla Regia, p. 78), avec l’inscription musivale pratiquement inédite insérée dans une tabula epigraphica: Venantiorum / Baiae. Donc par métonimie Baiae est utilisée dans la poésie épigraphique pour désigner les thermes de manière synthétique: metonymice dictum pro thermis in carminibus. Ainsi par exemple dans CIL VIII 25362 (Tunis): cerne salutiferas sp[lendent]i marmore Baias, datable du début du VIe siècle par le rappel du vandale Gebamundus.

Tout cela dit, on ne peut pas exclure une mise en situation paradisiaque de l’ensemble et une interprétation chrétienne, qui pourraient être suggérées par quelques elements des deux mosaïques:

– Le filet chargé de poissons, voir la pêche miraculeuse de Simon dans le lac de Genésaret (Luc, 5, 11).

– La scène du monstre qui avale le baigneur rappelle l’épisode biblique, très fréquent dans les représentations paléochrétiennes, de Jonas resté trois jours dans le ventre du monstre marin, devoratus a belva maris,symbole de resurrection.

– Le texte avec l’incipit splendent tecta rappelle la splendeur de la nouvelle lumière, comme à Tipasa pour Alexander, CIL VIII 20903: tam claris laudantur moenia tectis; voir  l’allusion à la résurrection chrétienne, gaudia lucis nobae dans CLE 786.

Texte:

Splendent tecta Bassiani fundi cognomine Baiae

invent(a)e, lucisqu[e] magis candore relucen[t]

disposuit facer[e —] + isatin[—]

oppositos m+[—]

5 nomine Sidon[i —]

iure sub n+ [—]

Acrostiche : Sidoni.

Traduction :  “Brillent de beauté les édifices du domaine agricole de Bassianus

surnommé “ les eaux retrouvées  de Baiae”

Et resplendissent toujours plus par l’éclat de la lumière…”

Attilio Mastino




La nascita dell’archeologia in Sardegna: il contributo di Giovanni Spano tra ricerca scientifica e falsificazione romantica.

Attilio Mastino
La nascita dell’archeologia in Sardegna: il contributo di Giovanni Spano tra ricerca scientifica e falsificazione romantica
[1]*

 

1. Gli studi fino alla laurea. 2. Le scoperte nella colonia romana di Turris Libisonis. 3. La formazione: il viaggio a Roma Roma. 5. Baille e La Marmora. 5. I viaggi in Italia. 6. Le ricerche giovanili. 7. I primi scavi: Tharros. 8. Il “Bullettino Archeologico Sardo” e le “Scoperte Archeologiche”.  9. La rete dei collaboratori.  10. La nascita dell’archeologia in Sardegna. 11. I corrispondenti italiani. 12. I corrispondenti stranieri. 13. I rapporti con Theodor Mommsen e la polemica sulle Carte d’Arborea. 14. Lo scontro con Gaetano Cara ed il tramondo dello Spano. 15. Il mito della patria lontana: la leggendaria Ploaghe-Plubium.

1. La recente ristampa del “Bullettino Archeologico Sardo” e delle “Scoperte Archeologiche” curata dalle Edizioni dell’Archivio Fotografico Sardo di Sassari[2] e la Giornata di studio su Giovanni Spano promossa dal Comune di Ploaghe il 15 dicembre 2001 per le celebrazioni bicentenarie dalla nascita, sono  l’occasione per una riflessione complessiva sull’attività di Giovanni Spano tra il 1855 ed il 1878: un periodo di oltre vent’anni, che è fondamentale per la conoscenza della storia delle origini dell’archeologia in Sardegna, nel difficile momento successivo alla “fusione perfetta” con gli Stati della Terraferma, fino alla proclamazione dell’Unità d’Italia e di Roma capitale; in un momento critico e di passaggio tra 1a «Sardegna stamentaria» e lo «Stato italiano risorgimentale», quando secondo Giovanni Lilliu «si incontrarono e subito si scontrarono la “nazione” sarda e la “nazione” italiana al suo inizio»[3].

 

Gli interessi dello Spano per l’archeologia non sono originari[4]: nella tarda Iniziazione ai miei studi, pubblicata nel 1876 sul settimanale sassarese “La Stella di Sardegna” (recentemente edita da AM&D Edizioni di Cagliari a cura di Salvatore Tola)[5], lo Spano ripercorre le tappe della sua formazione a Sassari al Collegio degli Scolopi, poi in Seminario, per gli studi di grammatica e di retorica e quindi di logica e di matematica, fino a conseguire il titolo di maestro d’arti liberali nel 1821; solo più tardi, incerto tra la medicina («una scienza in allora abborrita e disonorata nelle famiglie, specialmente la chirurgica») e la giurisprudenza, scelse si iscriversi alla Facoltà teologica, per motivi non propriamente spirituali: «perchè vi erano le sacre decime, di buona memoria, che allettavano la maggior parte degli studenti»[6].  Il 14 luglio 1825 conseguiva la laurea in Teologia («un corso florido», perchè «la Teologia nell’Università di Sassari è stata molto coltivata perché ha avuto sempre buoni professori»), dopo un esame sostenuto davanti ad una commissione di undici membri presieduta dall’arcivescovo Carlo Tommaso Arnosio (omonimo del vescovo-poeta di Ploaghe ricordato nelle Carte d’Arborea)[7], con l’intervento tra gli altri del professore di Teologia dogmatica padre Tommaso Tealdi e di Filippo Arrica parroco di Sant’Apollinare, originario di Ploaghe e docente di Teologia morale, poi divenuto vescovo di Alghero: il Promotore padre Antonio De Quesada (docente di Sacra Scrittura) lo aveva presentato come il princeps theologorum e «dopo l’acclamazione fatta dal bidello» gli «pose il berrettino a quattro punte in testa», gli fece indossare la toga e gli infilò «l’anello gemmato d’oro» nell’anulare; seguì il giuramento ed il ringraziamento, che lo Spano fece «in versi leonini», per distinguersi dagli altri[8]. Presso il Centro di studi interdisciplinari sulla storia dell’Università di Sassari (nella sede del Dipartimento di Storia) si conserva ancora la registrazione dell’esame di laurea superato a pieni voti[9]. Solo nel 1830 avrebbe conseguito il titolo di dottore in arti liberali ed in particolare in Filosofia, discutendo una dissertazione De stellis fixis, mentre uno dei commissari avrebbe voluto assegnargli un tema altrettanto bizzarro, i nuraghi della Sardegna[10].

 

2. Egli era nato a Plaghe l’8 marzo 1803 da Giovanni Maria Spanu Lizos e da Lucia Figoni Spanu[11]: a 16 anni aveva seguito con ingenua curiosità la vicenda degli scavi effettuati a Porto Torres da Antonio Cano, un frate architetto esperto di esplosivi (il costruttore della cattedrale di Nuoro, morto cadendo da un’impalcatura nel 1840), che aveva scoperto la base del prefetto M. Ulpius Victor relativa al restauro del tempio della Fortuna e della basilica giudiziaria, monumento che è alla base della falsificazione delle Carte d’Arborea[12]: «nella primavera di quell’anno (1819) ricordo che in Porto Torres un frate conventuale, Antonio Cano, scultore ed architetto sassarese, per ordine della regina Maria Teresa, moglie di Vittorio Emanuele II, ed a sue spese, faceva degli scavi nel sito detto Palazzo di re Barbaro e, di mano in mano che si scoprivano pietre scritte o rocchi di colonne, le trasportavano a Sassari per collocarle nella sala dei professori [dell’Università]»[13]. E ancora: «Io senza capirne un’acca, ero curioso e di osservare questi rottami e dal conto che ne facevano pensava che fossero cose preziose». Era dunque scattata una molla che lo avrebbe portato più tardi a valorizzare le antichità di Ploaghe, la sua piccola patria, quella che nelle Carte d’Arborea sarebbe diventata la gloriosa Plubium con i suoi eroi Sarra ed Arrio, un luogo con «una lussureggiante vegetazione con selve di alberi d’ogni sorta, con orti irrigati (…) con vigne ed ogni genere di piante»[14]: «arrivato in villaggio col desiderio di trovare qualche pietra simile, passava i giorni visitando i nuraghi del villaggio e le chiese distrutte; m’introduceva nei sotterranei e stava sempre rivoltando pietre, arrampicandomi alle sfasciate pareti; per cui la povera mia madre mi sgridava sempre, e mi pronosticava che io sarei morto schiacciato sotto qualche rovina»[15].  Dopo la laurea, laureatus et inanellatus, in occasione del giubileo aveva vissuto nella basilica di San Gavino a Porto Torres l’esperienza della penitenza e della flagellazione «con un fascio di discipline di lame di ferro ben affilate» fornitegli da  da un prete devoto di San Filippo, restando ammalato poi per due mesi: un’esperienza che gli avrebbe fatto capire meglio l’assurdità delle ipotesi del direttore del Museo di Cagliari Gaetano Cara, che avrebbe visto come «flagellii» oggetti diversissimi, vere e proprie decorazioni militari di età romana.

 

3. Fu però soprattutto il burrascoso soggiorno romano del 1831 ad orientarlo verso l’archeologia: alloggiato nella locanda dell’Apollinare, lo Spano prese a frequentare tutti i giorni la vicina piazza Navona, «l’emporio delle cose vecchie, di libri e di antichità» che fu il luogo in cui si avvicinò all’archeologia «comprando monete, pezzi di piombo, tele vecchie, ecc.»[16]. E poi «l’Achiginnasio romano, ossia la Sapienza», l’Università agitata dai «primi movimenti rivoluzionari» degli studenti e dai «torbidi» e dal «malcontento del popolo contro il governo dei preti» dopo l’elezione di Gregorio XVI che aveva scatenato l’«odio contro i preti, i quali erano presi a sassate, e molti restavano vittime»: qui lo Spano poté conoscere l’abate modenese Andrea Molza, docente di ebraico e di Lingua caldaica e siro-caldaica, il maestro più amato «un angelo mandato dal cielo», poi bibliotecario della Vaticana, morto tragicamente nel 1850; ma anche il prof. Nicola Wiseman, docente di Ebraico (lingua che lo Spano già in parte conosceva, in quanto allievo a Sassari di Antonio Quesada);  il dott. De Dominicis ed il suo sostituto Emilio Sarti, professori di Lingua greca (quest’ultimo un «gran genio», «un mostro di erudizione»), il cav. Scarpellini di Fisica sacra, il Nibby di archeologia, «che allora era tenuto come il topografo per eccellenza dell’antica Roma»[17]; l’anno successivo il cav. Michelangelo Lanci di Fano docente di Lingua araba. Esaminato dal prof. Amedeo Peyron, professore di Lingue orientali nell’Università di Torino (col quale avrebbe successivamente collaborato alla pubblicazione della iscrizione trilingue di San Nicolò Gerrei[18]), fu nominato nel 1834 professore di Sacra Scrittura e Lingue orientali nella Regia Università di Cagliari, dove «a causa del clima» le lezioni terminavano con molto anticipo, il I maggio e le vacanze arrivavano fino al 15 luglio; l’Università di Cagliari infatti «si distingueva fra tutte le altre per il tempo assegnato alle vacanze», con grande soddisfazione dello Spano, che in primavera era ora libero di fare le sue «escursioni archeologiche e fisiologiche nel centro dell’isola».

 

4. A Cagliari la passione per l’archeologia doveva ulteriormente svilupparsi, soprattutto all’ombra di un grande vecchio, il cav. Lodovico Baille (gà censore dell’Università, bibliotecario e direttore del Museo archeologico), con il quale lo Spano fu messo in contatto da Amedeo Peyron, suo collega nell’Accademia delle Scienze di Torino: «era dotto archeologo, buon giurisprudente, caritatevole, disinteressato», oltre che «esperto e assennato antiquario»; fu il Baille «da vero archeologo», in occasione di una visita a Porto Torres, a sostenere che il Palazzo del Re Barbaro «sarà stato un tempio, o basilica, non però palazzo», un giudizio che per lo Sparo era stato luminosamente confermato dal ritrovamento avvenuto nel 1819 della base relativa al restauro del tempio della Fortuna, pubblicata poi proprio dal Baille[19]. Lo Spano lavorò per cinque lunghi anni accanto al Baille, fino al 14 marzo 1839, giorno della sua morte, considerata «una perdita nazionale» da Pasquale Tola.

Proprio in questi anni lo Spano ebbe l’occasione («la fortuna») di conoscere il generale Alberto della Marmora, «che trovavasi in Cagliari iniziando gli studi trigonometrici della Sardegna, col cavalier generale Carlo Decandia»: con lui lo Spano avrebbe avviato una cordiale amicizia ed una prolungata collaborazione scientifica. Scrivendo tredici anni dopo la morte del Della Marmora (avvenuta il 18 maggio 1863), lo Spano non avrebbe nascosto anche i motivi di un profondo disaccordo, la differente opinione della destinazione e sull’uso dei nuraghi (un tema decisivo che avrebbe portato lo Spano a scontrarsi sanguinosamente con il direttore del Museo di Cagliari Gaetano Cara), edifici che per lo Spano erano abitazioni e per il Della Marmora solo tombe: «ma siccome era di una tempa forte, difficilmente si lasciava vincere nelle sue opinioni, come era quella sopra i nuraghi; ché per aver trovato nell’ingresso del nuraghe Isalle una sepoltura antica col cadavere e stromenti di bronzi antichi, conchiuse che quelle moli erano trofei di guerrieri, mentre lo scheletro e le armi non furono trovati dentro la camera, quindi erano assolutamente memorie posteriori»[20]. E poi le dubbie amicizie del La Marmora, osservate con sospetto dallo Spano, le ingenuità e gli errori, come per la vicenda degli idoli sardo-fenici, fatti acquistare dal Cara ed entrati a pieno titolo negli allegati al codice Gilj e nelle Carte d’Arborea: «io gli insinuava che non si fidasse tanto sulle relazioni; finalmente, dopo ultimata la colossale opera, comprò un centinaio di questi idoletti e si convinse che il mio sospetto non era senza ragione», perchè «nei bronzi figurati, io ripeteva, “ci vuole la fede di battesimo!”»[21]. Fu il Cara a dissanguare il conte Della Marmora, «nuovo Caio Gracco che si dipartì da Roma colla cintura piena di denaro e vi rientrò riportandola totalmente vuota»[22]. Certo le posizioni dello Spano non dovevano esser state inizialmente così nette se nel 1847 aveva scavato a Lanusei «nella stessa località già esplorata dal Della Marmora, dove dicevasi essersi rinvenuti di quegli idoletti fenici»[23] e se ancora nel 1866 la dedica della Memoria sopra alcuni idoletti di bronzo trovati nel vilaggio di Teti (con le Scoperte Archeologiche del 1865) era effettuata in onore di B. Biondelli, direttore del Gabinetto numismatico di Milano, «perché la scoperta fu fatta quando egli era in Sardegna e moveva dubbi sugli idoletti sardi»[24]. Ma già nel 1862 il La Marmora aveva rotto da tempo col Cara, se il Conte aveva minacciato il Ministro C. Matteucci di rivolgere un’interrogazione in senato per la recente riconferma nell’incarico di direttore facente funzioni del Museo di Cagliari di un «individuo» compromesso in passato, che aveva curato a suo modo «gli affari del Museo».

 

5. Fu nel corso delle vacanze del 1835 (vent’anni prima della pubblicazione del primo numero del “Bullettino“) che lo Spano si dedicò per la prima volta seriamente delle antichità della Sardegna: egli passò «le vacanze biennali visitando continuamente la necropoli di Caralis antica, l’anfiteatro romano e copiando le iscrizioni antiche che trovansi sparpagliate nel Campidano di Cagliari», a suo dire già prevedendo di utilizzare queste informazioni per la sua Rivista[25]; all’anfiteatro in particolare avrebbe poi dedicato un volume[26], dopo gli scavi degli anni 1866-67 promossi dal Municipio e controllati da una commissione da lui presieduta di cui avrebbero fatto parte Gaetano Cima, l’avv. Marini Demuru, il Marchese De-Litala, il prof. Patrizio Gennari, Vincenzo Crespi (che avrebbe sostituito Pietro Martini, deceduto il 17 febbraio 1866)[27]. Utile sarebbe stato nel 1836 il viaggio a Verona «per visitare l’Anfiteatro che, per essere quasi intiero» lo «aiutò per poter istituire paragoni col cagliaritano»; nella città scaligera poté visitare il Museo Maffeiano dove volle trascrivere «alcune iscrizioni che avevano relazione colle sarde». In quel viaggio raggiunse Torino, frequentò le lezioni di Ebraico di Amedeo Peyron e di Greco del cav. Bucheron; quindi Milano, dal prof. Vincenzo Cherubini; e poi Padova (dove conobbe il Pertili), Venezia (dove conobbe i bibliotecari di San Marco cav. Bettio e Bartolomeo Gamba, ma anche l’istriano Pier Alessandro Paravia, professore di Eloquenza nell’Università di Torino, che avrebbe rivisto nel 1838), Rovigo, Bologna, Ferrara, Rimini, Foligno, Spoleto, infine raggiunse Roma. Qui, rivide il Molza ed altri maestri e colleghi ed iniziò a «visitare le antichità romane dentro e fuori di città per rinnovare la memoria», preparando qualche suo «scritto sopra le medesime e sopra i dialetti sardi»[28]. Trattenuto per mesi a Napoli dall’epidemia di colera, poté studiare «le antichità ai musei ed alla Regia biblioteca», le rovine di Pompei (dove studiò «la struttura delle case antiche», analoghe a quelle che avrebbe riconosciuto a Cagliari nel 1876 a Campo Viale, la necropoli, o via dei Sepolcri, e l’anfiteatro), infine Pozzuoli, per visitare un altro anfitreatro, il Tempio di Serapide, il lago d’Averno, la Grotta detta della Sibilla: «qui doveva vedere altri monumenti e copiare alcune iscrizioni che hanno relazione colle sarde, specialmente le classiarie di Miseno»[29]. Un viaggio avventuroso, con non pochi pericoli, che lo avrebbe segnato per gli anni successivi, quando lo Spano avrebbe ripreso le sue escursioni sarde, «raccogliendo vocaboli, oggetti di antichità, carte antiche e canzoni popolari».

 

6.  Gli interessi dello studioso continuavano ad essere eterogenei e l’archeologia rappresentava ancora solo un aspetto secondario delle sue passioni: nel 1838, dopo aver visitato Bonorva, il Monte Acuto, il Goceano, il Nuorese, le Barbagie, la Planargia, il Marghine, studiò la lingua di Ghilarza e visitò «nuraghi ed altri monumenti preistorici, di cui abbonda questo territorio», scoprendo «molte di quelle lunghe spade di bronzo che gli antichi usavano XIV secoli prima di Cristo allorché, confederati con altri popoli, invadevano il Basso Egitto»: era la prima volta che lo Spano si misurava con la tesi dellle origini orientali dei Sardi e con la vicenda dei Shardana, allora illustrata da F. Chabas[30].  Nominato responsabile della Biblioteca Universitaria alla morte del Baille, si vantava di aver consentito agli studenti cagliaritani ed ai frequentatori della biblioteca «di studiare a testa coperta, come loro era più comodo; mentre prima erano obbligati di stare a testa nuda come in chiesa». Si sentiva però totalmente impreparato a dirigere la Biblioteca, per quanto assistito da padre Vittorio Angius, ed intraprese perciò un viaggio a Pisa, a Genova, a Bologna, a Modena, a Parma, a Milano, a Torino, per conoscere dall’interno il funzionamento delle principali biblioteche italiane. In particolare avrebbe avuto un seguito l’amicizia con «quel mostro di erudizione» che era Celestino Cavedoni, che avrebbe a lungo collaborato con il “Bullettino Archeologico Sardo” fino alla morte, avvenuta nel 1867. A Modena tra gli altri aveva conosciuto «l’unico rampollo del celebre Muratori», il canonico Soli Muratori, mentre a Parma aveva approfondito col cav. Pezzana le problematiche poste dalla tabula ipotecaria di Veleia, «che ha una certa rassomiglianza con la nostra tavola di bronzo di Esterzili» (che sarebbe stata scoperta solo quasi trent’anni dopo)[31].  A Milano aveva conosciuto G. Labus, «distinto archeologo» ed «epigrafista aulico», ricordato più volte successivamente, che gli suggerì di raccogliere in catalogo i bolli sull’instrumentum domesticum, dandogli l’idea del volume sulle Iscrizioni figulinarie sarde, che sarebbe uscito solo nel 1875[32]. Infine, l’egittologo Rossellini e tanti altri.

Rientrato a Cagliari, aveva dovuto fronteggiare l’ostilità del Magistrato sopra gli studi e del censore, che lo accusavano di non occuparsi «di Bibbia, distratto in far grammatiche ed in altre opere vernacole»; dopo la drastica riduzione dello stipendio, fu costretto a dimettersi dalla direzione della Biblioteca, che nel 1842 passò ad un amico, a Pietro Martini: una magra consolazione, anche se lo Spano si compiace di aver avuto «per successore un uomo dotto che si dedicò con intelligenza a far progredire quello stabilimento materialmente e scientificamente».

Lo Spano, esonerato dalla direzione della Biblioteca, poté dedicarsi ancora di più ai suoi veri interessi: visitò il Sulcis, Iglesias, Carloforte e Sant’Antioco, dove fece «una gran messe di monete romane (che ora si trovano nel gran (…) medagliere donato al Regio Museo), di iscrizioni anche fenicie, di bronzi e di molte edicole in trachite e di marmo, tra le quali una di Iside»; l’anno successivo fu ad Oristano ed a Tharros.

L’arrivo a Cagliari nel 1842 del nuovo arcivescovo, l’amico Emanuele Marongiu Nurra, segnò una svolta profonda, sul piano personale ma anche sul piano politico: egli «a più delle scienze sacre coltivò la storia e l’archeologia, in cui diede numerosi saggi» e nel 1848 capeggiò la Commissione parlamentare inviata a Torino per chiedere la “perfetta fusione” della Sardegna al Piemonte, finendo due anni dopo in esilio e riuscendo a rientrare in sede solo dopo 15 anni.  Fu l’arcivescovo Marongiu Nurra ad anticipare l’ostilità del censore dell’Ateneo cagliaritano, che riteneva lo Spano un «inetto», perchè si era dedicato invece che alla teologia ed alla Bibbia alle «iniezie della lingua vernacola»: l’arcivescovo gli poté offrire «il canonicato della prebenda di Villaspeciosa (la più misera di tutta la diocesi), piccolo villaggio di circa 400 anime vicino a Decimo»: una tranquilla sinecura, inizialmente non gradita dallo Spano, che comunque gli consentì di superare l’avversione generalizzata che minacciava di travolgerlo, per dedicarsi a tempo pieno agli studi prediletti.

Guardando a quei difficili momenti, a distanza di trent’anni, lo Spano avrebbe lucidamente scritto: «liberato dal peso della cattedra e dalle lezioni della lingua ebraica e greca, fui più libero di dedicarmi agli studi di mio genio, cioè alla filologia ed all’archeologia sarda, spigolando il campo in cui aveva mietuto il Della Marmora». Egli non si vergognava di passare le sue giornate «nelle umili case dei contadini» e di viaggiare per le campagne sarde; nè si vergognava, «dove vedeva ruderi di antiche abitazioni» di frugare colle sue mani «il terreno fangoso, tirando fuori pezzi di stoviglie o di bronzi, monete ed altro, per esaminare a quale età potevano appartenere» e riempiendosi le saccoccie «di quei rozzi avanzi» che la sua guida ed altri che lo accompagnavano «credevano inutili trastulli». Nella primavera 1845 iniziò a visitare la Trexenta, riuscendo a stabilire attraverso i reperti provenienti dal nuraghe Piscu di Suelli «i nuraghi essere serviti d’abitazione»: una tesi che successivamente non avrebbe più abbandonato. Visitò poi Nora, «la patria di Sant’Efisio martire»[33], per osservare «i ruderi di quella famosa città, emula di Cagliari, e che si crede d’essere più antica», con la speranza di trovare qualche nuova iscrizione fenicia. Qui praticò uno scavo che egli stesso riteneva di scarsa importanza, raccogliendo monete ed alcuni frammenti epigrafici latini, «perché, per trovare oggetti che dimostrino la prima sua fondazione e civiltà, bisogna lavorare molto, onde scuoprire le prime tombe della sua necropoli, che tuttora non si è trovata».  E ancora, alla luce delle osservazioni fatte nel volume delle Scoperte del 1876 e nelle Carte d’Arborea: «vi si vedono molti monumenti romani, l’acquedotto, il castello e una parte della città seppellita nel mare, dicesi da un terremoto».

Rientrando a Cagliari, aveva iniziato a raccogliere i suoi appunti, le sue note, gli oggetti, per servirsene in futuro, quando si sarebbe occupato «delle cose archeologiche sarde», lavorando intanto per il Vocabolario, riposandosi solo «nelle ore del coro» in Cattedrale, per «cantare e “labbreggiare”» coi suoi colleghi canonici.[34]

Nel 1846 iniziano gli scavi a Ploaghe nella loc. Truvine (la Trabine delle Carte d’Arborea), in compagnia del rettore Salvatore Cossu «persona intelligente e di genio per le antichità» morto nel 1868[35], che a proposito dell’etimologia di Plubium aveva saputo «indovinare» la spiegazione fornita quattro secoli prima da un immaginario Francesco De Castro[36], di amici, parenti e perfino della madre quasi ottantenne (sarebbe morta l’8 aprile 1864  a 93 anni di età): furono raccolte tra l’altro 35 monete di bronzo di età repubblicana, fino all’età di Augusto e tra esse una rarissima «moneta coloniale della città di Usellus», statuine di Cerere col modio, di Bacco e di satiri, lucerne col bollo di C. Oppius Restitutus [37], un pavimento in opus signinum, materiali presentati nella bella Memoria sull’antica Truvine, dedicata nel 1852 e ripresa sul IV numero del “Bullettino“: un testo che è purtroppo alla base dell’attività dei falsari delle Carte d’Arborea ed in particolare dei numerosi fantasiosi documenti su Plubium-Ploaghe, sul cronista Francesco De Castro, sull’«intrepido e coraggioso Sarra», su Arrio amico di Mecenate, inventore della scrittura stenografica (!) [38]; quest’ultimo sarebbe stato rappresentato dal celeberrimo pittore cagliaritano Giovanni Marghinotti in una tela conservata ora nella sala consiliare del Comune di Ploaghe[39]. Lo Spano, quanto mai  soddisfatto del nuovo orizzonte di studi che poteva intravedere,  ci appare decisamente impegnato a sostenere che «la Cronaca di Francesco De Castro Ploaghese ha tutti i caratteri della genuinità, sia nell’intrinseco dettato della storia che abbraccia, sia nella parte estrinseca del Codice, cioè la carta, il carattere e tutto quanto induce a formare il vero criterio, per distinguere la veracità e l’autenticità dei codici, e delle scritture antiche»[40]. Su tale posizione di accentuato campanilismo vedremo che il canonico dové però subire le ironie e gli «sghignazzi» di qualche confratello poco credulone[41].

Il tema del rapporti dello Spano con i falsari delle Carte d’Arborea non è stato del resto ancora pienamente affrontato: è vero che lo Spano fin da ragazzo si esercitava un po’ per scherzo nella tecnica delle invenzioni e citava «testi di filosofi e di santi padri inventati nella mia testa», disquisendo con gli amici dell’Accademia della Pala (così chiamata da una collina di Bonorva)[42]. E’ anche vero che lo Spano intrattenne rapporti più che amichevoli con Pietro Martini (che gli subentrò come direttore della Biblioteca Universitaria), con Salvatore Angelo Decastro (che gli subentrò come direttore del Regio Convitto) e con altri protagonisti della falsificazione. Eppure una partecipazione diretta dello Spano alla falsificazione, che proprio in quegli anni andava delineandosi, non è dimostrabile e forse neppure probabile. Basterà in questa sede osservare che rapporti di aperta ostilità lo Spano ebbe con Gaetano Cara, pienamente coinvolto come si dirà nella vicenda dei falsi bronzetti fenici e forse anche con Gavino Nino, il canonico bosano polemico con lo Spano fin dal 1862 ed accusato apertamente di campanilismo dieci anni dopo[43]; la versione sulla destinazione dei nuraghi adottata dal Cara ma anche dalle Carte d’Arborea (ad es. nella memoria su Plubium) è in conflitto con quella proposta dallo Spano.

 

7. Del 1847 sono gli scavi a Lanusei, alla ricerca degli idoletti fenici, le indagini a Talana e ad Urzulei, dove conobbe quello che sarebbe diventato il suo più caro «discepolo», Giuseppe Pani, poi vicario perpetuo di Sadali, il soggiorno a Dorgali, alla ricerca del luogo di provenienza del diploma militare di un ausiliario della seconda coorte di Liguri e di Corsi nell’età dell’imperatore Nerva, il soldato Tunila, pubblicato dal Baille[44]; e quindi Orosei, Siniscola, Posada «dove si diceva sorgesse l’antica Feronia» fondata dagli Etruschi, il Luguidonis Portus, Terranova (l’antica Olbia e poi Fausania), Teti, Oschiri, Nostra Signora di Castro, Bisarcio, Ploaghe e di nuovo a Cagliari: luoghi tutti visitati «per lo stesso oggetto linguistico ed archeologico»[45], che restituirono anche iscrizioni lapidarie, come l’epitafio di Terranova di Cursius Costini f(ilius) e di sua madre, «morti nello stesso giorno» (?)[46] o le epigrafi di Castro mal trascritte dallo Spano, oggi per noi purtroppo perdute[47].

Nel burrascoso 1848, dopo la cacciata dei Gesuiti e l’abolizione del posto di viceré, lo Spano sospese le sue ricerche archeologiche, impegnato a difendere la sua prebenda di Villaspeciosa, dove «ognuno gridava che non volevano canonici né pagar più decime»; sospesa anche la pubblicazione del Vocabolario (che sarebbe uscito solo tre anni più tardi), iniziò «a pubblicare qualche cosa di archeologia», in particolare curò l’edizione di un diploma militare probabilmente dell’imperatore Tito trovato a Lanusei, che fu dedicata alla memoria dell’unico figlio del cav. Demetrio Murialdo di Torino, avvocato fiscale generale dell’Isola, morto nella guerra d’indipendenza[48]; inoltre l’anno successivo (dopo la nomina del conte Alberto Della Marmora a Regio Commissario per la Sardegna), presentò un epitafio greco del Museo di Cagliari «di cui si erano date strane e ridicole interpretazioni», con una nota dedicata al prof. G. Pisano, lo stesso che avrebbe collaborato al I numero del “Bullettino[49]. Nel 1849 tornato a Porto Torres, lo Spano era rimasto per 10 giorni nella basilica di San Gavino, per poi raggiungere Ploaghe, dove proseguì gli scavi di Truvine; infine i nuraghi di Siligo, la tomba di giganti di Crastula, Bonorva, di nuovo Cagliari[50]. L’anno successivo fu «memorando per gli scavi di Tharros e per il congresso dei vescovi sardi in Oristano», promosso «per trattare affari di disciplina ecclesiastica e difendere i diritti del clero». Con la scusa della Conferenza episcopale, lo Spano aveva colto l’occasione per effettuare scavi a Tharros, in compagnia del presidente del Tribunale G. Pietro Era, dell’avv. Antonio Maria Spanu e del giudice N. Tolu. «Il principale scopo di portarmi in quella città – scrisse più tardi – fu però per praticare uno scavo in Tharros, dove mi portai nel 21 aprile (1850), e ci stetti tre giorni attendendo agli scavi che fruttarono un buon risultato, sebbene il tempo fosse cattivo, quasi le ombre dei morti fossero sdegnate contro di me, perché disturbava il loro eterno riposo»[51].  Fu pubblicata l’anno successivo una Notizia sull’antica città di Tharros, dedicata all’amico Demetrio Murialdo e nel 1852 tradotta in inglese per la British Archaeological Society[52]: un volumetto che avrebbe fatto circolare un po’ troppo la notizia delle straordinarie scoperte effettuate dallo Spano, gioielli, scarabei, vetri, altri oggetti preziosi, scatenando una vera e propria “corsa all’oro”: «concorsero da tutti i villaggi del circondario di Oristano, specialmente da Cabras, Nurachi, Milis, ecc., da Seneghe e San Lussurgiu. Fecero scempio di quel luogo, quasi fosse una California; erano circa tremila uomini lavorando a gara e con tutto impegno», senza che le autorità riuscissero ad arginare tale «vandalismo»[53]. Iniziamo a conoscere i nomi di coloro che poi acquistarono a caro prezzo i reperti ritrovati a Tharros, «orefici e signori di Oristano», che ci portano alle origini del collezionismo antiquario che si sarebbe sviluppato ad Oristano nella seconda metà dell’Ottocento, senza che la borsa dello Spano potesse «reggere a confronto di quella di tanti ricchi cavalieri e negozianti speculatori»: il cav. Paolo Spano, il cav. Salvatore Carta, il giudice Francesco Spano, il negoziante Domenico Lofredo, Giovanni Busachi, Nicolò Mura, nomi che troveremo negli anni successivi sul “Bullettino” e sulle “Scoperte“. Il Lofredo riportò lo Spano a Tharros nel 1852 col suo «bastimento», ma il Governo aveva ormai vietato gli scavi archeologici, chiudendo «la vigna dopo che erano fuggiti i buoi». Se ne andò perciò di nuovo a Ploaghe e poi a Codrongianus, per continuare le sue ricerche, pubblicando infine la Memoria sull’antica Truvine. A fine anno veniva nominato dal Ministro della Pubblica Istruzione membro del Consiglio Universitario di Cagliari: era la premessa necessaria per un ritorno in  grande stile nell’Ateneo dal quale era stato espulso nel ’44. Rifiutata la proposta del Ministro Luigi Cibrario di presiedere il Consiglio,  lo Spano continuava a pubblicare i suoi studi, orientandosi progressivamente verso l’archeologia e la storia antica: proprio del 1853 è la Lettera sul riso sardonico, dedicata all’amico Vegezzi Ruscalla, che aveva lodato lo Spano con una bella recensione all’Ortografia sarda nazionale, sul “Messaggiere” del 1840; il tema è quello dell’espressione omerica relativa all’atteggiamento minaccioso ed ironico di Ulisse contro i Proci in Odissea[54], un argomento fortunato, che sarebbe stato ripreso pochi decenni dopo nella tesi di laurea di Ettore Pais, e, più recentemente, da C. Miralles, Massimo Pittau, Enzo Cadoni e da ultimo da Giulio Paulis[55].

Nel maggio 1853 si svolsero a Ploaghe sull’altopiano di Coloru presso il nuraghe Nieddu le esplorazioni geologiche del gen. Alberto Della Marmora e del gen. Giacinto di Collegno, diretti poi in Ogliastra, verso la Perdaliana di Seui: quello sarebbe stato l’ultimo viaggio del Della Marmora in Sardegna che quattro anni dopo avrebbe pubblicato i due ultimi volumi del Voyage e l’Atlas[56].

L’anno successivo fu quello della pubblicazione della Memoria sopra i nuraghi della Sardegna[57]: per prepararla, lo Spano visitò le Marmille, Isili, Nurri, Mandas, poi di nuovo Ploaghe e Siligo, in compagnia di Otto Staudinger di Berlino. Nel luglio 1854 nominato preside del Regio Convitto e del Collegio di Santa Teresa appena riformati, entrò in relazioni molto amichevoli con quel Bernardo Bellini che gli avrebbe confidato «il segreto stereotipo», di cui si sarebbe servito «in alcuni disegni del “Bullettino“»[58]; per documentarsi ulteriormente sul funzionamento dei Regi Convitti, effettuò allora un nuovo viaggio «nel continente», a Torino, Alessandria, Moncalieri, Genova e poi per tre anni si dedicò con passione ai suoi studenti, seguendoli nelle lezioni, nello studio in biblioteca, negli esami, tanto da sembrargli «di stare in compagnia di angeli».

Infine, nominato Rettore della Regia Università di Cagliari il 5 settembre 1857 per volontà del Ministro Giovanni Lanza, Giovanni Spano aveva poi lasciato con molto rimpianto il Regio Convitto nelle mani dell’amico Salvator Angelo De Castro.

 

Il modello è quello seguito in Sicilia da Baldassarre Romano ed a Napoli da Giulio Minervini (direttore del “Bullettino Archeologico Napolitano“), mentre per le iscrizioni (che hanno uno spazio privilegiato alla fine di ciascun fascicolo) il riferimento costante è a Ludovico Antonio Muratori. I dieci volumi del “Bullettino“, per quasi 2000 pagine, con un totale di 540 articoli (di cui ben 398 firmati dallo Spano) coprono il periodo che va dal 1855 al 1864: dall’anno del colera a Firenze capitale, dall’unità d’Italia alla morte del Cavour, dalla realizzazione di nuove opere pubbliche in Sardegna fino alla costruzione della nuova rete ferroviaria in Sardegna a partire dal 1862 (il tratto Ploaghe-Sassari fu inaugurato il 15 agosto 1874).

Un periodo tormentato per lo Spano, segnato dai lutti e dalle disgrazie familiari, perfino da un processo per ricettazione[62], impegnato prima come preside del Regio Convitto (dal 1854 al 1857) e poi come Rettore dell’Università di Cagliari (dal 5 settembre 1857 al dicembre 1868), a cavallo della riforma della legge Casati del ’59. Un periodo ricco di soddisfazioni scientifiche, di scoperte importantissime come la trilingue di San Nicolò Gerrei[63] o la colonna dei Martenses a Serri[64]; ma anche di viaggi da Cartagine a Palermo, da Messina a Napoli, da Torino a Firenze. Il racconto dello sbarco in Tunisia a La Goulette è pieno di reminiscenze classiche, ma anche animato da una inattesa ironia: «Tosto messo piede a terra, ricordai con trasporto come Giulio Cesare, nel toccare il suolo africano, cadde e, stringendo un pugno delle arene infuocate, esclamò: “finalmente ti ho afferrato !”». Io, volendo fare altrettanto, mi cadde il cappello in mare e dovetti dare qualche moneta ad un forzato arabo per trarmelo dall’acqua»[65].

E poi le escursioni in Sardegna; gli scavi ancora a Tharros, a Capo Frasca ed a Neapolis nel 1858, i viaggi in Barbagia, nel Goceano, nel Marghine, nella Planargia, nel Sulcis, nella Trexenta, in Marmilla, in Gallura, fino a Caprera dove vide «l’abitazione del generale Garibaldi, il genere di coltura che v’introdusse, ma più i residui di antichità che vi aveva raccolto»[66]. E poi il ritorno costante a Ploaghe, la città natale, illustrata dalla scoperta di un prezioso codice (di dubbia provenienza), relativo all’antica Plubium.

Già nel 1865, pubblicando presso la Tipografia Arcivescovile una monografia su una serie di bronzetti nuragici trovati nel villaggio di Teti, il canonico inseriva in appendice le Scoperte Archeologiche fattesi nell’isola in tutto l’anno 1865, cercando così di recuperare il tempo perduto e di fornire le notizie (molto riassuntive) dei principali ritrovamenti effettuati. La novità è ben spiegata nell’introduzione: «Dacchè nel 1864 fu sospesa la pubblicazione del Bullettino Archeologico Sardo che per 10 anni avevamo costantemente sostenuto, abbiamo creduto a proposito di dare qui una rassegna dei monumenti antichi, e degli oggetti che nello scorso anno si sono scoperti in tutta l’isola, onde tener al corrente gli amatori delle antichità Sarde, fino a che sia il caso di poter riprendere la pubblicazione periodica di esso Bullettino». Dunque lo Spano pensa ad un’interruzione temporanea della Rivista, per le ragioni dichiarate esplicitamente ma anche forse per altre ragioni meno confessabili, collegate magari alla vicenda delle Carte d’Arborea, dal momento che nella serie delle Scoperte l’attenzione è concentrata sui ritrovamenti, sui dati di fatto, sui documenti epigrafici autentici, al riparo da ogni sospetto di falsificazione. Del resto, il ricorso alla Tipografia Arcivescovile per le sue pubblicazioni sembra coincidere con il ritorno a Cagliari dell’Arcivescovo Emanuele Marongiu Nurra (I marzo 1866), dopo quasi 16 anni di esilio: un amico personale, conosciuto a Sassari già nel 1823, lo stesso che nel 1845 gli aveva procurato la sinecura del canonicato di Villaspeciosa, quando il Magistrato sopra gli studi gli aveva notificato l’esonero dall’insegnamento, trascurato dallo Spano per «le inezie della lingua vernacola» e per i «gingilli dell’archeologia»[67].

La serie delle Scoperte, iniziata dunque nel 1865, prosegue regolarmente per dodici anni fino al 1876, non sempre con pubblicazioni monografiche autonome: la serie viene pubblicata in appendice a monografie su temi archeologici (1865, 1866), di numismatica (1867), di epigrafia (1868) o di storia dell’arte (1869, 1870, 1872), all’interno della “Rivista Sarda” diretta dallo Spano (1875), oppure con fascicoli autonomi (1871, 1873, 1874 e 1876), ciascuno di circa 50 pagine, dunque molto più scarni dei volumi del “Bullettino“, per un totale di oltre 600 pagine.

Sono questi gli anni delle grandi scoperte (la tavola di Esterzili, il cippo dei Giddilitani, l’epitafio del trombettiere della coorte dei Lusitani, il diploma di Anela, la dedica caralitana a Venere Ericina)[68], ma anche dei più alti riconoscimenti: la nomina a «membro nazionale non residente dell’Accademia delle Scienze di Torino, per la classe filologica e morale», al posto di Luigi Canina, deceduto nel 1856[69]; la nomina a Rettore dell’Università di Cagliari (5 settembre 1857); la medaglia offerta dai suoi studenti e dai suoi allievi per la partecipazione al V congresso preistorico di Bologna; la nomina a Senatore del Regno, effettuata con Regio Decreto del 15 novembre 1871, titolo utilizzato solo formalmente, che compare sulla copertina del volume relativo alle Scoperte Archeologiche del 1871. Sono gli anni della nascita a Cagliari della Facoltà di Filosofia e Lettere (a. 1863), dove venivano nominati per la prima volta i docenti di Storia (Giuseppe Regaldi), di Lingua greca e latina (Ollari), di Geografia antica (Vincenzo Angius).

 

9. Un’approfondita trattazione alle singole annate della Rivista e delle “Scoperte” è stata recentemente fornita da Paola Ruggeri[70]: in questa sede ci limiteremo perciò a definire negli aspetti più significativi lo sviluppo della rete di corrispondenti dello Spano, inizialmente impegnati all’interno del “Bullettino” e successivamente preziosi informatori per le “Scoperte“: un tema questo relativamente trascurato dagli studiosi, che però riesce ad illuminare in modo sorprendente lo sviluppo dell’archeologia isolana ancora alle origini, in un rapporto conflittuale tra falsificazione e documentazione storica.

Tra i corrispondenti compaiono 5 archeologi, 4 antiquari, 58 sacerdoti (compresi vescovi, canonici, teologi, vicari, parroci, ecc.), 2 frati, 8 insegnanti, 7 maestri elementari, 1 geologo, 1 scultore, 12 ingegneri,  3 architetti, 1 geometra, 1 disegnatore, 9 militari, 4 giornalisti, 6 notai, 12 magistrati, 17 avvocati, 14 medici, 4 farmacisti, 1 scenografo, 2 impiegati, 1 ottico, 5 orefici, 5 negozianti di antichità, 40 nobili, 3 studenti, 46 semplici cittadini, più 5 sindaci, 1 assessore comunale e 3 segretari comunali, su un totale di oltre 280 persone, di cui una decina parenti stretti dello Spano. E il dato è sicuramente sottostimato.

Più precisamente:

– archelogi, come Luigi Amedeo a Sassari (poi R. Ispettore agli scavi), Vincenzo Crespi, Filippo Nissardi (prima studente, geometra ed applicato dell’Ufficio del Genio Civile, poi Soprastante alle antichità), Pietro Tamponi a Terranova (Ispettore dal 1880), Filippo Vivanet (poi Soprintendente).

antiquari, come Gaetano Cara (morto il 23 ottobre 1877), Pietro Martini (morto il 17 febbraio 1866), Giovanni Pillito, Ignazio Pillito.

– sacerdoti, come Vittorio Angius (morto a Torino nel 1862), il teol. Atzeni ad Iglesias, Francesco Bianco a Buddusò, Salvatore Caddeo a Silanus, Sebastiano Campesi a Terranova, il teol. Gerolamo Campus a Ploaghe, Eugenio Cano vescovo di Bosa, Pietro Carboni a Gadoni, il teol. Salvatore Carboni a Siniscola, G.A. Cardia ad Esterzili, Fedele Chighine a Posada, Salvatore Cocco ad Austis, Salvatore Cossu a Ploaghe, il can. Salvatorangelo De Castro ad Oristano (protagonista della falsificazione delle carte d’Arborea), F. Del Rio a Ploaghe, il can. Antonio Demontis, Elia Dettori a Magomadas e poi a Sagama, il teol. Gavino Dettori a Buddusò, Gabriele Devilla a Nuragus (presidente di una «società» archeologica e poi Ispettore agli scavi), Michele Fedele Scano a S. Antioco di Bisarcio, Felice Fluffo a Decimoputzu, il teol. Antioco Loddo ad Ulassai, Antonio Manno ad Alà, il teol. Giovanni Marras, Gavino Masala a Monte Leone Roccadoria, il can. Francesco Miglior, A. Moi a Villasalto, il teol. Ciriaco Pala a Nuoro, il teol. G. Panedda a Sassari, Giuseppe Pani a Sadali (allievo prediletto dello Spano, morto nel 1865)[71], il can. Giovanni Papi a San Gregorio, Serafino Peru in Anglona ed a Terranova, il teol. G. Panedda, il teol. Antonio Michele Piredda a Flussio, Giuseppe Pittalis ad Orosei, il teol. Sebastiano Porru a Belvì, il can. Angelo Puggioni a Magomadas, il teol. can. V. Puggioni a Bosa, Antonio Satta a Chiaramonti, Giuseppe Luigi Spano a Sagama, il teol. Michele Spano a Perfugas, il can. Luigi Sclavo a Sassari, Salvatore Angelo Sechi ad Ittiri, Pietro Sedda ad Atzara, Giovanni Antonio Senes a Benetutti, Serra a Guspini, il teol. Filippo Felice Serra a Cargeghe, Salvatore Siddu a Sant’Antioco, Giovanni Sini a Ploaghe (cappellano militare), il teol. Francesco Spano a Borutta, Antonio Spissu a Serri, Salvatore Spano a Ploaghe, Antonio Spissu a Serri, il teol. Pietro Todde a Tiana, Allai e Tonara, il teol. G. Uras a Sestu, Pietro Valentino ad Olbia, Fedele Virdis a Ploaghe, Zaccaria Sanna a Scano Montiferro.

– frati, come il questuante Diego Cadoni ed il sac. Giusto Serra a Lanusei.

– insegnanti, come il prof. Francesco Antonio Agus a Ghilarza, prof. Pietro Cara a Cagliari,  il prof. Antonio Carruccio ed il prof. Antonio Fais (che parteciparono con lo Spano al convegno preistorico di Bologna), il prof. Patrizio Gennari (direttore dell’Orto Botanico, direttore del Museo di Cagliari, Rettore dell’Università), il prof. G. Meloni (del R. Museo anatomico), il prof. G. Todde dell’Università, P. Umana a Cagliari.

– maestri elementari, come Francesco Fois a Ploaghe, Luigi Loi a Nuragus, Battista Mocci a Cuglieri, Gianangelo Mura a Gesturi, Antioco Puxeddu a Neapolis, Federico Saju a Cagliari, Pantaleone Scarpa a Macomer.

– geologi, come G.L. Cocco.

– scultori, come Giuseppe Zanda a Desulo.

– ingegneri, come Giorgio Bonn a N.S. di Castro, Francesco Calvi (direttore delle Ferrovie Sarde), C. Corona a Corongiu, Efisio Crespo (autore di alcuni modellini di nuraghi, morto il 3 aprile 1874), E. Duveau a Grugua, A. Fais a Laerru, Federico Foppiani a Gadoni, Carlo Heym nel Sulcis, F. Marcia a Cagliari, Giovanni Onnis a Mara Arbarei, G. Pietrasanta (per il cippo terminale dei Giddilitani), Bartolomeo Ravenna ad Ierzu.

– architetti, come Salvatore Cossu a Bosa, Angelo Ligiardi ad Oristano, Luigi Tocco a Cagliari (impegnato contro i falsi idoletti fenici).

– geometri, come Luigi Crespi.

– disegnatori, come Federico Guabella di Biella (autore della «carta nuragografica» di Paulilatino, deceduto «naufrago» nel 1866)[72].

– militari, come il col. Francesco Cugia, il gen. Conte Alberto della Marmora, il cap. Gavino De-Logu a Bortigali, Antonio Masala (alcaide a Foghe), l’ufficiale Roberto Meloni ad Alghero, il luogotenente Luciano Merlo, Antonio Roych (comandante militare di Iglesias), il cav. Ruffoni di Verona (capitano dei Bersaglieri, protagonista di uno scavo in un nuraghe di Macomer), l’ex brigadiere Giovanni Sechi di Ploaghe.

– giornalisti, come F. Barrago, G. De Francesco, Michelino Satta, G. Turco.

– notai, come A. Atzori (sindaco di Paulilatino), S. Casti, Salvatore Congiattu a Martis, Andrea Marras a Terranova (Regio Ispettore nel 1876), Raimondo Melis a Nuragus, Puligheddu ad Ales.

– magistrati, come il pretore Antonio Ignazio Cocco a Siniscola, il procuratore Carlo Costa, il pretore avv. Cugurra a Ploaghe, A. Dore a Bitti, G. Pietro Era ad Oristano, il pretore F. Orrù a Sant’Antioco, A. Satta Musio, Ignazio Serra, Antonio M. Spano, Francesco Spano ad Oristano, il pretore G.M. Tiana Frassu a Benetutti e Nulvi, N. Tolu a Tharros.

– avvocati, come G. Maria Campus a Terranova, G. Dore a Giave,  Francesco Elena (tra il 1867 e l’anno della sua morte avvenuta a Tunisi per annegamento nel 1884), Francesco Mastino a Bosa, Sisinnio Meloni Piras a Selegas, A. Nurchis a Cagliari, Pirisi a Nuoro, Efisio Pischedda a Seneghe, Fara Puggioni a Cagliari, Francesco Ruggiu a Porto Torres, Sebastiano Salaris a Cuglieri, Giuseppe Sanna Naitana a Cuglieri (decisamente ostile ai falsari delle Carte d’Arborea, in polemica con Antonio Mocci), Antonio Sancio a Bono, Giovanni Spano a Sassari, Antonio Maria Spanu, Stanislao Tuveri a Barumini, Stefano Vallero a Sassari.

– medici come Giovanni Altara a Bitti, G. Camboni, Giacomo Congiu a Muravera, il chirurgo G. Crespi ad Armungia,  Giovanni Vincenzo Ferralis a Bosa, S. Lallai a Nurri, Lampis a Guspini, S. Mereu ad Ierzu, Giovanni Mura Agus a Meana, Salvatore Orrù a Milis, G.M. Pilo a Bitti, Antonio Schirru, G.M. Spano a Ploaghe, F. Tamburini a Padria.

– farmacisti, come Battista Melis a Serramanna, Francesco Putzu a Laconi (protagonista degli scavi a S. Maria Alesa), Antonio Luigi Salaris a Cuglieri, Francesco Serra a Cagliari.

– scenografi, come Ludovico Crespi.

– impiegati, come Ignazio Agus (direttore del cimitero di Bonaria), A. David (direttore dell’Ufficio postale di Oristano).

ottici, come G. Claravezza a Cagliari.

orefici, come Efisio e Giuseppe Campurra, Giovannino Dessì, R. Ferrara a Cagliari, Fedele Puddu.

– negozianti, come Francesco Defraja a Cagliari, Angelo Gherardi Pisenti a Porto Torres, Domenico Lofredo ad Oristano, Manai «rigattiere di cose antiche», Pietro Solinas.

– nobili, come il cav. Raimondo Arcais (morto nel 1873), i visconti F. e Vincenzo Asquer, il cav. Barisonzo a Sumugheo, Giovanni Busachi, cav. Costantino Carta a Bortigali, la nobildonna Placida Carta nata Passino a Bortigali, Gavino Cocco a Burgos (figlio di Bonifacio, protagonista della rivoluzione angioiana), Giuseppe Luigi Delitala per gli scavi di Cornus, il cav. D. De Filippi a Baunei, il conte C. De Magistris, il cav. Raimondo Dettori «nostro antico discepolo e amico» a Padria e Villanova, il cav. Peppino Di Teulada, Benvenuto Dohl (proprietario delle Saline di Cagliari), Iessie Dol nata Craig, il sen. Domenico Elena (prefetto di Cagliari), il cav. Battista Fois ad Iglesias, il cav. Domenico Fois Passino a Mulargia, Anna Galeani, il cav. Garrucciu a Fluminimaggiore, il sen. G.M. Grixoni, il cav. Francesco Grixoni, il conte Lostia a Nora, A. Manca Bitti a Nule, il cav. Sisinnio Paderi, il cav. Emanuele Passino a Tempio, il cav. Giuseppe Passino ad Abbasanta, Carlo Peltz a Cagliari, il cav. Paolo Pique (console generale di Francia), il conte Gioachino Pinna a Macomer, cav. A. Saba di Cheremule, il marchese Enrico di San Giust a Teulada (poi Barone), il cav. Francesco Antonio Satta a Florinas, il cav. Serpieri a Carcinadas, Pietro L. Serralutzu a Cuglieri, il cav. Stanislao Sini a Cabras, cav. Maurizio Sulis a Cagliari, il cav. Efisio Timon, il cav. G. Todde a Villacidro,  il cav. Rocco Vaquer a Villamar, Eugenio Vaquer a Villasor.

– studenti come Efisio Garau Perpignano a Grugua,  Lodovico Paulesi in Trexenta, il cav. Peppino Siotto a Sarrok.

– semplici cittadini, come Francesco Bagiella a Cheremule, Gavino Carta ad Ardara, P. Paolo Cesaraccio a Ploaghe, Francesco Cocco a Torralba, Proto Sanna Corda a San Vero, A. Corrias a Siniscola, Federico Dettori a Padria, Francesco Todde Floris a Tortolì, Teodoro Floris Zanda a Fordongianus, Efisio Franchini a Bosa, A. Frau a Terranova, Ricciotti Garibaldi (il figlio del Generale) a Caprera, Serafino Gaviano ad Abbasanta, Franceco Manconi a Macomer, Giuseppe L. Manconi, Michele Mancosu a Neapolis, Francesco Marogna a San Michele di Plaiano, il capo mastro Domenico Martinez a Torralba ed Ardara, Igino Martini di Quartu, Giuseppe Meloni a Norbello, S. Meloni a Cagliari, Monserrato Muscas, Antioco Murgia («liquorista») a Macomer, Giovanni Palimodde Salis ad Oliena, Giovanni Antonio Paulesu a Senorbì, Guglielmo Pernis ad Oristano, Antonio Picci a Sestu,  G. Maria Pilo-Piras a Bitti, Felice Porrà, F. Saccomanno a Serdiana, Giovanni Antonio Satta a Florinas, Celestino Secchi a Nuragus, Giuseppe Maria Senes a Nule, Virgilio Serpi a Barumini, Antonietta Serra Pintor a Lei, Efisio Serra, Battista e Martino Tamponi a Terranova, Battista Tolu a Tharros, P. Usai (bidello dell’Università), Rodolfo Usai a Terranova, Fiorenzo Virdis a Tissi, Francesco Angelo Zonchello Niola a Sedilo, Giuseppe Maria Zucca a Baressa.

Tra tutti si segnalano i parenti dello Spano, come Domenico Figoni (che volle ricostruire il nuraghe Nieddu di Codrongianus), Tommaso Satta Spano, sindaco di Ploaghe, il teol. Michele Spano a Perfugas, l’ex brigadiere Giovanni Sechi di Ploaghe, il teol. Francesco Spano a Borutta, Govanni Luigi Spano (fratello di Govanni, cognato del Fiori Arrica), Sebastiano Spano a Ploaghe.

Infine amministratori comunali ed in particolare sindaci, come il notaio A. Atzori a Paulilatino, Antonio Pinna ad Osidda, l’avv. Antonio Sancio a Bono, il cav. Tommaso Satta Spano a Ploaghe, Salvatore Susini a Sant’Antioco, avv. Stanislao Tuveri a Barumini; assessori come il dott. G. Sini a Ploaghe; e segretari comunali, come A.G. Cao a Villasalto, Raffaele Puxeddu Manai a Sedilo, oppure a Villasalto.

 

10. Il quadro complessivo, pur assolutamente parziale e, se si vuole, al momento assolutamente provvisorio, rende bene lo svilupparsi di una rete di informatori, corrispondenti, amici, collaboratori dello Spano: persone alcune volte conosciutissime, più spesso per noi soltanto dei nomi, espressione comunque di un’élite di appassionati, motivati da un forte amor di patria: con il loro aiuto lo Spano è riuscito a controllare tutta l’isola, dalla Gallura all’Ogliastra, dal Sulcis alle Barbagie, per poi arrivare a costruire una struttura che nel tempo vediamo consolidarsi e rafforzarsi, fino ad arrivare negli ultimi tempi alla nascita del R. Commissariato per i musei e scavi di antichità della Sardegna (affidato inizialmente allo Spano fin dal 1875), con un Soprintendente, con una rete di direttori di musei, di Soprastanti e di Ispettori, alcuni dei quali molto qualificati (come Andrea Marras e Pietro Tamponi a Terranova, Luigi Amedeo a Sassari, Battista Mocci a Cornus, Gabriele Devilla nel Sarcidano, ecc.). Ci sono poi i collaboratori diretti dello Spano, i discussi Pietro Martini ed Ignazio Pillito, Filippo Vivanet, Vincenzo Crespi (per il Mommsen vir peritus et candidus)[73], soprattutto gli allievi prediletti Giuseppe Pani (morto a Sadali nel 1865) e Filippo Nissardi, che seguiamo giovanissimo studente a partire dal 1867, per lungo tempo, fino alla nomina di Ettore Pais a direttore del Museo di Cagliari. Proprio il Nissardi fu il vero erede dello Spano, che lo giudicava «adorno delle più belle virtù», «valente disegnatore», di cui «tutti si augurano che diventerà col tempo un vero archeologo che supplirà il vacuo di quelli che vanno a mancare per l’età nella patria».

In qualche caso abbiamo notizia della nascita di vere e proprie «società» archeologiche, sostenute ed incoraggiate dallo Spano, come quella presieduta dal parroco di Nuragus Gabriele Devilla (poi Regio Ispettore agli scavi per la Giara di Gesturi), che scavava nel sito dell’antica Valentia ed era composta da Giuseppe Caddeo, Salvatore Deidda, Cristoforo Mameli, Francesco, Luigi, Paolo e Vittorio Matta, Lodovico Trudu, Giuseppe Zaccheddu. Oppure la «società» che nel 1867 iniziò gli scavi nella necropoli punico-romana di Tuvixeddu a Cagliari, composta da Antonio Roych, Michele Satta, Efisio Timon, Vincenzo Crespi. E poi la neonata «Società Archeologica» fondata nel Sulcis ed a Capoterra dall’ingegnere minerario Léon Gouin. Ancora a Perfugas, dove si era «costituita in seguito una società per esplorare regolarmente quel sito» ed a Laerru, gli scavi di Monte Altanu, svolti con poco profitto da «una società» di privati cittadini, così come a Cornus, dove «sono state fondate società che vi rimasero più d’un mese, attendendo ai lavori che fruttarono un’immensa quantità di urne cenerarie in vetro, e di fiale,  e guttarii in vetro di ogni colore di cui sono piene le private collezioni». Infine la Società Archeologica Sarda, nata nel 1872, che «perì il giorno che è nata», che doveva occuparsi della pubblicazione di un suo “Bullettino“.  Del resto, gà nella Prefazione al VII numero del “Bullettino”, lo Spano aveva suggerito la nascita di un’associazione, di una vera e propria società o accademia; almeno aveva auspicato che «alcuni si unissero, per praticare ogni anno piccoli scavi in alcuni punti non ancora toccati dell’Isola, dove tuttora è seppellita la storia di quei popoli che più non sono».

Numerosissime le collezioni visitate dallo Spano e rapidamente presentate nel “Bullettino” e nelle “Scoperte“: per tentarne un elenco si possono ricordare i nomi dei proprietari, Giovanni Busachi, l’ing. Francesco Calvi (proprietario di una preziosa «dattilioteca»), L. Calvi, Salvatore Carta, il gen. L. Castelli, Raimondo Chessa (direttore della Banca Nazionale di Cagliari e membro dell’Instituto Archeologico di Roma), Giovanni De Candia, can. Salvatore Angelo De Castro ad Oristano,  Francesco Grixoni, Domenico Lofredo ad Oristano, Giuseppe L. Manconi, S. Müller, Battista Mocci a Cuglieri, F. Orrù a Sant’Antioco, Ignazio Pillito a Cagliari, avv. Fara Puggioni a Cagliari, Antonio Roych (collezione poi acquistata dall’Amministrazione provinciale di Cagliari), il giudice Francesco Spano ad Oristano (collezione poi passata alla figlia Spano Lambertenghi e quindi ad Enrico Castagnino), Paolo Spano, il can. Luigi Sclavo a Sassari, il teol. Filippo Felice Serra a Cargeghe, il sac. Salvatore Spano a Ploaghe,  il cav. Maurizio Sulis a Cagliari, il cav. Efisio Timon, Eugenio Vaquer a Villasor. E poi i reperti sardi conservati in altre collezioni, come il Mosaico di Orfeo, rinvenuto a Cagliari nel 1762 e fatto trasferire dal Ministro Bogino presso l’Accademia delle Scienze e poi presso il Museo Egiziano di Torino[74].

In questi aridi elenchi c’è veramente tutta la Sardegna, ci sono gli uomini di cultura e gli affaristi, c’è il ceto dirigente di un’isola ancora disattenta in genere ai problemi della nascente archeologia, sottoposta in continuazione ad atti vandalici, se il sindaco di Torralba era arrivato a far demolire una parte del nuraghe Santu Antine, per realizzare un abbeveratoio per il bestiame: eppure era un nuraghe reso celebre nel 1829 per la visita del re Carlo Alberto. Lo Spano invoca ancora una volta «una commissione conservatrice di antichità» che garantisca la tutela e la difesa del patrimonio archeologico isolano[75].

Fu lo Spano a recuperare un ritardo secolare, consentendo alla Sardegna di aprirsi alla conoscenza di moltissimi studiosi italiani e stranieri.  I temi sollevati sono ancora oggi quanto mai vitali: la destinazione dei nuraghi, il collegamento con i Shardana, le fasi della romanizzazione, la localizzazione del tempio del Sardus Pater, che lo Spano pensava sul Capo Frasca, a S di Tharros, pur conoscendo le rovine di Antas, la cristianizzazione dell’isola.

I grandi scavi, svolti con la partecipazione diretta dello Spano: a Tharros, a Florinas ed a Mesu Mundu presso il Monte Santo nel ’57[76], a Tuvixeddu nel ’65 e nel ’67, nell’anfiteatro di Cagliari nel ’66, a Monteleone Roccadoria ed a Padria nel ’66, a Pauli Gerrei nel ’65; e poi Nora, Sulci, Neapolis, Forum Traiani, Cornus, Turris Libisonis, Olbia, infine a Ploaghe nei nuraghi Attentu e Don Michele citati nelle Carte d’Arborea, fino al’75: qui si sarebbero svolti secondo Giovanni Lilliu i primi scavi statigrafici in Sardegna[77]; gli altri scavi, di cui lo Spano fornisce informazioni e dettagli, come quelli del 1875 ad Osilo di Pio Mantovani e G. Arnaudo; a Tharros nel 1875 dell’avv. Domenico Rembaldi e del tipografo Giorgio Faziola di Firenze (quest’ultimo si sarebbe impegnato per la ristampa del “Bullettino“, ormai esaurito); inoltre le scoperte occasionali, gli scavi per la realizzazione di opere pubbliche (come la ferrovia di Porto Torres, la stazione di Cagliari), le analisi paleo-antropologiche, come quelle affidate a P. Mantegazza. Inoltre la politica di acquisti dei grandi musei internazionali, il British (con le dubbie attività di Gaetano Cara) ed il Louvre, con gli scavi di R. Roussel a Cornus, ma anche a Cagliari ed a Nulvi.  E poi i materiali, le iscrizioni, ma anche i monumenti (teatri, anfiteatri, terme) ed i reperti dalla preistoria all’età medioevale, con particolare attenzione per l’età romana (armi, bronzetti, scarabei egittizzanti, amuleti, statue, lucerne, ceramiche, mosaici, monete, gioielli, vetri, sarcofagi, urne cinerarie, ecc.).

Possiamo seguire in diretta l’inaugurazione del nuovo Museo di Cagliari (avvenuta il 31 luglio 1859, quando fu scoperto il busto del Della Marmora), l’accrescersi delle collezioni (con la donazione di epigrafi puniche di Cartagine effettuata da N. Davis, con l’acquisto di intere raccolte e con la donazione della raccolta archeologica, che nel 1860 valse allo Spano una medaglia con l’effigie di Vittorio Emanuele II re di Sardegna)[78]. Eppure appena due anni prima era «un fatto che delle tante (lapidi) sarde che riporto, appena una n’è rimasta, che trovasi nel R. Museo di Cagliari», forse a causa dell’imprevidenza del direttore Gaetano Cara, che non proteggeva a sufficienza il patrimonio del museo, trattandolo come se fosse una sua proprietà privata.[79]

 

11. E’ soprattutto il “Bullettino Archeologico Sardo” a consentirci di definire il quadro dei collaboratori, perchè a parte i 398 articoli firmati dallo Spano ed i 5 articoli anonimi, 142 articoli sono firmati da amici e corrispondenti, anche se in qualche caso si tratta solo di ristampa di lavori pubblicati in riviste italiane o straniere: Pietro Martini è presente quasi tutti gli anni con ben 43 articoli, segue Celesto Cavedoni (direttore della Biblioteca di Modena, conosciuto dallo Spano fin dal 1839, difensore delle Carte d’Arborea ed in particolare del Ritmo di Gialeto, fino alla morte avvenuta nel 1870)[80] con 23, Pier Camillo Orcurti (primo assistente del R. Museo Egiziano di Torino, un «distinto egittologo», che «morì per isforzi di studio, disgraziatamente nel manicomio», che lo Spano conobbe personalmente a Torino nel 1856)[81] con 16, Vincenzo Crespi (assistente del R. Museo archeologico) con 11, Alberto Della Marmora con 5, il discusso archivista Ignazio Pillito e lo «scrittore di cose nazionali» Francesco Fiori Arrica con 4 (tutti pubblicati dopo la morte avvenuta nel 1855 durante l’epidemia di colera)[82], «il dotto e distinto archeologo» Raffaele Garruci[83] con 3; con due articoli François Bourgade (Cappellano della Cappella Imperiale di San Luigi di Cartagine, poi divenuto amico personale dello Spano dopo il viaggio in Tunisia del 1856)[84], Salvatore Cocco (rettore di Austis), Salvatore Cossu (rettore di Ploaghe), Giulio Minervini (che lo Spano conobbe a Pompei nel 1856: egli era «il regio bibliotecario, il continuatore del “Bullettino Archeologico Napolitano” ed il presidente dell’Accademia pontiniana»)[85], Salvatore Orrù (il medico chirurgo di Milis, noto per le scoperte di Cornus), il sacerdote Giovanni Pisano[86]; infine compaiono tra i collaboratori il celebre arabista Michele Amari (ministro della Pubblica Istruzione dal 1863), G. Brunn[87], Gaetano Cara, il conte Ippolito Cibrario «segretario del Gran Magistero della Sacra Religione»[88], figlio del più noto Luigi Cibrario (il Ministro al quale lo Spano doveva nel 1853 l’ingresso nel Consiglio universitario di Cagliari)[89], il conte Alberto De Retz, D. Detlefsen[90], Gaspare Gorresio (segretario dell’Accademia Reale delle Scienze di Torino, classe di scienze morali, storiche e filologiche), G. Henzen (segretario generale dell’Instituto archeologico di Roma, che lo Spano conobbe personalmente nel 1856)[91], il tedesco M.A. Levy, L. Müller[92], il frate Luigi Pistis, Vincenzo Federico Pogwisch che lo Spano conobbe a Messina nel 1856)[93], Antioco Polla, Antonio Spissu (rettore della parrocchia di Serri) ed il Conte Carlo Baudi di Vesme (pienamente coinvolto nella difesa delle Carte d’Arborea ed in particolare del Codice Garneriano).

Il quadro statistico complessivo delle collaborazioni al “Bullettino Archeologico Sardo” è stato già fornito da me in passato e non deve essere necessariamente ripreso in questa sede[94]: se estendiamo l’indagine alle “Scoperte“, abbiamo notizia di relazioni e rapporti amichevoli dello Spano con qualificatissimi studiosi italiani, molti dei quali conosciuti di persona durante il V Congresso preistorico di Bologna, svoltosi nel 1871, che fu l’occasione per lo Spano per presentare al mondo la civiltà nuragica, anche se con qualche interferenza del Cara, che nella circostanza fece distribuire il suo opuscolo sui “flagelli”, di cui si dirà: è il caso di Luigi Pigorini,  prima direttore del Museo di Parma, poi a Roma direttore del Museo italiano preistorico ed etnografico, che avrebbe ricevuto nel 1876 almeno una ventina di oggetti sardi[95].  E’ il caso anche di Giuseppe Bellucci di Perugia, di B. Biondelli, direttore del Gabinetto numismastico di Milano (che fu a Cagliari, poi a Cartagine ed infine a Sassari nel 1865), di C. Capellini, di Giancarlo Conestabile di Perugia, del latinista G. Crisostomo Ferrucci, bibliotecario della Laurenziana di Firenze, di Gian Francesco Gamurrini, direttore del Museo di Firenze, di G. Gozzadini di Bologna («dotto ed archeologo rinomato»)[96], di Gregorio Ugdulena, di Atto Vannucci, conosciuto a Firenze nel 1862; ma lo Spano era in rapporti anche con il celeberrimo Giovanni Battista De Rossi, che conobbe a Roma fin dal 1856[97], e che seguì l’edizione di alcune iscrizioni paleocristiane della Sardegna.  Dell’abate torinese Amedeo Peyron, così come di Carlo Promis si è già detto. I rapporti con Pasquale Tola, presidente della Società ligure di Genova, «attivo ed ammirato da tutti i membri che assistevano alle adunanze per la sua prontezza, dottrina ed eloquenza», «ingegno eminente, scrittore incomparabile e di gran genio, uno dei primi ingegni della Sardegna»  non furono in realtà sembre buoni[98]; lo Spano del resto aveva seguito il Della Marmora nella polemica sull’edizione delle iscrizioni latine della Grotta delle Vipere, che nel Codex Diplomaticus Sardiniae appariva «pessima» ma anche «scorretta ed incompleta»[99].

Si è già accennato al profondo rapporto di amicizia e di collaborazione con il generale Alberto Ferrero Della Marmora, morto a Torino il 18 aprile 1863, ma anche con il padre Vittorio Angius (scomparso a Torino nel 1862 nell’«inedia e miserabilmente»)[100] e con il barone Giuseppe Manno, «gloria della Sardegna e dell’Italia, per i suoi dotti, eleganti e variati scritti», morto nel 1868, che fu in stretta relazione epistolare con lo Spano e che, a differenza di quanto normalmente si scrive, sembra parzialmente aver aderito alla falsificazione delle Carte d’Arborea[101].

 

12.  Sarà però ancora più utile l’elenco completo dei corrispondenti stranieri dello Spano: il cav. Beulè di Parigi (poi Ministro della Pubblica Istruzione, «il quale si era portato in Cartagine per far scavi onde studiare e stabilire la topografia dell’antica Byrsa», che fu a Cagliari al Museo; «indi partì per Sassari per imbarcarsi col vapore di Marsiglia»)[102], Augusto Bouillier di Parigi, François Bourgade di Cartagine (per le iscrizioni fenicie), E. Bormann (per il cippo dei Giddilitani), Paulus Cassel (per la trilingue di San Nicolò Gerrei),  François Chabas (per i Shardana), l’antiquario inglese N. Davis (apprezzato per il dono di 6 stele puniche da Cartagine)[103], E. Desjardins (ancora per il cippo dei Giddilitani), Gabriel De Mortillet (per i nuraghi), Iulius Euting (bibliotecario di Tubinga, in occasione del viaggio a Sassari ed a Porto Torres), Wolfgang Helbig (segretario dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica di Roma, che fu a Cagliari ed a Ploaghe nel 1875 e che l’anno successivo avrebbe dedicato allo Spano un lavoro sopra l’arte fenicia)[104], G. Henzen (segretario generale dell’Instituto archeologico di Roma, che lo Spano conobbe nel 1856)[105], Renato Laboulaye (per la tavola di Esterzili), Léon Gouin (ingegnere minerario nel Sulcis), M.A. Levy, il barone i Maltzan (che visitò la Sardegna nel 1868), Francisco Martorell «dotto signore di Barcellona» (che fu in Sardegna nel 1868, «venuto espressamente per visitare i Nuraghi Sardi e studiarli per poterne far paragone coi Talaioth delle Baleari»), I. Mestorf, Th. Mommsen (in Sardegna nell’ottobe 1877), Heinrich Nissen (in Sardegna nella primavera 1866, per reparare il viaggio del Mommsen), Valdemar Schmidt (del Museo di Copenaghen, conosciuto in occasione del congresso preistorico d Bologna), Otto Staudinger di Berlino (per le indagini preistoriche a Siligo del 1855, già nel primo volume del “Bullettino“), Pompeo Sulema (inviato da Cartagine in Sardegna da François Bourgade, per l’edizione delle iscrizioni fenicie del Museo di Cagliari), l’inglese Elisabetta Warne («bizzarra e stravagante», che si trattenne a Cagliari nel 1859 per alcuni mesi)[106], J.A. Worsaae (del Museo di Copenaghen, conosciuto in occasione del congresso preistorico di Bologna), ecc.

Non è possibile in questa sede ricostruire i dettagli dei singoli contatti, che pure in futuro meriterebbero di essere meglio studiati, alla luce soprattutto dell’ampio epistolario conservato presso la Biblioteca Universitaria di Cagliari e presso il Rettorato. Ci limiteremo pertanto a trattare solo alcuni nuclei tematici, con riguardo in particolare ai rapporti di amicizia dello Spano con alcuni studiosi tedeschi, soprattutto Otto Staudinger, Iulius Euting, Wolfgang Helbig, Heinrich Nissen, Theodor Mommsen, ma anche il Barone di Maltzan, che visitò la Sardegna tra il febbraio ed il maggio 1868 e che morì suicida a Pisa il 22 febbraio 1874[107]. Di lui lo Spano ricorda «i viaggi fatti in Oriente e in tutta l’Africa, sino al Marocco, esponendosi a tanti pericoli»; egli «parlava l’arabo come un musulmano e si associò ad una carovana con nome finto per visitarre La Mecca ed il sepolcro di Maometto»[108].

Il viaggio di Otto Staudinger è segnalato sul primo numero del “Bullettino“, mentre ripetutamente si elencano le recensioni positive che la Rivista aveva ricevuto in Germania. Si può però partire da una preziosa notizia registrata sulle “Scoperte” del 1870[109], a proposto del viaggio in Sardegna effettuato nell’ottobre 1869 dal «dotto Professore bibliotecario di Tubinga, che venne in Sardegna (…) collo scopo di studiare e copiare tutte le iscrizioni fenicie»: si tratta di Iulius Euting, che «passando da Sassari a Porto Torres per prender imbarco per Marsiglia», potè osservare con dolore una fase della distruzione dell’acquedotto di Turris Libisonis. Egli poté raccontare allo Spano le sue impressioni in una lettera successiva forse dei primi mesi del 1870: «quum ex urbe Sassari discederem, juxta viam viros vidi qui antiquum aquae ductum Romanorum, barbarorum more in latomiarum modum despoliantes, ferro et igne saxula deprompserunt, non sine dolore !». Dalle pagine del volume emerge la viva simpatia dello Spano per «il dotto giovine Bibliotecario di Tubinga» e per la causa prussiana: «se pure non sarà distratto dai suoi studj impugnando l’arma nel campo dell’atroce guerra per difendere la patria dall’inqualificabile aggressione gallica».

Ugualmente interessanti le notizie sul viaggio effettuato in Sardegna da Wolfgang Helbig, segretario dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica di Roma: lo studioso si trattenne a lungo a Cagliari nel 1875, raggiungendo come si vedrà più oltre lo Spano a Ploaghe, dopo la conclusione degli scavi[110].

 

13. Più importanti sono le notizie sul viaggio d Heinrich Nissen, in vista dell’edizione del decimo volume del Corpus Inscriptionum Latinarum, a cura dell’Accademia berlinese: nelle “Scoperte” del 1866 si segnala il passaggio nell’isola del «dotto archeologo» Enrico Nissen di Berlino, «per far un’escursione archeologica in Sardegna e studiarvi i monumenti figurati»; partito il I giugno 1866 per Sassari, «per prender imbarco per Ajiaccio», lo studioso tedesco, poté effettuare un fac-simile dell’epitafio di Proculus Colonus, inciso su una lastra rinvenuta tra le rovine del Palazzo di Re Barbaro a Porto Torres[111]. Lo Spano lo ricorda qualche anno dopo come «archeologo eruditissimo», segnalando che «conferimmo insieme su molti punti che riguardavano la Sardegna»: «per suo mezzo entrai in relazione e in corrispondenza col celebre Teodoro Mommsen, che fu in Sardegna per conoscermi in persona [!] nel 1877»[112]. Del resto, lo stesso Mommsen avrebbe scritto sul decimo volume del CIL: «ex nostratibus Henricus Nissen mea causa Cagliaritani musei titulo descripsit»[113]. Noi sappiamo che il Nissen restò in relazione con lo Spano, se nel 1867 gli segnalò alcune iscrizioni di classiari sardi da Sorrento, Napoli e Pozzuoli.

Noi possediamo molte informazioni sui rapporti tra Mommsen e lo Spano, a partire dal giudizio sulla falsità delle epigrafi del codice Gilj delle Carte d’Arborea, formulata nel 1870[114], fino all’edizione della tavola di Esterzili ed al burrascoso viaggio in Sardegna dell’ottobre 1877; sappiamo dell’ipercriticismo del Mommsen, che colpì ripetutamente (ed ingiustamente) lo Spano. Ad esempio sono note le riserve del Mommsen, sui toponimi Fogudolla, Foce dell’Olla, fiume Doglio, Torre d’Oglio e di Oglia, Sisiddu, Oddine, che a giudizio dello Spano conserverebbero tutti il ricordo dei Ciddilitani[115]: tutti toponimi attestati solo da documenti antichi, che lo studioso tedesco nel suo eccesso di ipercriticismo dubitava potessero appartenere alla falsificazione delle Carte d’Arborea: «nec recte opinor Spanus cum regione Oddine id composuit, vel cum antiqua turri ad fauces fl. Mannu dicta Torre d’Oglia in instrumentis antiquis, quae vide ne sint ex genere Arboreanorum»[116]. Ma, dando torto al Mommsen, il Pais qualche anno dopo avrebbe dimostrato la bontà delle intuizioni dello Spano, che collegava la parola ollam incisa sul lato stretto della lapide (collocato verso occidente) all’antica denominazione della foce e dell’approdo sul pittoresco Rio Mannu[117].

Del resto, i sospetti del Mommsen hanno sempre sullo sfondo il problema dei falsi, che nel 1877 sarebbe esploso con la visita dello studioso tedesco a Cagliari, un avvenimento a lungo atteso e temuto dallo Spano: «in questo mese o nell’altro deve arrivare il celebre Teodoro Mommsen (…). Io temo l’arrivo di questo dotto, perché nello stato in cui sono farò cattiva figura»[118]. In occasione di un pranzo ufficiale al quale sarebbero stati presenti tra gli altri Giovanni Spano, il Soprintendente Filippo Vivanet, il prof. Patrizio Gennari, il Mommsen avrebbe espresso giudizi pesanti sui falsari delle Carte d’Arborea, che arrivavano a negare la storicità di Eleonora d’Arborea[119], confermando di voler «smascherare l’erudita camorra» isolana[120]; egli avrebbe scherzato poi un po’ troppo pesantemente sui suoi propositi di voler condannare prossimamente la quasi totalità della documentazione epigrafica isolana, ed in particolare le «iscrizioni di fabbrica fratesca»[121]. Su “L’Avvenire di Sardegna” del 21 ottobre 1877 sarebbe comparsa una polemica lettera «d’oltretomba» firmata da Eleonora d’Arborea ed indirizzata a Filippo Vivanet: lo studioso sarebbe stato aspramente contestato per non aver difeso la storicità di Eleonora, di fronte all’«invidioso tedesco» ed all’«orda germanica» e per aver, con il pranzo, «digerito l’insulto fatto alla [sua] memoria». Anche il vecchio senatore Spano sarebbe stato strapazzato alquanto, tanto da essere considerato un traditore, per il quale si sarebbe suggerita una punizione esemplare: egli sarebbe dovuto diventare la «zavorra» utilizzata per il «globo aerostatico» sul quale il Vivanet avrebbe dovuto errare per sempre, lontano dalla terra sarda; eppure, «se al canonico Spano avessero toccato i suoi Nuraghi, quante proteste non si sarebbero fatte !». Dunque lo scontro si sarebbe progressivamente esteso nel tempo, fino a sfiorare lo Spano, a prescindere dal sostegno da lui assicurato ai falsari delle Carte d’Arborea[122]. Eppure proprio il viaggio del Mommsen doveva scatenare in Sardegna finalmente una salutare reazione ed un rapido processo di rimozione dei falsi, che avrebbe coinvolto lo stesso De Castro, lasciatosi andare ingenuamente nei giorni successivi con Enrico Costa e con Salvatore Sechi Dettori ad ammissioni sulla «vera storia delle carte», accennando a fatti precisi, a responsabilità, a veri e propri misfatti; chiamato a rispondere su “La Stella di Sardegna”, il De Castro si sarebbe per il momento sottratto dal fornire i chiarimenti promessi, per paura del «codice penale», ma anche per «ragioni di convenienza e di amicizia», continuando a polemizzare col Mommsen, che «non lesse mai queste cose e giudicò a vanvera, anzi ab irato»; un giudizio ripreso dal Pillitto, per il quale il De Castro avrebbe dovuto fornire «un farmaco al Mommsen per calmare la sua bile irritata dal Ghivizzani»; eppure il Sechi Dettori, in pieno accordo con il Vivanet, rivolgeva un appello al De Castro, al «nostro illustre archeologo Giovanni Spano», al «dotto Pellitu», al «cancelliere Poddighe, della cattedrale d’Oristano», nonchè al «commendator Giuseppe Corrias», perchè finalmente dicessero «il vero intorno a queste benedette pergamene», consapevoli «che la storia segna con maggior gratitudine i nomi di coloro che dissero tutta la verità intorno agli uomini ed alle cose, che non di quelli i quali sulle cose e sugli uomini vollero distendere un velo pietoso, che infine verrà squarciato dalla giustizia dei secoli»[123].

Fu comunque proprio il Mommsen a purgare lo Spano dall’accusa di essere coinvolto nella falsificazione, con il poco noto giudizio pubblicato nella parte iniziale del decimo volume del Corpus inscriptionum Latinarum: un prezioso giudizio, critico ma anche affettuoso e riconoscente: «Iohannes Spano (…) per multos annos ut reliquarum antiquitatis patriae partium, ita epigraphiae quoque curam egit Sardiniaeque thesaurum lapidarium non solum insigni incremento auxit, sed etiam sua industria effecit ut notitia ad exteros quoque perveniret. (…) Hoc magnopere dolendum est optimae voluntati, summae industriae, ingenuo candori bene meriti et de patria et de litteris viri non pares fuisse vires; nam titulos recte describere non didicit cavendumque item est in iis quae ab eo veniunt a supplementis temere illatis. Nihilo minus magna laus est per plus triginta annos indefesso labore his studiis Spanum invigilasse et multa servasse egregiae utilitatis monumenta, quorum pleraque, si non fuisset Spanus, sine dubio interiissent. Quare qui eum sequuntur, ut facile errores evitabunt, in quos aetatis magis quam culpa incidit, ita difficulter proprias ei virtutes aemulabuntur»[124].

Fu proprio il Mommsen a distinguere la posizione dello Spano («ingenuo candori») così come quella di Vincenzo Crespi («qui in museo bibliothecaque Cagliaritana mihi tamquam a manu fuit vir peritus et candidus») e naturalmente del più giovane Filippo Nissardi (collaboratore del Mommsen e dello Schmidt), da quella dei falsari delle Carte d’Arborea, tra i quali avrebbe incluso Pietro Martini ed Ignazio Pillito, sotto i cui auspici vennero in luce dal monastero dei minori conventuali di Oristano («ut aiunt») i codices Arboreani, tra i quali quel codice del notaio cagliaritano Michele Gilj databile tra il 1496 ed il 1498, con gli apografi di un gruppo di iscrizioni latine sicuramente contraffatte, inserite quasi tutte già nel II volume del “Bullettino“, compresa una iscrizione che citava il templum Fortunae di Turris Libisonis[125] e che dunque era successiva al ritrovamento avvenuto nel 1819 della base autentica pubblicata dal Baille[126]: «argumentis quamquam opus non est in re evidenti, confutavi fraudes imperite factas in commentariis minoribus academiase Berolinensis a. 1870 p. 100»[127].

Accantonata la questione dei falsi, molte novità si posseggono ora sull’edizione della tavola di Esterzili[128], un importantissimo documento epigrafico segnalato al Mommsen dall’Henzen e dal Nissen. Scrivendo al can. Spano il 13 gennaio 1867, lo Spano confessava con qualche imbarazzo di essere in procinto di pubblicare l’importantissima iscrizione, bruciando i diritti di chi l’aveva scoperta:  «fidandomi nelle osservazioni del Nissen, che mi disse esser certissimo che il monumento si stamperebbe nell’anno decorso [1866] (e certamente un tal documento deve e vuole esser pubblicato subito), ho promesso per un foglio tedesco (l’Hermes) un articolo sopra questo bronzo, che verrà fuori nel Marzo di quest’anno. Pensavo io di agire con tutta prudenza, lasciando uno spazio di tre mesi interi fra la pubblicazione nell’Italia e la ripubblicazione mia; che certamente non amo io di sottrarre a chi appartiene con ogni diritto l’onore della pubblicazione. Ma ora non posso ritirare la mia parola e ritenere l’articolo promesso e scritto; non mi resta altro dunque di implorare la sua indulgenza, e di pregarla, se l’edizione di Torino non verrà fuori prima, di pubblicare sia a Roma nel Bullettino sia in dovunque altro periodico il semplice testo del monumento e di farmene consapevole, affinchè possa io aggiungere, che non faccio altro che ripubblicare un testo edito da lei»[129]. E, dopo l’arrivo del volume delle “Scoperte” dedicato all’antica Gurulis, con in appendice il testo dell’epigrafe di Esterzili, il 23 gennaio successivo: «Ne farò io il debito uso e così mi vedo tolto da questo dilemma, che per non mancare alla mia parola data all’editore dell’Hermes arrischiava io dissentirmi la pubblicazione troppo sollecita di un monumento non ancora fatto di pubblica ragione dallo scopritore medesimo»[130]

 

14. Un aspetto fin qui relativamente trascurato è quello relativo alla polemica dello Spano con l’odiato direttore del Museo di Cagliari Gaetano Cara, impegnato in commerci ed in affari, escluso dopo il primo anno da qualunque collaborazione con il “Bullettino“, protagonista della falsificazione dei così detti “bronzetti fenici” acquistati a caro prezzo dal La Marmora e dal Museo di Cagliari: un «antiquario moderno, per non dire ignorante, o meglio l’uno e l’altro», guardato con sospetto da chi, come lo Spano, si riteneva un Archeologo serio.  Appare evidente che la rottura tra lo Spano ed il direttore del Museo di Cagliari non era ancora avvenuta nel 1855, se il discusso studioso era stato ammesso a collaborare (per la prima e l’unica volta) nel primo volume del “Bullettino“, con un articolo dedicato alla statua di Eracle di Stampace, che il Cara collega con l’epigrafe dedicata Divo Herculi, un falso cinquecentesco[131], che dava alla città il nome di civitas Iolaea: il tema delle origini mitiche della Sardegna è dunque presente già nel primo articolo della rivista[132]. Vent’anni dopo, nell’Iniziazione ai miei studi, lo Spano avrebbe dedicato al Cara (senza mai citarlo) pagine di fuoco, già con riferimento all’anno 1858, quando il direttore del Museo di Cagliari si era dimesso in coincidenza con l’inizio dei lavori voluti dal Ministero, che avrebbero portato all’inaugurazione del nuovo Museo (avvenuta il 31 luglio 1859, sotto la direzione di Patrizio Gennari), con l’adozione di un nuovo regolamento e con un più rigoroso controllo sulla politica degli acquisti:  «Vedeva egli che avrebbe perduto l’autocrazia che per tanti anni aveva esercitata, dirigendo tutto il Regio Museo come se fosse stato un patrimonio di famiglia. Vile damnum ! Si può dire che dall’anno 1806, in cui fu fondato per munificenza del re Carlo Felice, non venne mai cambiato dal modo come lo lasciò il primo direttore De Prunner: era ristretto il locale, vi era una miscellanea e vi si accedeva da una sola porta»[133]. E l’anno successivo lo Spano precisa: «Anche gli affari del Museo, che meglio poteva dirsi, secondo la spiritosa frase del Promis, “un magazzino di rigattiere” procedevano regolarmente perché, dal dì che fu diviso e sistemato come sopra detto, non accadde più nessun disordine; giacché i professori furono emancipati dal così detto direttore del Museo»[134].

Il problema di fondo è ancora quello dei falsi, Carte d’Arborea ed idoletti fenici: come è noto il codice Gilj pubblicato dal La Marmora nel1853 conteneva in allegato secondo il Förster «una impudentissima falsificazione relativa ad idoli e ad antichità sarde»[135]. Le carte su cui erano disegnati i monumenti di antichità molto vicini ai falsi idoli sardo-fenici del Museo di Cagliari a giudizio del Loddo Canepa risultavano «aggiunte (non cucite) al protocollo notarile e differenti da questo per qualità, essendo più spesse e consistenti». E’ per queste ragioni che egli avrebbe ritenuto falsificate solo le pagine (i foglietti volanti) che contenevano i disegni con «figure puerilmente disegnate» con inchiostro rossiccio sbiadito[136]. Come si sa, fu Ettore Pais a rimuovere dalle vetrine del Museo di Cagliari gli idoletti falsi, acquistati per iniziativa e per la complicità di Gaetano Cara, già direttore del Museo di Cagliari, un personaggio odiato dallo Spano e negli ultimi anni anche dal La Marmora, che si era fatto ingannare, rimettendoci un patrimonio: come è noto criticando il ministro C. Matteucci che nel 1862 rifiutava di dimettersi, lo Spano aveva osservato riferendosi al Cara: «Tralasciando di altri improvvidi drecreti, si arbitrò di richiamare con decreto ministeriale un incaricato al Museo di antichità, nella persona dell’antico direttore ch’era già da tanti anni giubilato, in vece di confermare il professor Patrizio Gennari sotto il quale procedevano regolarmente gli affari del Museo. Alberto Della Marmora, che ben conosceva l’individuo e gli affari del Museo, fu tanto sdegnato di questa nomina fatta, ed a mia insaputa, che si presentò dal detto Matteucci minacciandolo che avrebbe tenuta un’interpellanza in Senato per aver richiamato chi non doveva richiamare»[137].

Negli anni successivi, la polemica covava ancora sotto la cenere e lo Spano non era più disposto ad accettare con pazienza le decisioni del direttore del Museo: ad esempio nel 1865 il ritrovamento di due «grandi» sarcofagi a Decimomannu in occasione dei lavori ferroviari era avvenuto in modo del tutto clandestino: «non si è potuto sapere cosa essi contenessero. Appena che si seppe la notizia, vi si portarono il Direttore del R. Museo in compagnia coll’Applicato allo stesso Stabilimento: ma fu mistero»[138]. Lo Spano registrava puntigliosamente sulle “Scoperte” gli acquisti effettuati dal Cara, quasi volesse impedire traffici e commerci a danno del Museo. C’è un’eccezione nella regola adottata di non citare mai per nome l’avversario: nel 1874 il cav. Gaetano Cara compare un’unica volta nelle “Scoperte“, a proposito di un sigillo notarile del XIV secolo: è una piccola deroga al fermissimo proposito di ignorare totalmente l’attività del rivale[139].

I rapporti si erano ulteriormente guastati dopo la nomina dello Spano a Commissario dei Musei e Scavi di antichità in Sardegna, posizione che gli consentiva di considerare un suo “sottoposto” il direttore del Museo di Cagliari. L’occasione di un nuovo violento scontro tra i due è data dal ritrovamento a Gadoni e ed a Lanusei di alcuni oggetti metallici, che costituiscono il pretesto per una sanguinosa polemica; oggetti che erano stati bizzarramente classificati dal Cara nella «classe dei flagelli», «come sono le discipline di cui si servono per penitenza di macerazione nei conventi, nei monasteri, e nelle chiese campestri i ladri e malfattori convertiti», e ciò secondo un anacronistico «giudizio d’un antiquario moderno, per non dire ignorante, o meglio l’uno e l’altro», un «nuovo Archimede»; in realtà si trattava per lo Spano di ornamenti metallici o di decorazioni militari. In particolare alcuni erano stati donati fin dal 1860 al Regio Museo di Cagliari dal Sac. Giusto Serra dei Minori Osservanti di Lanusei, anche se l’odiato Gaetano Cara non aveva indicato sull’inventario il nome del donatore, «ma vagamente cita sepolture di Giganti, Nuraghi di villaggi e campi aperti, in vece di testimoni oculari e viventi»: c’è sempre sottintesa sullo sfondo la polemica sui falsi bronzetti del Museo di Cagliari, introdotti proprio dal Cara e documentati sulle Carte d’Arborea, sulla cui provenienza il direttore del Museo aveva steso una copertura interessata, una vera e propria cortina fumogena, con gran rabbia dell’ultimo La Marmora. Ora lo Spano è preoccupato di distinguere e desidera indicare le circostanze dei ritrovamenti dei materiali autentici così come gli autori ed i protagonisti, il «certificato di battesimo» di ciascuno degli oggetti in bronzo introdotti nel museo. Lo Spano, con qualche perfido compiacimento, può ora citare per esteso un «critico e sensato articolo» di Angelo Angelucci, direttore del Museo d’Artiglieria di Torino, comparso sull’XI volume degli “Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino”, per il quale «certe anticaglie Sardesche» del Museo di Cagliari (presentate dallo Spano al V congresso preistorico di Bologna) potrebbero confrontarsi, secondo un’ipotesi già del La Marmora, con «le cordelline (aiguillets) usate ai nostri giorni dai militari», oggetti da considerarsi come «torques o phalerae», che «non ha molto il Cara impropriamente chiamò flagelli armi di bronzo offensive !». E aggiungeva, con riferimento al volume del Cara del 1871[140]: «e confortava questi la sua opinione portando ad esempio uno di quei flagelli adoperati dai Missionari nostri in quelle scene del teatro, e niente affatto da chiesa, con la quale spaventavano la parte dell’Uditorio che alle costoro flagellazioni prorompeva in grida ed in pianti, giurando e scongiurando di mai più peccare».  Segue (alle pp. 20 ss.) una puntigliosa analisi delle descrizioni del Cara, considerate completamente sbagliate, puerili e fuorvianti, sottolineate da corsivi, punti esclamativi e punti interrogativi, tanto da poter esser riprese analiticamente, come «certi esempi riportati dalla vecchia e nuova Crusca» che «servono a provare errata la definizione di alcuni vocaboli».

Seguono a questo punto i commenti dello Spano, sulle banalità scritte dal Cara, personaggio tenuto sullo sfondo, di cui si continua ad ignorare il nome. Giova citare per esteso il brano: «il nostro sardo antiquario in quel tempo aveva mandato ai membri del congresso preistorico quell’opuscolo citato di sopra, per sentire il loro parere, spoglio affatto dell’ambizione di rigettare qualunque giudiziosa osservazione (p. 5), ed ecco da uno di essi è stato ben servito di giudiziose osservazioni. Tutti fecero meraviglie in leggere questa sua strana opinione, non che nel niegare l’esistenza dell’età della pietra ! Tanto più che quelle che dice lance taglienti, sono tutte lavorate con punti simmetrici a dischetti stellati e con ornamenti geometrici, per indicare un dono, che sarebbe stato ridicolo in un’arma di punizione. Del resto non meritava la pena che il ch. Angelucci lo ribattesse così colla logica, perché era ben flagellato da sé. Aggiungi che di questi flagelli ve ne sono così piccoli che non sarebbero serviti che a flagellare fanciulli. Altri poi ve ne sono di diverso genere che non danno l’idea di flagello che nell’immaginazione di un antiquario senza criterio»[141].

Ma il Cara non è ancora completamente servito: lo Spano coglie l’occasione ghiotta anche per polemizzare con «un opuscolo di 22 pagine», stampato a Cagliari nel 1876[142], nel quale «l’autore dei detti Flagelli» polemizzava a proposito della destinazione dei nuraghi con il Barone Enrico di Maltzan, caro amico dello Spano, che aveva visitato la Sardegna dopo il celebre viaggio in Tunisia, pubblicando il suo volume nel 1869 e finendo suicida a Pisa nel 1874[143]. Il canonico poteva ora pubblicare il parere di Gabriel de Mortillet, comparso sulla “Revue prehistorique d’antropologie” del 1876, che ammetteva la validità tesi dello Spano, per il quale i nuraghi erano «semplici abituri fortificati», non «monumenti commemorativi di vittorie riportate dai Capi di Tribù», non «templi dedicati al sole», non «specole per sorvegliare le escursioni dei pirati» oppure «torri d’osservazione», non tombe o sepolture. Ben diverse erano invece le tesi espresse sull’«opuscolo» del 1876 dal Cara, che forse senza mai aver visitato uno solo nuraghe, «niega l’opinione di quelli che hanno scritto con scienza sopra di essi»; egli «niega specialmente che non siano state abitazioni, strapazzando il testo della Genesi urbem et turrim, sebbene quella nota della pag. 10 debba attribuirsi ad altri, cioè ad uno pseudo Biblico, suo pari amico, senza manifestare alcuna nuova opinione sull’origine ed uso per cui furono costrutti i sardi Nuraghi, mi limito a poche considerazioni sull’opinione già emessa che i medesimi edifizii siano serviti a stabili abitazioni». Chi sia lo «pseudo Biblico, suo pari amico» non è chiaro, ma forse si può pensare al can. Francesco Miglior (o piuttosto “Peggior”), anziché al giovane avv. Francesco Elena, autore nel 1878 di un volume Sopra una iscrizione fenicia scoperta in Cagliari, dedicato a Gaetano Cara (già defunto).  E aggiunge ora lo Spano: «il bello si è che per provare che non sono serviti di abitazioni adopera li stessi disegni, e li stessi legni di cui si servì il Della Marmora, e si è pure servito il Maltzan, che sono gli identici della nostra Memoria, che gli abbiamo favoriti, perché ce li dimandò, con fine dal lettore qualificabile». E poi: «noi tripudiavamo di gioja appena che vidimo il frontispizio di questo libro, e gridammo allegri euvjreka ! (eureca, eureca), ma invece era l’Eureca d’una Commissione. Manco male che questa Eureca dei Nuraghi non l’aveva fatta nell’anno 1871 quando mandò i flagelli all’esposizione di Bologna, e noi vi abbiamo esposto quattro modelli diversi di Nuraghi Sardi tra i quali uno costrutto dal Crespi». E più in dettaglio: «dopo aver confutato tutte le ragioni che noi, il Maltzan, il Bellucci, ed il De Mortillet abbiamo addotto per provare che i nuraghi erano stabili abitazioni di privati, dacché quei primitivi uomini abbandonarono le spelonche, la vita cacciatrice e nomada, ed associarono l’agricoltura che richiede la dimora stabile dell’uomo, conchiude, facendo voti perché una Società di archeologi (non di antiquari) venga in Sardegna, e studi accuratamente e spassionatamente questi ed altri monumenti (anche i flagelli ?) per poter sentire il loro savio giudizio, che in tal caso sarebbe basato sopra le proprie osservazioni (pag. 22 ed ultima): e noi gli rispondiamo, quod petis intus habes, con questa triade di Archeologi che abbiamo citato». E poi una tremenda stoccata finale: «Più presto questa Società o inchiesta l’avrebbe dovuta richiedere per studiare accuratamente e spassionatamente gli altri monumenti che si trovano nel Museo, non della nostra collezione, perché tutti e singoli oggetti di cui è composta abbiamo citato nel Catalogo stampato nel 1860 la fede di battesimo. A far parte di questa inchiesta per esempio noi potremo suggerire per membro il ch. prof. B. Biondelli, che in tanti giorni che fu in Sardegna studiò coll’intelligenza che lo distingue il nostro Museo, oppure il prof. G. Bellucci di Perugia, che è il giudice più competente per distinguere i veri bronzi da sommo maestro, che analizzò anche la Base trilingue sarda nell’occasione dell’esposizione internazionale di Bologna».

L’Appendice I delle Scoperte del 1876 è ancora dedicata al Cara a proposito della recensione al volume del Barone di Maltzan, a firma di Giuseppe Bellucci[144]: il Maltzan aveva accolto la tesi dello Spano sulla destinazione dei nuragli, mentre c’era chi ancora si ostinava a parlare «di tombe o di Templi»: «Eppure alcuni nostri Sardi non sono convinti ancora, e tentano rinnovare le vecchie ed insussistenti teorie, ma più per spirito dispettoso e di sistematica opposizione che per amore della verità e della scienza indiscutibile». E più precisamente: «Uno di questi è il citato Cara, e la nostra meraviglia è che se ne sia avvisto oggi che è vecchio ed impotente, mentre questa nostra scoperta ha la data di 22 anni or sono[145], che fu accettata anche da quelli che prima avevano sposato e sostenuto diversa opinione, senza eccettuarne lo stesso Della Marmora, che difficilmente ritrattava le sue opinioni, che prima di emetterle le studiava a fondo né lasciava trasportarsi da leggierezza né da altro secondo fine».  E infine: «Noi aspettavamo che l’autore, cioè il Cara, manifestasse in fine una sua opinione nuova sull’origine ed uso per cui furono costrutti i Nuraghi, ed a sua vece se n’esce col dire che lo ignora, e che venga una Società di Archeologi e studi accuratamente e spassionatamente questi ed altri monumenti ! Chi mai dei lettori avrebbe aspettato questa conclusione ? Scommetto che né manco quelli che avrebbero formato la commissione che egli ardentemente invoca». Sullo sfondo, sembrano rinnovarsi le preoccupazioni suscitate sei anni prima dalla nomina della Commissione berlinese sulle Carte d’Arborea, voluta incautamente dal Baudi di Vesme.

C’è poi un’ultima osservazione nel volume delle Scoperte del 1876, ed è relativa alla completezza della rassegna, firmata da chi si ritiene un Archeologo a tutti gli effetti e sospetta degli antiquari come il Cara: «e qui mettiamo fine alle scoperte che si sono fatte in tutto l’anno 1876, se non è che ne siano state fatte per conto del R. Museo dal ff. di Direttore, che ignoriamo, non ostante che egli non possa, per ordine ministeriale, acquistare nessun oggetto senza l’approvazione del R. Commissario ai Musei e Scavi dell’isola», cioè dello Spano[146].

Si è detto che il 1876 è  l’anno della pubblica rottura tra lo Spano ed il Cara, proprio in conseguenza della pubblicazione dell’«opuscolo» sui nuraghi, anche se l’odiato direttore era rimasto totalmente escluso dalla collaborazione al “Bullettino Archeologico Sardo” fin dal secondo numero e per tutta la serie delle Scoperte Archeologiche (con una unica eccezione per il 1874). Nello stesso anno, su “La Stella di Sardegna”, pubblicando in quell’anno la serie di articoli dedicata all’Iniziazione ai miei studi, senza mai citarlo, lo Spano polemizzava nuovamente con il Cara, «il così detto direttore» del Museo di Cagliari. Il caso volle che per una singolare coincidenza il Cara morisse l’anno successivo, il 23 ottobre 1877, proprio durante il burrascoso soggiorno di Theodor Mommsen in Sardegna. Il figlio Alberto Cara avrebbe difeso la memoria del padre con l’opuscolo Questioni archeologiche, Lettera al can. Giovanni Spano, accusando il vecchio senatore di voler «il primato, anzi il monopolio» dell’archeologia in Sardegna, addirittura di voler «essere unico ed infallibile Pontefice» e di muoversi con lo «spirito di vendette personali»[147].

Lo Spano avrebbe seguito dopo pochi mesi il suo avversario, morendo il 13 aprile 1878 a 75 anni d’età, dopo aver pubblicato gli ultimi sui lavori, alcuni ancora sulla storia della Sardegna cristiana, come l’articolo Sulla patria di S. Eusebio per “La Stella di Sardegna”, V, 1878, pp. 231 ss. Egli lasciò sulla sua tomba la scritta patriam dilexit, laboravit, che il Vivanet considerò l’elogio più adatto e più giusto: non sarebbe mai uscito il volume dedicato alle Scoperte del 1877, mentre la monografia su Bosa vetus sarebbe stata pubblicata postuma, per volontà del vescovo Eugenio Cano[148].

 

15. Un tema che merita di essere ripreso, partendo dalle osservazioni di Paola Ruggeri[149], è quello del profondissimo legame dello Spano con il suo paese natale, Ploaghe, che abbiamo visto attraversare tutta la sua vita ed anche la sua attività di studioso e la sua produzione scientifica, dagli scavi del 1846 fino agli ultimi anni. Il tema delle mitiche origini del suo paese (identificato con la romana Plubium e con Pluvaca) è centrale nella produzione dello Spano e segna già gli anni giovanili, gli anni delle ricerche disordinate e appassionate alla scoperta di iscrizioni romane e di testimonianze analoghe a quelle, conservate nell’Università di Sassari, provenienti dalla colonia di Turris Libisonis.

Così si spiegano i fortunati scavi iniziati nel 1846 e proseguiti alcuni anni nella località Truvine a pochi chilometri da Ploaghe (la Trabine delle Carte d’Arborea), che vengono presentati nella Memoria sull’antica Truvine, pubblicata fin dal 1852, opera che in realtà è alla base della successiva falsificazione delle Carte d’Arborea, con un progressivo utilizzo dei dati di scavo. Già nel 1858 sul IV numero del “Bullettino Archeologico Sardo”, nell’articolo su un Codice cartaceo di Castelgenovese, e l’antica città di Plubium, il Martini presentava l’improbabile cronaca del XV secolo attribuita ad un Francesco De Castro plubiese, curiosamente omonimo del più noto falsario delle Carte d’Arborea, coinvolgendo anche lo Spano, che in appendice al volume pubblicava la ristampa della Memoria sull’antica Truvine, dedicata appunto al suo paese natale; nel 1859 del resto egli avrebbe stampato il Testo ed illustrazioni di un Codice Cartaceo del sec. XV contenente le leggi doganali e marittime del porto di Castel Genovese ordinate da Nicolò Doria, e la fondazione e la storia dell’antica città di Plubium, poi ripreso nel IX volume del “Bullettino”.

La Memoria sull’antica Truvine appare chiaramente alla base dell’attività dei falsari delle Carte d’Arborea ed in particolare dei numerosi fantasiosi documenti su Plubium-Ploaghe, sul cronista Francesco De Castro, sull’«intrepido e coraggioso Sarra», su Arrio amico di Mecenate[150]. Si comprende l’entusiasmo dello Spano, impegnato a sostenere che «la Cronaca di Francesco De Castro Ploaghese ha tutti i caratteri della genuinità, sia nell’intrinseco dettato della storia che abbraccia, sia nella parte estrinseca del Codice, cioè la carta, il carattere e tutto quanto induce a formare il vero criterio, per distinguere la veracità e l’autenticità dei codici, e delle scritture antiche»[151].

Si capiscono dunque le ironie di molti suoi cononoscenti, tanto che il canonico dovè subire gli «sghignazzi» di qualche confratello poco credulone[152].  Un episodio alquanto curioso e significativo ci viene raccontato proprio dallo Spano, imbarazzato per le accuse di campanilismo che gli venivano mosse da più parti: in occasione di un’escursione effettuata nel 1846 a Ploaghe (ben prima della pubblicazione della vecchia Memoria sull’antica Truvine), si era verificato uno scontro imbarazzante, che lo Spano riprende  sull’VIII volume del “Bullettino Archeologico Sardo”: «Ricordo in proposito che in mezzo alla comitiva, all’ora del pranzo in campagna, io che aveva tutti gli oggetti raccolti presenti, feci un brindisi: «Viva Truvine che sarà nomato in tutta l’Europa!». Uno dei preti della comitiva, F.S., ne fece uno sghignazzo. Poco tempo dopo che stampai la citata memoria, venne nominato Truvine per l’iscrizione rara che in essa riportai di A. Egrilio Plariano decuriale scriba[153], nel «Bullettino di Corrispondenza archeologica» di Berlino, che si stampa in Roma. Si avverò il mio brindisi, che Truvine sarebbe stato nomato in tutta l’Europa».

Fin dal 1859, sul V volume del “Bullettino”, il Martini solleticando non poco il campanilismo dello Spano, aggiungeva che «anche la pur distrutta città di Plubium (posta colà dove ora sorge la grossa villa di Ploaghe) era abbellita da un’opera consimile» all’anfiteatro di Cagliari, che sarebbe stata costruita da «un architetto d’origine sarda, Marcus Peducius». Un secondo articolo era dedicato al commento delle fantasiose cronache attribuite a Giorgio di Lacon ed a Antonio di Ploaghe, sulla distruzione di alcune città costiere della Sardegna, in particolare Nora, Bithia, Carbia, Sulci, Fausania, nel corso delle prime incursioni arabe.

Sul VI volume del “Bullettino”, è lo stesso Spano, ancora con qualche ingenuità, a ripercorrere la storia della Sardegna, così come è tracciata nelle Carte d’Arborea, che documentano come «uomini insigniti del carattere pontificale non isdegnarono di applicarsi allo studio delle profane anticaglie»: ed ecco i vescovi di Ploaghe «che fama ebbero nella nostra Isola di sommi archeologi», Antonio ed Arnusio (quest’ultimo citato anche sulle Scoperte del 1867, omonimo dell’arcivescovo turritano Carlo Tommaso Arnosio che aveva presieduto la commissione di laurea dello Spano nel 1825). Ancora una volta i falsari erano riusciti a solleticare il campanilismo dello Spano, che appare quasi sprovveduto nel giudicare la storia antica di Ploaghe, la sua patria, che poco credibilmente tende ad inserire in un contesto più ampio: si noti la soddisfazione per l’inclusione di Plubium e Trabine nella nuova carta sulla Sardinia antiqua del Della Marmora e il ricorso continuo all’autorità del cronista Decastro Plubiese, a proposito delle gesta del valoroso Sarra nel corso delle guerre degli Iliensi, Balari e Corsi durante il governo di M. Pinarius Rusca e dei suoi successori (a partire dal 181 a.C.).

Sul VII volume del “Bullettino” ritornano le Carte d’Arborea, a proposito di Plubio-Plovaca-Ploaghe, città distrutta dai Vandali «con tremenda ira» e «con terribili macchine», perché i Plubiesi si erano resi colpevoli «con frode» per aver dato aiuto con vettovaglie e frumento alle vicine città di Castra e di Figulina, «da venti mesi assediate» dai Vandali.

Più rilievo ha, in appendice al IX volume del “Bullettino”, il Testo ed illustrazioni di un Codice Cartaceo del secolo XV contenente la fondazione e Storia dell’antica città di Plubium, con una revisione delle posizioni dello Spano, alla ricerca di una conciliazione tra dati storici e le strabilianti notizie derivanti dalle Carte d’Arborea.

Insomma, assistiamo allo svolgersi progressivo di una indagine fondata su un doppio registro, in relazione alle origini di Ploaghe: da un lato le ricerche archeologiche, che avevano prodotto vere e proprie scoperte di grande interesse; dall’altro la falsificazione che segue e si accompagna alle ricerche sul terreno. E’ il caso ad esempio, dopo gli scavi del 1846, delle monete di bronzo di età repubblicana, fino all’età di Augusto con una rarissima «moneta coloniale della città di Usellus», delle statuine di Cerere col modio, di Bacco e di satiri, delle lucerne col bollo di C. Oppius Restitutus [154], di un pavimento in opus signinum, degli altri materiali presentati più tardi sul volume IX del “Bullettino”, come un capitello in terra cotta con il bollo di L. Petronius Fuscus[155]; del resto anche le “Scoperte” testimoniano ritrovamenti archeologici di rilievo (vd. le le monete repubblicane di Ploaghe nelle Scoperte del 1872, le armi preistoriche delle Scoperte del 1873, la navicella votiva di età nuragica delle Scoperte del 1874). Ancora sulle Scoperte del 1872 il ritrovamento a Ploaghe di un sigillo di un canonico arborense, dà l’occasione allo Spano di effettuare un ampio excursus sulle Carte d’Arborea ed in particolare sul leggendario Francesco Decastro, che sarebbe vissuto alla corte di Ugone IV d’Arborea.

Anche  grazie all’azione dei tanti informatori locali, a Ploaghe si forma lentamente una collezione archeologica, come quella nella quale confluì (come si legge nelle Scoperte del 1869) l’epitafio olbiense del liberto imperiale Ti. Claudi[us] Diorus, conservato presso il parroco di Ploaghe Salvatore Spano, sicuramente da collegarsi con i latifondi di Claudia Acte, la liberta amata da Nerone[156]. Del resto, l’orizzonte dello Spano è più vasto, se viene collocato nel territorio di Ploaghe anche il Nuraghe Nieddu di San Martino di Codrongianus, il cui modellino è presentato nelle Scoperte 1871 tra gli oggetti Sardi all’Esposizione Italiana nel Congresso internazionale d’antropologia e d’archeologia preistoriche tenuto in Bologna nel 1871.

Del resto sono molti  i corrispondenti dello Spano, che gli segnalavano scoperte e novità: tra essi appare rivestire un ruolo rilevante il parroco di Ploaghe Salvatore Cossu, che scrive già sul primo numero del “Bullettino” un articolo sulle reliquie conservate dal 1443 nella chiesa di Santa Caterina; scomparso nel 1868, per lui nel 1872 viene pubblicata la Biografia del rettore Salvatore Cossu in appendice alle Operette spirituali composte in lingua sarda logudorese dal Sac. teol. Salvatore Cossu, rettore parrocchiale di Ploaghe, opera postuma. Tra gli altri amici e corrispondenti dello Spano originari di Ploaghe si citeranno P. Paolo Cesaraccio, Domenico Figoni, Domenico Martines, Billia Pirastru, Salvatore Spano, Sebastiano Spano, il precettore elementare Francesco Fois, «l’ex brigadiere ed uffiziale di posta in Ploaghe» Giovanni Secchi (nipote dello Spano), il teol. Gerolamo Campus, il parroco F. Del Rio, il sac. Fedele Virdis, il cappellano militare Giovanni Sini, i pretori G. Maria Tiana Frassu e avv. Cugurra, il magistrato Antonio M. Spano, l’avv. Giovanni Spano, i medici G.M. Spano e G. Camboni, il sindaco di Ploaghe Tommaso Satta Spano, l’assessore dott. G. Sini. Un personaggio importante nella vita dello Spano fu anche Filippo Arrica parroco di Sant’Apollinare a Sassari, originario di Ploaghe e docente di Teologia morale, poi divenuto vescovo di Alghero, membro della commissione di laurea dello Spano nel 1825.

Sull’altro versante trovano spazio i falsari: l’appendice al volume IX del “Bullettino” è assorbita per oltre 60 pagine dal Testo ed illustrazioni di un Codice Cartaceo del secolo XV contenente la fondazione e Storia dell’antica città di Plubium, con un bel fac-simile del Marghinotti e del Crespi che rappresenta «Arrio, sardo Plubiese», mentre «mostra a Mecenate le note compendiarie da lui inventate che Tirone, liberto di Cicerone, si aveva con tradimento appropriate», un documento che è alla base della tela del pittore cagliaritano Giovanni Marghinotti conservata al Comune di Ploaghe, che raffigura Arrio Plubiese «nell’atto di mostrare a Mecenate, seduto, un foglio “col segreto delle note compendiarie che Tirone, liberto di Cicerone, si aveva con tradimento appropriate”»[157]. Lo Spano cade nel tranello dei falsificatori, che pure avevano introdotto il testo del codice con un’espressione eloquente attribuita a Francesco Decastro, che diveniva concittadino dello Spano: «patria mea charissima Publium», l’attuale Ploaghe. Non vale la pena riprendere il testo del documento, che consente allo Spano di illustrare le antichità del suo paese natìo, senza il minimo sospetto di falsificazione. Per la Ruggeri, «un indizio solo dell’ingenuità o più probabilmente della connivenza dello Spano con i falsari delle Carte d’Arborea ?»[158].

Quel che è certo è che anche dopo il Bericht berlinese del 1870 e la condanna delle Carte d’Arborea, lo Spano continuò a mantenersi fedele a questa duplice impostazione, continuando le sue ricerche archeologiche a Ploaghe, testimoniate ad esempio sulle Scoperte del 1872, alla ricerca delle rovine della leggendaria Plubium e, a 5 km. di distanza, alla ricerca dei resti della mitica Trabine-Truvine (la «distrutta città»).  Sulle Scoperte del 1874 un capitolo apposito è dedicato a Plubium-Ploaghe, dove lo Spano si era recato «per motivi di salute», trattenendosi dal 10 al 30 maggio 1874, ma svolgendo scavi archeologici con quattro operai intorno a due nuraghi Attentu e Don Michele, segnalati nelle Carte d’Arborea. Agli scavi presenziarono le «persone più colte del paese», elencate puntigliosamente una per una: il sindaco cav. Tommaso Satta, l’assssore dott. G. Sini, il pretore avv. Cugurra, il medico G.M. Spano, il parroco F. Delrio, «con altri soggetti del clero», il magitrato Antonio M. Spano (deceduto il 10 luglio successivo) e l’avv. Giovanni Spano, «espressamente venuti da Sassari»; infine i proprietari dei terreni dove sorgevano i due nuraghi, il medico G. Camboni e Billia Pirastru, «ambi ora zelanti affinché non si tolga più una pietra di quei vetusti monumenti, che così accrescono il valore ai rispettivi predj». Il vecchio Senatore coglie l’occasione per lodare Domenico Figoni (suo parente per parte di madre), che aveva fatto parzialmente ricostruire il nuraghe Nieddu di San Martino di Codrongianus, «che torreggia in faccia all’altipiano di Coloru dove passa la ferrovia di Ploaghe», nel tratto verso Sassari, inaugurata il 15 agosto 1874 con grandi festeggiamenti. Come è noto il nuraghe sarebbe stato visitato qualche anno dopo, il 26 ottobre 1877, da Theodor Mommsen. L’ing. Efisio Crespo (deceduto il 3 aprile 1874) aveva realizzato un bel modellino del nuraghe, analogo a quello preparato per l’esposizione di Bologna dallo Spano, poi donato al R. Museo di Parma.

Gli scavi al nuraghe Attentu, iniziati il 19 maggio, avevano messo in evidenza i resti di quella che allo Spano sembrò una villa romana e, negli strati inferiori, materiali di età preistorica e protostorica; gli scavi nel nuraghe Don Michele, svolti tra il 21 ed il 23 maggio, documentarono il riuso del monumento in età romana, con murature, tombe, urne cinerarie e, negli strati inferiori, frammenti di vasi e di olle, fusaiole, amuleti. Per Giovanni Lilliu si tratta dei primi scavi statigrafici in Sardegna[159];

Anzi, proprio nei suoi ultimi anni di vita, lo Spano sembra coinvolto in una frenetica attività di scavi, sostenuti con entusiasmo da ricchi signori e da semplici contadini: le ascie preistoriche di Monte San Matteo, gli scalpelli di Monte Ledda, infine la navicella di Scala de Boes, ormai in comune di Ardara; quest’ultima scoiperta consente allo Spano di tornare sul tema dell’origine orientale dei Sardi, alla luce dell’iscrizione di Medinet-Habou e degli studi sugli Shardana dell’egittologo F. Chabas, fatti conoscere in Sardegna fin dal 1873 con la pubblicazione della Memoria sopra il nome di Sardegna e degli antichi Sardi in relazione coi monumenti dell’Egitto illlustrati dall’egittologo F. Chabas.

Anche nelle Scoperte del 1875 si ritrova un capitolo su Plubium, «oggi tanto interessante e visitata dai forestieri per esser allacciata dalla rete ferroviaria Torres-Sassari-Ozieri»: il lavoro si apre con le domus de janas preistoriche di Monte Pertusu, con l’omonimo nuraghe, con i resti di un villaggio a Monte Cannuja; un’area straordinaria, che lo Spano conosce da oltre 50 anni e che ricorda con commosse parole: «io fin da giovinotto conosceva questa località allorché dal mio citato villaggio di Ploaghe mi vi portava per divertimento alla caccia di uccelli. Diventato grande, e dedicatomi allo studio delle antichità della mia patria, mi balenava qualche volta in testa di esplorare questo sito, e praticarvi qualche scavo: ma sempre mi mancò il tempo, perché credetti più opportuno di rivolgere altrove le mie ricerche nelle diverse volte che nella primavera mi portava in villa per rivedere i parenti, gli amici, e per bearmi delle dolcezze del luogo natìo».

Nel 1875 lo Spano poteva finalmente realizzare un sogno antico, in occasione del suo soggiorno a Ploaghe dovuto al desiderio di «profittare di far uso delle salutari acque minerali di San Martino, molto confacenti» ai suoi «incomodi, conforme la prescrizione del Medico». Aveva fino all’ultimo progettato di poter svolgere gli scavi nel mese di maggio in compagnia dell’amico e collega Wolfgang Helbig, segretario dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica di Roma, che gli «aveva scritto d’esser sulle mosse per venire in Sardegna, e che da Cagliari sarebbe venuto in Ploaghe» per visitarlo e per «conferire insieme». Lo Spano rammaricato ricorda: «io lo aspettai come un angelo, che mi avrebbe ajutato e somministrati lumi nel modo di eseguire i lavori che aveva preparato», ma l’Helbig, «occupato per istudiare e disegnare i monumenti sardi nel R. Museo di Cagliari» arrivò a Ploaghe solo il 27 maggio, quando lo Spano aveva già concluso gli scavi e stava per rientrare a Cagliari; lo studioso tedesco, accolto cordialmente, ripartì però in giornata per Sassari, accompagnato dal can. Luigi Sclavo e dal prof. Luigi Amedeo, che sarebbe stato di nuovo mobilitato due anni dopo in occasione della visita del Mommsen a Sassari. In una lettera del successivo 5 giugno l’Helbig ricordava l’accoglienza ricevuta dai Sardi, «presso i quali mi sono sentito come quasi nella Mark Brandeburg», che gli avevano «inspirato una specie di nostalgia che non finirà mai» e prometteva di tornare presto nell’isola[160]. Allo Spano l’Helbig avrebbe dedicato l’anno dopo un lavoro sopra l’arte fenicia[161],

Gli scavi dello Spano si erano svolti tra il 13 ed il 18 maggio in una grotta calcarea sulla sommità del Monte Pertusu, alla base dell’omonimo nuraghe: fu possibile documentare le successive trasformazioni tra l’età preistorica e l’età del ferro, attraverso i resti di selce e di ossidiana, le armi e le ceramiche; infine il riuso funerario in età romana. Gli scavi erano proseguiti poi in loc. Funtana Figu, presso le domus di Monte Cannuja e di Cantaru Lisone e nella pianura di Leseu, nella quale erano state raccolte monete repubblicane ed imperiali; infine erano state esplorate le sepolture romane ad arcosolio entro il colombario di Corona de sa Capella collocato «verso la parte di ponente» della collina, presso la fontana di Su Puttu. Risultati tutto sommato deludenti per lo Spano, che se ne era lamentato con il conte Baudi di Vesme, per il quale curiosamente le devastazioni subìte dalle domus preistoriche di Ploaghe non dovevano attribuirsi «ad ignoranti pastori, ma a dotti Plubiesi», ai tanti Giovanni Spano, appassionati cultori di storia patria, che si erano succeduti dopo il mitico Decastro citato nelle Carte d’Arborea. Il capitolo si conclude con un quadro della distribuzione dei nuraghi nel territorio di Ploaghe, sempre ricalcando la cronaca romanzata di Plubium.

Gli ultimi anni dello Spano ci appaiono sunque ancora fertili, caratterizzqati da un’attività febbrile, impegnatri in una infinita ricerca di tesori che possano testimoniare la fondatezza delle premesse teoriche e dei documenti arborensi. Non è importante stabilire in questa sede l’effettiva partecipazione dello Spano alla falsificazione delle Carte d’Arborea e la sua responsabilità nella raccolta di notizie incerte e poco affidabili: semmai, il quadro di questa straordinaria attività che si sviluppa sul piano della ricerca scientifica e sul piano romantico delle ritrovate origini mitiche di Ploaghe-Plubium, testimonia una passione straordinaria per la piccola patria lontana, una nostalgia senza limiti ed una simpatia senza ombre, che forse avvicinano lo Spano allo spirito nuovo dei protagonisti della straordinaria vicenda delle Carte d’Arborea, momento fondante, anche se distorto, di una “Sardità” vissuta come riscatto e come annuncio di tempi nuovi.

 


[1]* L’A. ringrazia la prof. Paola Ruggeri, alla quale si deve in parte il § 15, relativo specificamente ai rapporti tra lo Spano e il suo paese natale, Ploaghe.

[2] Vd. G. Spano, E. Pais, Bullettino Archeologico Sardo 1855-1884, Scoperte Archeologiche, ristampa commentata a cura di A. Mastino e P. Ruggeri (Biblioteca illustrata sarda), Editrice Archivio Fotografico Sardo, Nuoro 2000 ss.

[3] G. Lilliu, Un giallo del secolo XIX in Sardegna. Gli idoli sardo fenici, “Studi Sardi”, XXIII, 1973-74, p. 314 n. 2.

[4] Vd. E. Contu, Giovanni Spano, archeologo, in Contributi su Giovanni Spano, 1803-1878, nel I centenario della morte, 1878-1978, Sassari 1979, pp. 161 ss.; G. Lilliu, Giovanni Spano, in I Cagliaritani illustri, I, a cura di A. Romagnino, Cagliari 1993, pp. 31 ss.

[5] G. Spano, Iniziazione ai miei studi, a cura di S. Tola, Cagliari 1997.

[6] Spano, Iniziazione cit., p. 69.

[7] Spano, Iniziazione cit., p. 83: «Questa mia laurea venne onorata dalla presenza dell’arcivecovo nella qualità di cancelliere, che per l’ordinario delegava un canonico o altra persona, alla quale cedeva non la propina ma la tesi che tutti i graduandi dovevano stampare a loro spese».  Per un  Arnosio vescovo di Ploaghe, che sarebbe stato amico del giudice Mariano IV, ricordato nelle Carte d’Arborea, vd. Id., Abbecedario storico degli uomini illustri sardi scoperti nelle pergamente codici ed in altri monumenti antichi con appendice dell’Itinerario antico della Sardegna, Cagliari 1869, p. 17.

Il testo della tesi (Ex theologia dogmatum de SS. Patribus, nec non de traditionibus), è ora pubblicato anastaticamente in Guido, Vita di Giovanni Spano cit., pp. 52 ss.

[8] Spano, Iniziazione cit., pp. 82 s.

[9] Secondo Registro degli esami privati e pubblici (dell’Università di Sassari), II, 1810-1829, p. 201:  «Sassari li 14 luglio 1825. Seguì l’esame pubblico di Laurea in Teologia del Sig.r Giovanni Spano Figoni di Ploaghe Semi(inarista) Trid(entino) con intervento dell’Ill.mo Eccell.mo monsig.r Arcivescovo D.n Carlo Tommaso Arnovio Cancell.re, del Pref.to Can.co Pinna, del Prof. Tealdi, delli D.ri Colleg(ia)ti Arrica, Mela, Canu, Fenu, D’Andrea, e Sanna e Colleg.le Emerito Cubeddu Pievano di Mores ed è stato a pieni voti approvato per cui venne ammesso dal Collegio e gli venne conferita la Laurea dal Promotore Quesada, di che».

Ringraziamo cordialmente il direttore prof. Antonello Mattone, la dott. Paola Serra ed il dott. Francesco Obinu per le preziose informazioni.

[10] Spano, Iniziazione cit., p. 124 n. 16: «Ad un padre conscritto venne in mente di propormi di dissertare sopra i nuraghi, tema preistorico, e sarebbe statto lo stesso che parlar delle stelle, né avrei avuto la gloria di squarciare il velo del loro uso, bensì di onorarli d’un poema latino, come il Bellini li onorò d’un poema italiano».

[11] Per una rapida biografia dello Spano, vd. L. Guido, Vita di Giovanni Spano, con l’elenco di tutte le sue pubblicazioni, Villanova Monteleone 2000, pp. 7 ss.

[12] CIL X 7946 = ILS 5526, vd. A. Mastino, P. Ruggeri, I falsi epigrafici romani delle Carte d’Arborea, in Le Carte d’Arborea. Falsi e falsari nella Sardegna del XIX secolo, Atti del Convegno “Le Carte d’Arborea”, Oristano 22-23 marzo 1996,  Cagliari 1998, p. 231.

[13] Spano, Iniziazione cit., p. 55 e n. 18, con le osservazioni di Enrico Costa: «sebbene gli scavi li abbia fatti a casaccio, e con poca intelligenza, pure merita lode solo per aver dissotterrato quel cippo coll’iscrizione che ci ha fatto conoscere come l’edifizio era un tempio dedicato alla dea Fortuna, col tribunale ornato di sei colonne, restaurato dal prefetto di Sardegna Ulpio Vittore sotto l’imperatore Filippo, e non palazzo»

[14] G. Spano, Testo ed illustrazioni di un Codice Cartaceo del secolo XV contenente la fondazione e Storia dell’antica città di Plubium, Cagliari 1859, vd. “BAS”, IX, 1863, p. 120.

[15] Spano, Iniziazione cit., p. 55.  Vd. le osservazioni di Enrico Costa alle pp. 64 s. n. 23: «Allorquando nel 1819 [1820] noi lo vediamo aggirarsi per le campagne della sua Ploaghe, arrampicandosi su per le vecchie muraglie, contemplando le macerie degli antichi monumenti e chiedendo ai geroglifici d’una pietra frantumata la storia di una generazione sepolta dai secoli, era come un glorioso preludio del genio per l’archeologia che doveva distinguere il fondatore del “Bullettino Archeologico” dove vennero raccolti, disegnati ed illustratri tutti i monumenti della Sardegna, per far conoscere ai posteri la storia dei nostri padri. Quei nuraghi infine, che fin dalla prima gioventù furono l’oggetto della sua curiosità, dovevano essere da lui studiati per toglierli più tardi da quel mistero in cui erano avvolti da migliaia di secoli».

[16] Spano, Iniziazione cit., p. 106.

[17] Spano, Iniziazione cit., p. 126 n. 31, cfr. Bonu, Scrittori cit., p. 309.

[18] CIL I2 2226 = X 7586 = ILS 1874 = ILLRP I, 141 = IG XIV 608 = IGR I 511 = CIS I,1, 143.

[19]CIL X 7946 = ILS 5526.

[20] Spano, Iniziazione cit., pp. 140 s.; vd. Bonu, Scrittori cit. p. 314.

[21] Spano, Iniziazione cit., p. 141.

[22] Spano, Iniziazione cit., p. 222.

[23] Spano, Iniziazione cit., p. 177.

[24] Spano, Iniziazione cit., p. 252.

[25] Spano, Iniziazione cit., p. 141.

[26] G. Spano, Storia e descrizione dell’Anfiteatro romano di Cagliari, Cagliari 1868.

[27] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 253.

[28] Spano, Iniziazione cit., pp. 145 ss.

[29] Spano, Iniziazione cit., pp. 148 s.

[30] Spano, Iniziazione cit., pp. 151 ss.  In seguito lo Spano avrebbe pubblicato la Memoria sopra il nome di Sardegna e degli antichi Sardi in relazione ai monumenti dell’Egitto illustrati dall’Egittologo F. Chabas, Cagliari 1873.

[31] Spano, Iniziazione cit., pp. 155 ss.; per la tabula ipotecaria di Veleia vd. CIL XI, 1147; per la tavola di Esterzili, cfr.  La Tavola di Estetrzili. Il conflitto tra pastori e contadini nella Barbaria sarda, in Atti Convegno di studi, Esterzili, 13 giugno 1992, a cura di A. Mastino, Sassari1993.

[32] Vd. Bonu, Scrittori cit., p. 312.

[33] Come patria di Sant’Efisio in realtà le fonti indicano Elia Capitolina, Gerusalemme.

[34] L’espressione ironica ma non irriverente è in Spano, Iniziazione cit., p. 176.

[35] Sul personaggio, vd. G. Spano, Operette spirituali composte in lingua Sarda Logudorese del sac. Teol. Salvatore Cossu Rettore Parrocchiale di Ploaghe, Opera postuma colla sua Biografia, Cagliari 1873.

[36] Vd. G. Spano, Testo ed illustrazioni di un Codice Cartaceo del secolo XV contenente la fondazione e Storia dell’antica città di Plubium, “BAS”, IX, 1863, p. 125.

[37]CIL X 8053, 157, l.

[38] Memoria sull’antica Truvine, Cagliari 1852; vd. “BAS”, IV, 1858, pp. 190-201. Vd. successivamente Testo ed illustrazioni cit.; vd. “BAS”, IX, 1863, pp. 113-161.

[39] Vd. infra n. 153.

[40] Spano, Testo ed illustrazioni cit., “BAS”, IX, 1863, p. 171.

[41] Spano, Iniziazione cit., p. 209 n. 12.

[42] Spano, Iniziazione cit., p. 79.

[43] Vd. G. Spano, Proverbi sardi trasportati in lingua italiana e confrontati con quelli degli antichi popoli, Cagliari 1871, 2a ed., ristampa a cura di G. Angioni, Nuoro 1997, pp. 83 s., s.v. Bosa: «Fare come fanno in Bosa. Quando piove lasciano piovere. La città di Bosa ha provveduto tanti proverbi, ed in vece di adontarsene, come fece con noi il can. Gavno Nino, in quell’opera che dicono Del capoluogo del nuovo circondario nel territorio della soppressa provincia di Cuglieri (Cagliari 1862, p. 8 e n. 2), se ne dovrebbe lodare. In Italia si ha lo stesso proverbio per Pisa. Fare come fanno in Pisa, lasciar piovere quando piove. L’origine si racconta in vari modi, ma si crede che dovendosai ivi tenere una fiera all’aperto, uno degli anziani del Senato insorse proponendo la difficoltà: come fare se piovesse ? Un altro, dicesi, rispose:

“Fare come si fa in Pisa”.

“E cosa ?”

“Se piove si lascia piovere”.

Il sig. Nino sarà contento di questa spiegazione ?».

[44] L. Baille, Diploma militare dell’imperatore Nerva illustrato, Torino 1831, cfr CIL X 7890 = XVI 40 = AE 1983, 449.

[45] Per gli studi linguistici dello Spano, vd. G. Paulis, in G. Spano, Vocabulariu sardu-italianu con i 5000 lemmi dell’inedita Appendice manoscritta di G. Spano, I, Nuoro 1998, pp. 7 ss.

[46] CIL X 7981, già nel I volume del “Bullettino“.

[47] Vd. G. Spano, in CIL X 7892.

[48] G. Spano, Sopra un frammento di un antico diploma militare sardo, Cagliari 1848, vd. “BAS” I, 1856, pp. 191-199 e CIL X 7853 = XVI 27, cfr. A. Mastino, P. Ruggeri, La romanizzazione dell’Ogliastra, “Sacer”, VI, 1999, pp. 23 s.

[49] G. Spano, Illustrazione sopra un epitafio greco del R. Museo di Cagliari. Lettera al prof. G. Pisano, Cagliari 1849.

[50] Spano, Iniziazione cit., pp. 181 ss.

[51] Spano, Iniziazione cit., p. 185.

[52] G. Spano, Notizia sull’antica città di Tharros, Cagliari 1851; Id., Notice of the discovery of the ancient city of Tharros, “Atti Società archeologica di Londra”, 1852.

[53] Spano, Iniziazione cit., pp. 185 s.

[54] Odissea  u 301 s.

[55] G. Spano, Lettera al cav. D. Giovenale Vegezzi-Ruscalla sul volgare adagio Gevlw” Sardovnio”, «il riso sardonico», Cagliari 1853; vd. E. Pais, Sardavnio” gevlw”, “Atti R. Accad. Lincei”, Memorie di scienze morali, V, 1879-80, estr. Salviucci, Roma 1880 (si tratta della revisione della tesi di laurea, dedicata a Domenico Comparetti); vd. ora C. Miralles, Le rire sardonique, in Mevti”, Revue d’antropologie du monde gec ancien”, II,1, 1978, pp. 31-43; M. Pittau, Geronticidio, eutanasia e infanticidio nella Sardegna antica, in “L’Africa Romana”, VIII, Cagliari 1990, Sassari 1991, pp. 703-711; E. Cadoni, Il Sardonios gelos: da Omero a Giovanni Francesco Fara, in Sardinia antiqua, Studi in onore di Piero Meloni in occasione del suo settantesimo compleanno, Cagliari 1992, pp. 223-238;  G. Paulis, Le “ghiande marine” e l’erba del riso sardonico negli autori greco-romani e nella tradizione dialettale sarda, “Quaderni di semantica”, I, 1993, pp. 9-23.

[56] A. De la Marmora, Voyage en Sardaigne ou description statistique, physique et politique de cette ile, avec des recherches sur ses productions naturelles et ses antiquités, Atlas, Paris 1857; cfr. G. Spano, Cenni biografici del conte Alberto Ferrero Della Marmora ritratti da scritture autografe, Cagliari 1864 ; Id., Mnemosine sarda, ossia ricordi e memorie di vari monumenti con altre rarità dell’isola di Sardegna, Cagliari 1864, tav. XXI n. 6.

[57] G. Spano, Memoria sopra i nuraghi della Sardegna, Cagliari 1864; una seconda edizione è in “BAS”, VIII, 1862, pp. 161-199; una terza edizione è del 1867.

[58] Spano, Iniziazione cit., p. 211 n. 36.

[59] Vd. A. Accardo, La nascita del mito della nazione sarda, Cagliari 1996, p. 16.

[60] G. Spano, Vocabolario sardo geografico-patroniomico ed etimologico, Cagliari 1872-73, p. 129 n. 18.

[61] Spano, Iniziazione cit., p. 194 e pp. 211 s. n. 38.

[62] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 258.

[63] CIL I2 2226 = X 7586 = ILS 1874 = ILLRP I, 141 = IG XIV 608 = IGR I 511 = CIS I,1, 143.

[64] CIL X 7858.

[65] Spano, Iniziazione cit., p. 196.

[66] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 258.

[67] Vd. R. Bonu, Scrittori sardi nati nel secolo XIX con notizie storiche e letterarie dell’epoca, II, Sassari 1961, p. 313.

[68] CIL X 7852, 7930, 7884, 7891; CIS I 140 = ICO Sard. 19.

[69] Spano, Iniziazione cit., p. 205.

[70] P. Ruggeri, Giovanni Spano, Bullettino Archeologico Sardo (1855-64), Scoperte archeologiche (1865-76); Ettore Pais, Bullettino Archeologico Sardo n.s. (1884), in Africa ipsa parens illa Sardiniae. Studi di storia antica e di epigrafia, Sassari 1999, pp. 171 ss.; vd. anche  le introduzioni annuali alla ristampa G. Spano, E. Pais, Bullettino Archeologico Sardo 1855-1884, Scoperte Archeologiche, ristampa commentata a cura di A. Mastino e P. Ruggeri (Biblioteca illustrata sarda), Editrice Archivio Fotografico Sardo, Nuoro 2000 ss.

[71] Vd. Spano, Iniziazione cit., pp. 250 s.

[72] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 254.

[73] CIL X,2, p. 782.

[74] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie II, busta n. 152, Relazione sopra il pavimento in mosaico scoperto in un campo vicino a San Bernardo di Stampace, di Gemiliano Deidda (Cagliari, 4 marzo 1763); vd. G. Spano, Orfeo, Mosaico Sardo esistente nel Museo Egiziano di Torino, “BAS”, IV, 1858, pp. 161-165; S. Angiolillo, Mosaici antichi in Italia, Sardinia, Roma 1981, nr. 101; vd. ora P. Sanna, La «rivoluzione delle idee», “Rivista Storica Italiana”, 1998, in c.d.s.,  n. 144.

[75] Scoperte 1866, p. 35 n. 1.

[76] Vd. Spano, Testo ed illustrazioni cit., “BAS”, IX, 1863, p. 147, con la vecchia denominazione S. Maria in Bubalis; il nome moderno di S. Maria di Mesu Mundu viene collegato alla «sua forma di calotta».

[77] Lilliu, Giovanni Spano cit., p. 35. Per gli scavi nei nuraghi di Ploaghe, vd. anche A. Moravetti, Monumenti, scavi e scoperte nel territorio di Ploaghe e M.A. Fadda Pirisi, Il nuraghe Don Michele di Ploaghe, in Contributi su Giovanni Spano cit., pp. 11 ss. e 47 ss.

[78] Con la dedica allo Spano, «che dottamente illustrò liberalmente accrebbe il Museo sardo», vd. Catalogo della raccolta Archeologica sarda del can. G. Spano da lui donata al Museo di Antichità di Cagliari, Parte prima, Cagliari 1860; Parte seconda, dedicata a Monete e medaglie, Cagliari 1865. Vd. ora  C. Tronchetti, I materiali di epoca storica della collezione Spano, in Contributi su Giovanni Spano cit., pp. 115 ss.

[79] Vd. Spano, in “BAS”, IV, 1858, p. 3.

[80] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 155.

[81] Vd. Spano, Iniziazione cit., pp. 204, 213 n. 50.

[82] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 195.

[83] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 227.

[84] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 197.

[85] Vd. Spano, Iniziazione cit., pp. 202 e 212 n. 47.

[86] Vd. Illustrazione sopra un epitafio greco del R. Museo di Cagliari (Lettera al prof. G. Pisano), Cagliari 1849.

[87] Si tratta di un articolo sui vetri di Cornus, ripreso dal «Bullettino dell’Instituto di corrispondenza archeologica di Roma».

[88] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 268 n. 27.

[89] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 189.

[90] Si tratta di una ristampa di un articolo comparso sul «Bullettino dell’Instituto di corrispondenza archeologica di Roma» del 1861.

[91] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 203.

[92] Solo per la ristampa di un breve studio Sulle monete dell’impero Cartaginese che si trovano in Sardegna, che è ripreso dal volume Numismatique de l’ancienne Afrique del 1861.

[93] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 201.

[94] A. Mastino, Il “Bullettino Archeologico Sardo” e le “Scoperte”: Giovanni Spano ed Ettore Pais, in G. Spano, E. Pais, Bullettino Archeologico Sardo 1855-1884, Scoperte Archeologiche, ristampa commentata a cura di A. Mastino e P. Ruggeri (Biblioteca illustrata sarda), Editrice Archivio Fotografico Sardo, Nuoro 2000 ss. p. 27.

[95] Vd. M.L. Ferrarese Ceruti, Materiali di donazione Spano al Museo Pigorini di Roma, in Contributi su Giovanni Spano cit., p. 65.

[96] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 259.

[97] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 203.

[98] Spano, Iniziazione cit., p. 233 e p. 268 n. 24.

[99] A. Della Marmora, Sulle iscrizioni latine del Colombario di Pomptilla, “BAS” VIII, 1862, p. 113; vd. G. Spano, Serpenti che si vedono scolpiti nelle tombe, ibid., p. 138.

[100] Spano, Iniziazione cit., p. 237;vd. Id., Abbecedario storico cit., p. 75: «dimenticato da tutti e nell’inedia, mentre avrebbe meritato alto compenso dalla patria».

[101] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 261 e pp. 271 s. n. 62.  Per la posizione di G. Manno verso le Carte d’Arborea è fondamentale la lettera del 10 maggio 1859, pubblicata in Spano, Testo ed illustrazioni cit., “BAS”, IX, 1863, pp. 151 s. n. 2: «così il mio lamento dell’essersi tacciuto dagli orgogliosi storici Romani il nome degli Eroi Sardi che hanno dovuto capitanare le molte guerre d’indipendenza combattute dai nostri padri, è di molto attenuato».

[102] Spano, Iniziazione cit., p. 226.

[103] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 266 n. 4.

[104] W. Helbig, Cenni sopra l’arte fenicia. Lettera al sig. Senatore G. Spano, Roma 1876, estr. “Annali dell’Inst. di corrispondenza archeologica”).

[105] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 203.

[106] Spano, Iniziazione cit., p. 227.

[107] Vd. Spano, Iniziazione cit., pp. 261 s. e p. 272 n. 63.

[108] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 262.

[109] Spano, Scoperte 1870, p. 35 n.1.

[110] Spano, Scoperte 1875, p. 23 ss.

[111] CIL X 7957.

[112] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 255.

[113] Th. Mommsen, in CIL, X,2, p. 782.

[114] Vd. Mastino, P. Ruggeri, I falsi epigrafici romani delle Carte d’Arborea cit., pp. 221 ss.

[115] Vd. Spano, Postilla alla lapide , in Scoperte , p. 35

[116] CIL X 7930, vd. A. Mastino, La supposta prefettura di Porto Ninfeo (Porto Conte), «Bollettino dell’Associazione Archivio Storico Sardo di Sassari», II, 1976, pp. 187-205.

[117] Vd. E. Pais, Le infiltrazioni delle falsificazioni delle così dette «Carte di Arborea» nella Storia della Sardegna, in Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio Romano, Roma 1923, p. 670; vd. ibid., p. 331 n. 3.

[118] Vd. S. Tola, in Spano, Iniziazione cit., p. XI.

[119] Vd. G. Ghivzzani, Al prof. Teodoro Mommsen, in S.A. De Castro, Il prof. Mommsen e le Carte d’Arborea, Sassari 1878, pp. 7 s.: si criticano «certe paroline che dicono esserle uscite dalla bocca», «paroline agrette anzi che non» e lo si invita a guardarsi, nel viaggio per Sassari, «da un certo de Castro». L’imbarazzo del Mommsen è evidente nella risposta pubblicata su «L’Avvenire di Sardegna» il 25 novembre, cfr. Th. Mommsen, in De Castro, Il prof. Mommsen cit., p. 13 (dove si fa cenno a «qualche parola … detta da me in una riunione privata, riguardo a certi punti della Storia della Sardegna»; «parole probabilmente male espresse e certamente assai male ripetute di un viaggiatore tedesco»). Vd. anche a p. 15 il giudizio sulla «vostra eroica Eleonora», al quale il Mommsen si sottrae, perchè dichiara di volersi occupare solo di epigrafia latina e di storia romana.   Sui nomi degli studiosi presenti al pranzo ufficiale, vd. I. Pillitto, in De Castro, Il prof. Mommsen cit., p. 56, per il quale lo Spano, ammalato, preferì non ribattere «per non impegnarsi in una discussione ormai superiore alle sue forze».   Più in dettaglio, al pranzo ufficiale, offerto dal prefetto Minghelli Valni, erano presenti il prof. Pietro Tacchini dell’Università di Palermo, i senatori conte Franco Maria Serra e can. Giovanni Spano, il consigliere delegato cav. Alessandro Magno, il preside dell’Università prof. Gaetano Loi, i proff. Patrizio Gennari e Filippo Vivanet, cfr. “L’Avvenire di Sardegna”,  VII, nr. 247, 17 ottobre 1877, p. 3.

[120] Th. Mommsen, in De Castro, Il prof. Mommsen cit., p. 15. Vd. le ironiche osservazioni di Salvator Angelo De Castro in una lezione del 3 novembre 1877 agli studenti dell’Università di Cagliari, in G. Murtas, Salvator Angelo De Castro, Oristano 1987, p. 76.

[121] Tali osservazioni furono ripetute a Sassari, in occasione del pranzo offerto dai redattori de “La Stella di Sardegna”, cfr. De Castro, Il prof. Mommsen cit., pp. 17 s.: «quando egli, per esempio, mi veniva dicendo che, in Sardegna, di cento iscrizioni, cento son false e fratesche, poteva io credere ch’ei non celiasse ? E celiando io lo pregava a non usare una critica tanto severa per tema che col cattivo se ne potesse andar via anche il buono. Per le altre provincie d’Italia, ammise il dieci per cento d’iscrizioni vere; meno male !».  Tali giudizi sulle «iscrizioni di fabbrica fratesca» furono ripresi anche nella rubrica i “Pensieri” pubblicata su “La Stella di Sardegna”, III, 44, del 4 novembre 1877, p. 224.

[122] “L’Avvenire di Sardegna”,  VII, nr. 250, 21 ottobre 1877, p. 3, cfr. Mastino, P. Ruggeri, I falsi epigrafici romani delle Carte d’Arborea cit., p. 224 n. 10.

[123] Vd. S. Sechi-Dettori, Le pergamene d’Arborea, All’illustre Cav. S. Angelo De-Castro, “La Stella di Sardegna”, III, dicemre 1877, p. 315; S.A. De-Castro, Le carte di Arborea. Al chiarissimo Signor S. Sechi-Dettori, “La Stella di Sardegna”, IV, 6 gennaio 1878, pp. 1 s.  Di quest’ultimo vd. soprattutto Il prof. Mommsen e le Carte d’Arborea, Sassari 1878, opera dedicata alla memoria di Pietro Martini.

[124] CIL X,2, 1883, pp. 781 s.

[125] CIL X 1480*.

[126] CIL X 7946.

[127] CIL X,2, 1883, p. 781. Vd. Mastino, P. Ruggeri, I falsi epigrafici romani delle Carte d’Arborea cit., pp. 221 ss.

[128] CIL X 7852, cfr. La Tavola di Esterzili cit.

[129] Vd. R. Mara, Theodor Mommsen e la storia della Sardegna attraverso i carteggi e le testrimonianze del tempo, tesi di laurea presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Cagliari (relatori i proff. Antonello Mattone e Attilio Mastino), Sassari 1997-98,  p. 335. Vd. ora A. Mastino, A. Mattone, Il viaggio di Mommsen in Sardegna, in preparazione.

[130] Mara, Theodor Mommsen cit., p. 337. L’edizione dell’articolo del Mommsen (con qualche errore forse dovuto all’eccessiva fretta), è in Th. Mommsen, Decret des Proconsul von Sardnien L. Helvius Agrippa vom J. 68 n. Chr., “Hermes”, II, 1867, pp. 102-127.

[131] CIL X 1098*.

[132] G. Cara, Statua di Ercole in bronzo, “BAS” I, 1855,  pp. 51 ss.

[133] Spano, Iniziazione cit., p. 219.

[134] Spano, Iniziazione cit., p. 226.

[135] W. Förster, Sulla questione dell’autenticità dei codici d’Arborea. Esame paleografico, “Memorie della R. Accad. delle scienze di Torino”, LV, 1905, p. 234.

[136] F. Loddo Canepa, Dizionario archivistico della Sardegna, “Archivio Storico Sardo”, XVII, 1929, p. 370, s.v. Carte d’Arborea.

[137] Spano, Iniziazione cit., p. 239.

[138] Spano, Scoperte 1865, p. 30.

[139] Spano, Scoperte 1874, p. 9.

[140] G. Cara, Cenno sopra diverse armi, decorazioni, ecc. del Museo di Cagliari, Cagliari 1871.

[141] Spano, Scoperte 1876, p. 22.

[142] G. Cara, Considerazioni sopra una fra le opinioni intorno all’origine ed uso dei Nuraghi, Cagliari 1876.

[143] H. B. von Maltzan, Reise auf der Insel Sardinien, nebst einem Anhang über die phönicischen Inschriften Sardiniens, Leipzig 1869.

[144] Spano, Scoperte 1876, pp. 37 ss.

[145] Vd.  G. Spano, Memoria sopra i Nuraghi della Sardegna, Cagliari 1854, poi nell’VIII volume del “Bullettino“.

[146] Spano, Scoperte 1876, p. 35.

[147] A. Cara, Questioni archeologiche, Lettera al can. Giovanni Spano, Cagliari 1877.  Vd. Bonu, Scrittori cit., p. 325 n. 29.

[148] G. Spano, Bosa vetus. Opera postuma del canonico Giovanni Spano Senatore del Regno, con biografia scritta dal professore Filippo Vivanet, Bosa 1878.

[149] Ruggeri, Africa ipsa parens illa Sardiniae cit., pp. 173 ss.

[150] Memoria sull’antica Truvine, Cagliari 1852; vd. “BAS”, IV, 1858, pp. 190-201. Vd. successivamente Testo ed illustrazioni cit.; vd. “BAS”, IX, 1863, pp. 113-161.

[151] Spano, Testo ed illustrazioni cit., “BAS”, IX, 1863, p. 171.

[152] Spano, Iniziazione cit., p. 209 n. 12.

[153] CIL X 7955 = XIV 346.

[154]CIL X 8053, 157, l.

[155] CIL X 8056, 259.

[156] CIL X 7979.

[157] Da qui il quadro del Marghinotti conservato al Comune di Ploaghe; vd. G. Dore, La raccolta Spano ed altre opere d’arte a Ploaghe, in Contributi su Giovanni Spano, cit., p. 147 nr. 20. Per il Marghinotti, vd. ora M.G. Scano, Pittura e scultura dell’Ottocento, Nuoro 1997, p. 131 ss.

[158] Ruggeri, Africa ipsa parens illa Sardiniae cit., p. 239.

[159] Lilliu, Giovanni Spano cit., p. 35. Vd. anche  Moravetti, Monumenti, scavi e scoperte nel territorio di Ploaghe e Fadda Pirisi, Il nuraghe Don Michele di Ploaghe, in Contributi su Giovanni Spano cit., pp. 11 ss. e 47 ss.

[160] Spano, Scoperte 1875, p. 23 ss.

[161] W. Helbig, Cenni sopra l’arte fenicia. Lettera al sig. Senatore G. Spano, Roma 1876, estr. “Annali dell’Inst. di corrispondenza archeologica”.

Attilio Mastino

La nascita dell’archeologia in Sardegna: il contributo di Giovanni Spano tra ricerca scientifica e falsificazione romantica[1]*

1. Gli studi fino alla laurea. 2. Le scoperte nella colonia romana di Turris Libisonis. 3. La formazione: il viaggio a Roma Roma. 5. Baille e La Marmora. 5. I viaggi in Italia. 6. Le ricerche giovanili. 7. I primi scavi: Tharros. 8. Il “Bullettino Archeologico Sardo” e le “Scoperte Archeologiche”. 9. La rete dei collaboratori. 10. La nascita dell’archeologia in Sardegna. 11. I corrispondenti italiani. 12. I corrispondenti stranieri. 13. I rapporti con Theodor Mommsen e la polemica sulle Carte d’Arborea. 14. Lo scontro con Gaetano Cara ed il tramondo dello Spano. 15. Il mito della patria lontana: la leggendaria Ploaghe-Plubium.

1. La recente ristampa del “Bullettino Archeologico Sardo” e delle “Scoperte Archeologiche” curata dalle Edizioni dell’Archivio Fotografico Sardo di Sassari[2] e la Giornata di studio su Giovanni Spano promossa dal Comune di Ploaghe il 15 dicembre 2001 per le celebrazioni bicentenarie dalla nascita, sono l’occasione per una riflessione complessiva sull’attività di Giovanni Spano tra il 1855 ed il 1878: un periodo di oltre vent’anni, che è fondamentale per la conoscenza della storia delle origini dell’archeologia in Sardegna, nel difficile momento successivo alla “fusione perfetta” con gli Stati della Terraferma, fino alla proclamazione dell’Unità d’Italia e di Roma capitale; in un momento critico e di passaggio tra 1a «Sardegna stamentaria» e lo «Stato italiano risorgimentale», quando secondo Giovanni Lilliu «si incontrarono e subito si scontrarono la “nazione” sarda e la “nazione” italiana al suo inizio»[3].

Gli interessi dello Spano per l’archeologia non sono originari[4]: nella tarda Iniziazione ai miei studi, pubblicata nel 1876 sul settimanale sassarese “La Stella di Sardegna” (recentemente edita da AM&D Edizioni di Cagliari a cura di Salvatore Tola)[5], lo Spano ripercorre le tappe della sua formazione a Sassari al Collegio degli Scolopi, poi in Seminario, per gli studi di grammatica e di retorica e quindi di logica e di matematica, fino a conseguire il titolo di maestro d’arti liberali nel 1821; solo più tardi, incerto tra la medicina («una scienza in allora abborrita e disonorata nelle famiglie, specialmente la chirurgica») e la giurisprudenza, scelse si iscriversi alla Facoltà teologica, per motivi non propriamente spirituali: «perchè vi erano le sacre decime, di buona memoria, che allettavano la maggior parte degli studenti»[6]. Il 14 luglio 1825 conseguiva la laurea in Teologia («un corso florido», perchè «la Teologia nell’Università di Sassari è stata molto coltivata perché ha avuto sempre buoni professori»), dopo un esame sostenuto davanti ad una commissione di undici membri presieduta dall’arcivescovo Carlo Tommaso Arnosio (omonimo del vescovo-poeta di Ploaghe ricordato nelle Carte d’Arborea)[7], con l’intervento tra gli altri del professore di Teologia dogmatica padre Tommaso Tealdi e di Filippo Arrica parroco di Sant’Apollinare, originario di Ploaghe e docente di Teologia morale, poi divenuto vescovo di Alghero: il Promotore padre Antonio De Quesada (docente di Sacra Scrittura) lo aveva presentato come il princeps theologorum e «dopo l’acclamazione fatta dal bidello» gli «pose il berrettino a quattro punte in testa», gli fece indossare la toga e gli infilò «l’anello gemmato d’oro» nell’anulare; seguì il giuramento ed il ringraziamento, che lo Spano fece «in versi leonini», per distinguersi dagli altri[8]. Presso il Centro di studi interdisciplinari sulla storia dell’Università di Sassari (nella sede del Dipartimento di Storia) si conserva ancora la registrazione dell’esame di laurea superato a pieni voti[9]. Solo nel 1830 avrebbe conseguito il titolo di dottore in arti liberali ed in particolare in Filosofia, discutendo una dissertazione De stellis fixis, mentre uno dei commissari avrebbe voluto assegnargli un tema altrettanto bizzarro, i nuraghi della Sardegna[10].

2. Egli era nato a Plaghe l’8 marzo 1803 da Giovanni Maria Spanu Lizos e da Lucia Figoni Spanu[11]: a 16 anni aveva seguito con ingenua curiosità la vicenda degli scavi effettuati a Porto Torres da Antonio Cano, un frate architetto esperto di esplosivi (il costruttore della cattedrale di Nuoro, morto cadendo da un’impalcatura nel 1840), che aveva scoperto la base del prefetto M. Ulpius Victor relativa al restauro del tempio della Fortuna e della basilica giudiziaria, monumento che è alla base della falsificazione delle Carte d’Arborea[12]: «nella primavera di quell’anno (1819) ricordo che in Porto Torres un frate conventuale, Antonio Cano, scultore ed architetto sassarese, per ordine della regina Maria Teresa, moglie di Vittorio Emanuele II, ed a sue spese, faceva degli scavi nel sito detto Palazzo di re Barbaro e, di mano in mano che si scoprivano pietre scritte o rocchi di colonne, le trasportavano a Sassari per collocarle nella sala dei professori [dell’Università]»[13]. E ancora: «Io senza capirne un’acca, ero curioso e di osservare questi rottami e dal conto che ne facevano pensava che fossero cose preziose». Era dunque scattata una molla che lo avrebbe portato più tardi a valorizzare le antichità di Ploaghe, la sua piccola patria, quella che nelle Carte d’Arborea sarebbe diventata la gloriosa Plubium con i suoi eroi Sarra ed Arrio, un luogo con «una lussureggiante vegetazione con selve di alberi d’ogni sorta, con orti irrigati (…) con vigne ed ogni genere di piante»[14]: «arrivato in villaggio col desiderio di trovare qualche pietra simile, passava i giorni visitando i nuraghi del villaggio e le chiese distrutte; m’introduceva nei sotterranei e stava sempre rivoltando pietre, arrampicandomi alle sfasciate pareti; per cui la povera mia madre mi sgridava sempre, e mi pronosticava che io sarei morto schiacciato sotto qualche rovina»[15]. Dopo la laurea, laureatus et inanellatus, in occasione del giubileo aveva vissuto nella basilica di San Gavino a Porto Torres l’esperienza della penitenza e della flagellazione «con un fascio di discipline di lame di ferro ben affilate» fornitegli da da un prete devoto di San Filippo, restando ammalato poi per due mesi: un’esperienza che gli avrebbe fatto capire meglio l’assurdità delle ipotesi del direttore del Museo di Cagliari Gaetano Cara, che avrebbe visto come «flagellii» oggetti diversissimi, vere e proprie decorazioni militari di età romana.

3. Fu però soprattutto il burrascoso soggiorno romano del 1831 ad orientarlo verso l’archeologia: alloggiato nella locanda dell’Apollinare, lo Spano prese a frequentare tutti i giorni la vicina piazza Navona, «l’emporio delle cose vecchie, di libri e di antichità» che fu il luogo in cui si avvicinò all’archeologia «comprando monete, pezzi di piombo, tele vecchie, ecc.»[16]. E poi «l’Achiginnasio romano, ossia la Sapienza», l’Università agitata dai «primi movimenti rivoluzionari» degli studenti e dai «torbidi» e dal «malcontento del popolo contro il governo dei preti» dopo l’elezione di Gregorio XVI che aveva scatenato l’«odio contro i preti, i quali erano presi a sassate, e molti restavano vittime»: qui lo Spano poté conoscere l’abate modenese Andrea Molza, docente di ebraico e di Lingua caldaica e siro-caldaica, il maestro più amato «un angelo mandato dal cielo», poi bibliotecario della Vaticana, morto tragicamente nel 1850; ma anche il prof. Nicola Wiseman, docente di Ebraico (lingua che lo Spano già in parte conosceva, in quanto allievo a Sassari di Antonio Quesada); il dott. De Dominicis ed il suo sostituto Emilio Sarti, professori di Lingua greca (quest’ultimo un «gran genio», «un mostro di erudizione»), il cav. Scarpellini di Fisica sacra, il Nibby di archeologia, «che allora era tenuto come il topografo per eccellenza dell’antica Roma»[17]; l’anno successivo il cav. Michelangelo Lanci di Fano docente di Lingua araba. Esaminato dal prof. Amedeo Peyron, professore di Lingue orientali nell’Università di Torino (col quale avrebbe successivamente collaborato alla pubblicazione della iscrizione trilingue di San Nicolò Gerrei[18]), fu nominato nel 1834 professore di Sacra Scrittura e Lingue orientali nella Regia Università di Cagliari, dove «a causa del clima» le lezioni terminavano con molto anticipo, il I maggio e le vacanze arrivavano fino al 15 luglio; l’Università di Cagliari infatti «si distingueva fra tutte le altre per il tempo assegnato alle vacanze», con grande soddisfazione dello Spano, che in primavera era ora libero di fare le sue «escursioni archeologiche e fisiologiche nel centro dell’isola».

4. A Cagliari la passione per l’archeologia doveva ulteriormente svilupparsi, soprattutto all’ombra di un grande vecchio, il cav. Lodovico Baille (gà censore dell’Università, bibliotecario e direttore del Museo archeologico), con il quale lo Spano fu messo in contatto da Amedeo Peyron, suo collega nell’Accademia delle Scienze di Torino: «era dotto archeologo, buon giurisprudente, caritatevole, disinteressato», oltre che «esperto e assennato antiquario»; fu il Baille «da vero archeologo», in occasione di una visita a Porto Torres, a sostenere che il Palazzo del Re Barbaro «sarà stato un tempio, o basilica, non però palazzo», un giudizio che per lo Sparo era stato luminosamente confermato dal ritrovamento avvenuto nel 1819 della base relativa al restauro del tempio della Fortuna, pubblicata poi proprio dal Baille[19]. Lo Spano lavorò per cinque lunghi anni accanto al Baille, fino al 14 marzo 1839, giorno della sua morte, considerata «una perdita nazionale» da Pasquale Tola.

Proprio in questi anni lo Spano ebbe l’occasione («la fortuna») di conoscere il generale Alberto della Marmora, «che trovavasi in Cagliari iniziando gli studi trigonometrici della Sardegna, col cavalier generale Carlo Decandia»: con lui lo Spano avrebbe avviato una cordiale amicizia ed una prolungata collaborazione scientifica. Scrivendo tredici anni dopo la morte del Della Marmora (avvenuta il 18 maggio 1863), lo Spano non avrebbe nascosto anche i motivi di un profondo disaccordo, la differente opinione della destinazione e sull’uso dei nuraghi (un tema decisivo che avrebbe portato lo Spano a scontrarsi sanguinosamente con il direttore del Museo di Cagliari Gaetano Cara), edifici che per lo Spano erano abitazioni e per il Della Marmora solo tombe: «ma siccome era di una tempa forte, difficilmente si lasciava vincere nelle sue opinioni, come era quella sopra i nuraghi; ché per aver trovato nell’ingresso del nuraghe Isalle una sepoltura antica col cadavere e stromenti di bronzi antichi, conchiuse che quelle moli erano trofei di guerrieri, mentre lo scheletro e le armi non furono trovati dentro la camera, quindi erano assolutamente memorie posteriori»[20]. E poi le dubbie amicizie del La Marmora, osservate con sospetto dallo Spano, le ingenuità e gli errori, come per la vicenda degli idoli sardo-fenici, fatti acquistare dal Cara ed entrati a pieno titolo negli allegati al codice Gilj e nelle Carte d’Arborea: «io gli insinuava che non si fidasse tanto sulle relazioni; finalmente, dopo ultimata la colossale opera, comprò un centinaio di questi idoletti e si convinse che il mio sospetto non era senza ragione», perchè «nei bronzi figurati, io ripeteva, “ci vuole la fede di battesimo!”»[21]. Fu il Cara a dissanguare il conte Della Marmora, «nuovo Caio Gracco che si dipartì da Roma colla cintura piena di denaro e vi rientrò riportandola totalmente vuota»[22]. Certo le posizioni dello Spano non dovevano esser state inizialmente così nette se nel 1847 aveva scavato a Lanusei «nella stessa località già esplorata dal Della Marmora, dove dicevasi essersi rinvenuti di quegli idoletti fenici»[23] e se ancora nel 1866 la dedica della Memoria sopra alcuni idoletti di bronzo trovati nel vilaggio di Teti (con le Scoperte Archeologiche del 1865) era effettuata in onore di B. Biondelli, direttore del Gabinetto numismatico di Milano, «perché la scoperta fu fatta quando egli era in Sardegna e moveva dubbi sugli idoletti sardi»[24]. Ma già nel 1862 il La Marmora aveva rotto da tempo col Cara, se il Conte aveva minacciato il Ministro C. Matteucci di rivolgere un’interrogazione in senato per la recente riconferma nell’incarico di direttore facente funzioni del Museo di Cagliari di un «individuo» compromesso in passato, che aveva curato a suo modo «gli affari del Museo».

5. Fu nel corso delle vacanze del 1835 (vent’anni prima della pubblicazione del primo numero del “Bullettino“) che lo Spano si dedicò per la prima volta seriamente delle antichità della Sardegna: egli passò «le vacanze biennali visitando continuamente la necropoli di Caralis antica, l’anfiteatro romano e copiando le iscrizioni antiche che trovansi sparpagliate nel Campidano di Cagliari», a suo dire già prevedendo di utilizzare queste informazioni per la sua Rivista[25]; all’anfiteatro in particolare avrebbe poi dedicato un volume[26], dopo gli scavi degli anni 1866-67 promossi dal Municipio e controllati da una commissione da lui presieduta di cui avrebbero fatto parte Gaetano Cima, l’avv. Marini Demuru, il Marchese De-Litala, il prof. Patrizio Gennari, Vincenzo Crespi (che avrebbe sostituito Pietro Martini, deceduto il 17 febbraio 1866)[27]. Utile sarebbe stato nel 1836 il viaggio a Verona «per visitare l’Anfiteatro che, per essere quasi intiero» lo «aiutò per poter istituire paragoni col cagliaritano»; nella città scaligera poté visitare il Museo Maffeiano dove volle trascrivere «alcune iscrizioni che avevano relazione colle sarde». In quel viaggio raggiunse Torino, frequentò le lezioni di Ebraico di Amedeo Peyron e di Greco del cav. Bucheron; quindi Milano, dal prof. Vincenzo Cherubini; e poi Padova (dove conobbe il Pertili), Venezia (dove conobbe i bibliotecari di San Marco cav. Bettio e Bartolomeo Gamba, ma anche l’istriano Pier Alessandro Paravia, professore di Eloquenza nell’Università di Torino, che avrebbe rivisto nel 1838), Rovigo, Bologna, Ferrara, Rimini, Foligno, Spoleto, infine raggiunse Roma. Qui, rivide il Molza ed altri maestri e colleghi ed iniziò a «visitare le antichità romane dentro e fuori di città per rinnovare la memoria», preparando qualche suo «scritto sopra le medesime e sopra i dialetti sardi»[28]. Trattenuto per mesi a Napoli dall’epidemia di colera, poté studiare «le antichità ai musei ed alla Regia biblioteca», le rovine di Pompei (dove studiò «la struttura delle case antiche», analoghe a quelle che avrebbe riconosciuto a Cagliari nel 1876 a Campo Viale, la necropoli, o via dei Sepolcri, e l’anfiteatro), infine Pozzuoli, per visitare un altro anfitreatro, il Tempio di Serapide, il lago d’Averno, la Grotta detta della Sibilla: «qui doveva vedere altri monumenti e copiare alcune iscrizioni che hanno relazione colle sarde, specialmente le classiarie di Miseno»[29]. Un viaggio avventuroso, con non pochi pericoli, che lo avrebbe segnato per gli anni successivi, quando lo Spano avrebbe ripreso le sue escursioni sarde, «raccogliendo vocaboli, oggetti di antichità, carte antiche e canzoni popolari».

6. Gli interessi dello studioso continuavano ad essere eterogenei e l’archeologia rappresentava ancora solo un aspetto secondario delle sue passioni: nel 1838, dopo aver visitato Bonorva, il Monte Acuto, il Goceano, il Nuorese, le Barbagie, la Planargia, il Marghine, studiò la lingua di Ghilarza e visitò «nuraghi ed altri monumenti preistorici, di cui abbonda questo territorio», scoprendo «molte di quelle lunghe spade di bronzo che gli antichi usavano XIV secoli prima di Cristo allorché, confederati con altri popoli, invadevano il Basso Egitto»: era la prima volta che lo Spano si misurava con la tesi dellle origini orientali dei Sardi e con la vicenda dei Shardana, allora illustrata da F. Chabas[30]. Nominato responsabile della Biblioteca Universitaria alla morte del Baille, si vantava di aver consentito agli studenti cagliaritani ed ai frequentatori della biblioteca «di studiare a testa coperta, come loro era più comodo; mentre prima erano obbligati di stare a testa nuda come in chiesa». Si sentiva però totalmente impreparato a dirigere la Biblioteca, per quanto assistito da padre Vittorio Angius, ed intraprese perciò un viaggio a Pisa, a Genova, a Bologna, a Modena, a Parma, a Milano, a Torino, per conoscere dall’interno il funzionamento delle principali biblioteche italiane. In particolare avrebbe avuto un seguito l’amicizia con «quel mostro di erudizione» che era Celestino Cavedoni, che avrebbe a lungo collaborato con il “Bullettino Archeologico Sardo” fino alla morte, avvenuta nel 1867. A Modena tra gli altri aveva conosciuto «l’unico rampollo del celebre Muratori», il canonico Soli Muratori, mentre a Parma aveva approfondito col cav. Pezzana le problematiche poste dalla tabula ipotecaria di Veleia, «che ha una certa rassomiglianza con la nostra tavola di bronzo di Esterzili» (che sarebbe stata scoperta solo quasi trent’anni dopo)[31]. A Milano aveva conosciuto G. Labus, «distinto archeologo» ed «epigrafista aulico», ricordato più volte successivamente, che gli suggerì di raccogliere in catalogo i bolli sull’instrumentum domesticum, dandogli l’idea del volume sulle Iscrizioni figulinarie sarde, che sarebbe uscito solo nel 1875[32]. Infine, l’egittologo Rossellini e tanti altri.

Rientrato a Cagliari, aveva dovuto fronteggiare l’ostilità del Magistrato sopra gli studi e del censore, che lo accusavano di non occuparsi «di Bibbia, distratto in far grammatiche ed in altre opere vernacole»; dopo la drastica riduzione dello stipendio, fu costretto a dimettersi dalla direzione della Biblioteca, che nel 1842 passò ad un amico, a Pietro Martini: una magra consolazione, anche se lo Spano si compiace di aver avuto «per successore un uomo dotto che si dedicò con intelligenza a far progredire quello stabilimento materialmente e scientificamente».

Lo Spano, esonerato dalla direzione della Biblioteca, poté dedicarsi ancora di più ai suoi veri interessi: visitò il Sulcis, Iglesias, Carloforte e Sant’Antioco, dove fece «una gran messe di monete romane (che ora si trovano nel gran (…) medagliere donato al Regio Museo), di iscrizioni anche fenicie, di bronzi e di molte edicole in trachite e di marmo, tra le quali una di Iside»; l’anno successivo fu ad Oristano ed a Tharros.

L’arrivo a Cagliari nel 1842 del nuovo arcivescovo, l’amico Emanuele Marongiu Nurra, segnò una svolta profonda, sul piano personale ma anche sul piano politico: egli «a più delle scienze sacre coltivò la storia e l’archeologia, in cui diede numerosi saggi» e nel 1848 capeggiò la Commissione parlamentare inviata a Torino per chiedere la “perfetta fusione” della Sardegna al Piemonte, finendo due anni dopo in esilio e riuscendo a rientrare in sede solo dopo 15 anni. Fu l’arcivescovo Marongiu Nurra ad anticipare l’ostilità del censore dell’Ateneo cagliaritano, che riteneva lo Spano un «inetto», perchè si era dedicato invece che alla teologia ed alla Bibbia alle «iniezie della lingua vernacola»: l’arcivescovo gli poté offrire «il canonicato della prebenda di Villaspeciosa (la più misera di tutta la diocesi), piccolo villaggio di circa 400 anime vicino a Decimo»: una tranquilla sinecura, inizialmente non gradita dallo Spano, che comunque gli consentì di superare l’avversione generalizzata che minacciava di travolgerlo, per dedicarsi a tempo pieno agli studi prediletti.

Guardando a quei difficili momenti, a distanza di trent’anni, lo Spano avrebbe lucidamente scritto: «liberato dal peso della cattedra e dalle lezioni della lingua ebraica e greca, fui più libero di dedicarmi agli studi di mio genio, cioè alla filologia ed all’archeologia sarda, spigolando il campo in cui aveva mietuto il Della Marmora». Egli non si vergognava di passare le sue giornate «nelle umili case dei contadini» e di viaggiare per le campagne sarde; nè si vergognava, «dove vedeva ruderi di antiche abitazioni» di frugare colle sue mani «il terreno fangoso, tirando fuori pezzi di stoviglie o di bronzi, monete ed altro, per esaminare a quale età potevano appartenere» e riempiendosi le saccoccie «di quei rozzi avanzi» che la sua guida ed altri che lo accompagnavano «credevano inutili trastulli». Nella primavera 1845 iniziò a visitare la Trexenta, riuscendo a stabilire attraverso i reperti provenienti dal nuraghe Piscu di Suelli «i nuraghi essere serviti d’abitazione»: una tesi che successivamente non avrebbe più abbandonato. Visitò poi Nora, «la patria di Sant’Efisio martire»[33], per osservare «i ruderi di quella famosa città, emula di Cagliari, e che si crede d’essere più antica», con la speranza di trovare qualche nuova iscrizione fenicia. Qui praticò uno scavo che egli stesso riteneva di scarsa importanza, raccogliendo monete ed alcuni frammenti epigrafici latini, «perché, per trovare oggetti che dimostrino la prima sua fondazione e civiltà, bisogna lavorare molto, onde scuoprire le prime tombe della sua necropoli, che tuttora non si è trovata». E ancora, alla luce delle osservazioni fatte nel volume delle Scoperte del 1876 e nelle Carte d’Arborea: «vi si vedono molti monumenti romani, l’acquedotto, il castello e una parte della città seppellita nel mare, dicesi da un terremoto».

Rientrando a Cagliari, aveva iniziato a raccogliere i suoi appunti, le sue note, gli oggetti, per servirsene in futuro, quando si sarebbe occupato «delle cose archeologiche sarde», lavorando intanto per il Vocabolario, riposandosi solo «nelle ore del coro» in Cattedrale, per «cantare e “labbreggiare”» coi suoi colleghi canonici.[34]

Nel 1846 iniziano gli scavi a Ploaghe nella loc. Truvine (la Trabine delle Carte d’Arborea), in compagnia del rettore Salvatore Cossu «persona intelligente e di genio per le antichità» morto nel 1868[35], che a proposito dell’etimologia di Plubium aveva saputo «indovinare» la spiegazione fornita quattro secoli prima da un immaginario Francesco De Castro[36], di amici, parenti e perfino della madre quasi ottantenne (sarebbe morta l’8 aprile 1864 a 93 anni di età): furono raccolte tra l’altro 35 monete di bronzo di età repubblicana, fino all’età di Augusto e tra esse una rarissima «moneta coloniale della città di Usellus», statuine di Cerere col modio, di Bacco e di satiri, lucerne col bollo di C. Oppius Restitutus [37], un pavimento in opus signinum, materiali presentati nella bella Memoria sull’antica Truvine, dedicata nel 1852 e ripresa sul IV numero del “Bullettino“: un testo che è purtroppo alla base dell’attività dei falsari delle Carte d’Arborea ed in particolare dei numerosi fantasiosi documenti su Plubium-Ploaghe, sul cronista Francesco De Castro, sull’«intrepido e coraggioso Sarra», su Arrio amico di Mecenate, inventore della scrittura stenografica (!) [38]; quest’ultimo sarebbe stato rappresentato dal celeberrimo pittore cagliaritano Giovanni Marghinotti in una tela conservata ora nella sala consiliare del Comune di Ploaghe[39]. Lo Spano, quanto mai soddisfatto del nuovo orizzonte di studi che poteva intravedere, ci appare decisamente impegnato a sostenere che «la Cronaca di Francesco De Castro Ploaghese ha tutti i caratteri della genuinità, sia nell’intrinseco dettato della storia che abbraccia, sia nella parte estrinseca del Codice, cioè la carta, il carattere e tutto quanto induce a formare il vero criterio, per distinguere la veracità e l’autenticità dei codici, e delle scritture antiche»[40]. Su tale posizione di accentuato campanilismo vedremo che il canonico dové però subire le ironie e gli «sghignazzi» di qualche confratello poco credulone[41].

Il tema del rapporti dello Spano con i falsari delle Carte d’Arborea non è stato del resto ancora pienamente affrontato: è vero che lo Spano fin da ragazzo si esercitava un po’ per scherzo nella tecnica delle invenzioni e citava «testi di filosofi e di santi padri inventati nella mia testa», disquisendo con gli amici dell’Accademia della Pala (così chiamata da una collina di Bonorva)[42]. E’ anche vero che lo Spano intrattenne rapporti più che amichevoli con Pietro Martini (che gli subentrò come direttore della Biblioteca Universitaria), con Salvatore Angelo Decastro (che gli subentrò come direttore del Regio Convitto) e con altri protagonisti della falsificazione. Eppure una partecipazione diretta dello Spano alla falsificazione, che proprio in quegli anni andava delineandosi, non è dimostrabile e forse neppure probabile. Basterà in questa sede osservare che rapporti di aperta ostilità lo Spano ebbe con Gaetano Cara, pienamente coinvolto come si dirà nella vicenda dei falsi bronzetti fenici e forse anche con Gavino Nino, il canonico bosano polemico con lo Spano fin dal 1862 ed accusato apertamente di campanilismo dieci anni dopo[43]; la versione sulla destinazione dei nuraghi adottata dal Cara ma anche dalle Carte d’Arborea (ad es. nella memoria su Plubium) è in conflitto con quella proposta dallo Spano.

7. Del 1847 sono gli scavi a Lanusei, alla ricerca degli idoletti fenici, le indagini a Talana e ad Urzulei, dove conobbe quello che sarebbe diventato il suo più caro «discepolo», Giuseppe Pani, poi vicario perpetuo di Sadali, il soggiorno a Dorgali, alla ricerca del luogo di provenienza del diploma militare di un ausiliario della seconda coorte di Liguri e di Corsi nell’età dell’imperatore Nerva, il soldato Tunila, pubblicato dal Baille[44]; e quindi Orosei, Siniscola, Posada «dove si diceva sorgesse l’antica Feronia» fondata dagli Etruschi, il Luguidonis Portus, Terranova (l’antica Olbia e poi Fausania), Teti, Oschiri, Nostra Signora di Castro, Bisarcio, Ploaghe e di nuovo a Cagliari: luoghi tutti visitati «per lo stesso oggetto linguistico ed archeologico»[45], che restituirono anche iscrizioni lapidarie, come l’epitafio di Terranova di Cursius Costini f(ilius) e di sua madre, «morti nello stesso giorno» (?)[46] o le epigrafi di Castro mal trascritte dallo Spano, oggi per noi purtroppo perdute[47].

Nel burrascoso 1848, dopo la cacciata dei Gesuiti e l’abolizione del posto di viceré, lo Spano sospese le sue ricerche archeologiche, impegnato a difendere la sua prebenda di Villaspeciosa, dove «ognuno gridava che non volevano canonici né pagar più decime»; sospesa anche la pubblicazione del Vocabolario (che sarebbe uscito solo tre anni più tardi), iniziò «a pubblicare qualche cosa di archeologia», in particolare curò l’edizione di un diploma militare probabilmente dell’imperatore Tito trovato a Lanusei, che fu dedicata alla memoria dell’unico figlio del cav. Demetrio Murialdo di Torino, avvocato fiscale generale dell’Isola, morto nella guerra d’indipendenza[48]; inoltre l’anno successivo (dopo la nomina del conte Alberto Della Marmora a Regio Commissario per la Sardegna), presentò un epitafio greco del Museo di Cagliari «di cui si erano date strane e ridicole interpretazioni», con una nota dedicata al prof. G. Pisano, lo stesso che avrebbe collaborato al I numero del “Bullettino[49]. Nel 1849 tornato a Porto Torres, lo Spano era rimasto per 10 giorni nella basilica di San Gavino, per poi raggiungere Ploaghe, dove proseguì gli scavi di Truvine; infine i nuraghi di Siligo, la tomba di giganti di Crastula, Bonorva, di nuovo Cagliari[50]. L’anno successivo fu «memorando per gli scavi di Tharros e per il congresso dei vescovi sardi in Oristano», promosso «per trattare affari di disciplina ecclesiastica e difendere i diritti del clero». Con la scusa della Conferenza episcopale, lo Spano aveva colto l’occasione per effettuare scavi a Tharros, in compagnia del presidente del Tribunale G. Pietro Era, dell’avv. Antonio Maria Spanu e del giudice N. Tolu. «Il principale scopo di portarmi in quella città – scrisse più tardi – fu però per praticare uno scavo in Tharros, dove mi portai nel 21 aprile (1850), e ci stetti tre giorni attendendo agli scavi che fruttarono un buon risultato, sebbene il tempo fosse cattivo, quasi le ombre dei morti fossero sdegnate contro di me, perché disturbava il loro eterno riposo»[51]. Fu pubblicata l’anno successivo una Notizia sull’antica città di Tharros, dedicata all’amico Demetrio Murialdo e nel 1852 tradotta in inglese per la British Archaeological Society[52]: un volumetto che avrebbe fatto circolare un po’ troppo la notizia delle straordinarie scoperte effettuate dallo Spano, gioielli, scarabei, vetri, altri oggetti preziosi, scatenando una vera e propria “corsa all’oro”: «concorsero da tutti i villaggi del circondario di Oristano, specialmente da Cabras, Nurachi, Milis, ecc., da Seneghe e San Lussurgiu. Fecero scempio di quel luogo, quasi fosse una California; erano circa tremila uomini lavorando a gara e con tutto impegno», senza che le autorità riuscissero ad arginare tale «vandalismo»[53]. Iniziamo a conoscere i nomi di coloro che poi acquistarono a caro prezzo i reperti ritrovati a Tharros, «orefici e signori di Oristano», che ci portano alle origini del collezionismo antiquario che si sarebbe sviluppato ad Oristano nella seconda metà dell’Ottocento, senza che la borsa dello Spano potesse «reggere a confronto di quella di tanti ricchi cavalieri e negozianti speculatori»: il cav. Paolo Spano, il cav. Salvatore Carta, il giudice Francesco Spano, il negoziante Domenico Lofredo, Giovanni Busachi, Nicolò Mura, nomi che troveremo negli anni successivi sul “Bullettino” e sulle “Scoperte“. Il Lofredo riportò lo Spano a Tharros nel 1852 col suo «bastimento», ma il Governo aveva ormai vietato gli scavi archeologici, chiudendo «la vigna dopo che erano fuggiti i buoi». Se ne andò perciò di nuovo a Ploaghe e poi a Codrongianus, per continuare le sue ricerche, pubblicando infine la Memoria sull’antica Truvine. A fine anno veniva nominato dal Ministro della Pubblica Istruzione membro del Consiglio Universitario di Cagliari: era la premessa necessaria per un ritorno in grande stile nell’Ateneo dal quale era stato espulso nel ’44. Rifiutata la proposta del Ministro Luigi Cibrario di presiedere il Consiglio, lo Spano continuava a pubblicare i suoi studi, orientandosi progressivamente verso l’archeologia e la storia antica: proprio del 1853 è la Lettera sul riso sardonico, dedicata all’amico Vegezzi Ruscalla, che aveva lodato lo Spano con una bella recensione all’Ortografia sarda nazionale, sul “Messaggiere” del 1840; il tema è quello dell’espressione omerica relativa all’atteggiamento minaccioso ed ironico di Ulisse contro i Proci in Odissea[54], un argomento fortunato, che sarebbe stato ripreso pochi decenni dopo nella tesi di laurea di Ettore Pais, e, più recentemente, da C. Miralles, Massimo Pittau, Enzo Cadoni e da ultimo da Giulio Paulis[55].

Nel maggio 1853 si svolsero a Ploaghe sull’altopiano di Coloru presso il nuraghe Nieddu le esplorazioni geologiche del gen. Alberto Della Marmora e del gen. Giacinto di Collegno, diretti poi in Ogliastra, verso la Perdaliana di Seui: quello sarebbe stato l’ultimo viaggio del Della Marmora in Sardegna che quattro anni dopo avrebbe pubblicato i due ultimi volumi del Voyage e l’Atlas[56].

L’anno successivo fu quello della pubblicazione della Memoria sopra i nuraghi della Sardegna[57]: per prepararla, lo Spano visitò le Marmille, Isili, Nurri, Mandas, poi di nuovo Ploaghe e Siligo, in compagnia di Otto Staudinger di Berlino. Nel luglio 1854 nominato preside del Regio Convitto e del Collegio di Santa Teresa appena riformati, entrò in relazioni molto amichevoli con quel Bernardo Bellini che gli avrebbe confidato «il segreto stereotipo», di cui si sarebbe servito «in alcuni disegni del “Bullettino“»[58]; per documentarsi ulteriormente sul funzionamento dei Regi Convitti, effettuò allora un nuovo viaggio «nel continente», a Torino, Alessandria, Moncalieri, Genova e poi per tre anni si dedicò con passione ai suoi studenti, seguendoli nelle lezioni, nello studio in biblioteca, negli esami, tanto da sembrargli «di stare in compagnia di angeli».

Infine, nominato Rettore della Regia Università di Cagliari il 5 settembre 1857 per volontà del Ministro Giovanni Lanza, Giovanni Spano aveva poi lasciato con molto rimpianto il Regio Convitto nelle mani dell’amico Salvator Angelo De Castro.

Il modello è quello seguito in Sicilia da Baldassarre Romano ed a Napoli da Giulio Minervini (direttore del “Bullettino Archeologico Napolitano“), mentre per le iscrizioni (che hanno uno spazio privilegiato alla fine di ciascun fascicolo) il riferimento costante è a Ludovico Antonio Muratori. I dieci volumi del “Bullettino“, per quasi 2000 pagine, con un totale di 540 articoli (di cui ben 398 firmati dallo Spano) coprono il periodo che va dal 1855 al 1864: dall’anno del colera a Firenze capitale, dall’unità d’Italia alla morte del Cavour, dalla realizzazione di nuove opere pubbliche in Sardegna fino alla costruzione della nuova rete ferroviaria in Sardegna a partire dal 1862 (il tratto Ploaghe-Sassari fu inaugurato il 15 agosto 1874).

Un periodo tormentato per lo Spano, segnato dai lutti e dalle disgrazie familiari, perfino da un processo per ricettazione[62], impegnato prima come preside del Regio Convitto (dal 1854 al 1857) e poi come Rettore dell’Università di Cagliari (dal 5 settembre 1857 al dicembre 1868), a cavallo della riforma della legge Casati del ’59. Un periodo ricco di soddisfazioni scientifiche, di scoperte importantissime come la trilingue di San Nicolò Gerrei[63] o la colonna dei Martenses a Serri[64]; ma anche di viaggi da Cartagine a Palermo, da Messina a Napoli, da Torino a Firenze. Il racconto dello sbarco in Tunisia a La Goulette è pieno di reminiscenze classiche, ma anche animato da una inattesa ironia: «Tosto messo piede a terra, ricordai con trasporto come Giulio Cesare, nel toccare il suolo africano, cadde e, stringendo un pugno delle arene infuocate, esclamò: “finalmente ti ho afferrato !”». Io, volendo fare altrettanto, mi cadde il cappello in mare e dovetti dare qualche moneta ad un forzato arabo per trarmelo dall’acqua»[65].

E poi le escursioni in Sardegna; gli scavi ancora a Tharros, a Capo Frasca ed a Neapolis nel 1858, i viaggi in Barbagia, nel Goceano, nel Marghine, nella Planargia, nel Sulcis, nella Trexenta, in Marmilla, in Gallura, fino a Caprera dove vide «l’abitazione del generale Garibaldi, il genere di coltura che v’introdusse, ma più i residui di antichità che vi aveva raccolto»[66]. E poi il ritorno costante a Ploaghe, la città natale, illustrata dalla scoperta di un prezioso codice (di dubbia provenienza), relativo all’antica Plubium.

Già nel 1865, pubblicando presso la Tipografia Arcivescovile una monografia su una serie di bronzetti nuragici trovati nel villaggio di Teti, il canonico inseriva in appendice le Scoperte Archeologiche fattesi nell’isola in tutto l’anno 1865, cercando così di recuperare il tempo perduto e di fornire le notizie (molto riassuntive) dei principali ritrovamenti effettuati. La novità è ben spiegata nell’introduzione: «Dacchè nel 1864 fu sospesa la pubblicazione del Bullettino Archeologico Sardo che per 10 anni avevamo costantemente sostenuto, abbiamo creduto a proposito di dare qui una rassegna dei monumenti antichi, e degli oggetti che nello scorso anno si sono scoperti in tutta l’isola, onde tener al corrente gli amatori delle antichità Sarde, fino a che sia il caso di poter riprendere la pubblicazione periodica di esso Bullettino». Dunque lo Spano pensa ad un’interruzione temporanea della Rivista, per le ragioni dichiarate esplicitamente ma anche forse per altre ragioni meno confessabili, collegate magari alla vicenda delle Carte d’Arborea, dal momento che nella serie delle Scoperte l’attenzione è concentrata sui ritrovamenti, sui dati di fatto, sui documenti epigrafici autentici, al riparo da ogni sospetto di falsificazione. Del resto, il ricorso alla Tipografia Arcivescovile per le sue pubblicazioni sembra coincidere con il ritorno a Cagliari dell’Arcivescovo Emanuele Marongiu Nurra (I marzo 1866), dopo quasi 16 anni di esilio: un amico personale, conosciuto a Sassari già nel 1823, lo stesso che nel 1845 gli aveva procurato la sinecura del canonicato di Villaspeciosa, quando il Magistrato sopra gli studi gli aveva notificato l’esonero dall’insegnamento, trascurato dallo Spano per «le inezie della lingua vernacola» e per i «gingilli dell’archeologia»[67].

La serie delle Scoperte, iniziata dunque nel 1865, prosegue regolarmente per dodici anni fino al 1876, non sempre con pubblicazioni monografiche autonome: la serie viene pubblicata in appendice a monografie su temi archeologici (1865, 1866), di numismatica (1867), di epigrafia (1868) o di storia dell’arte (1869, 1870, 1872), all’interno della “Rivista Sarda” diretta dallo Spano (1875), oppure con fascicoli autonomi (1871, 1873, 1874 e 1876), ciascuno di circa 50 pagine, dunque molto più scarni dei volumi del “Bullettino“, per un totale di oltre 600 pagine.

Sono questi gli anni delle grandi scoperte (la tavola di Esterzili, il cippo dei Giddilitani, l’epitafio del trombettiere della coorte dei Lusitani, il diploma di Anela, la dedica caralitana a Venere Ericina)[68], ma anche dei più alti riconoscimenti: la nomina a «membro nazionale non residente dell’Accademia delle Scienze di Torino, per la classe filologica e morale», al posto di Luigi Canina, deceduto nel 1856[69]; la nomina a Rettore dell’Università di Cagliari (5 settembre 1857); la medaglia offerta dai suoi studenti e dai suoi allievi per la partecipazione al V congresso preistorico di Bologna; la nomina a Senatore del Regno, effettuata con Regio Decreto del 15 novembre 1871, titolo utilizzato solo formalmente, che compare sulla copertina del volume relativo alle Scoperte Archeologiche del 1871. Sono gli anni della nascita a Cagliari della Facoltà di Filosofia e Lettere (a. 1863), dove venivano nominati per la prima volta i docenti di Storia (Giuseppe Regaldi), di Lingua greca e latina (Ollari), di Geografia antica (Vincenzo Angius).

9. Un’approfondita trattazione alle singole annate della Rivista e delle “Scoperte” è stata recentemente fornita da Paola Ruggeri[70]: in questa sede ci limiteremo perciò a definire negli aspetti più significativi lo sviluppo della rete di corrispondenti dello Spano, inizialmente impegnati all’interno del “Bullettino” e successivamente preziosi informatori per le “Scoperte“: un tema questo relativamente trascurato dagli studiosi, che però riesce ad illuminare in modo sorprendente lo sviluppo dell’archeologia isolana ancora alle origini, in un rapporto conflittuale tra falsificazione e documentazione storica.

Tra i corrispondenti compaiono 5 archeologi, 4 antiquari, 58 sacerdoti (compresi vescovi, canonici, teologi, vicari, parroci, ecc.), 2 frati, 8 insegnanti, 7 maestri elementari, 1 geologo, 1 scultore, 12 ingegneri, 3 architetti, 1 geometra, 1 disegnatore, 9 militari, 4 giornalisti, 6 notai, 12 magistrati, 17 avvocati, 14 medici, 4 farmacisti, 1 scenografo, 2 impiegati, 1 ottico, 5 orefici, 5 negozianti di antichità, 40 nobili, 3 studenti, 46 semplici cittadini, più 5 sindaci, 1 assessore comunale e 3 segretari comunali, su un totale di oltre 280 persone, di cui una decina parenti stretti dello Spano. E il dato è sicuramente sottostimato.

Più precisamente:

– archelogi, come Luigi Amedeo a Sassari (poi R. Ispettore agli scavi), Vincenzo Crespi, Filippo Nissardi (prima studente, geometra ed applicato dell’Ufficio del Genio Civile, poi Soprastante alle antichità), Pietro Tamponi a Terranova (Ispettore dal 1880), Filippo Vivanet (poi Soprintendente).

antiquari, come Gaetano Cara (morto il 23 ottobre 1877), Pietro Martini (morto il 17 febbraio 1866), Giovanni Pillito, Ignazio Pillito.

– sacerdoti, come Vittorio Angius (morto a Torino nel 1862), il teol. Atzeni ad Iglesias, Francesco Bianco a Buddusò, Salvatore Caddeo a Silanus, Sebastiano Campesi a Terranova, il teol. Gerolamo Campus a Ploaghe, Eugenio Cano vescovo di Bosa, Pietro Carboni a Gadoni, il teol. Salvatore Carboni a Siniscola, G.A. Cardia ad Esterzili, Fedele Chighine a Posada, Salvatore Cocco ad Austis, Salvatore Cossu a Ploaghe, il can. Salvatorangelo De Castro ad Oristano (protagonista della falsificazione delle carte d’Arborea), F. Del Rio a Ploaghe, il can. Antonio Demontis, Elia Dettori a Magomadas e poi a Sagama, il teol. Gavino Dettori a Buddusò, Gabriele Devilla a Nuragus (presidente di una «società» archeologica e poi Ispettore agli scavi), Michele Fedele Scano a S. Antioco di Bisarcio, Felice Fluffo a Decimoputzu, il teol. Antioco Loddo ad Ulassai, Antonio Manno ad Alà, il teol. Giovanni Marras, Gavino Masala a Monte Leone Roccadoria, il can. Francesco Miglior, A. Moi a Villasalto, il teol. Ciriaco Pala a Nuoro, il teol. G. Panedda a Sassari, Giuseppe Pani a Sadali (allievo prediletto dello Spano, morto nel 1865)[71], il can. Giovanni Papi a San Gregorio, Serafino Peru in Anglona ed a Terranova, il teol. G. Panedda, il teol. Antonio Michele Piredda a Flussio, Giuseppe Pittalis ad Orosei, il teol. Sebastiano Porru a Belvì, il can. Angelo Puggioni a Magomadas, il teol. can. V. Puggioni a Bosa, Antonio Satta a Chiaramonti, Giuseppe Luigi Spano a Sagama, il teol. Michele Spano a Perfugas, il can. Luigi Sclavo a Sassari, Salvatore Angelo Sechi ad Ittiri, Pietro Sedda ad Atzara, Giovanni Antonio Senes a Benetutti, Serra a Guspini, il teol. Filippo Felice Serra a Cargeghe, Salvatore Siddu a Sant’Antioco, Giovanni Sini a Ploaghe (cappellano militare), il teol. Francesco Spano a Borutta, Antonio Spissu a Serri, Salvatore Spano a Ploaghe, Antonio Spissu a Serri, il teol. Pietro Todde a Tiana, Allai e Tonara, il teol. G. Uras a Sestu, Pietro Valentino ad Olbia, Fedele Virdis a Ploaghe, Zaccaria Sanna a Scano Montiferro.

– frati, come il questuante Diego Cadoni ed il sac. Giusto Serra a Lanusei.

– insegnanti, come il prof. Francesco Antonio Agus a Ghilarza, prof. Pietro Cara a Cagliari, il prof. Antonio Carruccio ed il prof. Antonio Fais (che parteciparono con lo Spano al convegno preistorico di Bologna), il prof. Patrizio Gennari (direttore dell’Orto Botanico, direttore del Museo di Cagliari, Rettore dell’Università), il prof. G. Meloni (del R. Museo anatomico), il prof. G. Todde dell’Università, P. Umana a Cagliari.

– maestri elementari, come Francesco Fois a Ploaghe, Luigi Loi a Nuragus, Battista Mocci a Cuglieri, Gianangelo Mura a Gesturi, Antioco Puxeddu a Neapolis, Federico Saju a Cagliari, Pantaleone Scarpa a Macomer.

– geologi, come G.L. Cocco.

– scultori, come Giuseppe Zanda a Desulo.

– ingegneri, come Giorgio Bonn a N.S. di Castro, Francesco Calvi (direttore delle Ferrovie Sarde), C. Corona a Corongiu, Efisio Crespo (autore di alcuni modellini di nuraghi, morto il 3 aprile 1874), E. Duveau a Grugua, A. Fais a Laerru, Federico Foppiani a Gadoni, Carlo Heym nel Sulcis, F. Marcia a Cagliari, Giovanni Onnis a Mara Arbarei, G. Pietrasanta (per il cippo terminale dei Giddilitani), Bartolomeo Ravenna ad Ierzu.

– architetti, come Salvatore Cossu a Bosa, Angelo Ligiardi ad Oristano, Luigi Tocco a Cagliari (impegnato contro i falsi idoletti fenici).

– geometri, come Luigi Crespi.

– disegnatori, come Federico Guabella di Biella (autore della «carta nuragografica» di Paulilatino, deceduto «naufrago» nel 1866)[72].

– militari, come il col. Francesco Cugia, il gen. Conte Alberto della Marmora, il cap. Gavino De-Logu a Bortigali, Antonio Masala (alcaide a Foghe), l’ufficiale Roberto Meloni ad Alghero, il luogotenente Luciano Merlo, Antonio Roych (comandante militare di Iglesias), il cav. Ruffoni di Verona (capitano dei Bersaglieri, protagonista di uno scavo in un nuraghe di Macomer), l’ex brigadiere Giovanni Sechi di Ploaghe.

– giornalisti, come F. Barrago, G. De Francesco, Michelino Satta, G. Turco.

– notai, come A. Atzori (sindaco di Paulilatino), S. Casti, Salvatore Congiattu a Martis, Andrea Marras a Terranova (Regio Ispettore nel 1876), Raimondo Melis a Nuragus, Puligheddu ad Ales.

– magistrati, come il pretore Antonio Ignazio Cocco a Siniscola, il procuratore Carlo Costa, il pretore avv. Cugurra a Ploaghe, A. Dore a Bitti, G. Pietro Era ad Oristano, il pretore F. Orrù a Sant’Antioco, A. Satta Musio, Ignazio Serra, Antonio M. Spano, Francesco Spano ad Oristano, il pretore G.M. Tiana Frassu a Benetutti e Nulvi, N. Tolu a Tharros.

– avvocati, come G. Maria Campus a Terranova, G. Dore a Giave, Francesco Elena (tra il 1867 e l’anno della sua morte avvenuta a Tunisi per annegamento nel 1884), Francesco Mastino a Bosa, Sisinnio Meloni Piras a Selegas, A. Nurchis a Cagliari, Pirisi a Nuoro, Efisio Pischedda a Seneghe, Fara Puggioni a Cagliari, Francesco Ruggiu a Porto Torres, Sebastiano Salaris a Cuglieri, Giuseppe Sanna Naitana a Cuglieri (decisamente ostile ai falsari delle Carte d’Arborea, in polemica con Antonio Mocci), Antonio Sancio a Bono, Giovanni Spano a Sassari, Antonio Maria Spanu, Stanislao Tuveri a Barumini, Stefano Vallero a Sassari.

– medici come Giovanni Altara a Bitti, G. Camboni, Giacomo Congiu a Muravera, il chirurgo G. Crespi ad Armungia, Giovanni Vincenzo Ferralis a Bosa, S. Lallai a Nurri, Lampis a Guspini, S. Mereu ad Ierzu, Giovanni Mura Agus a Meana, Salvatore Orrù a Milis, G.M. Pilo a Bitti, Antonio Schirru, G.M. Spano a Ploaghe, F. Tamburini a Padria.

– farmacisti, come Battista Melis a Serramanna, Francesco Putzu a Laconi (protagonista degli scavi a S. Maria Alesa), Antonio Luigi Salaris a Cuglieri, Francesco Serra a Cagliari.

– scenografi, come Ludovico Crespi.

– impiegati, come Ignazio Agus (direttore del cimitero di Bonaria), A. David (direttore dell’Ufficio postale di Oristano).

ottici, come G. Claravezza a Cagliari.

orefici, come Efisio e Giuseppe Campurra, Giovannino Dessì, R. Ferrara a Cagliari, Fedele Puddu.

– negozianti, come Francesco Defraja a Cagliari, Angelo Gherardi Pisenti a Porto Torres, Domenico Lofredo ad Oristano, Manai «rigattiere di cose antiche», Pietro Solinas.

– nobili, come il cav. Raimondo Arcais (morto nel 1873), i visconti F. e Vincenzo Asquer, il cav. Barisonzo a Sumugheo, Giovanni Busachi, cav. Costantino Carta a Bortigali, la nobildonna Placida Carta nata Passino a Bortigali, Gavino Cocco a Burgos (figlio di Bonifacio, protagonista della rivoluzione angioiana), Giuseppe Luigi Delitala per gli scavi di Cornus, il cav. D. De Filippi a Baunei, il conte C. De Magistris, il cav. Raimondo Dettori «nostro antico discepolo e amico» a Padria e Villanova, il cav. Peppino Di Teulada, Benvenuto Dohl (proprietario delle Saline di Cagliari), Iessie Dol nata Craig, il sen. Domenico Elena (prefetto di Cagliari), il cav. Battista Fois ad Iglesias, il cav. Domenico Fois Passino a Mulargia, Anna Galeani, il cav. Garrucciu a Fluminimaggiore, il sen. G.M. Grixoni, il cav. Francesco Grixoni, il conte Lostia a Nora, A. Manca Bitti a Nule, il cav. Sisinnio Paderi, il cav. Emanuele Passino a Tempio, il cav. Giuseppe Passino ad Abbasanta, Carlo Peltz a Cagliari, il cav. Paolo Pique (console generale di Francia), il conte Gioachino Pinna a Macomer, cav. A. Saba di Cheremule, il marchese Enrico di San Giust a Teulada (poi Barone), il cav. Francesco Antonio Satta a Florinas, il cav. Serpieri a Carcinadas, Pietro L. Serralutzu a Cuglieri, il cav. Stanislao Sini a Cabras, cav. Maurizio Sulis a Cagliari, il cav. Efisio Timon, il cav. G. Todde a Villacidro, il cav. Rocco Vaquer a Villamar, Eugenio Vaquer a Villasor.

– studenti come Efisio Garau Perpignano a Grugua, Lodovico Paulesi in Trexenta, il cav. Peppino Siotto a Sarrok.

– semplici cittadini, come Francesco Bagiella a Cheremule, Gavino Carta ad Ardara, P. Paolo Cesaraccio a Ploaghe, Francesco Cocco a Torralba, Proto Sanna Corda a San Vero, A. Corrias a Siniscola, Federico Dettori a Padria, Francesco Todde Floris a Tortolì, Teodoro Floris Zanda a Fordongianus, Efisio Franchini a Bosa, A. Frau a Terranova, Ricciotti Garibaldi (il figlio del Generale) a Caprera, Serafino Gaviano ad Abbasanta, Franceco Manconi a Macomer, Giuseppe L. Manconi, Michele Mancosu a Neapolis, Francesco Marogna a San Michele di Plaiano, il capo mastro Domenico Martinez a Torralba ed Ardara, Igino Martini di Quartu, Giuseppe Meloni a Norbello, S. Meloni a Cagliari, Monserrato Muscas, Antioco Murgia («liquorista») a Macomer, Giovanni Palimodde Salis ad Oliena, Giovanni Antonio Paulesu a Senorbì, Guglielmo Pernis ad Oristano, Antonio Picci a Sestu, G. Maria Pilo-Piras a Bitti, Felice Porrà, F. Saccomanno a Serdiana, Giovanni Antonio Satta a Florinas, Celestino Secchi a Nuragus, Giuseppe Maria Senes a Nule, Virgilio Serpi a Barumini, Antonietta Serra Pintor a Lei, Efisio Serra, Battista e Martino Tamponi a Terranova, Battista Tolu a Tharros, P. Usai (bidello dell’Università), Rodolfo Usai a Terranova, Fiorenzo Virdis a Tissi, Francesco Angelo Zonchello Niola a Sedilo, Giuseppe Maria Zucca a Baressa.

Tra tutti si segnalano i parenti dello Spano, come Domenico Figoni (che volle ricostruire il nuraghe Nieddu di Codrongianus), Tommaso Satta Spano, sindaco di Ploaghe, il teol. Michele Spano a Perfugas, l’ex brigadiere Giovanni Sechi di Ploaghe, il teol. Francesco Spano a Borutta, Govanni Luigi Spano (fratello di Govanni, cognato del Fiori Arrica), Sebastiano Spano a Ploaghe.

Infine amministratori comunali ed in particolare sindaci, come il notaio A. Atzori a Paulilatino, Antonio Pinna ad Osidda, l’avv. Antonio Sancio a Bono, il cav. Tommaso Satta Spano a Ploaghe, Salvatore Susini a Sant’Antioco, avv. Stanislao Tuveri a Barumini; assessori come il dott. G. Sini a Ploaghe; e segretari comunali, come A.G. Cao a Villasalto, Raffaele Puxeddu Manai a Sedilo, oppure a Villasalto.

10. Il quadro complessivo, pur assolutamente parziale e, se si vuole, al momento assolutamente provvisorio, rende bene lo svilupparsi di una rete di informatori, corrispondenti, amici, collaboratori dello Spano: persone alcune volte conosciutissime, più spesso per noi soltanto dei nomi, espressione comunque di un’élite di appassionati, motivati da un forte amor di patria: con il loro aiuto lo Spano è riuscito a controllare tutta l’isola, dalla Gallura all’Ogliastra, dal Sulcis alle Barbagie, per poi arrivare a costruire una struttura che nel tempo vediamo consolidarsi e rafforzarsi, fino ad arrivare negli ultimi tempi alla nascita del R. Commissariato per i musei e scavi di antichità della Sardegna (affidato inizialmente allo Spano fin dal 1875), con un Soprintendente, con una rete di direttori di musei, di Soprastanti e di Ispettori, alcuni dei quali molto qualificati (come Andrea Marras e Pietro Tamponi a Terranova, Luigi Amedeo a Sassari, Battista Mocci a Cornus, Gabriele Devilla nel Sarcidano, ecc.). Ci sono poi i collaboratori diretti dello Spano, i discussi Pietro Martini ed Ignazio Pillito, Filippo Vivanet, Vincenzo Crespi (per il Mommsen vir peritus et candidus)[73], soprattutto gli allievi prediletti Giuseppe Pani (morto a Sadali nel 1865) e Filippo Nissardi, che seguiamo giovanissimo studente a partire dal 1867, per lungo tempo, fino alla nomina di Ettore Pais a direttore del Museo di Cagliari. Proprio il Nissardi fu il vero erede dello Spano, che lo giudicava «adorno delle più belle virtù», «valente disegnatore», di cui «tutti si augurano che diventerà col tempo un vero archeologo che supplirà il vacuo di quelli che vanno a mancare per l’età nella patria».

In qualche caso abbiamo notizia della nascita di vere e proprie «società» archeologiche, sostenute ed incoraggiate dallo Spano, come quella presieduta dal parroco di Nuragus Gabriele Devilla (poi Regio Ispettore agli scavi per la Giara di Gesturi), che scavava nel sito dell’antica Valentia ed era composta da Giuseppe Caddeo, Salvatore Deidda, Cristoforo Mameli, Francesco, Luigi, Paolo e Vittorio Matta, Lodovico Trudu, Giuseppe Zaccheddu. Oppure la «società» che nel 1867 iniziò gli scavi nella necropoli punico-romana di Tuvixeddu a Cagliari, composta da Antonio Roych, Michele Satta, Efisio Timon, Vincenzo Crespi. E poi la neonata «Società Archeologica» fondata nel Sulcis ed a Capoterra dall’ingegnere minerario Léon Gouin. Ancora a Perfugas, dove si era «costituita in seguito una società per esplorare regolarmente quel sito» ed a Laerru, gli scavi di Monte Altanu, svolti con poco profitto da «una società» di privati cittadini, così come a Cornus, dove «sono state fondate società che vi rimasero più d’un mese, attendendo ai lavori che fruttarono un’immensa quantità di urne cenerarie in vetro, e di fiale, e guttarii in vetro di ogni colore di cui sono piene le private collezioni». Infine la Società Archeologica Sarda, nata nel 1872, che «perì il giorno che è nata», che doveva occuparsi della pubblicazione di un suo “Bullettino“. Del resto, gà nella Prefazione al VII numero del “Bullettino”, lo Spano aveva suggerito la nascita di un’associazione, di una vera e propria società o accademia; almeno aveva auspicato che «alcuni si unissero, per praticare ogni anno piccoli scavi in alcuni punti non ancora toccati dell’Isola, dove tuttora è seppellita la storia di quei popoli che più non sono».

Numerosissime le collezioni visitate dallo Spano e rapidamente presentate nel “Bullettino” e nelle “Scoperte“: per tentarne un elenco si possono ricordare i nomi dei proprietari, Giovanni Busachi, l’ing. Francesco Calvi (proprietario di una preziosa «dattilioteca»), L. Calvi, Salvatore Carta, il gen. L. Castelli, Raimondo Chessa (direttore della Banca Nazionale di Cagliari e membro dell’Instituto Archeologico di Roma), Giovanni De Candia, can. Salvatore Angelo De Castro ad Oristano, Francesco Grixoni, Domenico Lofredo ad Oristano, Giuseppe L. Manconi, S. Müller, Battista Mocci a Cuglieri, F. Orrù a Sant’Antioco, Ignazio Pillito a Cagliari, avv. Fara Puggioni a Cagliari, Antonio Roych (collezione poi acquistata dall’Amministrazione provinciale di Cagliari), il giudice Francesco Spano ad Oristano (collezione poi passata alla figlia Spano Lambertenghi e quindi ad Enrico Castagnino), Paolo Spano, il can. Luigi Sclavo a Sassari, il teol. Filippo Felice Serra a Cargeghe, il sac. Salvatore Spano a Ploaghe, il cav. Maurizio Sulis a Cagliari, il cav. Efisio Timon, Eugenio Vaquer a Villasor. E poi i reperti sardi conservati in altre collezioni, come il Mosaico di Orfeo, rinvenuto a Cagliari nel 1762 e fatto trasferire dal Ministro Bogino presso l’Accademia delle Scienze e poi presso il Museo Egiziano di Torino[74].

In questi aridi elenchi c’è veramente tutta la Sardegna, ci sono gli uomini di cultura e gli affaristi, c’è il ceto dirigente di un’isola ancora disattenta in genere ai problemi della nascente archeologia, sottoposta in continuazione ad atti vandalici, se il sindaco di Torralba era arrivato a far demolire una parte del nuraghe Santu Antine, per realizzare un abbeveratoio per il bestiame: eppure era un nuraghe reso celebre nel 1829 per la visita del re Carlo Alberto. Lo Spano invoca ancora una volta «una commissione conservatrice di antichità» che garantisca la tutela e la difesa del patrimonio archeologico isolano[75].

Fu lo Spano a recuperare un ritardo secolare, consentendo alla Sardegna di aprirsi alla conoscenza di moltissimi studiosi italiani e stranieri. I temi sollevati sono ancora oggi quanto mai vitali: la destinazione dei nuraghi, il collegamento con i Shardana, le fasi della romanizzazione, la localizzazione del tempio del Sardus Pater, che lo Spano pensava sul Capo Frasca, a S di Tharros, pur conoscendo le rovine di Antas, la cristianizzazione dell’isola.

I grandi scavi, svolti con la partecipazione diretta dello Spano: a Tharros, a Florinas ed a Mesu Mundu presso il Monte Santo nel ’57[76], a Tuvixeddu nel ’65 e nel ’67, nell’anfiteatro di Cagliari nel ’66, a Monteleone Roccadoria ed a Padria nel ’66, a Pauli Gerrei nel ’65; e poi Nora, Sulci, Neapolis, Forum Traiani, Cornus, Turris Libisonis, Olbia, infine a Ploaghe nei nuraghi Attentu e Don Michele citati nelle Carte d’Arborea, fino al’75: qui si sarebbero svolti secondo Giovanni Lilliu i primi scavi statigrafici in Sardegna[77]; gli altri scavi, di cui lo Spano fornisce informazioni e dettagli, come quelli del 1875 ad Osilo di Pio Mantovani e G. Arnaudo; a Tharros nel 1875 dell’avv. Domenico Rembaldi e del tipografo Giorgio Faziola di Firenze (quest’ultimo si sarebbe impegnato per la ristampa del “Bullettino“, ormai esaurito); inoltre le scoperte occasionali, gli scavi per la realizzazione di opere pubbliche (come la ferrovia di Porto Torres, la stazione di Cagliari), le analisi paleo-antropologiche, come quelle affidate a P. Mantegazza. Inoltre la politica di acquisti dei grandi musei internazionali, il British (con le dubbie attività di Gaetano Cara) ed il Louvre, con gli scavi di R. Roussel a Cornus, ma anche a Cagliari ed a Nulvi. E poi i materiali, le iscrizioni, ma anche i monumenti (teatri, anfiteatri, terme) ed i reperti dalla preistoria all’età medioevale, con particolare attenzione per l’età romana (armi, bronzetti, scarabei egittizzanti, amuleti, statue, lucerne, ceramiche, mosaici, monete, gioielli, vetri, sarcofagi, urne cinerarie, ecc.).

Possiamo seguire in diretta l’inaugurazione del nuovo Museo di Cagliari (avvenuta il 31 luglio 1859, quando fu scoperto il busto del Della Marmora), l’accrescersi delle collezioni (con la donazione di epigrafi puniche di Cartagine effettuata da N. Davis, con l’acquisto di intere raccolte e con la donazione della raccolta archeologica, che nel 1860 valse allo Spano una medaglia con l’effigie di Vittorio Emanuele II re di Sardegna)[78]. Eppure appena due anni prima era «un fatto che delle tante (lapidi) sarde che riporto, appena una n’è rimasta, che trovasi nel R. Museo di Cagliari», forse a causa dell’imprevidenza del direttore Gaetano Cara, che non proteggeva a sufficienza il patrimonio del museo, trattandolo come se fosse una sua proprietà privata.[79]

11. E’ soprattutto il “Bullettino Archeologico Sardo” a consentirci di definire il quadro dei collaboratori, perchè a parte i 398 articoli firmati dallo Spano ed i 5 articoli anonimi, 142 articoli sono firmati da amici e corrispondenti, anche se in qualche caso si tratta solo di ristampa di lavori pubblicati in riviste italiane o straniere: Pietro Martini è presente quasi tutti gli anni con ben 43 articoli, segue Celesto Cavedoni (direttore della Biblioteca di Modena, conosciuto dallo Spano fin dal 1839, difensore delle Carte d’Arborea ed in particolare del Ritmo di Gialeto, fino alla morte avvenuta nel 1870)[80] con 23, Pier Camillo Orcurti (primo assistente del R. Museo Egiziano di Torino, un «distinto egittologo», che «morì per isforzi di studio, disgraziatamente nel manicomio», che lo Spano conobbe personalmente a Torino nel 1856)[81] con 16, Vincenzo Crespi (assistente del R. Museo archeologico) con 11, Alberto Della Marmora con 5, il discusso archivista Ignazio Pillito e lo «scrittore di cose nazionali» Francesco Fiori Arrica con 4 (tutti pubblicati dopo la morte avvenuta nel 1855 durante l’epidemia di colera)[82], «il dotto e distinto archeologo» Raffaele Garruci[83] con 3; con due articoli François Bourgade (Cappellano della Cappella Imperiale di San Luigi di Cartagine, poi divenuto amico personale dello Spano dopo il viaggio in Tunisia del 1856)[84], Salvatore Cocco (rettore di Austis), Salvatore Cossu (rettore di Ploaghe), Giulio Minervini (che lo Spano conobbe a Pompei nel 1856: egli era «il regio bibliotecario, il continuatore del “Bullettino Archeologico Napolitano” ed il presidente dell’Accademia pontiniana»)[85], Salvatore Orrù (il medico chirurgo di Milis, noto per le scoperte di Cornus), il sacerdote Giovanni Pisano[86]; infine compaiono tra i collaboratori il celebre arabista Michele Amari (ministro della Pubblica Istruzione dal 1863), G. Brunn[87], Gaetano Cara, il conte Ippolito Cibrario «segretario del Gran Magistero della Sacra Religione»[88], figlio del più noto Luigi Cibrario (il Ministro al quale lo Spano doveva nel 1853 l’ingresso nel Consiglio universitario di Cagliari)[89], il conte Alberto De Retz, D. Detlefsen[90], Gaspare Gorresio (segretario dell’Accademia Reale delle Scienze di Torino, classe di scienze morali, storiche e filologiche), G. Henzen (segretario generale dell’Instituto archeologico di Roma, che lo Spano conobbe personalmente nel 1856)[91], il tedesco M.A. Levy, L. Müller[92], il frate Luigi Pistis, Vincenzo Federico Pogwisch che lo Spano conobbe a Messina nel 1856)[93], Antioco Polla, Antonio Spissu (rettore della parrocchia di Serri) ed il Conte Carlo Baudi di Vesme (pienamente coinvolto nella difesa delle Carte d’Arborea ed in particolare del Codice Garneriano).

Il quadro statistico complessivo delle collaborazioni al “Bullettino Archeologico Sardo” è stato già fornito da me in passato e non deve essere necessariamente ripreso in questa sede[94]: se estendiamo l’indagine alle “Scoperte“, abbiamo notizia di relazioni e rapporti amichevoli dello Spano con qualificatissimi studiosi italiani, molti dei quali conosciuti di persona durante il V Congresso preistorico di Bologna, svoltosi nel 1871, che fu l’occasione per lo Spano per presentare al mondo la civiltà nuragica, anche se con qualche interferenza del Cara, che nella circostanza fece distribuire il suo opuscolo sui “flagelli”, di cui si dirà: è il caso di Luigi Pigorini, prima direttore del Museo di Parma, poi a Roma direttore del Museo italiano preistorico ed etnografico, che avrebbe ricevuto nel 1876 almeno una ventina di oggetti sardi[95]. E’ il caso anche di Giuseppe Bellucci di Perugia, di B. Biondelli, direttore del Gabinetto numismastico di Milano (che fu a Cagliari, poi a Cartagine ed infine a Sassari nel 1865), di C. Capellini, di Giancarlo Conestabile di Perugia, del latinista G. Crisostomo Ferrucci, bibliotecario della Laurenziana di Firenze, di Gian Francesco Gamurrini, direttore del Museo di Firenze, di G. Gozzadini di Bologna («dotto ed archeologo rinomato»)[96], di Gregorio Ugdulena, di Atto Vannucci, conosciuto a Firenze nel 1862; ma lo Spano era in rapporti anche con il celeberrimo Giovanni Battista De Rossi, che conobbe a Roma fin dal 1856[97], e che seguì l’edizione di alcune iscrizioni paleocristiane della Sardegna. Dell’abate torinese Amedeo Peyron, così come di Carlo Promis si è già detto. I rapporti con Pasquale Tola, presidente della Società ligure di Genova, «attivo ed ammirato da tutti i membri che assistevano alle adunanze per la sua prontezza, dottrina ed eloquenza», «ingegno eminente, scrittore incomparabile e di gran genio, uno dei primi ingegni della Sardegna» non furono in realtà sembre buoni[98]; lo Spano del resto aveva seguito il Della Marmora nella polemica sull’edizione delle iscrizioni latine della Grotta delle Vipere, che nel Codex Diplomaticus Sardiniae appariva «pessima» ma anche «scorretta ed incompleta»[99].

Si è già accennato al profondo rapporto di amicizia e di collaborazione con il generale Alberto Ferrero Della Marmora, morto a Torino il 18 aprile 1863, ma anche con il padre Vittorio Angius (scomparso a Torino nel 1862 nell’«inedia e miserabilmente»)[100] e con il barone Giuseppe Manno, «gloria della Sardegna e dell’Italia, per i suoi dotti, eleganti e variati scritti», morto nel 1868, che fu in stretta relazione epistolare con lo Spano e che, a differenza di quanto normalmente si scrive, sembra parzialmente aver aderito alla falsificazione delle Carte d’Arborea[101].

12. Sarà però ancora più utile l’elenco completo dei corrispondenti stranieri dello Spano: il cav. Beulè di Parigi (poi Ministro della Pubblica Istruzione, «il quale si era portato in Cartagine per far scavi onde studiare e stabilire la topografia dell’antica Byrsa», che fu a Cagliari al Museo; «indi partì per Sassari per imbarcarsi col vapore di Marsiglia»)[102], Augusto Bouillier di Parigi, François Bourgade di Cartagine (per le iscrizioni fenicie), E. Bormann (per il cippo dei Giddilitani), Paulus Cassel (per la trilingue di San Nicolò Gerrei), François Chabas (per i Shardana), l’antiquario inglese N. Davis (apprezzato per il dono di 6 stele puniche da Cartagine)[103], E. Desjardins (ancora per il cippo dei Giddilitani), Gabriel De Mortillet (per i nuraghi), Iulius Euting (bibliotecario di Tubinga, in occasione del viaggio a Sassari ed a Porto Torres), Wolfgang Helbig (segretario dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica di Roma, che fu a Cagliari ed a Ploaghe nel 1875 e che l’anno successivo avrebbe dedicato allo Spano un lavoro sopra l’arte fenicia)[104], G. Henzen (segretario generale dell’Instituto archeologico di Roma, che lo Spano conobbe nel 1856)[105], Renato Laboulaye (per la tavola di Esterzili), Léon Gouin (ingegnere minerario nel Sulcis), M.A. Levy, il barone i Maltzan (che visitò la Sardegna nel 1868), Francisco Martorell «dotto signore di Barcellona» (che fu in Sardegna nel 1868, «venuto espressamente per visitare i Nuraghi Sardi e studiarli per poterne far paragone coi Talaioth delle Baleari»), I. Mestorf, Th. Mommsen (in Sardegna nell’ottobe 1877), Heinrich Nissen (in Sardegna nella primavera 1866, per reparare il viaggio del Mommsen), Valdemar Schmidt (del Museo di Copenaghen, conosciuto in occasione del congresso preistorico d Bologna), Otto Staudinger di Berlino (per le indagini preistoriche a Siligo del 1855, già nel primo volume del “Bullettino“), Pompeo Sulema (inviato da Cartagine in Sardegna da François Bourgade, per l’edizione delle iscrizioni fenicie del Museo di Cagliari), l’inglese Elisabetta Warne («bizzarra e stravagante», che si trattenne a Cagliari nel 1859 per alcuni mesi)[106], J.A. Worsaae (del Museo di Copenaghen, conosciuto in occasione del congresso preistorico di Bologna), ecc.

Non è possibile in questa sede ricostruire i dettagli dei singoli contatti, che pure in futuro meriterebbero di essere meglio studiati, alla luce soprattutto dell’ampio epistolario conservato presso la Biblioteca Universitaria di Cagliari e presso il Rettorato. Ci limiteremo pertanto a trattare solo alcuni nuclei tematici, con riguardo in particolare ai rapporti di amicizia dello Spano con alcuni studiosi tedeschi, soprattutto Otto Staudinger, Iulius Euting, Wolfgang Helbig, Heinrich Nissen, Theodor Mommsen, ma anche il Barone di Maltzan, che visitò la Sardegna tra il febbraio ed il maggio 1868 e che morì suicida a Pisa il 22 febbraio 1874[107]. Di lui lo Spano ricorda «i viaggi fatti in Oriente e in tutta l’Africa, sino al Marocco, esponendosi a tanti pericoli»; egli «parlava l’arabo come un musulmano e si associò ad una carovana con nome finto per visitarre La Mecca ed il sepolcro di Maometto»[108].

Il viaggio di Otto Staudinger è segnalato sul primo numero del “Bullettino“, mentre ripetutamente si elencano le recensioni positive che la Rivista aveva ricevuto in Germania. Si può però partire da una preziosa notizia registrata sulle “Scoperte” del 1870[109], a proposto del viaggio in Sardegna effettuato nell’ottobre 1869 dal «dotto Professore bibliotecario di Tubinga, che venne in Sardegna (…) collo scopo di studiare e copiare tutte le iscrizioni fenicie»: si tratta di Iulius Euting, che «passando da Sassari a Porto Torres per prender imbarco per Marsiglia», potè osservare con dolore una fase della distruzione dell’acquedotto di Turris Libisonis. Egli poté raccontare allo Spano le sue impressioni in una lettera successiva forse dei primi mesi del 1870: «quum ex urbe Sassari discederem, juxta viam viros vidi qui antiquum aquae ductum Romanorum, barbarorum more in latomiarum modum despoliantes, ferro et igne saxula deprompserunt, non sine dolore !». Dalle pagine del volume emerge la viva simpatia dello Spano per «il dotto giovine Bibliotecario di Tubinga» e per la causa prussiana: «se pure non sarà distratto dai suoi studj impugnando l’arma nel campo dell’atroce guerra per difendere la patria dall’inqualificabile aggressione gallica».

Ugualmente interessanti le notizie sul viaggio effettuato in Sardegna da Wolfgang Helbig, segretario dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica di Roma: lo studioso si trattenne a lungo a Cagliari nel 1875, raggiungendo come si vedrà più oltre lo Spano a Ploaghe, dopo la conclusione degli scavi[110].

13. Più importanti sono le notizie sul viaggio d Heinrich Nissen, in vista dell’edizione del decimo volume del Corpus Inscriptionum Latinarum, a cura dell’Accademia berlinese: nelle “Scoperte” del 1866 si segnala il passaggio nell’isola del «dotto archeologo» Enrico Nissen di Berlino, «per far un’escursione archeologica in Sardegna e studiarvi i monumenti figurati»; partito il I giugno 1866 per Sassari, «per prender imbarco per Ajiaccio», lo studioso tedesco, poté effettuare un fac-simile dell’epitafio di Proculus Colonus, inciso su una lastra rinvenuta tra le rovine del Palazzo di Re Barbaro a Porto Torres[111]. Lo Spano lo ricorda qualche anno dopo come «archeologo eruditissimo», segnalando che «conferimmo insieme su molti punti che riguardavano la Sardegna»: «per suo mezzo entrai in relazione e in corrispondenza col celebre Teodoro Mommsen, che fu in Sardegna per conoscermi in persona [!] nel 1877»[112]. Del resto, lo stesso Mommsen avrebbe scritto sul decimo volume del CIL: «ex nostratibus Henricus Nissen mea causa Cagliaritani musei titulo descripsit»[113]. Noi sappiamo che il Nissen restò in relazione con lo Spano, se nel 1867 gli segnalò alcune iscrizioni di classiari sardi da Sorrento, Napoli e Pozzuoli.

Noi possediamo molte informazioni sui rapporti tra Mommsen e lo Spano, a partire dal giudizio sulla falsità delle epigrafi del codice Gilj delle Carte d’Arborea, formulata nel 1870[114], fino all’edizione della tavola di Esterzili ed al burrascoso viaggio in Sardegna dell’ottobre 1877; sappiamo dell’ipercriticismo del Mommsen, che colpì ripetutamente (ed ingiustamente) lo Spano. Ad esempio sono note le riserve del Mommsen, sui toponimi Fogudolla, Foce dell’Olla, fiume Doglio, Torre d’Oglio e di Oglia, Sisiddu, Oddine, che a giudizio dello Spano conserverebbero tutti il ricordo dei Ciddilitani[115]: tutti toponimi attestati solo da documenti antichi, che lo studioso tedesco nel suo eccesso di ipercriticismo dubitava potessero appartenere alla falsificazione delle Carte d’Arborea: «nec recte opinor Spanus cum regione Oddine id composuit, vel cum antiqua turri ad fauces fl. Mannu dicta Torre d’Oglia in instrumentis antiquis, quae vide ne sint ex genere Arboreanorum»[116]. Ma, dando torto al Mommsen, il Pais qualche anno dopo avrebbe dimostrato la bontà delle intuizioni dello Spano, che collegava la parola ollam incisa sul lato stretto della lapide (collocato verso occidente) all’antica denominazione della foce e dell’approdo sul pittoresco Rio Mannu[117].

Del resto, i sospetti del Mommsen hanno sempre sullo sfondo il problema dei falsi, che nel 1877 sarebbe esploso con la visita dello studioso tedesco a Cagliari, un avvenimento a lungo atteso e temuto dallo Spano: «in questo mese o nell’altro deve arrivare il celebre Teodoro Mommsen (…). Io temo l’arrivo di questo dotto, perché nello stato in cui sono farò cattiva figura»[118]. In occasione di un pranzo ufficiale al quale sarebbero stati presenti tra gli altri Giovanni Spano, il Soprintendente Filippo Vivanet, il prof. Patrizio Gennari, il Mommsen avrebbe espresso giudizi pesanti sui falsari delle Carte d’Arborea, che arrivavano a negare la storicità di Eleonora d’Arborea[119], confermando di voler «smascherare l’erudita camorra» isolana[120]; egli avrebbe scherzato poi un po’ troppo pesantemente sui suoi propositi di voler condannare prossimamente la quasi totalità della documentazione epigrafica isolana, ed in particolare le «iscrizioni di fabbrica fratesca»[121]. Su “L’Avvenire di Sardegna” del 21 ottobre 1877 sarebbe comparsa una polemica lettera «d’oltretomba» firmata da Eleonora d’Arborea ed indirizzata a Filippo Vivanet: lo studioso sarebbe stato aspramente contestato per non aver difeso la storicità di Eleonora, di fronte all’«invidioso tedesco» ed all’«orda germanica» e per aver, con il pranzo, «digerito l’insulto fatto alla [sua] memoria». Anche il vecchio senatore Spano sarebbe stato strapazzato alquanto, tanto da essere considerato un traditore, per il quale si sarebbe suggerita una punizione esemplare: egli sarebbe dovuto diventare la «zavorra» utilizzata per il «globo aerostatico» sul quale il Vivanet avrebbe dovuto errare per sempre, lontano dalla terra sarda; eppure, «se al canonico Spano avessero toccato i suoi Nuraghi, quante proteste non si sarebbero fatte !». Dunque lo scontro si sarebbe progressivamente esteso nel tempo, fino a sfiorare lo Spano, a prescindere dal sostegno da lui assicurato ai falsari delle Carte d’Arborea[122]. Eppure proprio il viaggio del Mommsen doveva scatenare in Sardegna finalmente una salutare reazione ed un rapido processo di rimozione dei falsi, che avrebbe coinvolto lo stesso De Castro, lasciatosi andare ingenuamente nei giorni successivi con Enrico Costa e con Salvatore Sechi Dettori ad ammissioni sulla «vera storia delle carte», accennando a fatti precisi, a responsabilità, a veri e propri misfatti; chiamato a rispondere su “La Stella di Sardegna”, il De Castro si sarebbe per il momento sottratto dal fornire i chiarimenti promessi, per paura del «codice penale», ma anche per «ragioni di convenienza e di amicizia», continuando a polemizzare col Mommsen, che «non lesse mai queste cose e giudicò a vanvera, anzi ab irato»; un giudizio ripreso dal Pillitto, per il quale il De Castro avrebbe dovuto fornire «un farmaco al Mommsen per calmare la sua bile irritata dal Ghivizzani»; eppure il Sechi Dettori, in pieno accordo con il Vivanet, rivolgeva un appello al De Castro, al «nostro illustre archeologo Giovanni Spano», al «dotto Pellitu», al «cancelliere Poddighe, della cattedrale d’Oristano», nonchè al «commendator Giuseppe Corrias», perchè finalmente dicessero «il vero intorno a queste benedette pergamene», consapevoli «che la storia segna con maggior gratitudine i nomi di coloro che dissero tutta la verità intorno agli uomini ed alle cose, che non di quelli i quali sulle cose e sugli uomini vollero distendere un velo pietoso, che infine verrà squarciato dalla giustizia dei secoli»[123].

Fu comunque proprio il Mommsen a purgare lo Spano dall’accusa di essere coinvolto nella falsificazione, con il poco noto giudizio pubblicato nella parte iniziale del decimo volume del Corpus inscriptionum Latinarum: un prezioso giudizio, critico ma anche affettuoso e riconoscente: «Iohannes Spano (…) per multos annos ut reliquarum antiquitatis patriae partium, ita epigraphiae quoque curam egit Sardiniaeque thesaurum lapidarium non solum insigni incremento auxit, sed etiam sua industria effecit ut notitia ad exteros quoque perveniret. (…) Hoc magnopere dolendum est optimae voluntati, summae industriae, ingenuo candori bene meriti et de patria et de litteris viri non pares fuisse vires; nam titulos recte describere non didicit cavendumque item est in iis quae ab eo veniunt a supplementis temere illatis. Nihilo minus magna laus est per plus triginta annos indefesso labore his studiis Spanum invigilasse et multa servasse egregiae utilitatis monumenta, quorum pleraque, si non fuisset Spanus, sine dubio interiissent. Quare qui eum sequuntur, ut facile errores evitabunt, in quos aetatis magis quam culpa incidit, ita difficulter proprias ei virtutes aemulabuntur»[124].

Fu proprio il Mommsen a distinguere la posizione dello Spano («ingenuo candori») così come quella di Vincenzo Crespi («qui in museo bibliothecaque Cagliaritana mihi tamquam a manu fuit vir peritus et candidus») e naturalmente del più giovane Filippo Nissardi (collaboratore del Mommsen e dello Schmidt), da quella dei falsari delle Carte d’Arborea, tra i quali avrebbe incluso Pietro Martini ed Ignazio Pillito, sotto i cui auspici vennero in luce dal monastero dei minori conventuali di Oristano («ut aiunt») i codices Arboreani, tra i quali quel codice del notaio cagliaritano Michele Gilj databile tra il 1496 ed il 1498, con gli apografi di un gruppo di iscrizioni latine sicuramente contraffatte, inserite quasi tutte già nel II volume del “Bullettino“, compresa una iscrizione che citava il templum Fortunae di Turris Libisonis[125] e che dunque era successiva al ritrovamento avvenuto nel 1819 della base autentica pubblicata dal Baille[126]: «argumentis quamquam opus non est in re evidenti, confutavi fraudes imperite factas in commentariis minoribus academiase Berolinensis a. 1870 p. 100»[127].

Accantonata la questione dei falsi, molte novità si posseggono ora sull’edizione della tavola di Esterzili[128], un importantissimo documento epigrafico segnalato al Mommsen dall’Henzen e dal Nissen. Scrivendo al can. Spano il 13 gennaio 1867, lo Spano confessava con qualche imbarazzo di essere in procinto di pubblicare l’importantissima iscrizione, bruciando i diritti di chi l’aveva scoperta: «fidandomi nelle osservazioni del Nissen, che mi disse esser certissimo che il monumento si stamperebbe nell’anno decorso [1866] (e certamente un tal documento deve e vuole esser pubblicato subito), ho promesso per un foglio tedesco (l’Hermes) un articolo sopra questo bronzo, che verrà fuori nel Marzo di quest’anno. Pensavo io di agire con tutta prudenza, lasciando uno spazio di tre mesi interi fra la pubblicazione nell’Italia e la ripubblicazione mia; che certamente non amo io di sottrarre a chi appartiene con ogni diritto l’onore della pubblicazione. Ma ora non posso ritirare la mia parola e ritenere l’articolo promesso e scritto; non mi resta altro dunque di implorare la sua indulgenza, e di pregarla, se l’edizione di Torino non verrà fuori prima, di pubblicare sia a Roma nel Bullettino sia in dovunque altro periodico il semplice testo del monumento e di farmene consapevole, affinchè possa io aggiungere, che non faccio altro che ripubblicare un testo edito da lei»[129]. E, dopo l’arrivo del volume delle “Scoperte” dedicato all’antica Gurulis, con in appendice il testo dell’epigrafe di Esterzili, il 23 gennaio successivo: «Ne farò io il debito uso e così mi vedo tolto da questo dilemma, che per non mancare alla mia parola data all’editore dell’Hermes arrischiava io dissentirmi la pubblicazione troppo sollecita di un monumento non ancora fatto di pubblica ragione dallo scopritore medesimo»[130]

14. Un aspetto fin qui relativamente trascurato è quello relativo alla polemica dello Spano con l’odiato direttore del Museo di Cagliari Gaetano Cara, impegnato in commerci ed in affari, escluso dopo il primo anno da qualunque collaborazione con il “Bullettino“, protagonista della falsificazione dei così detti “bronzetti fenici” acquistati a caro prezzo dal La Marmora e dal Museo di Cagliari: un «antiquario moderno, per non dire ignorante, o meglio l’uno e l’altro», guardato con sospetto da chi, come lo Spano, si riteneva un Archeologo serio. Appare evidente che la rottura tra lo Spano ed il direttore del Museo di Cagliari non era ancora avvenuta nel 1855, se il discusso studioso era stato ammesso a collaborare (per la prima e l’unica volta) nel primo volume del “Bullettino“, con un articolo dedicato alla statua di Eracle di Stampace, che il Cara collega con l’epigrafe dedicata Divo Herculi, un falso cinquecentesco[131], che dava alla città il nome di civitas Iolaea: il tema delle origini mitiche della Sardegna è dunque presente già nel primo articolo della rivista[132]. Vent’anni dopo, nell’Iniziazione ai miei studi, lo Spano avrebbe dedicato al Cara (senza mai citarlo) pagine di fuoco, già con riferimento all’anno 1858, quando il direttore del Museo di Cagliari si era dimesso in coincidenza con l’inizio dei lavori voluti dal Ministero, che avrebbero portato all’inaugurazione del nuovo Museo (avvenuta il 31 luglio 1859, sotto la direzione di Patrizio Gennari), con l’adozione di un nuovo regolamento e con un più rigoroso controllo sulla politica degli acquisti: «Vedeva egli che avrebbe perduto l’autocrazia che per tanti anni aveva esercitata, dirigendo tutto il Regio Museo come se fosse stato un patrimonio di famiglia. Vile damnum ! Si può dire che dall’anno 1806, in cui fu fondato per munificenza del re Carlo Felice, non venne mai cambiato dal modo come lo lasciò il primo direttore De Prunner: era ristretto il locale, vi era una miscellanea e vi si accedeva da una sola porta»[133]. E l’anno successivo lo Spano precisa: «Anche gli affari del Museo, che meglio poteva dirsi, secondo la spiritosa frase del Promis, “un magazzino di rigattiere” procedevano regolarmente perché, dal dì che fu diviso e sistemato come sopra detto, non accadde più nessun disordine; giacché i professori furono emancipati dal così detto direttore del Museo»[134].

Il problema di fondo è ancora quello dei falsi, Carte d’Arborea ed idoletti fenici: come è noto il codice Gilj pubblicato dal La Marmora nel1853 conteneva in allegato secondo il Förster «una impudentissima falsificazione relativa ad idoli e ad antichità sarde»[135]. Le carte su cui erano disegnati i monumenti di antichità molto vicini ai falsi idoli sardo-fenici del Museo di Cagliari a giudizio del Loddo Canepa risultavano «aggiunte (non cucite) al protocollo notarile e differenti da questo per qualità, essendo più spesse e consistenti». E’ per queste ragioni che egli avrebbe ritenuto falsificate solo le pagine (i foglietti volanti) che contenevano i disegni con «figure puerilmente disegnate» con inchiostro rossiccio sbiadito[136]. Come si sa, fu Ettore Pais a rimuovere dalle vetrine del Museo di Cagliari gli idoletti falsi, acquistati per iniziativa e per la complicità di Gaetano Cara, già direttore del Museo di Cagliari, un personaggio odiato dallo Spano e negli ultimi anni anche dal La Marmora, che si era fatto ingannare, rimettendoci un patrimonio: come è noto criticando il ministro C. Matteucci che nel 1862 rifiutava di dimettersi, lo Spano aveva osservato riferendosi al Cara: «Tralasciando di altri improvvidi drecreti, si arbitrò di richiamare con decreto ministeriale un incaricato al Museo di antichità, nella persona dell’antico direttore ch’era già da tanti anni giubilato, in vece di confermare il professor Patrizio Gennari sotto il quale procedevano regolarmente gli affari del Museo. Alberto Della Marmora, che ben conosceva l’individuo e gli affari del Museo, fu tanto sdegnato di questa nomina fatta, ed a mia insaputa, che si presentò dal detto Matteucci minacciandolo che avrebbe tenuta un’interpellanza in Senato per aver richiamato chi non doveva richiamare»[137].

Negli anni successivi, la polemica covava ancora sotto la cenere e lo Spano non era più disposto ad accettare con pazienza le decisioni del direttore del Museo: ad esempio nel 1865 il ritrovamento di due «grandi» sarcofagi a Decimomannu in occasione dei lavori ferroviari era avvenuto in modo del tutto clandestino: «non si è potuto sapere cosa essi contenessero. Appena che si seppe la notizia, vi si portarono il Direttore del R. Museo in compagnia coll’Applicato allo stesso Stabilimento: ma fu mistero»[138]. Lo Spano registrava puntigliosamente sulle “Scoperte” gli acquisti effettuati dal Cara, quasi volesse impedire traffici e commerci a danno del Museo. C’è un’eccezione nella regola adottata di non citare mai per nome l’avversario: nel 1874 il cav. Gaetano Cara compare un’unica volta nelle “Scoperte“, a proposito di un sigillo notarile del XIV secolo: è una piccola deroga al fermissimo proposito di ignorare totalmente l’attività del rivale[139].

I rapporti si erano ulteriormente guastati dopo la nomina dello Spano a Commissario dei Musei e Scavi di antichità in Sardegna, posizione che gli consentiva di considerare un suo “sottoposto” il direttore del Museo di Cagliari. L’occasione di un nuovo violento scontro tra i due è data dal ritrovamento a Gadoni e ed a Lanusei di alcuni oggetti metallici, che costituiscono il pretesto per una sanguinosa polemica; oggetti che erano stati bizzarramente classificati dal Cara nella «classe dei flagelli», «come sono le discipline di cui si servono per penitenza di macerazione nei conventi, nei monasteri, e nelle chiese campestri i ladri e malfattori convertiti», e ciò secondo un anacronistico «giudizio d’un antiquario moderno, per non dire ignorante, o meglio l’uno e l’altro», un «nuovo Archimede»; in realtà si trattava per lo Spano di ornamenti metallici o di decorazioni militari. In particolare alcuni erano stati donati fin dal 1860 al Regio Museo di Cagliari dal Sac. Giusto Serra dei Minori Osservanti di Lanusei, anche se l’odiato Gaetano Cara non aveva indicato sull’inventario il nome del donatore, «ma vagamente cita sepolture di Giganti, Nuraghi di villaggi e campi aperti, in vece di testimoni oculari e viventi»: c’è sempre sottintesa sullo sfondo la polemica sui falsi bronzetti del Museo di Cagliari, introdotti proprio dal Cara e documentati sulle Carte d’Arborea, sulla cui provenienza il direttore del Museo aveva steso una copertura interessata, una vera e propria cortina fumogena, con gran rabbia dell’ultimo La Marmora. Ora lo Spano è preoccupato di distinguere e desidera indicare le circostanze dei ritrovamenti dei materiali autentici così come gli autori ed i protagonisti, il «certificato di battesimo» di ciascuno degli oggetti in bronzo introdotti nel museo. Lo Spano, con qualche perfido compiacimento, può ora citare per esteso un «critico e sensato articolo» di Angelo Angelucci, direttore del Museo d’Artiglieria di Torino, comparso sull’XI volume degli “Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino”, per il quale «certe anticaglie Sardesche» del Museo di Cagliari (presentate dallo Spano al V congresso preistorico di Bologna) potrebbero confrontarsi, secondo un’ipotesi già del La Marmora, con «le cordelline (aiguillets) usate ai nostri giorni dai militari», oggetti da considerarsi come «torques o phalerae», che «non ha molto il Cara impropriamente chiamò flagelli armi di bronzo offensive !». E aggiungeva, con riferimento al volume del Cara del 1871[140]: «e confortava questi la sua opinione portando ad esempio uno di quei flagelli adoperati dai Missionari nostri in quelle scene del teatro, e niente affatto da chiesa, con la quale spaventavano la parte dell’Uditorio che alle costoro flagellazioni prorompeva in grida ed in pianti, giurando e scongiurando di mai più peccare». Segue (alle pp. 20 ss.) una puntigliosa analisi delle descrizioni del Cara, considerate completamente sbagliate, puerili e fuorvianti, sottolineate da corsivi, punti esclamativi e punti interrogativi, tanto da poter esser riprese analiticamente, come «certi esempi riportati dalla vecchia e nuova Crusca» che «servono a provare errata la definizione di alcuni vocaboli».

Seguono a questo punto i commenti dello Spano, sulle banalità scritte dal Cara, personaggio tenuto sullo sfondo, di cui si continua ad ignorare il nome. Giova citare per esteso il brano: «il nostro sardo antiquario in quel tempo aveva mandato ai membri del congresso preistorico quell’opuscolo citato di sopra, per sentire il loro parere, spoglio affatto dell’ambizione di rigettare qualunque giudiziosa osservazione (p. 5), ed ecco da uno di essi è stato ben servito di giudiziose osservazioni. Tutti fecero meraviglie in leggere questa sua strana opinione, non che nel niegare l’esistenza dell’età della pietra ! Tanto più che quelle che dice lance taglienti, sono tutte lavorate con punti simmetrici a dischetti stellati e con ornamenti geometrici, per indicare un dono, che sarebbe stato ridicolo in un’arma di punizione. Del resto non meritava la pena che il ch. Angelucci lo ribattesse così colla logica, perché era ben flagellato da sé. Aggiungi che di questi flagelli ve ne sono così piccoli che non sarebbero serviti che a flagellare fanciulli. Altri poi ve ne sono di diverso genere che non danno l’idea di flagello che nell’immaginazione di un antiquario senza criterio»[141].

Ma il Cara non è ancora completamente servito: lo Spano coglie l’occasione ghiotta anche per polemizzare con «un opuscolo di 22 pagine», stampato a Cagliari nel 1876[142], nel quale «l’autore dei detti Flagelli» polemizzava a proposito della destinazione dei nuraghi con il Barone Enrico di Maltzan, caro amico dello Spano, che aveva visitato la Sardegna dopo il celebre viaggio in Tunisia, pubblicando il suo volume nel 1869 e finendo suicida a Pisa nel 1874[143]. Il canonico poteva ora pubblicare il parere di Gabriel de Mortillet, comparso sulla “Revue prehistorique d’antropologie” del 1876, che ammetteva la validità tesi dello Spano, per il quale i nuraghi erano «semplici abituri fortificati», non «monumenti commemorativi di vittorie riportate dai Capi di Tribù», non «templi dedicati al sole», non «specole per sorvegliare le escursioni dei pirati» oppure «torri d’osservazione», non tombe o sepolture. Ben diverse erano invece le tesi espresse sull’«opuscolo» del 1876 dal Cara, che forse senza mai aver visitato uno solo nuraghe, «niega l’opinione di quelli che hanno scritto con scienza sopra di essi»; egli «niega specialmente che non siano state abitazioni, strapazzando il testo della Genesi urbem et turrim, sebbene quella nota della pag. 10 debba attribuirsi ad altri, cioè ad uno pseudo Biblico, suo pari amico, senza manifestare alcuna nuova opinione sull’origine ed uso per cui furono costrutti i sardi Nuraghi, mi limito a poche considerazioni sull’opinione già emessa che i medesimi edifizii siano serviti a stabili abitazioni». Chi sia lo «pseudo Biblico, suo pari amico» non è chiaro, ma forse si può pensare al can. Francesco Miglior (o piuttosto “Peggior”), anziché al giovane avv. Francesco Elena, autore nel 1878 di un volume Sopra una iscrizione fenicia scoperta in Cagliari, dedicato a Gaetano Cara (già defunto). E aggiunge ora lo Spano: «il bello si è che per provare che non sono serviti di abitazioni adopera li stessi disegni, e li stessi legni di cui si servì il Della Marmora, e si è pure servito il Maltzan, che sono gli identici della nostra Memoria, che gli abbiamo favoriti, perché ce li dimandò, con fine dal lettore qualificabile». E poi: «noi tripudiavamo di gioja appena che vidimo il frontispizio di questo libro, e gridammo allegri euvjreka ! (eureca, eureca), ma invece era l’Eureca d’una Commissione. Manco male che questa Eureca dei Nuraghi non l’aveva fatta nell’anno 1871 quando mandò i flagelli all’esposizione di Bologna, e noi vi abbiamo esposto quattro modelli diversi di Nuraghi Sardi tra i quali uno costrutto dal Crespi». E più in dettaglio: «dopo aver confutato tutte le ragioni che noi, il Maltzan, il Bellucci, ed il De Mortillet abbiamo addotto per provare che i nuraghi erano stabili abitazioni di privati, dacché quei primitivi uomini abbandonarono le spelonche, la vita cacciatrice e nomada, ed associarono l’agricoltura che richiede la dimora stabile dell’uomo, conchiude, facendo voti perché una Società di archeologi (non di antiquari) venga in Sardegna, e studi accuratamente e spassionatamente questi ed altri monumenti (anche i flagelli ?) per poter sentire il loro savio giudizio, che in tal caso sarebbe basato sopra le proprie osservazioni (pag. 22 ed ultima): e noi gli rispondiamo, quod petis intus habes, con questa triade di Archeologi che abbiamo citato». E poi una tremenda stoccata finale: «Più presto questa Società o inchiesta l’avrebbe dovuta richiedere per studiare accuratamente e spassionatamente gli altri monumenti che si trovano nel Museo, non della nostra collezione, perché tutti e singoli oggetti di cui è composta abbiamo citato nel Catalogo stampato nel 1860 la fede di battesimo. A far parte di questa inchiesta per esempio noi potremo suggerire per membro il ch. prof. B. Biondelli, che in tanti giorni che fu in Sardegna studiò coll’intelligenza che lo distingue il nostro Museo, oppure il prof. G. Bellucci di Perugia, che è il giudice più competente per distinguere i veri bronzi da sommo maestro, che analizzò anche la Base trilingue sarda nell’occasione dell’esposizione internazionale di Bologna».

L’Appendice I delle Scoperte del 1876 è ancora dedicata al Cara a proposito della recensione al volume del Barone di Maltzan, a firma di Giuseppe Bellucci[144]: il Maltzan aveva accolto la tesi dello Spano sulla destinazione dei nuragli, mentre c’era chi ancora si ostinava a parlare «di tombe o di Templi»: «Eppure alcuni nostri Sardi non sono convinti ancora, e tentano rinnovare le vecchie ed insussistenti teorie, ma più per spirito dispettoso e di sistematica opposizione che per amore della verità e della scienza indiscutibile». E più precisamente: «Uno di questi è il citato Cara, e la nostra meraviglia è che se ne sia avvisto oggi che è vecchio ed impotente, mentre questa nostra scoperta ha la data di 22 anni or sono[145], che fu accettata anche da quelli che prima avevano sposato e sostenuto diversa opinione, senza eccettuarne lo stesso Della Marmora, che difficilmente ritrattava le sue opinioni, che prima di emetterle le studiava a fondo né lasciava trasportarsi da leggierezza né da altro secondo fine». E infine: «Noi aspettavamo che l’autore, cioè il Cara, manifestasse in fine una sua opinione nuova sull’origine ed uso per cui furono costrutti i Nuraghi, ed a sua vece se n’esce col dire che lo ignora, e che venga una Società di Archeologi e studi accuratamente e spassionatamente questi ed altri monumenti ! Chi mai dei lettori avrebbe aspettato questa conclusione ? Scommetto che né manco quelli che avrebbero formato la commissione che egli ardentemente invoca». Sullo sfondo, sembrano rinnovarsi le preoccupazioni suscitate sei anni prima dalla nomina della Commissione berlinese sulle Carte d’Arborea, voluta incautamente dal Baudi di Vesme.

C’è poi un’ultima osservazione nel volume delle Scoperte del 1876, ed è relativa alla completezza della rassegna, firmata da chi si ritiene un Archeologo a tutti gli effetti e sospetta degli antiquari come il Cara: «e qui mettiamo fine alle scoperte che si sono fatte in tutto l’anno 1876, se non è che ne siano state fatte per conto del R. Museo dal ff. di Direttore, che ignoriamo, non ostante che egli non possa, per ordine ministeriale, acquistare nessun oggetto senza l’approvazione del R. Commissario ai Musei e Scavi dell’isola», cioè dello Spano[146].

Si è detto che il 1876 è l’anno della pubblica rottura tra lo Spano ed il Cara, proprio in conseguenza della pubblicazione dell’«opuscolo» sui nuraghi, anche se l’odiato direttore era rimasto totalmente escluso dalla collaborazione al “Bullettino Archeologico Sardo” fin dal secondo numero e per tutta la serie delle Scoperte Archeologiche (con una unica eccezione per il 1874). Nello stesso anno, su “La Stella di Sardegna”, pubblicando in quell’anno la serie di articoli dedicata all’Iniziazione ai miei studi, senza mai citarlo, lo Spano polemizzava nuovamente con il Cara, «il così detto direttore» del Museo di Cagliari. Il caso volle che per una singolare coincidenza il Cara morisse l’anno successivo, il 23 ottobre 1877, proprio durante il burrascoso soggiorno di Theodor Mommsen in Sardegna. Il figlio Alberto Cara avrebbe difeso la memoria del padre con l’opuscolo Questioni archeologiche, Lettera al can. Giovanni Spano, accusando il vecchio senatore di voler «il primato, anzi il monopolio» dell’archeologia in Sardegna, addirittura di voler «essere unico ed infallibile Pontefice» e di muoversi con lo «spirito di vendette personali»[147].

Lo Spano avrebbe seguito dopo pochi mesi il suo avversario, morendo il 13 aprile 1878 a 75 anni d’età, dopo aver pubblicato gli ultimi sui lavori, alcuni ancora sulla storia della Sardegna cristiana, come l’articolo Sulla patria di S. Eusebio per “La Stella di Sardegna”, V, 1878, pp. 231 ss. Egli lasciò sulla sua tomba la scritta patriam dilexit, laboravit, che il Vivanet considerò l’elogio più adatto e più giusto: non sarebbe mai uscito il volume dedicato alle Scoperte del 1877, mentre la monografia su Bosa vetus sarebbe stata pubblicata postuma, per volontà del vescovo Eugenio Cano[148].

15. Un tema che merita di essere ripreso, partendo dalle osservazioni di Paola Ruggeri[149], è quello del profondissimo legame dello Spano con il suo paese natale, Ploaghe, che abbiamo visto attraversare tutta la sua vita ed anche la sua attività di studioso e la sua produzione scientifica, dagli scavi del 1846 fino agli ultimi anni. Il tema delle mitiche origini del suo paese (identificato con la romana Plubium e con Pluvaca) è centrale nella produzione dello Spano e segna già gli anni giovanili, gli anni delle ricerche disordinate e appassionate alla scoperta di iscrizioni romane e di testimonianze analoghe a quelle, conservate nell’Università di Sassari, provenienti dalla colonia di Turris Libisonis.

Così si spiegano i fortunati scavi iniziati nel 1846 e proseguiti alcuni anni nella località Truvine a pochi chilometri da Ploaghe (la Trabine delle Carte d’Arborea), che vengono presentati nella Memoria sull’antica Truvine, pubblicata fin dal 1852, opera che in realtà è alla base della successiva falsificazione delle Carte d’Arborea, con un progressivo utilizzo dei dati di scavo. Già nel 1858 sul IV numero del “Bullettino Archeologico Sardo”, nell’articolo su un Codice cartaceo di Castelgenovese, e l’antica città di Plubium, il Martini presentava l’improbabile cronaca del XV secolo attribuita ad un Francesco De Castro plubiese, curiosamente omonimo del più noto falsario delle Carte d’Arborea, coinvolgendo anche lo Spano, che in appendice al volume pubblicava la ristampa della Memoria sull’antica Truvine, dedicata appunto al suo paese natale; nel 1859 del resto egli avrebbe stampato il Testo ed illustrazioni di un Codice Cartaceo del sec. XV contenente le leggi doganali e marittime del porto di Castel Genovese ordinate da Nicolò Doria, e la fondazione e la storia dell’antica città di Plubium, poi ripreso nel IX volume del “Bullettino”.

La Memoria sull’antica Truvine appare chiaramente alla base dell’attività dei falsari delle Carte d’Arborea ed in particolare dei numerosi fantasiosi documenti su Plubium-Ploaghe, sul cronista Francesco De Castro, sull’«intrepido e coraggioso Sarra», su Arrio amico di Mecenate[150]. Si comprende l’entusiasmo dello Spano, impegnato a sostenere che «la Cronaca di Francesco De Castro Ploaghese ha tutti i caratteri della genuinità, sia nell’intrinseco dettato della storia che abbraccia, sia nella parte estrinseca del Codice, cioè la carta, il carattere e tutto quanto induce a formare il vero criterio, per distinguere la veracità e l’autenticità dei codici, e delle scritture antiche»[151].

Si capiscono dunque le ironie di molti suoi cononoscenti, tanto che il canonico dovè subire gli «sghignazzi» di qualche confratello poco credulone[152]. Un episodio alquanto curioso e significativo ci viene raccontato proprio dallo Spano, imbarazzato per le accuse di campanilismo che gli venivano mosse da più parti: in occasione di un’escursione effettuata nel 1846 a Ploaghe (ben prima della pubblicazione della vecchia Memoria sull’antica Truvine), si era verificato uno scontro imbarazzante, che lo Spano riprende sull’VIII volume del “Bullettino Archeologico Sardo”: «Ricordo in proposito che in mezzo alla comitiva, all’ora del pranzo in campagna, io che aveva tutti gli oggetti raccolti presenti, feci un brindisi: «Viva Truvine che sarà nomato in tutta l’Europa!». Uno dei preti della comitiva, F.S., ne fece uno sghignazzo. Poco tempo dopo che stampai la citata memoria, venne nominato Truvine per l’iscrizione rara che in essa riportai di A. Egrilio Plariano decuriale scriba[153], nel «Bullettino di Corrispondenza archeologica» di Berlino, che si stampa in Roma. Si avverò il mio brindisi, che Truvine sarebbe stato nomato in tutta l’Europa».

Fin dal 1859, sul V volume del “Bullettino”, il Martini solleticando non poco il campanilismo dello Spano, aggiungeva che «anche la pur distrutta città di Plubium (posta colà dove ora sorge la grossa villa di Ploaghe) era abbellita da un’opera consimile» all’anfiteatro di Cagliari, che sarebbe stata costruita da «un architetto d’origine sarda, Marcus Peducius». Un secondo articolo era dedicato al commento delle fantasiose cronache attribuite a Giorgio di Lacon ed a Antonio di Ploaghe, sulla distruzione di alcune città costiere della Sardegna, in particolare Nora, Bithia, Carbia, Sulci, Fausania, nel corso delle prime incursioni arabe.

Sul VI volume del “Bullettino”, è lo stesso Spano, ancora con qualche ingenuità, a ripercorrere la storia della Sardegna, così come è tracciata nelle Carte d’Arborea, che documentano come «uomini insigniti del carattere pontificale non isdegnarono di applicarsi allo studio delle profane anticaglie»: ed ecco i vescovi di Ploaghe «che fama ebbero nella nostra Isola di sommi archeologi», Antonio ed Arnusio (quest’ultimo citato anche sulle Scoperte del 1867, omonimo dell’arcivescovo turritano Carlo Tommaso Arnosio che aveva presieduto la commissione di laurea dello Spano nel 1825). Ancora una volta i falsari erano riusciti a solleticare il campanilismo dello Spano, che appare quasi sprovveduto nel giudicare la storia antica di Ploaghe, la sua patria, che poco credibilmente tende ad inserire in un contesto più ampio: si noti la soddisfazione per l’inclusione di Plubium e Trabine nella nuova carta sulla Sardinia antiqua del Della Marmora e il ricorso continuo all’autorità del cronista Decastro Plubiese, a proposito delle gesta del valoroso Sarra nel corso delle guerre degli Iliensi, Balari e Corsi durante il governo di M. Pinarius Rusca e dei suoi successori (a partire dal 181 a.C.).

Sul VII volume del “Bullettino” ritornano le Carte d’Arborea, a proposito di Plubio-Plovaca-Ploaghe, città distrutta dai Vandali «con tremenda ira» e «con terribili macchine», perché i Plubiesi si erano resi colpevoli «con frode» per aver dato aiuto con vettovaglie e frumento alle vicine città di Castra e di Figulina, «da venti mesi assediate» dai Vandali.

Più rilievo ha, in appendice al IX volume del “Bullettino”, il Testo ed illustrazioni di un Codice Cartaceo del secolo XV contenente la fondazione e Storia dell’antica città di Plubium, con una revisione delle posizioni dello Spano, alla ricerca di una conciliazione tra dati storici e le strabilianti notizie derivanti dalle Carte d’Arborea.

Insomma, assistiamo allo svolgersi progressivo di una indagine fondata su un doppio registro, in relazione alle origini di Ploaghe: da un lato le ricerche archeologiche, che avevano prodotto vere e proprie scoperte di grande interesse; dall’altro la falsificazione che segue e si accompagna alle ricerche sul terreno. E’ il caso ad esempio, dopo gli scavi del 1846, delle monete di bronzo di età repubblicana, fino all’età di Augusto con una rarissima «moneta coloniale della città di Usellus», delle statuine di Cerere col modio, di Bacco e di satiri, delle lucerne col bollo di C. Oppius Restitutus [154], di un pavimento in opus signinum, degli altri materiali presentati più tardi sul volume IX del “Bullettino”, come un capitello in terra cotta con il bollo di L. Petronius Fuscus[155]; del resto anche le “Scoperte” testimoniano ritrovamenti archeologici di rilievo (vd. le le monete repubblicane di Ploaghe nelle Scoperte del 1872, le armi preistoriche delle Scoperte del 1873, la navicella votiva di età nuragica delle Scoperte del 1874). Ancora sulle Scoperte del 1872 il ritrovamento a Ploaghe di un sigillo di un canonico arborense, dà l’occasione allo Spano di effettuare un ampio excursus sulle Carte d’Arborea ed in particolare sul leggendario Francesco Decastro, che sarebbe vissuto alla corte di Ugone IV d’Arborea.

Anche grazie all’azione dei tanti informatori locali, a Ploaghe si forma lentamente una collezione archeologica, come quella nella quale confluì (come si legge nelle Scoperte del 1869) l’epitafio olbiense del liberto imperiale Ti. Claudi[us] Diorus, conservato presso il parroco di Ploaghe Salvatore Spano, sicuramente da collegarsi con i latifondi di Claudia Acte, la liberta amata da Nerone[156]. Del resto, l’orizzonte dello Spano è più vasto, se viene collocato nel territorio di Ploaghe anche il Nuraghe Nieddu di San Martino di Codrongianus, il cui modellino è presentato nelle Scoperte 1871 tra gli oggetti Sardi all’Esposizione Italiana nel Congresso internazionale d’antropologia e d’archeologia preistoriche tenuto in Bologna nel 1871.

Del resto sono molti i corrispondenti dello Spano, che gli segnalavano scoperte e novità: tra essi appare rivestire un ruolo rilevante il parroco di Ploaghe Salvatore Cossu, che scrive già sul primo numero del “Bullettino” un articolo sulle reliquie conservate dal 1443 nella chiesa di Santa Caterina; scomparso nel 1868, per lui nel 1872 viene pubblicata la Biografia del rettore Salvatore Cossu in appendice alle Operette spirituali composte in lingua sarda logudorese dal Sac. teol. Salvatore Cossu, rettore parrocchiale di Ploaghe, opera postuma. Tra gli altri amici e corrispondenti dello Spano originari di Ploaghe si citeranno P. Paolo Cesaraccio, Domenico Figoni, Domenico Martines, Billia Pirastru, Salvatore Spano, Sebastiano Spano, il precettore elementare Francesco Fois, «l’ex brigadiere ed uffiziale di posta in Ploaghe» Giovanni Secchi (nipote dello Spano), il teol. Gerolamo Campus, il parroco F. Del Rio, il sac. Fedele Virdis, il cappellano militare Giovanni Sini, i pretori G. Maria Tiana Frassu e avv. Cugurra, il magistrato Antonio M. Spano, l’avv. Giovanni Spano, i medici G.M. Spano e G. Camboni, il sindaco di Ploaghe Tommaso Satta Spano, l’assessore dott. G. Sini. Un personaggio importante nella vita dello Spano fu anche Filippo Arrica parroco di Sant’Apollinare a Sassari, originario di Ploaghe e docente di Teologia morale, poi divenuto vescovo di Alghero, membro della commissione di laurea dello Spano nel 1825.

Sull’altro versante trovano spazio i falsari: l’appendice al volume IX del “Bullettino” è assorbita per oltre 60 pagine dal Testo ed illustrazioni di un Codice Cartaceo del secolo XV contenente la fondazione e Storia dell’antica città di Plubium, con un bel fac-simile del Marghinotti e del Crespi che rappresenta «Arrio, sardo Plubiese», mentre «mostra a Mecenate le note compendiarie da lui inventate che Tirone, liberto di Cicerone, si aveva con tradimento appropriate», un documento che è alla base della tela del pittore cagliaritano Giovanni Marghinotti conservata al Comune di Ploaghe, che raffigura Arrio Plubiese «nell’atto di mostrare a Mecenate, seduto, un foglio “col segreto delle note compendiarie che Tirone, liberto di Cicerone, si aveva con tradimento appropriate”»[157]. Lo Spano cade nel tranello dei falsificatori, che pure avevano introdotto il testo del codice con un’espressione eloquente attribuita a Francesco Decastro, che diveniva concittadino dello Spano: «patria mea charissima Publium», l’attuale Ploaghe. Non vale la pena riprendere il testo del documento, che consente allo Spano di illustrare le antichità del suo paese natìo, senza il minimo sospetto di falsificazione. Per la Ruggeri, «un indizio solo dell’ingenuità o più probabilmente della connivenza dello Spano con i falsari delle Carte d’Arborea ?»[158].

Quel che è certo è che anche dopo il Bericht berlinese del 1870 e la condanna delle Carte d’Arborea, lo Spano continuò a mantenersi fedele a questa duplice impostazione, continuando le sue ricerche archeologiche a Ploaghe, testimoniate ad esempio sulle Scoperte del 1872, alla ricerca delle rovine della leggendaria Plubium e, a 5 km. di distanza, alla ricerca dei resti della mitica Trabine-Truvine (la «distrutta città»). Sulle Scoperte del 1874 un capitolo apposito è dedicato a Plubium-Ploaghe, dove lo Spano si era recato «per motivi di salute», trattenendosi dal 10 al 30 maggio 1874, ma svolgendo scavi archeologici con quattro operai intorno a due nuraghi Attentu e Don Michele, segnalati nelle Carte d’Arborea. Agli scavi presenziarono le «persone più colte del paese», elencate puntigliosamente una per una: il sindaco cav. Tommaso Satta, l’assssore dott. G. Sini, il pretore avv. Cugurra, il medico G.M. Spano, il parroco F. Delrio, «con altri soggetti del clero», il magitrato Antonio M. Spano (deceduto il 10 luglio successivo) e l’avv. Giovanni Spano, «espressamente venuti da Sassari»; infine i proprietari dei terreni dove sorgevano i due nuraghi, il medico G. Camboni e Billia Pirastru, «ambi ora zelanti affinché non si tolga più una pietra di quei vetusti monumenti, che così accrescono il valore ai rispettivi predj». Il vecchio Senatore coglie l’occasione per lodare Domenico Figoni (suo parente per parte di madre), che aveva fatto parzialmente ricostruire il nuraghe Nieddu di San Martino di Codrongianus, «che torreggia in faccia all’altipiano di Coloru dove passa la ferrovia di Ploaghe», nel tratto verso Sassari, inaugurata il 15 agosto 1874 con grandi festeggiamenti. Come è noto il nuraghe sarebbe stato visitato qualche anno dopo, il 26 ottobre 1877, da Theodor Mommsen. L’ing. Efisio Crespo (deceduto il 3 aprile 1874) aveva realizzato un bel modellino del nuraghe, analogo a quello preparato per l’esposizione di Bologna dallo Spano, poi donato al R. Museo di Parma.

Gli scavi al nuraghe Attentu, iniziati il 19 maggio, avevano messo in evidenza i resti di quella che allo Spano sembrò una villa romana e, negli strati inferiori, materiali di età preistorica e protostorica; gli scavi nel nuraghe Don Michele, svolti tra il 21 ed il 23 maggio, documentarono il riuso del monumento in età romana, con murature, tombe, urne cinerarie e, negli strati inferiori, frammenti di vasi e di olle, fusaiole, amuleti. Per Giovanni Lilliu si tratta dei primi scavi statigrafici in Sardegna[159];

Anzi, proprio nei suoi ultimi anni di vita, lo Spano sembra coinvolto in una frenetica attività di scavi, sostenuti con entusiasmo da ricchi signori e da semplici contadini: le ascie preistoriche di Monte San Matteo, gli scalpelli di Monte Ledda, infine la navicella di Scala de Boes, ormai in comune di Ardara; quest’ultima scoiperta consente allo Spano di tornare sul tema dell’origine orientale dei Sardi, alla luce dell’iscrizione di Medinet-Habou e degli studi sugli Shardana dell’egittologo F. Chabas, fatti conoscere in Sardegna fin dal 1873 con la pubblicazione della Memoria sopra il nome di Sardegna e degli antichi Sardi in relazione coi monumenti dell’Egitto illlustrati dall’egittologo F. Chabas.

Anche nelle Scoperte del 1875 si ritrova un capitolo su Plubium, «oggi tanto interessante e visitata dai forestieri per esser allacciata dalla rete ferroviaria Torres-Sassari-Ozieri»: il lavoro si apre con le domus de janas preistoriche di Monte Pertusu, con l’omonimo nuraghe, con i resti di un villaggio a Monte Cannuja; un’area straordinaria, che lo Spano conosce da oltre 50 anni e che ricorda con commosse parole: «io fin da giovinotto conosceva questa località allorché dal mio citato villaggio di Ploaghe mi vi portava per divertimento alla caccia di uccelli. Diventato grande, e dedicatomi allo studio delle antichità della mia patria, mi balenava qualche volta in testa di esplorare questo sito, e praticarvi qualche scavo: ma sempre mi mancò il tempo, perché credetti più opportuno di rivolgere altrove le mie ricerche nelle diverse volte che nella primavera mi portava in villa per rivedere i parenti, gli amici, e per bearmi delle dolcezze del luogo natìo».

Nel 1875 lo Spano poteva finalmente realizzare un sogno antico, in occasione del suo soggiorno a Ploaghe dovuto al desiderio di «profittare di far uso delle salutari acque minerali di San Martino, molto confacenti» ai suoi «incomodi, conforme la prescrizione del Medico». Aveva fino all’ultimo progettato di poter svolgere gli scavi nel mese di maggio in compagnia dell’amico e collega Wolfgang Helbig, segretario dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica di Roma, che gli «aveva scritto d’esser sulle mosse per venire in Sardegna, e che da Cagliari sarebbe venuto in Ploaghe» per visitarlo e per «conferire insieme». Lo Spano rammaricato ricorda: «io lo aspettai come un angelo, che mi avrebbe ajutato e somministrati lumi nel modo di eseguire i lavori che aveva preparato», ma l’Helbig, «occupato per istudiare e disegnare i monumenti sardi nel R. Museo di Cagliari» arrivò a Ploaghe solo il 27 maggio, quando lo Spano aveva già concluso gli scavi e stava per rientrare a Cagliari; lo studioso tedesco, accolto cordialmente, ripartì però in giornata per Sassari, accompagnato dal can. Luigi Sclavo e dal prof. Luigi Amedeo, che sarebbe stato di nuovo mobilitato due anni dopo in occasione della visita del Mommsen a Sassari. In una lettera del successivo 5 giugno l’Helbig ricordava l’accoglienza ricevuta dai Sardi, «presso i quali mi sono sentito come quasi nella Mark Brandeburg», che gli avevano «inspirato una specie di nostalgia che non finirà mai» e prometteva di tornare presto nell’isola[160]. Allo Spano l’Helbig avrebbe dedicato l’anno dopo un lavoro sopra l’arte fenicia[161],

Gli scavi dello Spano si erano svolti tra il 13 ed il 18 maggio in una grotta calcarea sulla sommità del Monte Pertusu, alla base dell’omonimo nuraghe: fu possibile documentare le successive trasformazioni tra l’età preistorica e l’età del ferro, attraverso i resti di selce e di ossidiana, le armi e le ceramiche; infine il riuso funerario in età romana. Gli scavi erano proseguiti poi in loc. Funtana Figu, presso le domus di Monte Cannuja e di Cantaru Lisone e nella pianura di Leseu, nella quale erano state raccolte monete repubblicane ed imperiali; infine erano state esplorate le sepolture romane ad arcosolio entro il colombario di Corona de sa Capella collocato «verso la parte di ponente» della collina, presso la fontana di Su Puttu. Risultati tutto sommato deludenti per lo Spano, che se ne era lamentato con il conte Baudi di Vesme, per il quale curiosamente le devastazioni subìte dalle domus preistoriche di Ploaghe non dovevano attribuirsi «ad ignoranti pastori, ma a dotti Plubiesi», ai tanti Giovanni Spano, appassionati cultori di storia patria, che si erano succeduti dopo il mitico Decastro citato nelle Carte d’Arborea. Il capitolo si conclude con un quadro della distribuzione dei nuraghi nel territorio di Ploaghe, sempre ricalcando la cronaca romanzata di Plubium.

Gli ultimi anni dello Spano ci appaiono sunque ancora fertili, caratterizzqati da un’attività febbrile, impegnatri in una infinita ricerca di tesori che possano testimoniare la fondatezza delle premesse teoriche e dei documenti arborensi. Non è importante stabilire in questa sede l’effettiva partecipazione dello Spano alla falsificazione delle Carte d’Arborea e la sua responsabilità nella raccolta di notizie incerte e poco affidabili: semmai, il quadro di questa straordinaria attività che si sviluppa sul piano della ricerca scientifica e sul piano romantico delle ritrovate origini mitiche di Ploaghe-Plubium, testimonia una passione straordinaria per la piccola patria lontana, una nostalgia senza limiti ed una simpatia senza ombre, che forse avvicinano lo Spano allo spirito nuovo dei protagonisti della straordinaria vicenda delle Carte d’Arborea, momento fondante, anche se distorto, di una “Sardità” vissuta come riscatto e come annuncio di tempi nuovi.


[1]* L’A. ringrazia la prof. Paola Ruggeri, alla quale si deve in parte il § 15, relativo specificamente ai rapporti tra lo Spano e il suo paese natale, Ploaghe.

[2] Vd. G. Spano, E. Pais, Bullettino Archeologico Sardo 1855-1884, Scoperte Archeologiche, ristampa commentata a cura di A. Mastino e P. Ruggeri (Biblioteca illustrata sarda), Editrice Archivio Fotografico Sardo, Nuoro 2000 ss.

[3] G. Lilliu, Un giallo del secolo XIX in Sardegna. Gli idoli sardo fenici, “Studi Sardi”, XXIII, 1973-74, p. 314 n. 2.

[4] Vd. E. Contu, Giovanni Spano, archeologo, in Contributi su Giovanni Spano, 1803-1878, nel I centenario della morte, 1878-1978, Sassari 1979, pp. 161 ss.; G. Lilliu, Giovanni Spano, in I Cagliaritani illustri, I, a cura di A. Romagnino, Cagliari 1993, pp. 31 ss.

[5] G. Spano, Iniziazione ai miei studi, a cura di S. Tola, Cagliari 1997.

[6] Spano, Iniziazione cit., p. 69.

[7] Spano, Iniziazione cit., p. 83: «Questa mia laurea venne onorata dalla presenza dell’arcivecovo nella qualità di cancelliere, che per l’ordinario delegava un canonico o altra persona, alla quale cedeva non la propina ma la tesi che tutti i graduandi dovevano stampare a loro spese». Per un Arnosio vescovo di Ploaghe, che sarebbe stato amico del giudice Mariano IV, ricordato nelle Carte d’Arborea, vd. Id., Abbecedario storico degli uomini illustri sardi scoperti nelle pergamente codici ed in altri monumenti antichi con appendice dell’Itinerario antico della Sardegna, Cagliari 1869, p. 17.

Il testo della tesi (Ex theologia dogmatum de SS. Patribus, nec non de traditionibus), è ora pubblicato anastaticamente in Guido, Vita di Giovanni Spano cit., pp. 52 ss.

[8] Spano, Iniziazione cit., pp. 82 s.

[9] Secondo Registro degli esami privati e pubblici (dell’Università di Sassari), II, 1810-1829, p. 201: «Sassari li 14 luglio 1825. Seguì l’esame pubblico di Laurea in Teologia del Sig.r Giovanni Spano Figoni di Ploaghe Semi(inarista) Trid(entino) con intervento dell’Ill.mo Eccell.mo monsig.r Arcivescovo D.n Carlo Tommaso Arnovio Cancell.re, del Pref.to Can.co Pinna, del Prof. Tealdi, delli D.ri Colleg(ia)ti Arrica, Mela, Canu, Fenu, D’Andrea, e Sanna e Colleg.le Emerito Cubeddu Pievano di Mores ed è stato a pieni voti approvato per cui venne ammesso dal Collegio e gli venne conferita la Laurea dal Promotore Quesada, di che».

Ringraziamo cordialmente il direttore prof. Antonello Mattone, la dott. Paola Serra ed il dott. Francesco Obinu per le preziose informazioni.

[10] Spano, Iniziazione cit., p. 124 n. 16: «Ad un padre conscritto venne in mente di propormi di dissertare sopra i nuraghi, tema preistorico, e sarebbe statto lo stesso che parlar delle stelle, né avrei avuto la gloria di squarciare il velo del loro uso, bensì di onorarli d’un poema latino, come il Bellini li onorò d’un poema italiano».

[11] Per una rapida biografia dello Spano, vd. L. Guido, Vita di Giovanni Spano, con l’elenco di tutte le sue pubblicazioni, Villanova Monteleone 2000, pp. 7 ss.

[12] CIL X 7946 = ILS 5526, vd. A. Mastino, P. Ruggeri, I falsi epigrafici romani delle Carte d’Arborea, in Le Carte d’Arborea. Falsi e falsari nella Sardegna del XIX secolo, Atti del Convegno “Le Carte d’Arborea”, Oristano 22-23 marzo 1996, Cagliari 1998, p. 231.

[13] Spano, Iniziazione cit., p. 55 e n. 18, con le osservazioni di Enrico Costa: «sebbene gli scavi li abbia fatti a casaccio, e con poca intelligenza, pure merita lode solo per aver dissotterrato quel cippo coll’iscrizione che ci ha fatto conoscere come l’edifizio era un tempio dedicato alla dea Fortuna, col tribunale ornato di sei colonne, restaurato dal prefetto di Sardegna Ulpio Vittore sotto l’imperatore Filippo, e non palazzo»

[14] G. Spano, Testo ed illustrazioni di un Codice Cartaceo del secolo XV contenente la fondazione e Storia dell’antica città di Plubium, Cagliari 1859, vd. “BAS”, IX, 1863, p. 120.

[15] Spano, Iniziazione cit., p. 55. Vd. le osservazioni di Enrico Costa alle pp. 64 s. n. 23: «Allorquando nel 1819 [1820] noi lo vediamo aggirarsi per le campagne della sua Ploaghe, arrampicandosi su per le vecchie muraglie, contemplando le macerie degli antichi monumenti e chiedendo ai geroglifici d’una pietra frantumata la storia di una generazione sepolta dai secoli, era come un glorioso preludio del genio per l’archeologia che doveva distinguere il fondatore del “Bullettino Archeologico” dove vennero raccolti, disegnati ed illustratri tutti i monumenti della Sardegna, per far conoscere ai posteri la storia dei nostri padri. Quei nuraghi infine, che fin dalla prima gioventù furono l’oggetto della sua curiosità, dovevano essere da lui studiati per toglierli più tardi da quel mistero in cui erano avvolti da migliaia di secoli».

[16] Spano, Iniziazione cit., p. 106.

[17] Spano, Iniziazione cit., p. 126 n. 31, cfr. Bonu, Scrittori cit., p. 309.

[18] CIL I2 2226 = X 7586 = ILS 1874 = ILLRP I, 141 = IG XIV 608 = IGR I 511 = CIS I,1, 143.

[19]CIL X 7946 = ILS 5526.

[20] Spano, Iniziazione cit., pp. 140 s.; vd. Bonu, Scrittori cit. p. 314.

[21] Spano, Iniziazione cit., p. 141.

[22] Spano, Iniziazione cit., p. 222.

[23] Spano, Iniziazione cit., p. 177.

[24] Spano, Iniziazione cit., p. 252.

[25] Spano, Iniziazione cit., p. 141.

[26] G. Spano, Storia e descrizione dell’Anfiteatro romano di Cagliari, Cagliari 1868.

[27] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 253.

[28] Spano, Iniziazione cit., pp. 145 ss.

[29] Spano, Iniziazione cit., pp. 148 s.

[30] Spano, Iniziazione cit., pp. 151 ss. In seguito lo Spano avrebbe pubblicato la Memoria sopra il nome di Sardegna e degli antichi Sardi in relazione ai monumenti dell’Egitto illustrati dall’Egittologo F. Chabas, Cagliari 1873.

[31] Spano, Iniziazione cit., pp. 155 ss.; per la tabula ipotecaria di Veleia vd. CIL XI, 1147; per la tavola di Esterzili, cfr. La Tavola di Estetrzili. Il conflitto tra pastori e contadini nella Barbaria sarda, in Atti Convegno di studi, Esterzili, 13 giugno 1992, a cura di A. Mastino, Sassari1993.

[32] Vd. Bonu, Scrittori cit., p. 312.

[33] Come patria di Sant’Efisio in realtà le fonti indicano Elia Capitolina, Gerusalemme.

[34] L’espressione ironica ma non irriverente è in Spano, Iniziazione cit., p. 176.

[35] Sul personaggio, vd. G. Spano, Operette spirituali composte in lingua Sarda Logudorese del sac. Teol. Salvatore Cossu Rettore Parrocchiale di Ploaghe, Opera postuma colla sua Biografia, Cagliari 1873.

[36] Vd. G. Spano, Testo ed illustrazioni di un Codice Cartaceo del secolo XV contenente la fondazione e Storia dell’antica città di Plubium, “BAS”, IX, 1863, p. 125.

[37]CIL X 8053, 157, l.

[38] Memoria sull’antica Truvine, Cagliari 1852; vd. “BAS”, IV, 1858, pp. 190-201. Vd. successivamente Testo ed illustrazioni cit.; vd. “BAS”, IX, 1863, pp. 113-161.

[39] Vd. infra n. 153.

[40] Spano, Testo ed illustrazioni cit., “BAS”, IX, 1863, p. 171.

[41] Spano, Iniziazione cit., p. 209 n. 12.

[42] Spano, Iniziazione cit., p. 79.

[43] Vd. G. Spano, Proverbi sardi trasportati in lingua italiana e confrontati con quelli degli antichi popoli, Cagliari 1871, 2a ed., ristampa a cura di G. Angioni, Nuoro 1997, pp. 83 s., s.v. Bosa: «Fare come fanno in Bosa. Quando piove lasciano piovere. La città di Bosa ha provveduto tanti proverbi, ed in vece di adontarsene, come fece con noi il can. Gavno Nino, in quell’opera che dicono Del capoluogo del nuovo circondario nel territorio della soppressa provincia di Cuglieri (Cagliari 1862, p. 8 e n. 2), se ne dovrebbe lodare. In Italia si ha lo stesso proverbio per Pisa. Fare come fanno in Pisa, lasciar piovere quando piove. L’origine si racconta in vari modi, ma si crede che dovendosai ivi tenere una fiera all’aperto, uno degli anziani del Senato insorse proponendo la difficoltà: come fare se piovesse ? Un altro, dicesi, rispose:

“Fare come si fa in Pisa”.

“E cosa ?”

“Se piove si lascia piovere”.

Il sig. Nino sarà contento di questa spiegazione ?».

[44] L. Baille, Diploma militare dell’imperatore Nerva illustrato, Torino 1831, cfr CIL X 7890 = XVI 40 = AE 1983, 449.

[45] Per gli studi linguistici dello Spano, vd. G. Paulis, in G. Spano, Vocabulariu sardu-italianu con i 5000 lemmi dell’inedita Appendice manoscritta di G. Spano, I, Nuoro 1998, pp. 7 ss.

[46] CIL X 7981, già nel I volume del “Bullettino“.

[47] Vd. G. Spano, in CIL X 7892.

[48] G. Spano, Sopra un frammento di un antico diploma militare sardo, Cagliari 1848, vd. “BAS” I, 1856, pp. 191-199 e CIL X 7853 = XVI 27, cfr. A. Mastino, P. Ruggeri, La romanizzazione dell’Ogliastra, “Sacer”, VI, 1999, pp. 23 s.

[49] G. Spano, Illustrazione sopra un epitafio greco del R. Museo di Cagliari. Lettera al prof. G. Pisano, Cagliari 1849.

[50] Spano, Iniziazione cit., pp. 181 ss.

[51] Spano, Iniziazione cit., p. 185.

[52] G. Spano, Notizia sull’antica città di Tharros, Cagliari 1851; Id., Notice of the discovery of the ancient city of Tharros, “Atti Società archeologica di Londra”, 1852.

[53] Spano, Iniziazione cit., pp. 185 s.

[54] Odissea u 301 s.

[55] G. Spano, Lettera al cav. D. Giovenale Vegezzi-Ruscalla sul volgare adagio Gevlw” Sardovnio”, «il riso sardonico», Cagliari 1853; vd. E. Pais, Sardavnio” gevlw”, “Atti R. Accad. Lincei”, Memorie di scienze morali, V, 1879-80, estr. Salviucci, Roma 1880 (si tratta della revisione della tesi di laurea, dedicata a Domenico Comparetti); vd. ora C. Miralles, Le rire sardonique, in Mevti”, Revue d’antropologie du monde gec ancien”, II,1, 1978, pp. 31-43; M. Pittau, Geronticidio, eutanasia e infanticidio nella Sardegna antica, in “L’Africa Romana”, VIII, Cagliari 1990, Sassari 1991, pp. 703-711; E. Cadoni, Il Sardonios gelos: da Omero a Giovanni Francesco Fara, in Sardinia antiqua, Studi in onore di Piero Meloni in occasione del suo settantesimo compleanno, Cagliari 1992, pp. 223-238; G. Paulis, Le “ghiande marine” e l’erba del riso sardonico negli autori greco-romani e nella tradizione dialettale sarda, “Quaderni di semantica”, I, 1993, pp. 9-23.

[56] A. De la Marmora, Voyage en Sardaigne ou description statistique, physique et politique de cette ile, avec des recherches sur ses productions naturelles et ses antiquités, Atlas, Paris 1857; cfr. G. Spano, Cenni biografici del conte Alberto Ferrero Della Marmora ritratti da scritture autografe, Cagliari 1864 ; Id., Mnemosine sarda, ossia ricordi e memorie di vari monumenti con altre rarità dell’isola di Sardegna, Cagliari 1864, tav. XXI n. 6.

[57] G. Spano, Memoria sopra i nuraghi della Sardegna, Cagliari 1864; una seconda edizione è in “BAS”, VIII, 1862, pp. 161-199; una terza edizione è del 1867.

[58] Spano, Iniziazione cit., p. 211 n. 36.

[59] Vd. A. Accardo, La nascita del mito della nazione sarda, Cagliari 1996, p. 16.

[60] G. Spano, Vocabolario sardo geografico-patroniomico ed etimologico, Cagliari 1872-73, p. 129 n. 18.

[61] Spano, Iniziazione cit., p. 194 e pp. 211 s. n. 38.

[62] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 258.

[63] CIL I2 2226 = X 7586 = ILS 1874 = ILLRP I, 141 = IG XIV 608 = IGR I 511 = CIS I,1, 143.

[64] CIL X 7858.

[65] Spano, Iniziazione cit., p. 196.

[66] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 258.

[67] Vd. R. Bonu, Scrittori sardi nati nel secolo XIX con notizie storiche e letterarie dell’epoca, II, Sassari 1961, p. 313.

[68] CIL X 7852, 7930, 7884, 7891; CIS I 140 = ICO Sard. 19.

[69] Spano, Iniziazione cit., p. 205.

[70] P. Ruggeri, Giovanni Spano, Bullettino Archeologico Sardo (1855-64), Scoperte archeologiche (1865-76); Ettore Pais, Bullettino Archeologico Sardo n.s. (1884), in Africa ipsa parens illa Sardiniae. Studi di storia antica e di epigrafia, Sassari 1999, pp. 171 ss.; vd. anche le introduzioni annuali alla ristampa G. Spano, E. Pais, Bullettino Archeologico Sardo 1855-1884, Scoperte Archeologiche, ristampa commentata a cura di A. Mastino e P. Ruggeri (Biblioteca illustrata sarda), Editrice Archivio Fotografico Sardo, Nuoro 2000 ss.

[71] Vd. Spano, Iniziazione cit., pp. 250 s.

[72] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 254.

[73] CIL X,2, p. 782.

[74] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie II, busta n. 152, Relazione sopra il pavimento in mosaico scoperto in un campo vicino a San Bernardo di Stampace, di Gemiliano Deidda (Cagliari, 4 marzo 1763); vd. G. Spano, Orfeo, Mosaico Sardo esistente nel Museo Egiziano di Torino, “BAS”, IV, 1858, pp. 161-165; S. Angiolillo, Mosaici antichi in Italia, Sardinia, Roma 1981, nr. 101; vd. ora P. Sanna, La «rivoluzione delle idee», “Rivista Storica Italiana”, 1998, in c.d.s., n. 144.

[75] Scoperte 1866, p. 35 n. 1.

[76] Vd. Spano, Testo ed illustrazioni cit., “BAS”, IX, 1863, p. 147, con la vecchia denominazione S. Maria in Bubalis; il nome moderno di S. Maria di Mesu Mundu viene collegato alla «sua forma di calotta».

[77] Lilliu, Giovanni Spano cit., p. 35. Per gli scavi nei nuraghi di Ploaghe, vd. anche A. Moravetti, Monumenti, scavi e scoperte nel territorio di Ploaghe e M.A. Fadda Pirisi, Il nuraghe Don Michele di Ploaghe, in Contributi su Giovanni Spano cit., pp. 11 ss. e 47 ss.

[78] Con la dedica allo Spano, «che dottamente illustrò liberalmente accrebbe il Museo sardo», vd. Catalogo della raccolta Archeologica sarda del can. G. Spano da lui donata al Museo di Antichità di Cagliari, Parte prima, Cagliari 1860; Parte seconda, dedicata a Monete e medaglie, Cagliari 1865. Vd. ora C. Tronchetti, I materiali di epoca storica della collezione Spano, in Contributi su Giovanni Spano cit., pp. 115 ss.

[79] Vd. Spano, in “BAS”, IV, 1858, p. 3.

[80] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 155.

[81] Vd. Spano, Iniziazione cit., pp. 204, 213 n. 50.

[82] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 195.

[83] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 227.

[84] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 197.

[85] Vd. Spano, Iniziazione cit., pp. 202 e 212 n. 47.

[86] Vd. Illustrazione sopra un epitafio greco del R. Museo di Cagliari (Lettera al prof. G. Pisano), Cagliari 1849.

[87] Si tratta di un articolo sui vetri di Cornus, ripreso dal «Bullettino dell’Instituto di corrispondenza archeologica di Roma».

[88] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 268 n. 27.

[89] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 189.

[90] Si tratta di una ristampa di un articolo comparso sul «Bullettino dell’Instituto di corrispondenza archeologica di Roma» del 1861.

[91] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 203.

[92] Solo per la ristampa di un breve studio Sulle monete dell’impero Cartaginese che si trovano in Sardegna, che è ripreso dal volume Numismatique de l’ancienne Afrique del 1861.

[93] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 201.

[94] A. Mastino, Il “Bullettino Archeologico Sardo” e le “Scoperte”: Giovanni Spano ed Ettore Pais, in G. Spano, E. Pais, Bullettino Archeologico Sardo 1855-1884, Scoperte Archeologiche, ristampa commentata a cura di A. Mastino e P. Ruggeri (Biblioteca illustrata sarda), Editrice Archivio Fotografico Sardo, Nuoro 2000 ss. p. 27.

[95] Vd. M.L. Ferrarese Ceruti, Materiali di donazione Spano al Museo Pigorini di Roma, in Contributi su Giovanni Spano cit., p. 65.

[96] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 259.

[97] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 203.

[98] Spano, Iniziazione cit., p. 233 e p. 268 n. 24.

[99] A. Della Marmora, Sulle iscrizioni latine del Colombario di Pomptilla, “BAS” VIII, 1862, p. 113; vd. G. Spano, Serpenti che si vedono scolpiti nelle tombe, ibid., p. 138.

[100] Spano, Iniziazione cit., p. 237;vd. Id., Abbecedario storico cit., p. 75: «dimenticato da tutti e nell’inedia, mentre avrebbe meritato alto compenso dalla patria».

[101] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 261 e pp. 271 s. n. 62. Per la posizione di G. Manno verso le Carte d’Arborea è fondamentale la lettera del 10 maggio 1859, pubblicata in Spano, Testo ed illustrazioni cit., “BAS”, IX, 1863, pp. 151 s. n. 2: «così il mio lamento dell’essersi tacciuto dagli orgogliosi storici Romani il nome degli Eroi Sardi che hanno dovuto capitanare le molte guerre d’indipendenza combattute dai nostri padri, è di molto attenuato».

[102] Spano, Iniziazione cit., p. 226.

[103] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 266 n. 4.

[104] W. Helbig, Cenni sopra l’arte fenicia. Lettera al sig. Senatore G. Spano, Roma 1876, estr. “Annali dell’Inst. di corrispondenza archeologica”).

[105] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 203.

[106] Spano, Iniziazione cit., p. 227.

[107] Vd. Spano, Iniziazione cit., pp. 261 s. e p. 272 n. 63.

[108] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 262.

[109] Spano, Scoperte 1870, p. 35 n.1.

[110] Spano, Scoperte 1875, p. 23 ss.

[111] CIL X 7957.

[112] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 255.

[113] Th. Mommsen, in CIL, X,2, p. 782.

[114] Vd. Mastino, P. Ruggeri, I falsi epigrafici romani delle Carte d’Arborea cit., pp. 221 ss.

[115] Vd. Spano, Postilla alla lapide , in Scoperte , p. 35

[116] CIL X 7930, vd. A. Mastino, La supposta prefettura di Porto Ninfeo (Porto Conte), «Bollettino dell’Associazione Archivio Storico Sardo di Sassari», II, 1976, pp. 187-205.

[117] Vd. E. Pais, Le infiltrazioni delle falsificazioni delle così dette «Carte di Arborea» nella Storia della Sardegna, in Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio Romano, Roma 1923, p. 670; vd. ibid., p. 331 n. 3.

[118] Vd. S. Tola, in Spano, Iniziazione cit., p. XI.

[119] Vd. G. Ghivzzani, Al prof. Teodoro Mommsen, in S.A. De Castro, Il prof. Mommsen e le Carte d’Arborea, Sassari 1878, pp. 7 s.: si criticano «certe paroline che dicono esserle uscite dalla bocca», «paroline agrette anzi che non» e lo si invita a guardarsi, nel viaggio per Sassari, «da un certo de Castro». L’imbarazzo del Mommsen è evidente nella risposta pubblicata su «L’Avvenire di Sardegna» il 25 novembre, cfr. Th. Mommsen, in De Castro, Il prof. Mommsen cit., p. 13 (dove si fa cenno a «qualche parola … detta da me in una riunione privata, riguardo a certi punti della Storia della Sardegna»; «parole probabilmente male espresse e certamente assai male ripetute di un viaggiatore tedesco»). Vd. anche a p. 15 il giudizio sulla «vostra eroica Eleonora», al quale il Mommsen si sottrae, perchè dichiara di volersi occupare solo di epigrafia latina e di storia romana. Sui nomi degli studiosi presenti al pranzo ufficiale, vd. I. Pillitto, in De Castro, Il prof. Mommsen cit., p. 56, per il quale lo Spano, ammalato, preferì non ribattere «per non impegnarsi in una discussione ormai superiore alle sue forze». Più in dettaglio, al pranzo ufficiale, offerto dal prefetto Minghelli Valni, erano presenti il prof. Pietro Tacchini dell’Università di Palermo, i senatori conte Franco Maria Serra e can. Giovanni Spano, il consigliere delegato cav. Alessandro Magno, il preside dell’Università prof. Gaetano Loi, i proff. Patrizio Gennari e Filippo Vivanet, cfr. “L’Avvenire di Sardegna”, VII, nr. 247, 17 ottobre 1877, p. 3.

[120] Th. Mommsen, in De Castro, Il prof. Mommsen cit., p. 15. Vd. le ironiche osservazioni di Salvator Angelo De Castro in una lezione del 3 novembre 1877 agli studenti dell’Università di Cagliari, in G. Murtas, Salvator Angelo De Castro, Oristano 1987, p. 76.

[121] Tali osservazioni furono ripetute a Sassari, in occasione del pranzo offerto dai redattori de “La Stella di Sardegna”, cfr. De Castro, Il prof. Mommsen cit., pp. 17 s.: «quando egli, per esempio, mi veniva dicendo che, in Sardegna, di cento iscrizioni, cento son false e fratesche, poteva io credere ch’ei non celiasse ? E celiando io lo pregava a non usare una critica tanto severa per tema che col cattivo se ne potesse andar via anche il buono. Per le altre provincie d’Italia, ammise il dieci per cento d’iscrizioni vere; meno male !». Tali giudizi sulle «iscrizioni di fabbrica fratesca» furono ripresi anche nella rubrica i “Pensieri” pubblicata su “La Stella di Sardegna”, III, 44, del 4 novembre 1877, p. 224.

[122] “L’Avvenire di Sardegna”, VII, nr. 250, 21 ottobre 1877, p. 3, cfr. Mastino, P. Ruggeri, I falsi epigrafici romani delle Carte d’Arborea cit., p. 224 n. 10.

[123] Vd. S. Sechi-Dettori, Le pergamene d’Arborea, All’illustre Cav. S. Angelo De-Castro, “La Stella di Sardegna”, III, dicemre 1877, p. 315; S.A. De-Castro, Le carte di Arborea. Al chiarissimo Signor S. Sechi-Dettori, “La Stella di Sardegna”, IV, 6 gennaio 1878, pp. 1 s. Di quest’ultimo vd. soprattutto Il prof. Mommsen e le Carte d’Arborea, Sassari 1878, opera dedicata alla memoria di Pietro Martini.

[124] CIL X,2, 1883, pp. 781 s.

[125] CIL X 1480*.

[126] CIL X 7946.

[127] CIL X,2, 1883, p. 781. Vd. Mastino, P. Ruggeri, I falsi epigrafici romani delle Carte d’Arborea cit., pp. 221 ss.

[128] CIL X 7852, cfr. La Tavola di Esterzili cit.

[129] Vd. R. Mara, Theodor Mommsen e la storia della Sardegna attraverso i carteggi e le testrimonianze del tempo, tesi di laurea presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Cagliari (relatori i proff. Antonello Mattone e Attilio Mastino), Sassari 1997-98, p. 335. Vd. ora A. Mastino, A. Mattone, Il viaggio di Mommsen in Sardegna, in preparazione.

[130] Mara, Theodor Mommsen cit., p. 337. L’edizione dell’articolo del Mommsen (con qualche errore forse dovuto all’eccessiva fretta), è in Th. Mommsen, Decret des Proconsul von Sardnien L. Helvius Agrippa vom J. 68 n. Chr., “Hermes”, II, 1867, pp. 102-127.

[131] CIL X 1098*.

[132] G. Cara, Statua di Ercole in bronzo, “BAS” I, 1855, pp. 51 ss.

[133] Spano, Iniziazione cit., p. 219.

[134] Spano, Iniziazione cit., p. 226.

[135] W. Förster, Sulla questione dell’autenticità dei codici d’Arborea. Esame paleografico, “Memorie della R. Accad. delle scienze di Torino”, LV, 1905, p. 234.

[136] F. Loddo Canepa, Dizionario archivistico della Sardegna, “Archivio Storico Sardo”, XVII, 1929, p. 370, s.v. Carte d’Arborea.

[137] Spano, Iniziazione cit., p. 239.

[138] Spano, Scoperte 1865, p. 30.

[139] Spano, Scoperte 1874, p. 9.

[140] G. Cara, Cenno sopra diverse armi, decorazioni, ecc. del Museo di Cagliari, Cagliari 1871.

[141] Spano, Scoperte 1876, p. 22.

[142] G. Cara, Considerazioni sopra una fra le opinioni intorno all’origine ed uso dei Nuraghi, Cagliari 1876.

[143] H. B. von Maltzan, Reise auf der Insel Sardinien, nebst einem Anhang über die phönicischen Inschriften Sardiniens, Leipzig 1869.

[144] Spano, Scoperte 1876, pp. 37 ss.

[145] Vd. G. Spano, Memoria sopra i Nuraghi della Sardegna, Cagliari 1854, poi nell’VIII volume del “Bullettino“.

[146] Spano, Scoperte 1876, p. 35.

[147] A. Cara, Questioni archeologiche, Lettera al can. Giovanni Spano, Cagliari 1877. Vd. Bonu, Scrittori cit., p. 325 n. 29.

[148] G. Spano, Bosa vetus. Opera postuma del canonico Giovanni Spano Senatore del Regno, con biografia scritta dal professore Filippo Vivanet, Bosa 1878.

[149] Ruggeri, Africa ipsa parens illa Sardiniae cit., pp. 173 ss.

[150] Memoria sull’antica Truvine, Cagliari 1852; vd. “BAS”, IV, 1858, pp. 190-201. Vd. successivamente Testo ed illustrazioni cit.; vd. “BAS”, IX, 1863, pp. 113-161.

[151] Spano, Testo ed illustrazioni cit., “BAS”, IX, 1863, p. 171.

[152] Spano, Iniziazione cit., p. 209 n. 12.

[153] CIL X 7955 = XIV 346.

[154]CIL X 8053, 157, l.

[155] CIL X 8056, 259.

[156] CIL X 7979.

[157] Da qui il quadro del Marghinotti conservato al Comune di Ploaghe; vd. G. Dore, La raccolta Spano ed altre opere d’arte a Ploaghe, in Contributi su Giovanni Spano, cit., p. 147 nr. 20. Per il Marghinotti, vd. ora M.G. Scano, Pittura e scultura dell’Ottocento, Nuoro 1997, p. 131 ss.

[158] Ruggeri, Africa ipsa parens illa Sardiniae cit., p. 239.

[159] Lilliu, Giovanni Spano cit., p. 35. Vd. anche Moravetti, Monumenti, scavi e scoperte nel territorio di Ploaghe e Fadda Pirisi, Il nuraghe Don Michele di Ploaghe, in Contributi su Giovanni Spano cit., pp. 11 ss. e 47 ss.

[160] Spano, Scoperte 1875, p. 23 ss.

[161] W. Helbig, Cenni sopra l’arte fenicia. Lettera al sig. Senatore G. Spano, Roma 1876, estr. “Annali dell’Inst. di corrispondenza archeologica”.

Attilio Mastino

La nascita dell’archeologia in Sardegna: il contributo di Giovanni Spano tra ricerca scientifica e falsificazione romantica[1]*

 

1. Gli studi fino alla laurea. 2. Le scoperte nella colonia romana di Turris Libisonis. 3. La formazione: il viaggio a Roma Roma. 5. Baille e La Marmora. 5. I viaggi in Italia. 6. Le ricerche giovanili. 7. I primi scavi: Tharros. 8. Il “Bullettino Archeologico Sardo” e le “Scoperte Archeologiche”.  9. La rete dei collaboratori.  10. La nascita dell’archeologia in Sardegna. 11. I corrispondenti italiani. 12. I corrispondenti stranieri. 13. I rapporti con Theodor Mommsen e la polemica sulle Carte d’Arborea. 14. Lo scontro con Gaetano Cara ed il tramondo dello Spano. 15. Il mito della patria lontana: la leggendaria Ploaghe-Plubium.

 

1. La recente ristampa del “Bullettino Archeologico Sardo” e delle “Scoperte Archeologiche” curata dalle Edizioni dell’Archivio Fotografico Sardo di Sassari[2] e la Giornata di studio su Giovanni Spano promossa dal Comune di Ploaghe il 15 dicembre 2001 per le celebrazioni bicentenarie dalla nascita, sono  l’occasione per una riflessione complessiva sull’attività di Giovanni Spano tra il 1855 ed il 1878: un periodo di oltre vent’anni, che è fondamentale per la conoscenza della storia delle origini dell’archeologia in Sardegna, nel difficile momento successivo alla “fusione perfetta” con gli Stati della Terraferma, fino alla proclamazione dell’Unità d’Italia e di Roma capitale; in un momento critico e di passaggio tra 1a «Sardegna stamentaria» e lo «Stato italiano risorgimentale», quando secondo Giovanni Lilliu «si incontrarono e subito si scontrarono la “nazione” sarda e la “nazione” italiana al suo inizio»[3].

Gli interessi dello Spano per l’archeologia non sono originari[4]: nella tarda Iniziazione ai miei studi, pubblicata nel 1876 sul settimanale sassarese “La Stella di Sardegna” (recentemente edita da AM&D Edizioni di Cagliari a cura di Salvatore Tola)[5], lo Spano ripercorre le tappe della sua formazione a Sassari al Collegio degli Scolopi, poi in Seminario, per gli studi di grammatica e di retorica e quindi di logica e di matematica, fino a conseguire il titolo di maestro d’arti liberali nel 1821; solo più tardi, incerto tra la medicina («una scienza in allora abborrita e disonorata nelle famiglie, specialmente la chirurgica») e la giurisprudenza, scelse si iscriversi alla Facoltà teologica, per motivi non propriamente spirituali: «perchè vi erano le sacre decime, di buona memoria, che allettavano la maggior parte degli studenti»[6].  Il 14 luglio 1825 conseguiva la laurea in Teologia («un corso florido», perchè «la Teologia nell’Università di Sassari è stata molto coltivata perché ha avuto sempre buoni professori»), dopo un esame sostenuto davanti ad una commissione di undici membri presieduta dall’arcivescovo Carlo Tommaso Arnosio (omonimo del vescovo-poeta di Ploaghe ricordato nelle Carte d’Arborea)[7], con l’intervento tra gli altri del professore di Teologia dogmatica padre Tommaso Tealdi e di Filippo Arrica parroco di Sant’Apollinare, originario di Ploaghe e docente di Teologia morale, poi divenuto vescovo di Alghero: il Promotore padre Antonio De Quesada (docente di Sacra Scrittura) lo aveva presentato come il princeps theologorum e «dopo l’acclamazione fatta dal bidello» gli «pose il berrettino a quattro punte in testa», gli fece indossare la toga e gli infilò «l’anello gemmato d’oro» nell’anulare; seguì il giuramento ed il ringraziamento, che lo Spano fece «in versi leonini», per distinguersi dagli altri[8]. Presso il Centro di studi interdisciplinari sulla storia dell’Università di Sassari (nella sede del Dipartimento di Storia) si conserva ancora la registrazione dell’esame di laurea superato a pieni voti[9]. Solo nel 1830 avrebbe conseguito il titolo di dottore in arti liberali ed in particolare in Filosofia, discutendo una dissertazione De stellis fixis, mentre uno dei commissari avrebbe voluto assegnargli un tema altrettanto bizzarro, i nuraghi della Sardegna[10].

 

2. Egli era nato a Plaghe l’8 marzo 1803 da Giovanni Maria Spanu Lizos e da Lucia Figoni Spanu[11]: a 16 anni aveva seguito con ingenua curiosità la vicenda degli scavi effettuati a Porto Torres da Antonio Cano, un frate architetto esperto di esplosivi (il costruttore della cattedrale di Nuoro, morto cadendo da un’impalcatura nel 1840), che aveva scoperto la base del prefetto M. Ulpius Victor relativa al restauro del tempio della Fortuna e della basilica giudiziaria, monumento che è alla base della falsificazione delle Carte d’Arborea[12]: «nella primavera di quell’anno (1819) ricordo che in Porto Torres un frate conventuale, Antonio Cano, scultore ed architetto sassarese, per ordine della regina Maria Teresa, moglie di Vittorio Emanuele II, ed a sue spese, faceva degli scavi nel sito detto Palazzo di re Barbaro e, di mano in mano che si scoprivano pietre scritte o rocchi di colonne, le trasportavano a Sassari per collocarle nella sala dei professori [dell’Università]»[13]. E ancora: «Io senza capirne un’acca, ero curioso e di osservare questi rottami e dal conto che ne facevano pensava che fossero cose preziose». Era dunque scattata una molla che lo avrebbe portato più tardi a valorizzare le antichità di Ploaghe, la sua piccola patria, quella che nelle Carte d’Arborea sarebbe diventata la gloriosa Plubium con i suoi eroi Sarra ed Arrio, un luogo con «una lussureggiante vegetazione con selve di alberi d’ogni sorta, con orti irrigati (…) con vigne ed ogni genere di piante»[14]: «arrivato in villaggio col desiderio di trovare qualche pietra simile, passava i giorni visitando i nuraghi del villaggio e le chiese distrutte; m’introduceva nei sotterranei e stava sempre rivoltando pietre, arrampicandomi alle sfasciate pareti; per cui la povera mia madre mi sgridava sempre, e mi pronosticava che io sarei morto schiacciato sotto qualche rovina»[15].  Dopo la laurea, laureatus et inanellatus, in occasione del giubileo aveva vissuto nella basilica di San Gavino a Porto Torres l’esperienza della penitenza e della flagellazione «con un fascio di discipline di lame di ferro ben affilate» fornitegli da  da un prete devoto di San Filippo, restando ammalato poi per due mesi: un’esperienza che gli avrebbe fatto capire meglio l’assurdità delle ipotesi del direttore del Museo di Cagliari Gaetano Cara, che avrebbe visto come «flagellii» oggetti diversissimi, vere e proprie decorazioni militari di età romana.

 

3. Fu però soprattutto il burrascoso soggiorno romano del 1831 ad orientarlo verso l’archeologia: alloggiato nella locanda dell’Apollinare, lo Spano prese a frequentare tutti i giorni la vicina piazza Navona, «l’emporio delle cose vecchie, di libri e di antichità» che fu il luogo in cui si avvicinò all’archeologia «comprando monete, pezzi di piombo, tele vecchie, ecc.»[16]. E poi «l’Achiginnasio romano, ossia la Sapienza», l’Università agitata dai «primi movimenti rivoluzionari» degli studenti e dai «torbidi» e dal «malcontento del popolo contro il governo dei preti» dopo l’elezione di Gregorio XVI che aveva scatenato l’«odio contro i preti, i quali erano presi a sassate, e molti restavano vittime»: qui lo Spano poté conoscere l’abate modenese Andrea Molza, docente di ebraico e di Lingua caldaica e siro-caldaica, il maestro più amato «un angelo mandato dal cielo», poi bibliotecario della Vaticana, morto tragicamente nel 1850; ma anche il prof. Nicola Wiseman, docente di Ebraico (lingua che lo Spano già in parte conosceva, in quanto allievo a Sassari di Antonio Quesada);  il dott. De Dominicis ed il suo sostituto Emilio Sarti, professori di Lingua greca (quest’ultimo un «gran genio», «un mostro di erudizione»), il cav. Scarpellini di Fisica sacra, il Nibby di archeologia, «che allora era tenuto come il topografo per eccellenza dell’antica Roma»[17]; l’anno successivo il cav. Michelangelo Lanci di Fano docente di Lingua araba. Esaminato dal prof. Amedeo Peyron, professore di Lingue orientali nell’Università di Torino (col quale avrebbe successivamente collaborato alla pubblicazione della iscrizione trilingue di San Nicolò Gerrei[18]), fu nominato nel 1834 professore di Sacra Scrittura e Lingue orientali nella Regia Università di Cagliari, dove «a causa del clima» le lezioni terminavano con molto anticipo, il I maggio e le vacanze arrivavano fino al 15 luglio; l’Università di Cagliari infatti «si distingueva fra tutte le altre per il tempo assegnato alle vacanze», con grande soddisfazione dello Spano, che in primavera era ora libero di fare le sue «escursioni archeologiche e fisiologiche nel centro dell’isola».

 

4. A Cagliari la passione per l’archeologia doveva ulteriormente svilupparsi, soprattutto all’ombra di un grande vecchio, il cav. Lodovico Baille (gà censore dell’Università, bibliotecario e direttore del Museo archeologico), con il quale lo Spano fu messo in contatto da Amedeo Peyron, suo collega nell’Accademia delle Scienze di Torino: «era dotto archeologo, buon giurisprudente, caritatevole, disinteressato», oltre che «esperto e assennato antiquario»; fu il Baille «da vero archeologo», in occasione di una visita a Porto Torres, a sostenere che il Palazzo del Re Barbaro «sarà stato un tempio, o basilica, non però palazzo», un giudizio che per lo Sparo era stato luminosamente confermato dal ritrovamento avvenuto nel 1819 della base relativa al restauro del tempio della Fortuna, pubblicata poi proprio dal Baille[19]. Lo Spano lavorò per cinque lunghi anni accanto al Baille, fino al 14 marzo 1839, giorno della sua morte, considerata «una perdita nazionale» da Pasquale Tola.

Proprio in questi anni lo Spano ebbe l’occasione («la fortuna») di conoscere il generale Alberto della Marmora, «che trovavasi in Cagliari iniziando gli studi trigonometrici della Sardegna, col cavalier generale Carlo Decandia»: con lui lo Spano avrebbe avviato una cordiale amicizia ed una prolungata collaborazione scientifica. Scrivendo tredici anni dopo la morte del Della Marmora (avvenuta il 18 maggio 1863), lo Spano non avrebbe nascosto anche i motivi di un profondo disaccordo, la differente opinione della destinazione e sull’uso dei nuraghi (un tema decisivo che avrebbe portato lo Spano a scontrarsi sanguinosamente con il direttore del Museo di Cagliari Gaetano Cara), edifici che per lo Spano erano abitazioni e per il Della Marmora solo tombe: «ma siccome era di una tempa forte, difficilmente si lasciava vincere nelle sue opinioni, come era quella sopra i nuraghi; ché per aver trovato nell’ingresso del nuraghe Isalle una sepoltura antica col cadavere e stromenti di bronzi antichi, conchiuse che quelle moli erano trofei di guerrieri, mentre lo scheletro e le armi non furono trovati dentro la camera, quindi erano assolutamente memorie posteriori»[20]. E poi le dubbie amicizie del La Marmora, osservate con sospetto dallo Spano, le ingenuità e gli errori, come per la vicenda degli idoli sardo-fenici, fatti acquistare dal Cara ed entrati a pieno titolo negli allegati al codice Gilj e nelle Carte d’Arborea: «io gli insinuava che non si fidasse tanto sulle relazioni; finalmente, dopo ultimata la colossale opera, comprò un centinaio di questi idoletti e si convinse che il mio sospetto non era senza ragione», perchè «nei bronzi figurati, io ripeteva, “ci vuole la fede di battesimo!”»[21]. Fu il Cara a dissanguare il conte Della Marmora, «nuovo Caio Gracco che si dipartì da Roma colla cintura piena di denaro e vi rientrò riportandola totalmente vuota»[22]. Certo le posizioni dello Spano non dovevano esser state inizialmente così nette se nel 1847 aveva scavato a Lanusei «nella stessa località già esplorata dal Della Marmora, dove dicevasi essersi rinvenuti di quegli idoletti fenici»[23] e se ancora nel 1866 la dedica della Memoria sopra alcuni idoletti di bronzo trovati nel vilaggio di Teti (con le Scoperte Archeologiche del 1865) era effettuata in onore di B. Biondelli, direttore del Gabinetto numismatico di Milano, «perché la scoperta fu fatta quando egli era in Sardegna e moveva dubbi sugli idoletti sardi»[24]. Ma già nel 1862 il La Marmora aveva rotto da tempo col Cara, se il Conte aveva minacciato il Ministro C. Matteucci di rivolgere un’interrogazione in senato per la recente riconferma nell’incarico di direttore facente funzioni del Museo di Cagliari di un «individuo» compromesso in passato, che aveva curato a suo modo «gli affari del Museo».

 

5. Fu nel corso delle vacanze del 1835 (vent’anni prima della pubblicazione del primo numero del “Bullettino“) che lo Spano si dedicò per la prima volta seriamente delle antichità della Sardegna: egli passò «le vacanze biennali visitando continuamente la necropoli di Caralis antica, l’anfiteatro romano e copiando le iscrizioni antiche che trovansi sparpagliate nel Campidano di Cagliari», a suo dire già prevedendo di utilizzare queste informazioni per la sua Rivista[25]; all’anfiteatro in particolare avrebbe poi dedicato un volume[26], dopo gli scavi degli anni 1866-67 promossi dal Municipio e controllati da una commissione da lui presieduta di cui avrebbero fatto parte Gaetano Cima, l’avv. Marini Demuru, il Marchese De-Litala, il prof. Patrizio Gennari, Vincenzo Crespi (che avrebbe sostituito Pietro Martini, deceduto il 17 febbraio 1866)[27]. Utile sarebbe stato nel 1836 il viaggio a Verona «per visitare l’Anfiteatro che, per essere quasi intiero» lo «aiutò per poter istituire paragoni col cagliaritano»; nella città scaligera poté visitare il Museo Maffeiano dove volle trascrivere «alcune iscrizioni che avevano relazione colle sarde». In quel viaggio raggiunse Torino, frequentò le lezioni di Ebraico di Amedeo Peyron e di Greco del cav. Bucheron; quindi Milano, dal prof. Vincenzo Cherubini; e poi Padova (dove conobbe il Pertili), Venezia (dove conobbe i bibliotecari di San Marco cav. Bettio e Bartolomeo Gamba, ma anche l’istriano Pier Alessandro Paravia, professore di Eloquenza nell’Università di Torino, che avrebbe rivisto nel 1838), Rovigo, Bologna, Ferrara, Rimini, Foligno, Spoleto, infine raggiunse Roma. Qui, rivide il Molza ed altri maestri e colleghi ed iniziò a «visitare le antichità romane dentro e fuori di città per rinnovare la memoria», preparando qualche suo «scritto sopra le medesime e sopra i dialetti sardi»[28]. Trattenuto per mesi a Napoli dall’epidemia di colera, poté studiare «le antichità ai musei ed alla Regia biblioteca», le rovine di Pompei (dove studiò «la struttura delle case antiche», analoghe a quelle che avrebbe riconosciuto a Cagliari nel 1876 a Campo Viale, la necropoli, o via dei Sepolcri, e l’anfiteatro), infine Pozzuoli, per visitare un altro anfitreatro, il Tempio di Serapide, il lago d’Averno, la Grotta detta della Sibilla: «qui doveva vedere altri monumenti e copiare alcune iscrizioni che hanno relazione colle sarde, specialmente le classiarie di Miseno»[29]. Un viaggio avventuroso, con non pochi pericoli, che lo avrebbe segnato per gli anni successivi, quando lo Spano avrebbe ripreso le sue escursioni sarde, «raccogliendo vocaboli, oggetti di antichità, carte antiche e canzoni popolari».

 

6.  Gli interessi dello studioso continuavano ad essere eterogenei e l’archeologia rappresentava ancora solo un aspetto secondario delle sue passioni: nel 1838, dopo aver visitato Bonorva, il Monte Acuto, il Goceano, il Nuorese, le Barbagie, la Planargia, il Marghine, studiò la lingua di Ghilarza e visitò «nuraghi ed altri monumenti preistorici, di cui abbonda questo territorio», scoprendo «molte di quelle lunghe spade di bronzo che gli antichi usavano XIV secoli prima di Cristo allorché, confederati con altri popoli, invadevano il Basso Egitto»: era la prima volta che lo Spano si misurava con la tesi dellle origini orientali dei Sardi e con la vicenda dei Shardana, allora illustrata da F. Chabas[30].  Nominato responsabile della Biblioteca Universitaria alla morte del Baille, si vantava di aver consentito agli studenti cagliaritani ed ai frequentatori della biblioteca «di studiare a testa coperta, come loro era più comodo; mentre prima erano obbligati di stare a testa nuda come in chiesa». Si sentiva però totalmente impreparato a dirigere la Biblioteca, per quanto assistito da padre Vittorio Angius, ed intraprese perciò un viaggio a Pisa, a Genova, a Bologna, a Modena, a Parma, a Milano, a Torino, per conoscere dall’interno il funzionamento delle principali biblioteche italiane. In particolare avrebbe avuto un seguito l’amicizia con «quel mostro di erudizione» che era Celestino Cavedoni, che avrebbe a lungo collaborato con il “Bullettino Archeologico Sardo” fino alla morte, avvenuta nel 1867. A Modena tra gli altri aveva conosciuto «l’unico rampollo del celebre Muratori», il canonico Soli Muratori, mentre a Parma aveva approfondito col cav. Pezzana le problematiche poste dalla tabula ipotecaria di Veleia, «che ha una certa rassomiglianza con la nostra tavola di bronzo di Esterzili» (che sarebbe stata scoperta solo quasi trent’anni dopo)[31].  A Milano aveva conosciuto G. Labus, «distinto archeologo» ed «epigrafista aulico», ricordato più volte successivamente, che gli suggerì di raccogliere in catalogo i bolli sull’instrumentum domesticum, dandogli l’idea del volume sulle Iscrizioni figulinarie sarde, che sarebbe uscito solo nel 1875[32]. Infine, l’egittologo Rossellini e tanti altri.

Rientrato a Cagliari, aveva dovuto fronteggiare l’ostilità del Magistrato sopra gli studi e del censore, che lo accusavano di non occuparsi «di Bibbia, distratto in far grammatiche ed in altre opere vernacole»; dopo la drastica riduzione dello stipendio, fu costretto a dimettersi dalla direzione della Biblioteca, che nel 1842 passò ad un amico, a Pietro Martini: una magra consolazione, anche se lo Spano si compiace di aver avuto «per successore un uomo dotto che si dedicò con intelligenza a far progredire quello stabilimento materialmente e scientificamente».

Lo Spano, esonerato dalla direzione della Biblioteca, poté dedicarsi ancora di più ai suoi veri interessi: visitò il Sulcis, Iglesias, Carloforte e Sant’Antioco, dove fece «una gran messe di monete romane (che ora si trovano nel gran (…) medagliere donato al Regio Museo), di iscrizioni anche fenicie, di bronzi e di molte edicole in trachite e di marmo, tra le quali una di Iside»; l’anno successivo fu ad Oristano ed a Tharros.

L’arrivo a Cagliari nel 1842 del nuovo arcivescovo, l’amico Emanuele Marongiu Nurra, segnò una svolta profonda, sul piano personale ma anche sul piano politico: egli «a più delle scienze sacre coltivò la storia e l’archeologia, in cui diede numerosi saggi» e nel 1848 capeggiò la Commissione parlamentare inviata a Torino per chiedere la “perfetta fusione” della Sardegna al Piemonte, finendo due anni dopo in esilio e riuscendo a rientrare in sede solo dopo 15 anni.  Fu l’arcivescovo Marongiu Nurra ad anticipare l’ostilità del censore dell’Ateneo cagliaritano, che riteneva lo Spano un «inetto», perchè si era dedicato invece che alla teologia ed alla Bibbia alle «iniezie della lingua vernacola»: l’arcivescovo gli poté offrire «il canonicato della prebenda di Villaspeciosa (la più misera di tutta la diocesi), piccolo villaggio di circa 400 anime vicino a Decimo»: una tranquilla sinecura, inizialmente non gradita dallo Spano, che comunque gli consentì di superare l’avversione generalizzata che minacciava di travolgerlo, per dedicarsi a tempo pieno agli studi prediletti.

Guardando a quei difficili momenti, a distanza di trent’anni, lo Spano avrebbe lucidamente scritto: «liberato dal peso della cattedra e dalle lezioni della lingua ebraica e greca, fui più libero di dedicarmi agli studi di mio genio, cioè alla filologia ed all’archeologia sarda, spigolando il campo in cui aveva mietuto il Della Marmora». Egli non si vergognava di passare le sue giornate «nelle umili case dei contadini» e di viaggiare per le campagne sarde; nè si vergognava, «dove vedeva ruderi di antiche abitazioni» di frugare colle sue mani «il terreno fangoso, tirando fuori pezzi di stoviglie o di bronzi, monete ed altro, per esaminare a quale età potevano appartenere» e riempiendosi le saccoccie «di quei rozzi avanzi» che la sua guida ed altri che lo accompagnavano «credevano inutili trastulli». Nella primavera 1845 iniziò a visitare la Trexenta, riuscendo a stabilire attraverso i reperti provenienti dal nuraghe Piscu di Suelli «i nuraghi essere serviti d’abitazione»: una tesi che successivamente non avrebbe più abbandonato. Visitò poi Nora, «la patria di Sant’Efisio martire»[33], per osservare «i ruderi di quella famosa città, emula di Cagliari, e che si crede d’essere più antica», con la speranza di trovare qualche nuova iscrizione fenicia. Qui praticò uno scavo che egli stesso riteneva di scarsa importanza, raccogliendo monete ed alcuni frammenti epigrafici latini, «perché, per trovare oggetti che dimostrino la prima sua fondazione e civiltà, bisogna lavorare molto, onde scuoprire le prime tombe della sua necropoli, che tuttora non si è trovata».  E ancora, alla luce delle osservazioni fatte nel volume delle Scoperte del 1876 e nelle Carte d’Arborea: «vi si vedono molti monumenti romani, l’acquedotto, il castello e una parte della città seppellita nel mare, dicesi da un terremoto».

Rientrando a Cagliari, aveva iniziato a raccogliere i suoi appunti, le sue note, gli oggetti, per servirsene in futuro, quando si sarebbe occupato «delle cose archeologiche sarde», lavorando intanto per il Vocabolario, riposandosi solo «nelle ore del coro» in Cattedrale, per «cantare e “labbreggiare”» coi suoi colleghi canonici.[34]

Nel 1846 iniziano gli scavi a Ploaghe nella loc. Truvine (la Trabine delle Carte d’Arborea), in compagnia del rettore Salvatore Cossu «persona intelligente e di genio per le antichità» morto nel 1868[35], che a proposito dell’etimologia di Plubium aveva saputo «indovinare» la spiegazione fornita quattro secoli prima da un immaginario Francesco De Castro[36], di amici, parenti e perfino della madre quasi ottantenne (sarebbe morta l’8 aprile 1864  a 93 anni di età): furono raccolte tra l’altro 35 monete di bronzo di età repubblicana, fino all’età di Augusto e tra esse una rarissima «moneta coloniale della città di Usellus», statuine di Cerere col modio, di Bacco e di satiri, lucerne col bollo di C. Oppius Restitutus [37], un pavimento in opus signinum, materiali presentati nella bella Memoria sull’antica Truvine, dedicata nel 1852 e ripresa sul IV numero del “Bullettino“: un testo che è purtroppo alla base dell’attività dei falsari delle Carte d’Arborea ed in particolare dei numerosi fantasiosi documenti su Plubium-Ploaghe, sul cronista Francesco De Castro, sull’«intrepido e coraggioso Sarra», su Arrio amico di Mecenate, inventore della scrittura stenografica (!) [38]; quest’ultimo sarebbe stato rappresentato dal celeberrimo pittore cagliaritano Giovanni Marghinotti in una tela conservata ora nella sala consiliare del Comune di Ploaghe[39]. Lo Spano, quanto mai  soddisfatto del nuovo orizzonte di studi che poteva intravedere,  ci appare decisamente impegnato a sostenere che «la Cronaca di Francesco De Castro Ploaghese ha tutti i caratteri della genuinità, sia nell’intrinseco dettato della storia che abbraccia, sia nella parte estrinseca del Codice, cioè la carta, il carattere e tutto quanto induce a formare il vero criterio, per distinguere la veracità e l’autenticità dei codici, e delle scritture antiche»[40]. Su tale posizione di accentuato campanilismo vedremo che il canonico dové però subire le ironie e gli «sghignazzi» di qualche confratello poco credulone[41].

Il tema del rapporti dello Spano con i falsari delle Carte d’Arborea non è stato del resto ancora pienamente affrontato: è vero che lo Spano fin da ragazzo si esercitava un po’ per scherzo nella tecnica delle invenzioni e citava «testi di filosofi e di santi padri inventati nella mia testa», disquisendo con gli amici dell’Accademia della Pala (così chiamata da una collina di Bonorva)[42]. E’ anche vero che lo Spano intrattenne rapporti più che amichevoli con Pietro Martini (che gli subentrò come direttore della Biblioteca Universitaria), con Salvatore Angelo Decastro (che gli subentrò come direttore del Regio Convitto) e con altri protagonisti della falsificazione. Eppure una partecipazione diretta dello Spano alla falsificazione, che proprio in quegli anni andava delineandosi, non è dimostrabile e forse neppure probabile. Basterà in questa sede osservare che rapporti di aperta ostilità lo Spano ebbe con Gaetano Cara, pienamente coinvolto come si dirà nella vicenda dei falsi bronzetti fenici e forse anche con Gavino Nino, il canonico bosano polemico con lo Spano fin dal 1862 ed accusato apertamente di campanilismo dieci anni dopo[43]; la versione sulla destinazione dei nuraghi adottata dal Cara ma anche dalle Carte d’Arborea (ad es. nella memoria su Plubium) è in conflitto con quella proposta dallo Spano.

 

7. Del 1847 sono gli scavi a Lanusei, alla ricerca degli idoletti fenici, le indagini a Talana e ad Urzulei, dove conobbe quello che sarebbe diventato il suo più caro «discepolo», Giuseppe Pani, poi vicario perpetuo di Sadali, il soggiorno a Dorgali, alla ricerca del luogo di provenienza del diploma militare di un ausiliario della seconda coorte di Liguri e di Corsi nell’età dell’imperatore Nerva, il soldato Tunila, pubblicato dal Baille[44]; e quindi Orosei, Siniscola, Posada «dove si diceva sorgesse l’antica Feronia» fondata dagli Etruschi, il Luguidonis Portus, Terranova (l’antica Olbia e poi Fausania), Teti, Oschiri, Nostra Signora di Castro, Bisarcio, Ploaghe e di nuovo a Cagliari: luoghi tutti visitati «per lo stesso oggetto linguistico ed archeologico»[45], che restituirono anche iscrizioni lapidarie, come l’epitafio di Terranova di Cursius Costini f(ilius) e di sua madre, «morti nello stesso giorno» (?)[46] o le epigrafi di Castro mal trascritte dallo Spano, oggi per noi purtroppo perdute[47].

Nel burrascoso 1848, dopo la cacciata dei Gesuiti e l’abolizione del posto di viceré, lo Spano sospese le sue ricerche archeologiche, impegnato a difendere la sua prebenda di Villaspeciosa, dove «ognuno gridava che non volevano canonici né pagar più decime»; sospesa anche la pubblicazione del Vocabolario (che sarebbe uscito solo tre anni più tardi), iniziò «a pubblicare qualche cosa di archeologia», in particolare curò l’edizione di un diploma militare probabilmente dell’imperatore Tito trovato a Lanusei, che fu dedicata alla memoria dell’unico figlio del cav. Demetrio Murialdo di Torino, avvocato fiscale generale dell’Isola, morto nella guerra d’indipendenza[48]; inoltre l’anno successivo (dopo la nomina del conte Alberto Della Marmora a Regio Commissario per la Sardegna), presentò un epitafio greco del Museo di Cagliari «di cui si erano date strane e ridicole interpretazioni», con una nota dedicata al prof. G. Pisano, lo stesso che avrebbe collaborato al I numero del “Bullettino[49]. Nel 1849 tornato a Porto Torres, lo Spano era rimasto per 10 giorni nella basilica di San Gavino, per poi raggiungere Ploaghe, dove proseguì gli scavi di Truvine; infine i nuraghi di Siligo, la tomba di giganti di Crastula, Bonorva, di nuovo Cagliari[50]. L’anno successivo fu «memorando per gli scavi di Tharros e per il congresso dei vescovi sardi in Oristano», promosso «per trattare affari di disciplina ecclesiastica e difendere i diritti del clero». Con la scusa della Conferenza episcopale, lo Spano aveva colto l’occasione per effettuare scavi a Tharros, in compagnia del presidente del Tribunale G. Pietro Era, dell’avv. Antonio Maria Spanu e del giudice N. Tolu. «Il principale scopo di portarmi in quella città – scrisse più tardi – fu però per praticare uno scavo in Tharros, dove mi portai nel 21 aprile (1850), e ci stetti tre giorni attendendo agli scavi che fruttarono un buon risultato, sebbene il tempo fosse cattivo, quasi le ombre dei morti fossero sdegnate contro di me, perché disturbava il loro eterno riposo»[51].  Fu pubblicata l’anno successivo una Notizia sull’antica città di Tharros, dedicata all’amico Demetrio Murialdo e nel 1852 tradotta in inglese per la British Archaeological Society[52]: un volumetto che avrebbe fatto circolare un po’ troppo la notizia delle straordinarie scoperte effettuate dallo Spano, gioielli, scarabei, vetri, altri oggetti preziosi, scatenando una vera e propria “corsa all’oro”: «concorsero da tutti i villaggi del circondario di Oristano, specialmente da Cabras, Nurachi, Milis, ecc., da Seneghe e San Lussurgiu. Fecero scempio di quel luogo, quasi fosse una California; erano circa tremila uomini lavorando a gara e con tutto impegno», senza che le autorità riuscissero ad arginare tale «vandalismo»[53]. Iniziamo a conoscere i nomi di coloro che poi acquistarono a caro prezzo i reperti ritrovati a Tharros, «orefici e signori di Oristano», che ci portano alle origini del collezionismo antiquario che si sarebbe sviluppato ad Oristano nella seconda metà dell’Ottocento, senza che la borsa dello Spano potesse «reggere a confronto di quella di tanti ricchi cavalieri e negozianti speculatori»: il cav. Paolo Spano, il cav. Salvatore Carta, il giudice Francesco Spano, il negoziante Domenico Lofredo, Giovanni Busachi, Nicolò Mura, nomi che troveremo negli anni successivi sul “Bullettino” e sulle “Scoperte“. Il Lofredo riportò lo Spano a Tharros nel 1852 col suo «bastimento», ma il Governo aveva ormai vietato gli scavi archeologici, chiudendo «la vigna dopo che erano fuggiti i buoi». Se ne andò perciò di nuovo a Ploaghe e poi a Codrongianus, per continuare le sue ricerche, pubblicando infine la Memoria sull’antica Truvine. A fine anno veniva nominato dal Ministro della Pubblica Istruzione membro del Consiglio Universitario di Cagliari: era la premessa necessaria per un ritorno in  grande stile nell’Ateneo dal quale era stato espulso nel ’44. Rifiutata la proposta del Ministro Luigi Cibrario di presiedere il Consiglio,  lo Spano continuava a pubblicare i suoi studi, orientandosi progressivamente verso l’archeologia e la storia antica: proprio del 1853 è la Lettera sul riso sardonico, dedicata all’amico Vegezzi Ruscalla, che aveva lodato lo Spano con una bella recensione all’Ortografia sarda nazionale, sul “Messaggiere” del 1840; il tema è quello dell’espressione omerica relativa all’atteggiamento minaccioso ed ironico di Ulisse contro i Proci in Odissea[54], un argomento fortunato, che sarebbe stato ripreso pochi decenni dopo nella tesi di laurea di Ettore Pais, e, più recentemente, da C. Miralles, Massimo Pittau, Enzo Cadoni e da ultimo da Giulio Paulis[55].

Nel maggio 1853 si svolsero a Ploaghe sull’altopiano di Coloru presso il nuraghe Nieddu le esplorazioni geologiche del gen. Alberto Della Marmora e del gen. Giacinto di Collegno, diretti poi in Ogliastra, verso la Perdaliana di Seui: quello sarebbe stato l’ultimo viaggio del Della Marmora in Sardegna che quattro anni dopo avrebbe pubblicato i due ultimi volumi del Voyage e l’Atlas[56].

L’anno successivo fu quello della pubblicazione della Memoria sopra i nuraghi della Sardegna[57]: per prepararla, lo Spano visitò le Marmille, Isili, Nurri, Mandas, poi di nuovo Ploaghe e Siligo, in compagnia di Otto Staudinger di Berlino. Nel luglio 1854 nominato preside del Regio Convitto e del Collegio di Santa Teresa appena riformati, entrò in relazioni molto amichevoli con quel Bernardo Bellini che gli avrebbe confidato «il segreto stereotipo», di cui si sarebbe servito «in alcuni disegni del “Bullettino“»[58]; per documentarsi ulteriormente sul funzionamento dei Regi Convitti, effettuò allora un nuovo viaggio «nel continente», a Torino, Alessandria, Moncalieri, Genova e poi per tre anni si dedicò con passione ai suoi studenti, seguendoli nelle lezioni, nello studio in biblioteca, negli esami, tanto da sembrargli «di stare in compagnia di angeli».

Infine, nominato Rettore della Regia Università di Cagliari il 5 settembre 1857 per volontà del Ministro Giovanni Lanza, Giovanni Spano aveva poi lasciato con molto rimpianto il Regio Convitto nelle mani dell’amico Salvator Angelo De Castro.

 

Il modello è quello seguito in Sicilia da Baldassarre Romano ed a Napoli da Giulio Minervini (direttore del “Bullettino Archeologico Napolitano“), mentre per le iscrizioni (che hanno uno spazio privilegiato alla fine di ciascun fascicolo) il riferimento costante è a Ludovico Antonio Muratori. I dieci volumi del “Bullettino“, per quasi 2000 pagine, con un totale di 540 articoli (di cui ben 398 firmati dallo Spano) coprono il periodo che va dal 1855 al 1864: dall’anno del colera a Firenze capitale, dall’unità d’Italia alla morte del Cavour, dalla realizzazione di nuove opere pubbliche in Sardegna fino alla costruzione della nuova rete ferroviaria in Sardegna a partire dal 1862 (il tratto Ploaghe-Sassari fu inaugurato il 15 agosto 1874).

Un periodo tormentato per lo Spano, segnato dai lutti e dalle disgrazie familiari, perfino da un processo per ricettazione[62], impegnato prima come preside del Regio Convitto (dal 1854 al 1857) e poi come Rettore dell’Università di Cagliari (dal 5 settembre 1857 al dicembre 1868), a cavallo della riforma della legge Casati del ’59. Un periodo ricco di soddisfazioni scientifiche, di scoperte importantissime come la trilingue di San Nicolò Gerrei[63] o la colonna dei Martenses a Serri[64]; ma anche di viaggi da Cartagine a Palermo, da Messina a Napoli, da Torino a Firenze. Il racconto dello sbarco in Tunisia a La Goulette è pieno di reminiscenze classiche, ma anche animato da una inattesa ironia: «Tosto messo piede a terra, ricordai con trasporto come Giulio Cesare, nel toccare il suolo africano, cadde e, stringendo un pugno delle arene infuocate, esclamò: “finalmente ti ho afferrato !”». Io, volendo fare altrettanto, mi cadde il cappello in mare e dovetti dare qualche moneta ad un forzato arabo per trarmelo dall’acqua»[65].

E poi le escursioni in Sardegna; gli scavi ancora a Tharros, a Capo Frasca ed a Neapolis nel 1858, i viaggi in Barbagia, nel Goceano, nel Marghine, nella Planargia, nel Sulcis, nella Trexenta, in Marmilla, in Gallura, fino a Caprera dove vide «l’abitazione del generale Garibaldi, il genere di coltura che v’introdusse, ma più i residui di antichità che vi aveva raccolto»[66]. E poi il ritorno costante a Ploaghe, la città natale, illustrata dalla scoperta di un prezioso codice (di dubbia provenienza), relativo all’antica Plubium.

Già nel 1865, pubblicando presso la Tipografia Arcivescovile una monografia su una serie di bronzetti nuragici trovati nel villaggio di Teti, il canonico inseriva in appendice le Scoperte Archeologiche fattesi nell’isola in tutto l’anno 1865, cercando così di recuperare il tempo perduto e di fornire le notizie (molto riassuntive) dei principali ritrovamenti effettuati. La novità è ben spiegata nell’introduzione: «Dacchè nel 1864 fu sospesa la pubblicazione del Bullettino Archeologico Sardo che per 10 anni avevamo costantemente sostenuto, abbiamo creduto a proposito di dare qui una rassegna dei monumenti antichi, e degli oggetti che nello scorso anno si sono scoperti in tutta l’isola, onde tener al corrente gli amatori delle antichità Sarde, fino a che sia il caso di poter riprendere la pubblicazione periodica di esso Bullettino». Dunque lo Spano pensa ad un’interruzione temporanea della Rivista, per le ragioni dichiarate esplicitamente ma anche forse per altre ragioni meno confessabili, collegate magari alla vicenda delle Carte d’Arborea, dal momento che nella serie delle Scoperte l’attenzione è concentrata sui ritrovamenti, sui dati di fatto, sui documenti epigrafici autentici, al riparo da ogni sospetto di falsificazione. Del resto, il ricorso alla Tipografia Arcivescovile per le sue pubblicazioni sembra coincidere con il ritorno a Cagliari dell’Arcivescovo Emanuele Marongiu Nurra (I marzo 1866), dopo quasi 16 anni di esilio: un amico personale, conosciuto a Sassari già nel 1823, lo stesso che nel 1845 gli aveva procurato la sinecura del canonicato di Villaspeciosa, quando il Magistrato sopra gli studi gli aveva notificato l’esonero dall’insegnamento, trascurato dallo Spano per «le inezie della lingua vernacola» e per i «gingilli dell’archeologia»[67].

La serie delle Scoperte, iniziata dunque nel 1865, prosegue regolarmente per dodici anni fino al 1876, non sempre con pubblicazioni monografiche autonome: la serie viene pubblicata in appendice a monografie su temi archeologici (1865, 1866), di numismatica (1867), di epigrafia (1868) o di storia dell’arte (1869, 1870, 1872), all’interno della “Rivista Sarda” diretta dallo Spano (1875), oppure con fascicoli autonomi (1871, 1873, 1874 e 1876), ciascuno di circa 50 pagine, dunque molto più scarni dei volumi del “Bullettino“, per un totale di oltre 600 pagine.

Sono questi gli anni delle grandi scoperte (la tavola di Esterzili, il cippo dei Giddilitani, l’epitafio del trombettiere della coorte dei Lusitani, il diploma di Anela, la dedica caralitana a Venere Ericina)[68], ma anche dei più alti riconoscimenti: la nomina a «membro nazionale non residente dell’Accademia delle Scienze di Torino, per la classe filologica e morale», al posto di Luigi Canina, deceduto nel 1856[69]; la nomina a Rettore dell’Università di Cagliari (5 settembre 1857); la medaglia offerta dai suoi studenti e dai suoi allievi per la partecipazione al V congresso preistorico di Bologna; la nomina a Senatore del Regno, effettuata con Regio Decreto del 15 novembre 1871, titolo utilizzato solo formalmente, che compare sulla copertina del volume relativo alle Scoperte Archeologiche del 1871. Sono gli anni della nascita a Cagliari della Facoltà di Filosofia e Lettere (a. 1863), dove venivano nominati per la prima volta i docenti di Storia (Giuseppe Regaldi), di Lingua greca e latina (Ollari), di Geografia antica (Vincenzo Angius).

 

9. Un’approfondita trattazione alle singole annate della Rivista e delle “Scoperte” è stata recentemente fornita da Paola Ruggeri[70]: in questa sede ci limiteremo perciò a definire negli aspetti più significativi lo sviluppo della rete di corrispondenti dello Spano, inizialmente impegnati all’interno del “Bullettino” e successivamente preziosi informatori per le “Scoperte“: un tema questo relativamente trascurato dagli studiosi, che però riesce ad illuminare in modo sorprendente lo sviluppo dell’archeologia isolana ancora alle origini, in un rapporto conflittuale tra falsificazione e documentazione storica.

Tra i corrispondenti compaiono 5 archeologi, 4 antiquari, 58 sacerdoti (compresi vescovi, canonici, teologi, vicari, parroci, ecc.), 2 frati, 8 insegnanti, 7 maestri elementari, 1 geologo, 1 scultore, 12 ingegneri,  3 architetti, 1 geometra, 1 disegnatore, 9 militari, 4 giornalisti, 6 notai, 12 magistrati, 17 avvocati, 14 medici, 4 farmacisti, 1 scenografo, 2 impiegati, 1 ottico, 5 orefici, 5 negozianti di antichità, 40 nobili, 3 studenti, 46 semplici cittadini, più 5 sindaci, 1 assessore comunale e 3 segretari comunali, su un totale di oltre 280 persone, di cui una decina parenti stretti dello Spano. E il dato è sicuramente sottostimato.

Più precisamente:

– archelogi, come Luigi Amedeo a Sassari (poi R. Ispettore agli scavi), Vincenzo Crespi, Filippo Nissardi (prima studente, geometra ed applicato dell’Ufficio del Genio Civile, poi Soprastante alle antichità), Pietro Tamponi a Terranova (Ispettore dal 1880), Filippo Vivanet (poi Soprintendente).

antiquari, come Gaetano Cara (morto il 23 ottobre 1877), Pietro Martini (morto il 17 febbraio 1866), Giovanni Pillito, Ignazio Pillito.

– sacerdoti, come Vittorio Angius (morto a Torino nel 1862), il teol. Atzeni ad Iglesias, Francesco Bianco a Buddusò, Salvatore Caddeo a Silanus, Sebastiano Campesi a Terranova, il teol. Gerolamo Campus a Ploaghe, Eugenio Cano vescovo di Bosa, Pietro Carboni a Gadoni, il teol. Salvatore Carboni a Siniscola, G.A. Cardia ad Esterzili, Fedele Chighine a Posada, Salvatore Cocco ad Austis, Salvatore Cossu a Ploaghe, il can. Salvatorangelo De Castro ad Oristano (protagonista della falsificazione delle carte d’Arborea), F. Del Rio a Ploaghe, il can. Antonio Demontis, Elia Dettori a Magomadas e poi a Sagama, il teol. Gavino Dettori a Buddusò, Gabriele Devilla a Nuragus (presidente di una «società» archeologica e poi Ispettore agli scavi), Michele Fedele Scano a S. Antioco di Bisarcio, Felice Fluffo a Decimoputzu, il teol. Antioco Loddo ad Ulassai, Antonio Manno ad Alà, il teol. Giovanni Marras, Gavino Masala a Monte Leone Roccadoria, il can. Francesco Miglior, A. Moi a Villasalto, il teol. Ciriaco Pala a Nuoro, il teol. G. Panedda a Sassari, Giuseppe Pani a Sadali (allievo prediletto dello Spano, morto nel 1865)[71], il can. Giovanni Papi a San Gregorio, Serafino Peru in Anglona ed a Terranova, il teol. G. Panedda, il teol. Antonio Michele Piredda a Flussio, Giuseppe Pittalis ad Orosei, il teol. Sebastiano Porru a Belvì, il can. Angelo Puggioni a Magomadas, il teol. can. V. Puggioni a Bosa, Antonio Satta a Chiaramonti, Giuseppe Luigi Spano a Sagama, il teol. Michele Spano a Perfugas, il can. Luigi Sclavo a Sassari, Salvatore Angelo Sechi ad Ittiri, Pietro Sedda ad Atzara, Giovanni Antonio Senes a Benetutti, Serra a Guspini, il teol. Filippo Felice Serra a Cargeghe, Salvatore Siddu a Sant’Antioco, Giovanni Sini a Ploaghe (cappellano militare), il teol. Francesco Spano a Borutta, Antonio Spissu a Serri, Salvatore Spano a Ploaghe, Antonio Spissu a Serri, il teol. Pietro Todde a Tiana, Allai e Tonara, il teol. G. Uras a Sestu, Pietro Valentino ad Olbia, Fedele Virdis a Ploaghe, Zaccaria Sanna a Scano Montiferro.

– frati, come il questuante Diego Cadoni ed il sac. Giusto Serra a Lanusei.

– insegnanti, come il prof. Francesco Antonio Agus a Ghilarza, prof. Pietro Cara a Cagliari,  il prof. Antonio Carruccio ed il prof. Antonio Fais (che parteciparono con lo Spano al convegno preistorico di Bologna), il prof. Patrizio Gennari (direttore dell’Orto Botanico, direttore del Museo di Cagliari, Rettore dell’Università), il prof. G. Meloni (del R. Museo anatomico), il prof. G. Todde dell’Università, P. Umana a Cagliari.

– maestri elementari, come Francesco Fois a Ploaghe, Luigi Loi a Nuragus, Battista Mocci a Cuglieri, Gianangelo Mura a Gesturi, Antioco Puxeddu a Neapolis, Federico Saju a Cagliari, Pantaleone Scarpa a Macomer.

– geologi, come G.L. Cocco.

– scultori, come Giuseppe Zanda a Desulo.

– ingegneri, come Giorgio Bonn a N.S. di Castro, Francesco Calvi (direttore delle Ferrovie Sarde), C. Corona a Corongiu, Efisio Crespo (autore di alcuni modellini di nuraghi, morto il 3 aprile 1874), E. Duveau a Grugua, A. Fais a Laerru, Federico Foppiani a Gadoni, Carlo Heym nel Sulcis, F. Marcia a Cagliari, Giovanni Onnis a Mara Arbarei, G. Pietrasanta (per il cippo terminale dei Giddilitani), Bartolomeo Ravenna ad Ierzu.

– architetti, come Salvatore Cossu a Bosa, Angelo Ligiardi ad Oristano, Luigi Tocco a Cagliari (impegnato contro i falsi idoletti fenici).

– geometri, come Luigi Crespi.

– disegnatori, come Federico Guabella di Biella (autore della «carta nuragografica» di Paulilatino, deceduto «naufrago» nel 1866)[72].

– militari, come il col. Francesco Cugia, il gen. Conte Alberto della Marmora, il cap. Gavino De-Logu a Bortigali, Antonio Masala (alcaide a Foghe), l’ufficiale Roberto Meloni ad Alghero, il luogotenente Luciano Merlo, Antonio Roych (comandante militare di Iglesias), il cav. Ruffoni di Verona (capitano dei Bersaglieri, protagonista di uno scavo in un nuraghe di Macomer), l’ex brigadiere Giovanni Sechi di Ploaghe.

– giornalisti, come F. Barrago, G. De Francesco, Michelino Satta, G. Turco.

– notai, come A. Atzori (sindaco di Paulilatino), S. Casti, Salvatore Congiattu a Martis, Andrea Marras a Terranova (Regio Ispettore nel 1876), Raimondo Melis a Nuragus, Puligheddu ad Ales.

– magistrati, come il pretore Antonio Ignazio Cocco a Siniscola, il procuratore Carlo Costa, il pretore avv. Cugurra a Ploaghe, A. Dore a Bitti, G. Pietro Era ad Oristano, il pretore F. Orrù a Sant’Antioco, A. Satta Musio, Ignazio Serra, Antonio M. Spano, Francesco Spano ad Oristano, il pretore G.M. Tiana Frassu a Benetutti e Nulvi, N. Tolu a Tharros.

– avvocati, come G. Maria Campus a Terranova, G. Dore a Giave,  Francesco Elena (tra il 1867 e l’anno della sua morte avvenuta a Tunisi per annegamento nel 1884), Francesco Mastino a Bosa, Sisinnio Meloni Piras a Selegas, A. Nurchis a Cagliari, Pirisi a Nuoro, Efisio Pischedda a Seneghe, Fara Puggioni a Cagliari, Francesco Ruggiu a Porto Torres, Sebastiano Salaris a Cuglieri, Giuseppe Sanna Naitana a Cuglieri (decisamente ostile ai falsari delle Carte d’Arborea, in polemica con Antonio Mocci), Antonio Sancio a Bono, Giovanni Spano a Sassari, Antonio Maria Spanu, Stanislao Tuveri a Barumini, Stefano Vallero a Sassari.

– medici come Giovanni Altara a Bitti, G. Camboni, Giacomo Congiu a Muravera, il chirurgo G. Crespi ad Armungia,  Giovanni Vincenzo Ferralis a Bosa, S. Lallai a Nurri, Lampis a Guspini, S. Mereu ad Ierzu, Giovanni Mura Agus a Meana, Salvatore Orrù a Milis, G.M. Pilo a Bitti, Antonio Schirru, G.M. Spano a Ploaghe, F. Tamburini a Padria.

– farmacisti, come Battista Melis a Serramanna, Francesco Putzu a Laconi (protagonista degli scavi a S. Maria Alesa), Antonio Luigi Salaris a Cuglieri, Francesco Serra a Cagliari.

– scenografi, come Ludovico Crespi.

– impiegati, come Ignazio Agus (direttore del cimitero di Bonaria), A. David (direttore dell’Ufficio postale di Oristano).

ottici, come G. Claravezza a Cagliari.

orefici, come Efisio e Giuseppe Campurra, Giovannino Dessì, R. Ferrara a Cagliari, Fedele Puddu.

– negozianti, come Francesco Defraja a Cagliari, Angelo Gherardi Pisenti a Porto Torres, Domenico Lofredo ad Oristano, Manai «rigattiere di cose antiche», Pietro Solinas.

– nobili, come il cav. Raimondo Arcais (morto nel 1873), i visconti F. e Vincenzo Asquer, il cav. Barisonzo a Sumugheo, Giovanni Busachi, cav. Costantino Carta a Bortigali, la nobildonna Placida Carta nata Passino a Bortigali, Gavino Cocco a Burgos (figlio di Bonifacio, protagonista della rivoluzione angioiana), Giuseppe Luigi Delitala per gli scavi di Cornus, il cav. D. De Filippi a Baunei, il conte C. De Magistris, il cav. Raimondo Dettori «nostro antico discepolo e amico» a Padria e Villanova, il cav. Peppino Di Teulada, Benvenuto Dohl (proprietario delle Saline di Cagliari), Iessie Dol nata Craig, il sen. Domenico Elena (prefetto di Cagliari), il cav. Battista Fois ad Iglesias, il cav. Domenico Fois Passino a Mulargia, Anna Galeani, il cav. Garrucciu a Fluminimaggiore, il sen. G.M. Grixoni, il cav. Francesco Grixoni, il conte Lostia a Nora, A. Manca Bitti a Nule, il cav. Sisinnio Paderi, il cav. Emanuele Passino a Tempio, il cav. Giuseppe Passino ad Abbasanta, Carlo Peltz a Cagliari, il cav. Paolo Pique (console generale di Francia), il conte Gioachino Pinna a Macomer, cav. A. Saba di Cheremule, il marchese Enrico di San Giust a Teulada (poi Barone), il cav. Francesco Antonio Satta a Florinas, il cav. Serpieri a Carcinadas, Pietro L. Serralutzu a Cuglieri, il cav. Stanislao Sini a Cabras, cav. Maurizio Sulis a Cagliari, il cav. Efisio Timon, il cav. G. Todde a Villacidro,  il cav. Rocco Vaquer a Villamar, Eugenio Vaquer a Villasor.

– studenti come Efisio Garau Perpignano a Grugua,  Lodovico Paulesi in Trexenta, il cav. Peppino Siotto a Sarrok.

– semplici cittadini, come Francesco Bagiella a Cheremule, Gavino Carta ad Ardara, P. Paolo Cesaraccio a Ploaghe, Francesco Cocco a Torralba, Proto Sanna Corda a San Vero, A. Corrias a Siniscola, Federico Dettori a Padria, Francesco Todde Floris a Tortolì, Teodoro Floris Zanda a Fordongianus, Efisio Franchini a Bosa, A. Frau a Terranova, Ricciotti Garibaldi (il figlio del Generale) a Caprera, Serafino Gaviano ad Abbasanta, Franceco Manconi a Macomer, Giuseppe L. Manconi, Michele Mancosu a Neapolis, Francesco Marogna a San Michele di Plaiano, il capo mastro Domenico Martinez a Torralba ed Ardara, Igino Martini di Quartu, Giuseppe Meloni a Norbello, S. Meloni a Cagliari, Monserrato Muscas, Antioco Murgia («liquorista») a Macomer, Giovanni Palimodde Salis ad Oliena, Giovanni Antonio Paulesu a Senorbì, Guglielmo Pernis ad Oristano, Antonio Picci a Sestu,  G. Maria Pilo-Piras a Bitti, Felice Porrà, F. Saccomanno a Serdiana, Giovanni Antonio Satta a Florinas, Celestino Secchi a Nuragus, Giuseppe Maria Senes a Nule, Virgilio Serpi a Barumini, Antonietta Serra Pintor a Lei, Efisio Serra, Battista e Martino Tamponi a Terranova, Battista Tolu a Tharros, P. Usai (bidello dell’Università), Rodolfo Usai a Terranova, Fiorenzo Virdis a Tissi, Francesco Angelo Zonchello Niola a Sedilo, Giuseppe Maria Zucca a Baressa.

Tra tutti si segnalano i parenti dello Spano, come Domenico Figoni (che volle ricostruire il nuraghe Nieddu di Codrongianus), Tommaso Satta Spano, sindaco di Ploaghe, il teol. Michele Spano a Perfugas, l’ex brigadiere Giovanni Sechi di Ploaghe, il teol. Francesco Spano a Borutta, Govanni Luigi Spano (fratello di Govanni, cognato del Fiori Arrica), Sebastiano Spano a Ploaghe.

Infine amministratori comunali ed in particolare sindaci, come il notaio A. Atzori a Paulilatino, Antonio Pinna ad Osidda, l’avv. Antonio Sancio a Bono, il cav. Tommaso Satta Spano a Ploaghe, Salvatore Susini a Sant’Antioco, avv. Stanislao Tuveri a Barumini; assessori come il dott. G. Sini a Ploaghe; e segretari comunali, come A.G. Cao a Villasalto, Raffaele Puxeddu Manai a Sedilo, oppure a Villasalto.

 

10. Il quadro complessivo, pur assolutamente parziale e, se si vuole, al momento assolutamente provvisorio, rende bene lo svilupparsi di una rete di informatori, corrispondenti, amici, collaboratori dello Spano: persone alcune volte conosciutissime, più spesso per noi soltanto dei nomi, espressione comunque di un’élite di appassionati, motivati da un forte amor di patria: con il loro aiuto lo Spano è riuscito a controllare tutta l’isola, dalla Gallura all’Ogliastra, dal Sulcis alle Barbagie, per poi arrivare a costruire una struttura che nel tempo vediamo consolidarsi e rafforzarsi, fino ad arrivare negli ultimi tempi alla nascita del R. Commissariato per i musei e scavi di antichità della Sardegna (affidato inizialmente allo Spano fin dal 1875), con un Soprintendente, con una rete di direttori di musei, di Soprastanti e di Ispettori, alcuni dei quali molto qualificati (come Andrea Marras e Pietro Tamponi a Terranova, Luigi Amedeo a Sassari, Battista Mocci a Cornus, Gabriele Devilla nel Sarcidano, ecc.). Ci sono poi i collaboratori diretti dello Spano, i discussi Pietro Martini ed Ignazio Pillito, Filippo Vivanet, Vincenzo Crespi (per il Mommsen vir peritus et candidus)[73], soprattutto gli allievi prediletti Giuseppe Pani (morto a Sadali nel 1865) e Filippo Nissardi, che seguiamo giovanissimo studente a partire dal 1867, per lungo tempo, fino alla nomina di Ettore Pais a direttore del Museo di Cagliari. Proprio il Nissardi fu il vero erede dello Spano, che lo giudicava «adorno delle più belle virtù», «valente disegnatore», di cui «tutti si augurano che diventerà col tempo un vero archeologo che supplirà il vacuo di quelli che vanno a mancare per l’età nella patria».

In qualche caso abbiamo notizia della nascita di vere e proprie «società» archeologiche, sostenute ed incoraggiate dallo Spano, come quella presieduta dal parroco di Nuragus Gabriele Devilla (poi Regio Ispettore agli scavi per la Giara di Gesturi), che scavava nel sito dell’antica Valentia ed era composta da Giuseppe Caddeo, Salvatore Deidda, Cristoforo Mameli, Francesco, Luigi, Paolo e Vittorio Matta, Lodovico Trudu, Giuseppe Zaccheddu. Oppure la «società» che nel 1867 iniziò gli scavi nella necropoli punico-romana di Tuvixeddu a Cagliari, composta da Antonio Roych, Michele Satta, Efisio Timon, Vincenzo Crespi. E poi la neonata «Società Archeologica» fondata nel Sulcis ed a Capoterra dall’ingegnere minerario Léon Gouin. Ancora a Perfugas, dove si era «costituita in seguito una società per esplorare regolarmente quel sito» ed a Laerru, gli scavi di Monte Altanu, svolti con poco profitto da «una società» di privati cittadini, così come a Cornus, dove «sono state fondate società che vi rimasero più d’un mese, attendendo ai lavori che fruttarono un’immensa quantità di urne cenerarie in vetro, e di fiale,  e guttarii in vetro di ogni colore di cui sono piene le private collezioni». Infine la Società Archeologica Sarda, nata nel 1872, che «perì il giorno che è nata», che doveva occuparsi della pubblicazione di un suo “Bullettino“.  Del resto, gà nella Prefazione al VII numero del “Bullettino”, lo Spano aveva suggerito la nascita di un’associazione, di una vera e propria società o accademia; almeno aveva auspicato che «alcuni si unissero, per praticare ogni anno piccoli scavi in alcuni punti non ancora toccati dell’Isola, dove tuttora è seppellita la storia di quei popoli che più non sono».

Numerosissime le collezioni visitate dallo Spano e rapidamente presentate nel “Bullettino” e nelle “Scoperte“: per tentarne un elenco si possono ricordare i nomi dei proprietari, Giovanni Busachi, l’ing. Francesco Calvi (proprietario di una preziosa «dattilioteca»), L. Calvi, Salvatore Carta, il gen. L. Castelli, Raimondo Chessa (direttore della Banca Nazionale di Cagliari e membro dell’Instituto Archeologico di Roma), Giovanni De Candia, can. Salvatore Angelo De Castro ad Oristano,  Francesco Grixoni, Domenico Lofredo ad Oristano, Giuseppe L. Manconi, S. Müller, Battista Mocci a Cuglieri, F. Orrù a Sant’Antioco, Ignazio Pillito a Cagliari, avv. Fara Puggioni a Cagliari, Antonio Roych (collezione poi acquistata dall’Amministrazione provinciale di Cagliari), il giudice Francesco Spano ad Oristano (collezione poi passata alla figlia Spano Lambertenghi e quindi ad Enrico Castagnino), Paolo Spano, il can. Luigi Sclavo a Sassari, il teol. Filippo Felice Serra a Cargeghe, il sac. Salvatore Spano a Ploaghe,  il cav. Maurizio Sulis a Cagliari, il cav. Efisio Timon, Eugenio Vaquer a Villasor. E poi i reperti sardi conservati in altre collezioni, come il Mosaico di Orfeo, rinvenuto a Cagliari nel 1762 e fatto trasferire dal Ministro Bogino presso l’Accademia delle Scienze e poi presso il Museo Egiziano di Torino[74].

In questi aridi elenchi c’è veramente tutta la Sardegna, ci sono gli uomini di cultura e gli affaristi, c’è il ceto dirigente di un’isola ancora disattenta in genere ai problemi della nascente archeologia, sottoposta in continuazione ad atti vandalici, se il sindaco di Torralba era arrivato a far demolire una parte del nuraghe Santu Antine, per realizzare un abbeveratoio per il bestiame: eppure era un nuraghe reso celebre nel 1829 per la visita del re Carlo Alberto. Lo Spano invoca ancora una volta «una commissione conservatrice di antichità» che garantisca la tutela e la difesa del patrimonio archeologico isolano[75].

Fu lo Spano a recuperare un ritardo secolare, consentendo alla Sardegna di aprirsi alla conoscenza di moltissimi studiosi italiani e stranieri.  I temi sollevati sono ancora oggi quanto mai vitali: la destinazione dei nuraghi, il collegamento con i Shardana, le fasi della romanizzazione, la localizzazione del tempio del Sardus Pater, che lo Spano pensava sul Capo Frasca, a S di Tharros, pur conoscendo le rovine di Antas, la cristianizzazione dell’isola.

I grandi scavi, svolti con la partecipazione diretta dello Spano: a Tharros, a Florinas ed a Mesu Mundu presso il Monte Santo nel ’57[76], a Tuvixeddu nel ’65 e nel ’67, nell’anfiteatro di Cagliari nel ’66, a Monteleone Roccadoria ed a Padria nel ’66, a Pauli Gerrei nel ’65; e poi Nora, Sulci, Neapolis, Forum Traiani, Cornus, Turris Libisonis, Olbia, infine a Ploaghe nei nuraghi Attentu e Don Michele citati nelle Carte d’Arborea, fino al’75: qui si sarebbero svolti secondo Giovanni Lilliu i primi scavi statigrafici in Sardegna[77]; gli altri scavi, di cui lo Spano fornisce informazioni e dettagli, come quelli del 1875 ad Osilo di Pio Mantovani e G. Arnaudo; a Tharros nel 1875 dell’avv. Domenico Rembaldi e del tipografo Giorgio Faziola di Firenze (quest’ultimo si sarebbe impegnato per la ristampa del “Bullettino“, ormai esaurito); inoltre le scoperte occasionali, gli scavi per la realizzazione di opere pubbliche (come la ferrovia di Porto Torres, la stazione di Cagliari), le analisi paleo-antropologiche, come quelle affidate a P. Mantegazza. Inoltre la politica di acquisti dei grandi musei internazionali, il British (con le dubbie attività di Gaetano Cara) ed il Louvre, con gli scavi di R. Roussel a Cornus, ma anche a Cagliari ed a Nulvi.  E poi i materiali, le iscrizioni, ma anche i monumenti (teatri, anfiteatri, terme) ed i reperti dalla preistoria all’età medioevale, con particolare attenzione per l’età romana (armi, bronzetti, scarabei egittizzanti, amuleti, statue, lucerne, ceramiche, mosaici, monete, gioielli, vetri, sarcofagi, urne cinerarie, ecc.).

Possiamo seguire in diretta l’inaugurazione del nuovo Museo di Cagliari (avvenuta il 31 luglio 1859, quando fu scoperto il busto del Della Marmora), l’accrescersi delle collezioni (con la donazione di epigrafi puniche di Cartagine effettuata da N. Davis, con l’acquisto di intere raccolte e con la donazione della raccolta archeologica, che nel 1860 valse allo Spano una medaglia con l’effigie di Vittorio Emanuele II re di Sardegna)[78]. Eppure appena due anni prima era «un fatto che delle tante (lapidi) sarde che riporto, appena una n’è rimasta, che trovasi nel R. Museo di Cagliari», forse a causa dell’imprevidenza del direttore Gaetano Cara, che non proteggeva a sufficienza il patrimonio del museo, trattandolo come se fosse una sua proprietà privata.[79]

 

11. E’ soprattutto il “Bullettino Archeologico Sardo” a consentirci di definire il quadro dei collaboratori, perchè a parte i 398 articoli firmati dallo Spano ed i 5 articoli anonimi, 142 articoli sono firmati da amici e corrispondenti, anche se in qualche caso si tratta solo di ristampa di lavori pubblicati in riviste italiane o straniere: Pietro Martini è presente quasi tutti gli anni con ben 43 articoli, segue Celesto Cavedoni (direttore della Biblioteca di Modena, conosciuto dallo Spano fin dal 1839, difensore delle Carte d’Arborea ed in particolare del Ritmo di Gialeto, fino alla morte avvenuta nel 1870)[80] con 23, Pier Camillo Orcurti (primo assistente del R. Museo Egiziano di Torino, un «distinto egittologo», che «morì per isforzi di studio, disgraziatamente nel manicomio», che lo Spano conobbe personalmente a Torino nel 1856)[81] con 16, Vincenzo Crespi (assistente del R. Museo archeologico) con 11, Alberto Della Marmora con 5, il discusso archivista Ignazio Pillito e lo «scrittore di cose nazionali» Francesco Fiori Arrica con 4 (tutti pubblicati dopo la morte avvenuta nel 1855 durante l’epidemia di colera)[82], «il dotto e distinto archeologo» Raffaele Garruci[83] con 3; con due articoli François Bourgade (Cappellano della Cappella Imperiale di San Luigi di Cartagine, poi divenuto amico personale dello Spano dopo il viaggio in Tunisia del 1856)[84], Salvatore Cocco (rettore di Austis), Salvatore Cossu (rettore di Ploaghe), Giulio Minervini (che lo Spano conobbe a Pompei nel 1856: egli era «il regio bibliotecario, il continuatore del “Bullettino Archeologico Napolitano” ed il presidente dell’Accademia pontiniana»)[85], Salvatore Orrù (il medico chirurgo di Milis, noto per le scoperte di Cornus), il sacerdote Giovanni Pisano[86]; infine compaiono tra i collaboratori il celebre arabista Michele Amari (ministro della Pubblica Istruzione dal 1863), G. Brunn[87], Gaetano Cara, il conte Ippolito Cibrario «segretario del Gran Magistero della Sacra Religione»[88], figlio del più noto Luigi Cibrario (il Ministro al quale lo Spano doveva nel 1853 l’ingresso nel Consiglio universitario di Cagliari)[89], il conte Alberto De Retz, D. Detlefsen[90], Gaspare Gorresio (segretario dell’Accademia Reale delle Scienze di Torino, classe di scienze morali, storiche e filologiche), G. Henzen (segretario generale dell’Instituto archeologico di Roma, che lo Spano conobbe personalmente nel 1856)[91], il tedesco M.A. Levy, L. Müller[92], il frate Luigi Pistis, Vincenzo Federico Pogwisch che lo Spano conobbe a Messina nel 1856)[93], Antioco Polla, Antonio Spissu (rettore della parrocchia di Serri) ed il Conte Carlo Baudi di Vesme (pienamente coinvolto nella difesa delle Carte d’Arborea ed in particolare del Codice Garneriano).

Il quadro statistico complessivo delle collaborazioni al “Bullettino Archeologico Sardo” è stato già fornito da me in passato e non deve essere necessariamente ripreso in questa sede[94]: se estendiamo l’indagine alle “Scoperte“, abbiamo notizia di relazioni e rapporti amichevoli dello Spano con qualificatissimi studiosi italiani, molti dei quali conosciuti di persona durante il V Congresso preistorico di Bologna, svoltosi nel 1871, che fu l’occasione per lo Spano per presentare al mondo la civiltà nuragica, anche se con qualche interferenza del Cara, che nella circostanza fece distribuire il suo opuscolo sui “flagelli”, di cui si dirà: è il caso di Luigi Pigorini,  prima direttore del Museo di Parma, poi a Roma direttore del Museo italiano preistorico ed etnografico, che avrebbe ricevuto nel 1876 almeno una ventina di oggetti sardi[95].  E’ il caso anche di Giuseppe Bellucci di Perugia, di B. Biondelli, direttore del Gabinetto numismastico di Milano (che fu a Cagliari, poi a Cartagine ed infine a Sassari nel 1865), di C. Capellini, di Giancarlo Conestabile di Perugia, del latinista G. Crisostomo Ferrucci, bibliotecario della Laurenziana di Firenze, di Gian Francesco Gamurrini, direttore del Museo di Firenze, di G. Gozzadini di Bologna («dotto ed archeologo rinomato»)[96], di Gregorio Ugdulena, di Atto Vannucci, conosciuto a Firenze nel 1862; ma lo Spano era in rapporti anche con il celeberrimo Giovanni Battista De Rossi, che conobbe a Roma fin dal 1856[97], e che seguì l’edizione di alcune iscrizioni paleocristiane della Sardegna.  Dell’abate torinese Amedeo Peyron, così come di Carlo Promis si è già detto. I rapporti con Pasquale Tola, presidente della Società ligure di Genova, «attivo ed ammirato da tutti i membri che assistevano alle adunanze per la sua prontezza, dottrina ed eloquenza», «ingegno eminente, scrittore incomparabile e di gran genio, uno dei primi ingegni della Sardegna»  non furono in realtà sembre buoni[98]; lo Spano del resto aveva seguito il Della Marmora nella polemica sull’edizione delle iscrizioni latine della Grotta delle Vipere, che nel Codex Diplomaticus Sardiniae appariva «pessima» ma anche «scorretta ed incompleta»[99].

Si è già accennato al profondo rapporto di amicizia e di collaborazione con il generale Alberto Ferrero Della Marmora, morto a Torino il 18 aprile 1863, ma anche con il padre Vittorio Angius (scomparso a Torino nel 1862 nell’«inedia e miserabilmente»)[100] e con il barone Giuseppe Manno, «gloria della Sardegna e dell’Italia, per i suoi dotti, eleganti e variati scritti», morto nel 1868, che fu in stretta relazione epistolare con lo Spano e che, a differenza di quanto normalmente si scrive, sembra parzialmente aver aderito alla falsificazione delle Carte d’Arborea[101].

 

12.  Sarà però ancora più utile l’elenco completo dei corrispondenti stranieri dello Spano: il cav. Beulè di Parigi (poi Ministro della Pubblica Istruzione, «il quale si era portato in Cartagine per far scavi onde studiare e stabilire la topografia dell’antica Byrsa», che fu a Cagliari al Museo; «indi partì per Sassari per imbarcarsi col vapore di Marsiglia»)[102], Augusto Bouillier di Parigi, François Bourgade di Cartagine (per le iscrizioni fenicie), E. Bormann (per il cippo dei Giddilitani), Paulus Cassel (per la trilingue di San Nicolò Gerrei),  François Chabas (per i Shardana), l’antiquario inglese N. Davis (apprezzato per il dono di 6 stele puniche da Cartagine)[103], E. Desjardins (ancora per il cippo dei Giddilitani), Gabriel De Mortillet (per i nuraghi), Iulius Euting (bibliotecario di Tubinga, in occasione del viaggio a Sassari ed a Porto Torres), Wolfgang Helbig (segretario dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica di Roma, che fu a Cagliari ed a Ploaghe nel 1875 e che l’anno successivo avrebbe dedicato allo Spano un lavoro sopra l’arte fenicia)[104], G. Henzen (segretario generale dell’Instituto archeologico di Roma, che lo Spano conobbe nel 1856)[105], Renato Laboulaye (per la tavola di Esterzili), Léon Gouin (ingegnere minerario nel Sulcis), M.A. Levy, il barone i Maltzan (che visitò la Sardegna nel 1868), Francisco Martorell «dotto signore di Barcellona» (che fu in Sardegna nel 1868, «venuto espressamente per visitare i Nuraghi Sardi e studiarli per poterne far paragone coi Talaioth delle Baleari»), I. Mestorf, Th. Mommsen (in Sardegna nell’ottobe 1877), Heinrich Nissen (in Sardegna nella primavera 1866, per reparare il viaggio del Mommsen), Valdemar Schmidt (del Museo di Copenaghen, conosciuto in occasione del congresso preistorico d Bologna), Otto Staudinger di Berlino (per le indagini preistoriche a Siligo del 1855, già nel primo volume del “Bullettino“), Pompeo Sulema (inviato da Cartagine in Sardegna da François Bourgade, per l’edizione delle iscrizioni fenicie del Museo di Cagliari), l’inglese Elisabetta Warne («bizzarra e stravagante», che si trattenne a Cagliari nel 1859 per alcuni mesi)[106], J.A. Worsaae (del Museo di Copenaghen, conosciuto in occasione del congresso preistorico di Bologna), ecc.

Non è possibile in questa sede ricostruire i dettagli dei singoli contatti, che pure in futuro meriterebbero di essere meglio studiati, alla luce soprattutto dell’ampio epistolario conservato presso la Biblioteca Universitaria di Cagliari e presso il Rettorato. Ci limiteremo pertanto a trattare solo alcuni nuclei tematici, con riguardo in particolare ai rapporti di amicizia dello Spano con alcuni studiosi tedeschi, soprattutto Otto Staudinger, Iulius Euting, Wolfgang Helbig, Heinrich Nissen, Theodor Mommsen, ma anche il Barone di Maltzan, che visitò la Sardegna tra il febbraio ed il maggio 1868 e che morì suicida a Pisa il 22 febbraio 1874[107]. Di lui lo Spano ricorda «i viaggi fatti in Oriente e in tutta l’Africa, sino al Marocco, esponendosi a tanti pericoli»; egli «parlava l’arabo come un musulmano e si associò ad una carovana con nome finto per visitarre La Mecca ed il sepolcro di Maometto»[108].

Il viaggio di Otto Staudinger è segnalato sul primo numero del “Bullettino“, mentre ripetutamente si elencano le recensioni positive che la Rivista aveva ricevuto in Germania. Si può però partire da una preziosa notizia registrata sulle “Scoperte” del 1870[109], a proposto del viaggio in Sardegna effettuato nell’ottobre 1869 dal «dotto Professore bibliotecario di Tubinga, che venne in Sardegna (…) collo scopo di studiare e copiare tutte le iscrizioni fenicie»: si tratta di Iulius Euting, che «passando da Sassari a Porto Torres per prender imbarco per Marsiglia», potè osservare con dolore una fase della distruzione dell’acquedotto di Turris Libisonis. Egli poté raccontare allo Spano le sue impressioni in una lettera successiva forse dei primi mesi del 1870: «quum ex urbe Sassari discederem, juxta viam viros vidi qui antiquum aquae ductum Romanorum, barbarorum more in latomiarum modum despoliantes, ferro et igne saxula deprompserunt, non sine dolore !». Dalle pagine del volume emerge la viva simpatia dello Spano per «il dotto giovine Bibliotecario di Tubinga» e per la causa prussiana: «se pure non sarà distratto dai suoi studj impugnando l’arma nel campo dell’atroce guerra per difendere la patria dall’inqualificabile aggressione gallica».

Ugualmente interessanti le notizie sul viaggio effettuato in Sardegna da Wolfgang Helbig, segretario dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica di Roma: lo studioso si trattenne a lungo a Cagliari nel 1875, raggiungendo come si vedrà più oltre lo Spano a Ploaghe, dopo la conclusione degli scavi[110].

 

13. Più importanti sono le notizie sul viaggio d Heinrich Nissen, in vista dell’edizione del decimo volume del Corpus Inscriptionum Latinarum, a cura dell’Accademia berlinese: nelle “Scoperte” del 1866 si segnala il passaggio nell’isola del «dotto archeologo» Enrico Nissen di Berlino, «per far un’escursione archeologica in Sardegna e studiarvi i monumenti figurati»; partito il I giugno 1866 per Sassari, «per prender imbarco per Ajiaccio», lo studioso tedesco, poté effettuare un fac-simile dell’epitafio di Proculus Colonus, inciso su una lastra rinvenuta tra le rovine del Palazzo di Re Barbaro a Porto Torres[111]. Lo Spano lo ricorda qualche anno dopo come «archeologo eruditissimo», segnalando che «conferimmo insieme su molti punti che riguardavano la Sardegna»: «per suo mezzo entrai in relazione e in corrispondenza col celebre Teodoro Mommsen, che fu in Sardegna per conoscermi in persona [!] nel 1877»[112]. Del resto, lo stesso Mommsen avrebbe scritto sul decimo volume del CIL: «ex nostratibus Henricus Nissen mea causa Cagliaritani musei titulo descripsit»[113]. Noi sappiamo che il Nissen restò in relazione con lo Spano, se nel 1867 gli segnalò alcune iscrizioni di classiari sardi da Sorrento, Napoli e Pozzuoli.

Noi possediamo molte informazioni sui rapporti tra Mommsen e lo Spano, a partire dal giudizio sulla falsità delle epigrafi del codice Gilj delle Carte d’Arborea, formulata nel 1870[114], fino all’edizione della tavola di Esterzili ed al burrascoso viaggio in Sardegna dell’ottobre 1877; sappiamo dell’ipercriticismo del Mommsen, che colpì ripetutamente (ed ingiustamente) lo Spano. Ad esempio sono note le riserve del Mommsen, sui toponimi Fogudolla, Foce dell’Olla, fiume Doglio, Torre d’Oglio e di Oglia, Sisiddu, Oddine, che a giudizio dello Spano conserverebbero tutti il ricordo dei Ciddilitani[115]: tutti toponimi attestati solo da documenti antichi, che lo studioso tedesco nel suo eccesso di ipercriticismo dubitava potessero appartenere alla falsificazione delle Carte d’Arborea: «nec recte opinor Spanus cum regione Oddine id composuit, vel cum antiqua turri ad fauces fl. Mannu dicta Torre d’Oglia in instrumentis antiquis, quae vide ne sint ex genere Arboreanorum»[116]. Ma, dando torto al Mommsen, il Pais qualche anno dopo avrebbe dimostrato la bontà delle intuizioni dello Spano, che collegava la parola ollam incisa sul lato stretto della lapide (collocato verso occidente) all’antica denominazione della foce e dell’approdo sul pittoresco Rio Mannu[117].

Del resto, i sospetti del Mommsen hanno sempre sullo sfondo il problema dei falsi, che nel 1877 sarebbe esploso con la visita dello studioso tedesco a Cagliari, un avvenimento a lungo atteso e temuto dallo Spano: «in questo mese o nell’altro deve arrivare il celebre Teodoro Mommsen (…). Io temo l’arrivo di questo dotto, perché nello stato in cui sono farò cattiva figura»[118]. In occasione di un pranzo ufficiale al quale sarebbero stati presenti tra gli altri Giovanni Spano, il Soprintendente Filippo Vivanet, il prof. Patrizio Gennari, il Mommsen avrebbe espresso giudizi pesanti sui falsari delle Carte d’Arborea, che arrivavano a negare la storicità di Eleonora d’Arborea[119], confermando di voler «smascherare l’erudita camorra» isolana[120]; egli avrebbe scherzato poi un po’ troppo pesantemente sui suoi propositi di voler condannare prossimamente la quasi totalità della documentazione epigrafica isolana, ed in particolare le «iscrizioni di fabbrica fratesca»[121]. Su “L’Avvenire di Sardegna” del 21 ottobre 1877 sarebbe comparsa una polemica lettera «d’oltretomba» firmata da Eleonora d’Arborea ed indirizzata a Filippo Vivanet: lo studioso sarebbe stato aspramente contestato per non aver difeso la storicità di Eleonora, di fronte all’«invidioso tedesco» ed all’«orda germanica» e per aver, con il pranzo, «digerito l’insulto fatto alla [sua] memoria». Anche il vecchio senatore Spano sarebbe stato strapazzato alquanto, tanto da essere considerato un traditore, per il quale si sarebbe suggerita una punizione esemplare: egli sarebbe dovuto diventare la «zavorra» utilizzata per il «globo aerostatico» sul quale il Vivanet avrebbe dovuto errare per sempre, lontano dalla terra sarda; eppure, «se al canonico Spano avessero toccato i suoi Nuraghi, quante proteste non si sarebbero fatte !». Dunque lo scontro si sarebbe progressivamente esteso nel tempo, fino a sfiorare lo Spano, a prescindere dal sostegno da lui assicurato ai falsari delle Carte d’Arborea[122]. Eppure proprio il viaggio del Mommsen doveva scatenare in Sardegna finalmente una salutare reazione ed un rapido processo di rimozione dei falsi, che avrebbe coinvolto lo stesso De Castro, lasciatosi andare ingenuamente nei giorni successivi con Enrico Costa e con Salvatore Sechi Dettori ad ammissioni sulla «vera storia delle carte», accennando a fatti precisi, a responsabilità, a veri e propri misfatti; chiamato a rispondere su “La Stella di Sardegna”, il De Castro si sarebbe per il momento sottratto dal fornire i chiarimenti promessi, per paura del «codice penale», ma anche per «ragioni di convenienza e di amicizia», continuando a polemizzare col Mommsen, che «non lesse mai queste cose e giudicò a vanvera, anzi ab irato»; un giudizio ripreso dal Pillitto, per il quale il De Castro avrebbe dovuto fornire «un farmaco al Mommsen per calmare la sua bile irritata dal Ghivizzani»; eppure il Sechi Dettori, in pieno accordo con il Vivanet, rivolgeva un appello al De Castro, al «nostro illustre archeologo Giovanni Spano», al «dotto Pellitu», al «cancelliere Poddighe, della cattedrale d’Oristano», nonchè al «commendator Giuseppe Corrias», perchè finalmente dicessero «il vero intorno a queste benedette pergamene», consapevoli «che la storia segna con maggior gratitudine i nomi di coloro che dissero tutta la verità intorno agli uomini ed alle cose, che non di quelli i quali sulle cose e sugli uomini vollero distendere un velo pietoso, che infine verrà squarciato dalla giustizia dei secoli»[123].

Fu comunque proprio il Mommsen a purgare lo Spano dall’accusa di essere coinvolto nella falsificazione, con il poco noto giudizio pubblicato nella parte iniziale del decimo volume del Corpus inscriptionum Latinarum: un prezioso giudizio, critico ma anche affettuoso e riconoscente: «Iohannes Spano (…) per multos annos ut reliquarum antiquitatis patriae partium, ita epigraphiae quoque curam egit Sardiniaeque thesaurum lapidarium non solum insigni incremento auxit, sed etiam sua industria effecit ut notitia ad exteros quoque perveniret. (…) Hoc magnopere dolendum est optimae voluntati, summae industriae, ingenuo candori bene meriti et de patria et de litteris viri non pares fuisse vires; nam titulos recte describere non didicit cavendumque item est in iis quae ab eo veniunt a supplementis temere illatis. Nihilo minus magna laus est per plus triginta annos indefesso labore his studiis Spanum invigilasse et multa servasse egregiae utilitatis monumenta, quorum pleraque, si non fuisset Spanus, sine dubio interiissent. Quare qui eum sequuntur, ut facile errores evitabunt, in quos aetatis magis quam culpa incidit, ita difficulter proprias ei virtutes aemulabuntur»[124].

Fu proprio il Mommsen a distinguere la posizione dello Spano («ingenuo candori») così come quella di Vincenzo Crespi («qui in museo bibliothecaque Cagliaritana mihi tamquam a manu fuit vir peritus et candidus») e naturalmente del più giovane Filippo Nissardi (collaboratore del Mommsen e dello Schmidt), da quella dei falsari delle Carte d’Arborea, tra i quali avrebbe incluso Pietro Martini ed Ignazio Pillito, sotto i cui auspici vennero in luce dal monastero dei minori conventuali di Oristano («ut aiunt») i codices Arboreani, tra i quali quel codice del notaio cagliaritano Michele Gilj databile tra il 1496 ed il 1498, con gli apografi di un gruppo di iscrizioni latine sicuramente contraffatte, inserite quasi tutte già nel II volume del “Bullettino“, compresa una iscrizione che citava il templum Fortunae di Turris Libisonis[125] e che dunque era successiva al ritrovamento avvenuto nel 1819 della base autentica pubblicata dal Baille[126]: «argumentis quamquam opus non est in re evidenti, confutavi fraudes imperite factas in commentariis minoribus academiase Berolinensis a. 1870 p. 100»[127].

Accantonata la questione dei falsi, molte novità si posseggono ora sull’edizione della tavola di Esterzili[128], un importantissimo documento epigrafico segnalato al Mommsen dall’Henzen e dal Nissen. Scrivendo al can. Spano il 13 gennaio 1867, lo Spano confessava con qualche imbarazzo di essere in procinto di pubblicare l’importantissima iscrizione, bruciando i diritti di chi l’aveva scoperta:  «fidandomi nelle osservazioni del Nissen, che mi disse esser certissimo che il monumento si stamperebbe nell’anno decorso [1866] (e certamente un tal documento deve e vuole esser pubblicato subito), ho promesso per un foglio tedesco (l’Hermes) un articolo sopra questo bronzo, che verrà fuori nel Marzo di quest’anno. Pensavo io di agire con tutta prudenza, lasciando uno spazio di tre mesi interi fra la pubblicazione nell’Italia e la ripubblicazione mia; che certamente non amo io di sottrarre a chi appartiene con ogni diritto l’onore della pubblicazione. Ma ora non posso ritirare la mia parola e ritenere l’articolo promesso e scritto; non mi resta altro dunque di implorare la sua indulgenza, e di pregarla, se l’edizione di Torino non verrà fuori prima, di pubblicare sia a Roma nel Bullettino sia in dovunque altro periodico il semplice testo del monumento e di farmene consapevole, affinchè possa io aggiungere, che non faccio altro che ripubblicare un testo edito da lei»[129]. E, dopo l’arrivo del volume delle “Scoperte” dedicato all’antica Gurulis, con in appendice il testo dell’epigrafe di Esterzili, il 23 gennaio successivo: «Ne farò io il debito uso e così mi vedo tolto da questo dilemma, che per non mancare alla mia parola data all’editore dell’Hermes arrischiava io dissentirmi la pubblicazione troppo sollecita di un monumento non ancora fatto di pubblica ragione dallo scopritore medesimo»[130]

 

14. Un aspetto fin qui relativamente trascurato è quello relativo alla polemica dello Spano con l’odiato direttore del Museo di Cagliari Gaetano Cara, impegnato in commerci ed in affari, escluso dopo il primo anno da qualunque collaborazione con il “Bullettino“, protagonista della falsificazione dei così detti “bronzetti fenici” acquistati a caro prezzo dal La Marmora e dal Museo di Cagliari: un «antiquario moderno, per non dire ignorante, o meglio l’uno e l’altro», guardato con sospetto da chi, come lo Spano, si riteneva un Archeologo serio.  Appare evidente che la rottura tra lo Spano ed il direttore del Museo di Cagliari non era ancora avvenuta nel 1855, se il discusso studioso era stato ammesso a collaborare (per la prima e l’unica volta) nel primo volume del “Bullettino“, con un articolo dedicato alla statua di Eracle di Stampace, che il Cara collega con l’epigrafe dedicata Divo Herculi, un falso cinquecentesco[131], che dava alla città il nome di civitas Iolaea: il tema delle origini mitiche della Sardegna è dunque presente già nel primo articolo della rivista[132]. Vent’anni dopo, nell’Iniziazione ai miei studi, lo Spano avrebbe dedicato al Cara (senza mai citarlo) pagine di fuoco, già con riferimento all’anno 1858, quando il direttore del Museo di Cagliari si era dimesso in coincidenza con l’inizio dei lavori voluti dal Ministero, che avrebbero portato all’inaugurazione del nuovo Museo (avvenuta il 31 luglio 1859, sotto la direzione di Patrizio Gennari), con l’adozione di un nuovo regolamento e con un più rigoroso controllo sulla politica degli acquisti:  «Vedeva egli che avrebbe perduto l’autocrazia che per tanti anni aveva esercitata, dirigendo tutto il Regio Museo come se fosse stato un patrimonio di famiglia. Vile damnum ! Si può dire che dall’anno 1806, in cui fu fondato per munificenza del re Carlo Felice, non venne mai cambiato dal modo come lo lasciò il primo direttore De Prunner: era ristretto il locale, vi era una miscellanea e vi si accedeva da una sola porta»[133]. E l’anno successivo lo Spano precisa: «Anche gli affari del Museo, che meglio poteva dirsi, secondo la spiritosa frase del Promis, “un magazzino di rigattiere” procedevano regolarmente perché, dal dì che fu diviso e sistemato come sopra detto, non accadde più nessun disordine; giacché i professori furono emancipati dal così detto direttore del Museo»[134].

Il problema di fondo è ancora quello dei falsi, Carte d’Arborea ed idoletti fenici: come è noto il codice Gilj pubblicato dal La Marmora nel1853 conteneva in allegato secondo il Förster «una impudentissima falsificazione relativa ad idoli e ad antichità sarde»[135]. Le carte su cui erano disegnati i monumenti di antichità molto vicini ai falsi idoli sardo-fenici del Museo di Cagliari a giudizio del Loddo Canepa risultavano «aggiunte (non cucite) al protocollo notarile e differenti da questo per qualità, essendo più spesse e consistenti». E’ per queste ragioni che egli avrebbe ritenuto falsificate solo le pagine (i foglietti volanti) che contenevano i disegni con «figure puerilmente disegnate» con inchiostro rossiccio sbiadito[136]. Come si sa, fu Ettore Pais a rimuovere dalle vetrine del Museo di Cagliari gli idoletti falsi, acquistati per iniziativa e per la complicità di Gaetano Cara, già direttore del Museo di Cagliari, un personaggio odiato dallo Spano e negli ultimi anni anche dal La Marmora, che si era fatto ingannare, rimettendoci un patrimonio: come è noto criticando il ministro C. Matteucci che nel 1862 rifiutava di dimettersi, lo Spano aveva osservato riferendosi al Cara: «Tralasciando di altri improvvidi drecreti, si arbitrò di richiamare con decreto ministeriale un incaricato al Museo di antichità, nella persona dell’antico direttore ch’era già da tanti anni giubilato, in vece di confermare il professor Patrizio Gennari sotto il quale procedevano regolarmente gli affari del Museo. Alberto Della Marmora, che ben conosceva l’individuo e gli affari del Museo, fu tanto sdegnato di questa nomina fatta, ed a mia insaputa, che si presentò dal detto Matteucci minacciandolo che avrebbe tenuta un’interpellanza in Senato per aver richiamato chi non doveva richiamare»[137].

Negli anni successivi, la polemica covava ancora sotto la cenere e lo Spano non era più disposto ad accettare con pazienza le decisioni del direttore del Museo: ad esempio nel 1865 il ritrovamento di due «grandi» sarcofagi a Decimomannu in occasione dei lavori ferroviari era avvenuto in modo del tutto clandestino: «non si è potuto sapere cosa essi contenessero. Appena che si seppe la notizia, vi si portarono il Direttore del R. Museo in compagnia coll’Applicato allo stesso Stabilimento: ma fu mistero»[138]. Lo Spano registrava puntigliosamente sulle “Scoperte” gli acquisti effettuati dal Cara, quasi volesse impedire traffici e commerci a danno del Museo. C’è un’eccezione nella regola adottata di non citare mai per nome l’avversario: nel 1874 il cav. Gaetano Cara compare un’unica volta nelle “Scoperte“, a proposito di un sigillo notarile del XIV secolo: è una piccola deroga al fermissimo proposito di ignorare totalmente l’attività del rivale[139].

I rapporti si erano ulteriormente guastati dopo la nomina dello Spano a Commissario dei Musei e Scavi di antichità in Sardegna, posizione che gli consentiva di considerare un suo “sottoposto” il direttore del Museo di Cagliari. L’occasione di un nuovo violento scontro tra i due è data dal ritrovamento a Gadoni e ed a Lanusei di alcuni oggetti metallici, che costituiscono il pretesto per una sanguinosa polemica; oggetti che erano stati bizzarramente classificati dal Cara nella «classe dei flagelli», «come sono le discipline di cui si servono per penitenza di macerazione nei conventi, nei monasteri, e nelle chiese campestri i ladri e malfattori convertiti», e ciò secondo un anacronistico «giudizio d’un antiquario moderno, per non dire ignorante, o meglio l’uno e l’altro», un «nuovo Archimede»; in realtà si trattava per lo Spano di ornamenti metallici o di decorazioni militari. In particolare alcuni erano stati donati fin dal 1860 al Regio Museo di Cagliari dal Sac. Giusto Serra dei Minori Osservanti di Lanusei, anche se l’odiato Gaetano Cara non aveva indicato sull’inventario il nome del donatore, «ma vagamente cita sepolture di Giganti, Nuraghi di villaggi e campi aperti, in vece di testimoni oculari e viventi»: c’è sempre sottintesa sullo sfondo la polemica sui falsi bronzetti del Museo di Cagliari, introdotti proprio dal Cara e documentati sulle Carte d’Arborea, sulla cui provenienza il direttore del Museo aveva steso una copertura interessata, una vera e propria cortina fumogena, con gran rabbia dell’ultimo La Marmora. Ora lo Spano è preoccupato di distinguere e desidera indicare le circostanze dei ritrovamenti dei materiali autentici così come gli autori ed i protagonisti, il «certificato di battesimo» di ciascuno degli oggetti in bronzo introdotti nel museo. Lo Spano, con qualche perfido compiacimento, può ora citare per esteso un «critico e sensato articolo» di Angelo Angelucci, direttore del Museo d’Artiglieria di Torino, comparso sull’XI volume degli “Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino”, per il quale «certe anticaglie Sardesche» del Museo di Cagliari (presentate dallo Spano al V congresso preistorico di Bologna) potrebbero confrontarsi, secondo un’ipotesi già del La Marmora, con «le cordelline (aiguillets) usate ai nostri giorni dai militari», oggetti da considerarsi come «torques o phalerae», che «non ha molto il Cara impropriamente chiamò flagelli armi di bronzo offensive !». E aggiungeva, con riferimento al volume del Cara del 1871[140]: «e confortava questi la sua opinione portando ad esempio uno di quei flagelli adoperati dai Missionari nostri in quelle scene del teatro, e niente affatto da chiesa, con la quale spaventavano la parte dell’Uditorio che alle costoro flagellazioni prorompeva in grida ed in pianti, giurando e scongiurando di mai più peccare».  Segue (alle pp. 20 ss.) una puntigliosa analisi delle descrizioni del Cara, considerate completamente sbagliate, puerili e fuorvianti, sottolineate da corsivi, punti esclamativi e punti interrogativi, tanto da poter esser riprese analiticamente, come «certi esempi riportati dalla vecchia e nuova Crusca» che «servono a provare errata la definizione di alcuni vocaboli».

Seguono a questo punto i commenti dello Spano, sulle banalità scritte dal Cara, personaggio tenuto sullo sfondo, di cui si continua ad ignorare il nome. Giova citare per esteso il brano: «il nostro sardo antiquario in quel tempo aveva mandato ai membri del congresso preistorico quell’opuscolo citato di sopra, per sentire il loro parere, spoglio affatto dell’ambizione di rigettare qualunque giudiziosa osservazione (p. 5), ed ecco da uno di essi è stato ben servito di giudiziose osservazioni. Tutti fecero meraviglie in leggere questa sua strana opinione, non che nel niegare l’esistenza dell’età della pietra ! Tanto più che quelle che dice lance taglienti, sono tutte lavorate con punti simmetrici a dischetti stellati e con ornamenti geometrici, per indicare un dono, che sarebbe stato ridicolo in un’arma di punizione. Del resto non meritava la pena che il ch. Angelucci lo ribattesse così colla logica, perché era ben flagellato da sé. Aggiungi che di questi flagelli ve ne sono così piccoli che non sarebbero serviti che a flagellare fanciulli. Altri poi ve ne sono di diverso genere che non danno l’idea di flagello che nell’immaginazione di un antiquario senza criterio»[141].

Ma il Cara non è ancora completamente servito: lo Spano coglie l’occasione ghiotta anche per polemizzare con «un opuscolo di 22 pagine», stampato a Cagliari nel 1876[142], nel quale «l’autore dei detti Flagelli» polemizzava a proposito della destinazione dei nuraghi con il Barone Enrico di Maltzan, caro amico dello Spano, che aveva visitato la Sardegna dopo il celebre viaggio in Tunisia, pubblicando il suo volume nel 1869 e finendo suicida a Pisa nel 1874[143]. Il canonico poteva ora pubblicare il parere di Gabriel de Mortillet, comparso sulla “Revue prehistorique d’antropologie” del 1876, che ammetteva la validità tesi dello Spano, per il quale i nuraghi erano «semplici abituri fortificati», non «monumenti commemorativi di vittorie riportate dai Capi di Tribù», non «templi dedicati al sole», non «specole per sorvegliare le escursioni dei pirati» oppure «torri d’osservazione», non tombe o sepolture. Ben diverse erano invece le tesi espresse sull’«opuscolo» del 1876 dal Cara, che forse senza mai aver visitato uno solo nuraghe, «niega l’opinione di quelli che hanno scritto con scienza sopra di essi»; egli «niega specialmente che non siano state abitazioni, strapazzando il testo della Genesi urbem et turrim, sebbene quella nota della pag. 10 debba attribuirsi ad altri, cioè ad uno pseudo Biblico, suo pari amico, senza manifestare alcuna nuova opinione sull’origine ed uso per cui furono costrutti i sardi Nuraghi, mi limito a poche considerazioni sull’opinione già emessa che i medesimi edifizii siano serviti a stabili abitazioni». Chi sia lo «pseudo Biblico, suo pari amico» non è chiaro, ma forse si può pensare al can. Francesco Miglior (o piuttosto “Peggior”), anziché al giovane avv. Francesco Elena, autore nel 1878 di un volume Sopra una iscrizione fenicia scoperta in Cagliari, dedicato a Gaetano Cara (già defunto).  E aggiunge ora lo Spano: «il bello si è che per provare che non sono serviti di abitazioni adopera li stessi disegni, e li stessi legni di cui si servì il Della Marmora, e si è pure servito il Maltzan, che sono gli identici della nostra Memoria, che gli abbiamo favoriti, perché ce li dimandò, con fine dal lettore qualificabile». E poi: «noi tripudiavamo di gioja appena che vidimo il frontispizio di questo libro, e gridammo allegri euvjreka ! (eureca, eureca), ma invece era l’Eureca d’una Commissione. Manco male che questa Eureca dei Nuraghi non l’aveva fatta nell’anno 1871 quando mandò i flagelli all’esposizione di Bologna, e noi vi abbiamo esposto quattro modelli diversi di Nuraghi Sardi tra i quali uno costrutto dal Crespi». E più in dettaglio: «dopo aver confutato tutte le ragioni che noi, il Maltzan, il Bellucci, ed il De Mortillet abbiamo addotto per provare che i nuraghi erano stabili abitazioni di privati, dacché quei primitivi uomini abbandonarono le spelonche, la vita cacciatrice e nomada, ed associarono l’agricoltura che richiede la dimora stabile dell’uomo, conchiude, facendo voti perché una Società di archeologi (non di antiquari) venga in Sardegna, e studi accuratamente e spassionatamente questi ed altri monumenti (anche i flagelli ?) per poter sentire il loro savio giudizio, che in tal caso sarebbe basato sopra le proprie osservazioni (pag. 22 ed ultima): e noi gli rispondiamo, quod petis intus habes, con questa triade di Archeologi che abbiamo citato». E poi una tremenda stoccata finale: «Più presto questa Società o inchiesta l’avrebbe dovuta richiedere per studiare accuratamente e spassionatamente gli altri monumenti che si trovano nel Museo, non della nostra collezione, perché tutti e singoli oggetti di cui è composta abbiamo citato nel Catalogo stampato nel 1860 la fede di battesimo. A far parte di questa inchiesta per esempio noi potremo suggerire per membro il ch. prof. B. Biondelli, che in tanti giorni che fu in Sardegna studiò coll’intelligenza che lo distingue il nostro Museo, oppure il prof. G. Bellucci di Perugia, che è il giudice più competente per distinguere i veri bronzi da sommo maestro, che analizzò anche la Base trilingue sarda nell’occasione dell’esposizione internazionale di Bologna».

L’Appendice I delle Scoperte del 1876 è ancora dedicata al Cara a proposito della recensione al volume del Barone di Maltzan, a firma di Giuseppe Bellucci[144]: il Maltzan aveva accolto la tesi dello Spano sulla destinazione dei nuragli, mentre c’era chi ancora si ostinava a parlare «di tombe o di Templi»: «Eppure alcuni nostri Sardi non sono convinti ancora, e tentano rinnovare le vecchie ed insussistenti teorie, ma più per spirito dispettoso e di sistematica opposizione che per amore della verità e della scienza indiscutibile». E più precisamente: «Uno di questi è il citato Cara, e la nostra meraviglia è che se ne sia avvisto oggi che è vecchio ed impotente, mentre questa nostra scoperta ha la data di 22 anni or sono[145], che fu accettata anche da quelli che prima avevano sposato e sostenuto diversa opinione, senza eccettuarne lo stesso Della Marmora, che difficilmente ritrattava le sue opinioni, che prima di emetterle le studiava a fondo né lasciava trasportarsi da leggierezza né da altro secondo fine».  E infine: «Noi aspettavamo che l’autore, cioè il Cara, manifestasse in fine una sua opinione nuova sull’origine ed uso per cui furono costrutti i Nuraghi, ed a sua vece se n’esce col dire che lo ignora, e che venga una Società di Archeologi e studi accuratamente e spassionatamente questi ed altri monumenti ! Chi mai dei lettori avrebbe aspettato questa conclusione ? Scommetto che né manco quelli che avrebbero formato la commissione che egli ardentemente invoca». Sullo sfondo, sembrano rinnovarsi le preoccupazioni suscitate sei anni prima dalla nomina della Commissione berlinese sulle Carte d’Arborea, voluta incautamente dal Baudi di Vesme.

C’è poi un’ultima osservazione nel volume delle Scoperte del 1876, ed è relativa alla completezza della rassegna, firmata da chi si ritiene un Archeologo a tutti gli effetti e sospetta degli antiquari come il Cara: «e qui mettiamo fine alle scoperte che si sono fatte in tutto l’anno 1876, se non è che ne siano state fatte per conto del R. Museo dal ff. di Direttore, che ignoriamo, non ostante che egli non possa, per ordine ministeriale, acquistare nessun oggetto senza l’approvazione del R. Commissario ai Musei e Scavi dell’isola», cioè dello Spano[146].

Si è detto che il 1876 è  l’anno della pubblica rottura tra lo Spano ed il Cara, proprio in conseguenza della pubblicazione dell’«opuscolo» sui nuraghi, anche se l’odiato direttore era rimasto totalmente escluso dalla collaborazione al “Bullettino Archeologico Sardo” fin dal secondo numero e per tutta la serie delle Scoperte Archeologiche (con una unica eccezione per il 1874). Nello stesso anno, su “La Stella di Sardegna”, pubblicando in quell’anno la serie di articoli dedicata all’Iniziazione ai miei studi, senza mai citarlo, lo Spano polemizzava nuovamente con il Cara, «il così detto direttore» del Museo di Cagliari. Il caso volle che per una singolare coincidenza il Cara morisse l’anno successivo, il 23 ottobre 1877, proprio durante il burrascoso soggiorno di Theodor Mommsen in Sardegna. Il figlio Alberto Cara avrebbe difeso la memoria del padre con l’opuscolo Questioni archeologiche, Lettera al can. Giovanni Spano, accusando il vecchio senatore di voler «il primato, anzi il monopolio» dell’archeologia in Sardegna, addirittura di voler «essere unico ed infallibile Pontefice» e di muoversi con lo «spirito di vendette personali»[147].

Lo Spano avrebbe seguito dopo pochi mesi il suo avversario, morendo il 13 aprile 1878 a 75 anni d’età, dopo aver pubblicato gli ultimi sui lavori, alcuni ancora sulla storia della Sardegna cristiana, come l’articolo Sulla patria di S. Eusebio per “La Stella di Sardegna”, V, 1878, pp. 231 ss. Egli lasciò sulla sua tomba la scritta patriam dilexit, laboravit, che il Vivanet considerò l’elogio più adatto e più giusto: non sarebbe mai uscito il volume dedicato alle Scoperte del 1877, mentre la monografia su Bosa vetus sarebbe stata pubblicata postuma, per volontà del vescovo Eugenio Cano[148].

 

15. Un tema che merita di essere ripreso, partendo dalle osservazioni di Paola Ruggeri[149], è quello del profondissimo legame dello Spano con il suo paese natale, Ploaghe, che abbiamo visto attraversare tutta la sua vita ed anche la sua attività di studioso e la sua produzione scientifica, dagli scavi del 1846 fino agli ultimi anni. Il tema delle mitiche origini del suo paese (identificato con la romana Plubium e con Pluvaca) è centrale nella produzione dello Spano e segna già gli anni giovanili, gli anni delle ricerche disordinate e appassionate alla scoperta di iscrizioni romane e di testimonianze analoghe a quelle, conservate nell’Università di Sassari, provenienti dalla colonia di Turris Libisonis.

Così si spiegano i fortunati scavi iniziati nel 1846 e proseguiti alcuni anni nella località Truvine a pochi chilometri da Ploaghe (la Trabine delle Carte d’Arborea), che vengono presentati nella Memoria sull’antica Truvine, pubblicata fin dal 1852, opera che in realtà è alla base della successiva falsificazione delle Carte d’Arborea, con un progressivo utilizzo dei dati di scavo. Già nel 1858 sul IV numero del “Bullettino Archeologico Sardo”, nell’articolo su un Codice cartaceo di Castelgenovese, e l’antica città di Plubium, il Martini presentava l’improbabile cronaca del XV secolo attribuita ad un Francesco De Castro plubiese, curiosamente omonimo del più noto falsario delle Carte d’Arborea, coinvolgendo anche lo Spano, che in appendice al volume pubblicava la ristampa della Memoria sull’antica Truvine, dedicata appunto al suo paese natale; nel 1859 del resto egli avrebbe stampato il Testo ed illustrazioni di un Codice Cartaceo del sec. XV contenente le leggi doganali e marittime del porto di Castel Genovese ordinate da Nicolò Doria, e la fondazione e la storia dell’antica città di Plubium, poi ripreso nel IX volume del “Bullettino”.

La Memoria sull’antica Truvine appare chiaramente alla base dell’attività dei falsari delle Carte d’Arborea ed in particolare dei numerosi fantasiosi documenti su Plubium-Ploaghe, sul cronista Francesco De Castro, sull’«intrepido e coraggioso Sarra», su Arrio amico di Mecenate[150]. Si comprende l’entusiasmo dello Spano, impegnato a sostenere che «la Cronaca di Francesco De Castro Ploaghese ha tutti i caratteri della genuinità, sia nell’intrinseco dettato della storia che abbraccia, sia nella parte estrinseca del Codice, cioè la carta, il carattere e tutto quanto induce a formare il vero criterio, per distinguere la veracità e l’autenticità dei codici, e delle scritture antiche»[151].

Si capiscono dunque le ironie di molti suoi cononoscenti, tanto che il canonico dovè subire gli «sghignazzi» di qualche confratello poco credulone[152].  Un episodio alquanto curioso e significativo ci viene raccontato proprio dallo Spano, imbarazzato per le accuse di campanilismo che gli venivano mosse da più parti: in occasione di un’escursione effettuata nel 1846 a Ploaghe (ben prima della pubblicazione della vecchia Memoria sull’antica Truvine), si era verificato uno scontro imbarazzante, che lo Spano riprende  sull’VIII volume del “Bullettino Archeologico Sardo”: «Ricordo in proposito che in mezzo alla comitiva, all’ora del pranzo in campagna, io che aveva tutti gli oggetti raccolti presenti, feci un brindisi: «Viva Truvine che sarà nomato in tutta l’Europa!». Uno dei preti della comitiva, F.S., ne fece uno sghignazzo. Poco tempo dopo che stampai la citata memoria, venne nominato Truvine per l’iscrizione rara che in essa riportai di A. Egrilio Plariano decuriale scriba[153], nel «Bullettino di Corrispondenza archeologica» di Berlino, che si stampa in Roma. Si avverò il mio brindisi, che Truvine sarebbe stato nomato in tutta l’Europa».

Fin dal 1859, sul V volume del “Bullettino”, il Martini solleticando non poco il campanilismo dello Spano, aggiungeva che «anche la pur distrutta città di Plubium (posta colà dove ora sorge la grossa villa di Ploaghe) era abbellita da un’opera consimile» all’anfiteatro di Cagliari, che sarebbe stata costruita da «un architetto d’origine sarda, Marcus Peducius». Un secondo articolo era dedicato al commento delle fantasiose cronache attribuite a Giorgio di Lacon ed a Antonio di Ploaghe, sulla distruzione di alcune città costiere della Sardegna, in particolare Nora, Bithia, Carbia, Sulci, Fausania, nel corso delle prime incursioni arabe.

Sul VI volume del “Bullettino”, è lo stesso Spano, ancora con qualche ingenuità, a ripercorrere la storia della Sardegna, così come è tracciata nelle Carte d’Arborea, che documentano come «uomini insigniti del carattere pontificale non isdegnarono di applicarsi allo studio delle profane anticaglie»: ed ecco i vescovi di Ploaghe «che fama ebbero nella nostra Isola di sommi archeologi», Antonio ed Arnusio (quest’ultimo citato anche sulle Scoperte del 1867, omonimo dell’arcivescovo turritano Carlo Tommaso Arnosio che aveva presieduto la commissione di laurea dello Spano nel 1825). Ancora una volta i falsari erano riusciti a solleticare il campanilismo dello Spano, che appare quasi sprovveduto nel giudicare la storia antica di Ploaghe, la sua patria, che poco credibilmente tende ad inserire in un contesto più ampio: si noti la soddisfazione per l’inclusione di Plubium e Trabine nella nuova carta sulla Sardinia antiqua del Della Marmora e il ricorso continuo all’autorità del cronista Decastro Plubiese, a proposito delle gesta del valoroso Sarra nel corso delle guerre degli Iliensi, Balari e Corsi durante il governo di M. Pinarius Rusca e dei suoi successori (a partire dal 181 a.C.).

Sul VII volume del “Bullettino” ritornano le Carte d’Arborea, a proposito di Plubio-Plovaca-Ploaghe, città distrutta dai Vandali «con tremenda ira» e «con terribili macchine», perché i Plubiesi si erano resi colpevoli «con frode» per aver dato aiuto con vettovaglie e frumento alle vicine città di Castra e di Figulina, «da venti mesi assediate» dai Vandali.

Più rilievo ha, in appendice al IX volume del “Bullettino”, il Testo ed illustrazioni di un Codice Cartaceo del secolo XV contenente la fondazione e Storia dell’antica città di Plubium, con una revisione delle posizioni dello Spano, alla ricerca di una conciliazione tra dati storici e le strabilianti notizie derivanti dalle Carte d’Arborea.

Insomma, assistiamo allo svolgersi progressivo di una indagine fondata su un doppio registro, in relazione alle origini di Ploaghe: da un lato le ricerche archeologiche, che avevano prodotto vere e proprie scoperte di grande interesse; dall’altro la falsificazione che segue e si accompagna alle ricerche sul terreno. E’ il caso ad esempio, dopo gli scavi del 1846, delle monete di bronzo di età repubblicana, fino all’età di Augusto con una rarissima «moneta coloniale della città di Usellus», delle statuine di Cerere col modio, di Bacco e di satiri, delle lucerne col bollo di C. Oppius Restitutus [154], di un pavimento in opus signinum, degli altri materiali presentati più tardi sul volume IX del “Bullettino”, come un capitello in terra cotta con il bollo di L. Petronius Fuscus[155]; del resto anche le “Scoperte” testimoniano ritrovamenti archeologici di rilievo (vd. le le monete repubblicane di Ploaghe nelle Scoperte del 1872, le armi preistoriche delle Scoperte del 1873, la navicella votiva di età nuragica delle Scoperte del 1874). Ancora sulle Scoperte del 1872 il ritrovamento a Ploaghe di un sigillo di un canonico arborense, dà l’occasione allo Spano di effettuare un ampio excursus sulle Carte d’Arborea ed in particolare sul leggendario Francesco Decastro, che sarebbe vissuto alla corte di Ugone IV d’Arborea.

Anche  grazie all’azione dei tanti informatori locali, a Ploaghe si forma lentamente una collezione archeologica, come quella nella quale confluì (come si legge nelle Scoperte del 1869) l’epitafio olbiense del liberto imperiale Ti. Claudi[us] Diorus, conservato presso il parroco di Ploaghe Salvatore Spano, sicuramente da collegarsi con i latifondi di Claudia Acte, la liberta amata da Nerone[156]. Del resto, l’orizzonte dello Spano è più vasto, se viene collocato nel territorio di Ploaghe anche il Nuraghe Nieddu di San Martino di Codrongianus, il cui modellino è presentato nelle Scoperte 1871 tra gli oggetti Sardi all’Esposizione Italiana nel Congresso internazionale d’antropologia e d’archeologia preistoriche tenuto in Bologna nel 1871.

Del resto sono molti  i corrispondenti dello Spano, che gli segnalavano scoperte e novità: tra essi appare rivestire un ruolo rilevante il parroco di Ploaghe Salvatore Cossu, che scrive già sul primo numero del “Bullettino” un articolo sulle reliquie conservate dal 1443 nella chiesa di Santa Caterina; scomparso nel 1868, per lui nel 1872 viene pubblicata la Biografia del rettore Salvatore Cossu in appendice alle Operette spirituali composte in lingua sarda logudorese dal Sac. teol. Salvatore Cossu, rettore parrocchiale di Ploaghe, opera postuma. Tra gli altri amici e corrispondenti dello Spano originari di Ploaghe si citeranno P. Paolo Cesaraccio, Domenico Figoni, Domenico Martines, Billia Pirastru, Salvatore Spano, Sebastiano Spano, il precettore elementare Francesco Fois, «l’ex brigadiere ed uffiziale di posta in Ploaghe» Giovanni Secchi (nipote dello Spano), il teol. Gerolamo Campus, il parroco F. Del Rio, il sac. Fedele Virdis, il cappellano militare Giovanni Sini, i pretori G. Maria Tiana Frassu e avv. Cugurra, il magistrato Antonio M. Spano, l’avv. Giovanni Spano, i medici G.M. Spano e G. Camboni, il sindaco di Ploaghe Tommaso Satta Spano, l’assessore dott. G. Sini. Un personaggio importante nella vita dello Spano fu anche Filippo Arrica parroco di Sant’Apollinare a Sassari, originario di Ploaghe e docente di Teologia morale, poi divenuto vescovo di Alghero, membro della commissione di laurea dello Spano nel 1825.

Sull’altro versante trovano spazio i falsari: l’appendice al volume IX del “Bullettino” è assorbita per oltre 60 pagine dal Testo ed illustrazioni di un Codice Cartaceo del secolo XV contenente la fondazione e Storia dell’antica città di Plubium, con un bel fac-simile del Marghinotti e del Crespi che rappresenta «Arrio, sardo Plubiese», mentre «mostra a Mecenate le note compendiarie da lui inventate che Tirone, liberto di Cicerone, si aveva con tradimento appropriate», un documento che è alla base della tela del pittore cagliaritano Giovanni Marghinotti conservata al Comune di Ploaghe, che raffigura Arrio Plubiese «nell’atto di mostrare a Mecenate, seduto, un foglio “col segreto delle note compendiarie che Tirone, liberto di Cicerone, si aveva con tradimento appropriate”»[157]. Lo Spano cade nel tranello dei falsificatori, che pure avevano introdotto il testo del codice con un’espressione eloquente attribuita a Francesco Decastro, che diveniva concittadino dello Spano: «patria mea charissima Publium», l’attuale Ploaghe. Non vale la pena riprendere il testo del documento, che consente allo Spano di illustrare le antichità del suo paese natìo, senza il minimo sospetto di falsificazione. Per la Ruggeri, «un indizio solo dell’ingenuità o più probabilmente della connivenza dello Spano con i falsari delle Carte d’Arborea ?»[158].

Quel che è certo è che anche dopo il Bericht berlinese del 1870 e la condanna delle Carte d’Arborea, lo Spano continuò a mantenersi fedele a questa duplice impostazione, continuando le sue ricerche archeologiche a Ploaghe, testimoniate ad esempio sulle Scoperte del 1872, alla ricerca delle rovine della leggendaria Plubium e, a 5 km. di distanza, alla ricerca dei resti della mitica Trabine-Truvine (la «distrutta città»).  Sulle Scoperte del 1874 un capitolo apposito è dedicato a Plubium-Ploaghe, dove lo Spano si era recato «per motivi di salute», trattenendosi dal 10 al 30 maggio 1874, ma svolgendo scavi archeologici con quattro operai intorno a due nuraghi Attentu e Don Michele, segnalati nelle Carte d’Arborea. Agli scavi presenziarono le «persone più colte del paese», elencate puntigliosamente una per una: il sindaco cav. Tommaso Satta, l’assssore dott. G. Sini, il pretore avv. Cugurra, il medico G.M. Spano, il parroco F. Delrio, «con altri soggetti del clero», il magitrato Antonio M. Spano (deceduto il 10 luglio successivo) e l’avv. Giovanni Spano, «espressamente venuti da Sassari»; infine i proprietari dei terreni dove sorgevano i due nuraghi, il medico G. Camboni e Billia Pirastru, «ambi ora zelanti affinché non si tolga più una pietra di quei vetusti monumenti, che così accrescono il valore ai rispettivi predj». Il vecchio Senatore coglie l’occasione per lodare Domenico Figoni (suo parente per parte di madre), che aveva fatto parzialmente ricostruire il nuraghe Nieddu di San Martino di Codrongianus, «che torreggia in faccia all’altipiano di Coloru dove passa la ferrovia di Ploaghe», nel tratto verso Sassari, inaugurata il 15 agosto 1874 con grandi festeggiamenti. Come è noto il nuraghe sarebbe stato visitato qualche anno dopo, il 26 ottobre 1877, da Theodor Mommsen. L’ing. Efisio Crespo (deceduto il 3 aprile 1874) aveva realizzato un bel modellino del nuraghe, analogo a quello preparato per l’esposizione di Bologna dallo Spano, poi donato al R. Museo di Parma.

Gli scavi al nuraghe Attentu, iniziati il 19 maggio, avevano messo in evidenza i resti di quella che allo Spano sembrò una villa romana e, negli strati inferiori, materiali di età preistorica e protostorica; gli scavi nel nuraghe Don Michele, svolti tra il 21 ed il 23 maggio, documentarono il riuso del monumento in età romana, con murature, tombe, urne cinerarie e, negli strati inferiori, frammenti di vasi e di olle, fusaiole, amuleti. Per Giovanni Lilliu si tratta dei primi scavi statigrafici in Sardegna[159];

Anzi, proprio nei suoi ultimi anni di vita, lo Spano sembra coinvolto in una frenetica attività di scavi, sostenuti con entusiasmo da ricchi signori e da semplici contadini: le ascie preistoriche di Monte San Matteo, gli scalpelli di Monte Ledda, infine la navicella di Scala de Boes, ormai in comune di Ardara; quest’ultima scoiperta consente allo Spano di tornare sul tema dell’origine orientale dei Sardi, alla luce dell’iscrizione di Medinet-Habou e degli studi sugli Shardana dell’egittologo F. Chabas, fatti conoscere in Sardegna fin dal 1873 con la pubblicazione della Memoria sopra il nome di Sardegna e degli antichi Sardi in relazione coi monumenti dell’Egitto illlustrati dall’egittologo F. Chabas.

Anche nelle Scoperte del 1875 si ritrova un capitolo su Plubium, «oggi tanto interessante e visitata dai forestieri per esser allacciata dalla rete ferroviaria Torres-Sassari-Ozieri»: il lavoro si apre con le domus de janas preistoriche di Monte Pertusu, con l’omonimo nuraghe, con i resti di un villaggio a Monte Cannuja; un’area straordinaria, che lo Spano conosce da oltre 50 anni e che ricorda con commosse parole: «io fin da giovinotto conosceva questa località allorché dal mio citato villaggio di Ploaghe mi vi portava per divertimento alla caccia di uccelli. Diventato grande, e dedicatomi allo studio delle antichità della mia patria, mi balenava qualche volta in testa di esplorare questo sito, e praticarvi qualche scavo: ma sempre mi mancò il tempo, perché credetti più opportuno di rivolgere altrove le mie ricerche nelle diverse volte che nella primavera mi portava in villa per rivedere i parenti, gli amici, e per bearmi delle dolcezze del luogo natìo».

Nel 1875 lo Spano poteva finalmente realizzare un sogno antico, in occasione del suo soggiorno a Ploaghe dovuto al desiderio di «profittare di far uso delle salutari acque minerali di San Martino, molto confacenti» ai suoi «incomodi, conforme la prescrizione del Medico». Aveva fino all’ultimo progettato di poter svolgere gli scavi nel mese di maggio in compagnia dell’amico e collega Wolfgang Helbig, segretario dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica di Roma, che gli «aveva scritto d’esser sulle mosse per venire in Sardegna, e che da Cagliari sarebbe venuto in Ploaghe» per visitarlo e per «conferire insieme». Lo Spano rammaricato ricorda: «io lo aspettai come un angelo, che mi avrebbe ajutato e somministrati lumi nel modo di eseguire i lavori che aveva preparato», ma l’Helbig, «occupato per istudiare e disegnare i monumenti sardi nel R. Museo di Cagliari» arrivò a Ploaghe solo il 27 maggio, quando lo Spano aveva già concluso gli scavi e stava per rientrare a Cagliari; lo studioso tedesco, accolto cordialmente, ripartì però in giornata per Sassari, accompagnato dal can. Luigi Sclavo e dal prof. Luigi Amedeo, che sarebbe stato di nuovo mobilitato due anni dopo in occasione della visita del Mommsen a Sassari. In una lettera del successivo 5 giugno l’Helbig ricordava l’accoglienza ricevuta dai Sardi, «presso i quali mi sono sentito come quasi nella Mark Brandeburg», che gli avevano «inspirato una specie di nostalgia che non finirà mai» e prometteva di tornare presto nell’isola[160]. Allo Spano l’Helbig avrebbe dedicato l’anno dopo un lavoro sopra l’arte fenicia[161],

Gli scavi dello Spano si erano svolti tra il 13 ed il 18 maggio in una grotta calcarea sulla sommità del Monte Pertusu, alla base dell’omonimo nuraghe: fu possibile documentare le successive trasformazioni tra l’età preistorica e l’età del ferro, attraverso i resti di selce e di ossidiana, le armi e le ceramiche; infine il riuso funerario in età romana. Gli scavi erano proseguiti poi in loc. Funtana Figu, presso le domus di Monte Cannuja e di Cantaru Lisone e nella pianura di Leseu, nella quale erano state raccolte monete repubblicane ed imperiali; infine erano state esplorate le sepolture romane ad arcosolio entro il colombario di Corona de sa Capella collocato «verso la parte di ponente» della collina, presso la fontana di Su Puttu. Risultati tutto sommato deludenti per lo Spano, che se ne era lamentato con il conte Baudi di Vesme, per il quale curiosamente le devastazioni subìte dalle domus preistoriche di Ploaghe non dovevano attribuirsi «ad ignoranti pastori, ma a dotti Plubiesi», ai tanti Giovanni Spano, appassionati cultori di storia patria, che si erano succeduti dopo il mitico Decastro citato nelle Carte d’Arborea. Il capitolo si conclude con un quadro della distribuzione dei nuraghi nel territorio di Ploaghe, sempre ricalcando la cronaca romanzata di Plubium.

Gli ultimi anni dello Spano ci appaiono sunque ancora fertili, caratterizzqati da un’attività febbrile, impegnatri in una infinita ricerca di tesori che possano testimoniare la fondatezza delle premesse teoriche e dei documenti arborensi. Non è importante stabilire in questa sede l’effettiva partecipazione dello Spano alla falsificazione delle Carte d’Arborea e la sua responsabilità nella raccolta di notizie incerte e poco affidabili: semmai, il quadro di questa straordinaria attività che si sviluppa sul piano della ricerca scientifica e sul piano romantico delle ritrovate origini mitiche di Ploaghe-Plubium, testimonia una passione straordinaria per la piccola patria lontana, una nostalgia senza limiti ed una simpatia senza ombre, che forse avvicinano lo Spano allo spirito nuovo dei protagonisti della straordinaria vicenda delle Carte d’Arborea, momento fondante, anche se distorto, di una “Sardità” vissuta come riscatto e come annuncio di tempi nuovi.


[1]* L’A. ringrazia la prof. Paola Ruggeri, alla quale si deve in parte il § 15, relativo specificamente ai rapporti tra lo Spano e il suo paese natale, Ploaghe.

[2] Vd. G. Spano, E. Pais, Bullettino Archeologico Sardo 1855-1884, Scoperte Archeologiche, ristampa commentata a cura di A. Mastino e P. Ruggeri (Biblioteca illustrata sarda), Editrice Archivio Fotografico Sardo, Nuoro 2000 ss.

[3] G. Lilliu, Un giallo del secolo XIX in Sardegna. Gli idoli sardo fenici, “Studi Sardi”, XXIII, 1973-74, p. 314 n. 2.

[4] Vd. E. Contu, Giovanni Spano, archeologo, in Contributi su Giovanni Spano, 1803-1878, nel I centenario della morte, 1878-1978, Sassari 1979, pp. 161 ss.; G. Lilliu, Giovanni Spano, in I Cagliaritani illustri, I, a cura di A. Romagnino, Cagliari 1993, pp. 31 ss.

[5] G. Spano, Iniziazione ai miei studi, a cura di S. Tola, Cagliari 1997.

[6] Spano, Iniziazione cit., p. 69.

[7] Spano, Iniziazione cit., p. 83: «Questa mia laurea venne onorata dalla presenza dell’arcivecovo nella qualità di cancelliere, che per l’ordinario delegava un canonico o altra persona, alla quale cedeva non la propina ma la tesi che tutti i graduandi dovevano stampare a loro spese».  Per un  Arnosio vescovo di Ploaghe, che sarebbe stato amico del giudice Mariano IV, ricordato nelle Carte d’Arborea, vd. Id., Abbecedario storico degli uomini illustri sardi scoperti nelle pergamente codici ed in altri monumenti antichi con appendice dell’Itinerario antico della Sardegna, Cagliari 1869, p. 17.

Il testo della tesi (Ex theologia dogmatum de SS. Patribus, nec non de traditionibus), è ora pubblicato anastaticamente in Guido, Vita di Giovanni Spano cit., pp. 52 ss.

[8] Spano, Iniziazione cit., pp. 82 s.

[9] Secondo Registro degli esami privati e pubblici (dell’Università di Sassari), II, 1810-1829, p. 201:  «Sassari li 14 luglio 1825. Seguì l’esame pubblico di Laurea in Teologia del Sig.r Giovanni Spano Figoni di Ploaghe Semi(inarista) Trid(entino) con intervento dell’Ill.mo Eccell.mo monsig.r Arcivescovo D.n Carlo Tommaso Arnovio Cancell.re, del Pref.to Can.co Pinna, del Prof. Tealdi, delli D.ri Colleg(ia)ti Arrica, Mela, Canu, Fenu, D’Andrea, e Sanna e Colleg.le Emerito Cubeddu Pievano di Mores ed è stato a pieni voti approvato per cui venne ammesso dal Collegio e gli venne conferita la Laurea dal Promotore Quesada, di che».

Ringraziamo cordialmente il direttore prof. Antonello Mattone, la dott. Paola Serra ed il dott. Francesco Obinu per le preziose informazioni.

[10] Spano, Iniziazione cit., p. 124 n. 16: «Ad un padre conscritto venne in mente di propormi di dissertare sopra i nuraghi, tema preistorico, e sarebbe statto lo stesso che parlar delle stelle, né avrei avuto la gloria di squarciare il velo del loro uso, bensì di onorarli d’un poema latino, come il Bellini li onorò d’un poema italiano».

[11] Per una rapida biografia dello Spano, vd. L. Guido, Vita di Giovanni Spano, con l’elenco di tutte le sue pubblicazioni, Villanova Monteleone 2000, pp. 7 ss.

[12] CIL X 7946 = ILS 5526, vd. A. Mastino, P. Ruggeri, I falsi epigrafici romani delle Carte d’Arborea, in Le Carte d’Arborea. Falsi e falsari nella Sardegna del XIX secolo, Atti del Convegno “Le Carte d’Arborea”, Oristano 22-23 marzo 1996,  Cagliari 1998, p. 231.

[13] Spano, Iniziazione cit., p. 55 e n. 18, con le osservazioni di Enrico Costa: «sebbene gli scavi li abbia fatti a casaccio, e con poca intelligenza, pure merita lode solo per aver dissotterrato quel cippo coll’iscrizione che ci ha fatto conoscere come l’edifizio era un tempio dedicato alla dea Fortuna, col tribunale ornato di sei colonne, restaurato dal prefetto di Sardegna Ulpio Vittore sotto l’imperatore Filippo, e non palazzo»

[14] G. Spano, Testo ed illustrazioni di un Codice Cartaceo del secolo XV contenente la fondazione e Storia dell’antica città di Plubium, Cagliari 1859, vd. “BAS”, IX, 1863, p. 120.

[15] Spano, Iniziazione cit., p. 55.  Vd. le osservazioni di Enrico Costa alle pp. 64 s. n. 23: «Allorquando nel 1819 [1820] noi lo vediamo aggirarsi per le campagne della sua Ploaghe, arrampicandosi su per le vecchie muraglie, contemplando le macerie degli antichi monumenti e chiedendo ai geroglifici d’una pietra frantumata la storia di una generazione sepolta dai secoli, era come un glorioso preludio del genio per l’archeologia che doveva distinguere il fondatore del “Bullettino Archeologico” dove vennero raccolti, disegnati ed illustratri tutti i monumenti della Sardegna, per far conoscere ai posteri la storia dei nostri padri. Quei nuraghi infine, che fin dalla prima gioventù furono l’oggetto della sua curiosità, dovevano essere da lui studiati per toglierli più tardi da quel mistero in cui erano avvolti da migliaia di secoli».

[16] Spano, Iniziazione cit., p. 106.

[17] Spano, Iniziazione cit., p. 126 n. 31, cfr. Bonu, Scrittori cit., p. 309.

[18] CIL I2 2226 = X 7586 = ILS 1874 = ILLRP I, 141 = IG XIV 608 = IGR I 511 = CIS I,1, 143.

[19]CIL X 7946 = ILS 5526.

[20] Spano, Iniziazione cit., pp. 140 s.; vd. Bonu, Scrittori cit. p. 314.

[21] Spano, Iniziazione cit., p. 141.

[22] Spano, Iniziazione cit., p. 222.

[23] Spano, Iniziazione cit., p. 177.

[24] Spano, Iniziazione cit., p. 252.

[25] Spano, Iniziazione cit., p. 141.

[26] G. Spano, Storia e descrizione dell’Anfiteatro romano di Cagliari, Cagliari 1868.

[27] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 253.

[28] Spano, Iniziazione cit., pp. 145 ss.

[29] Spano, Iniziazione cit., pp. 148 s.

[30] Spano, Iniziazione cit., pp. 151 ss.  In seguito lo Spano avrebbe pubblicato la Memoria sopra il nome di Sardegna e degli antichi Sardi in relazione ai monumenti dell’Egitto illustrati dall’Egittologo F. Chabas, Cagliari 1873.

[31] Spano, Iniziazione cit., pp. 155 ss.; per la tabula ipotecaria di Veleia vd. CIL XI, 1147; per la tavola di Esterzili, cfr.  La Tavola di Estetrzili. Il conflitto tra pastori e contadini nella Barbaria sarda, in Atti Convegno di studi, Esterzili, 13 giugno 1992, a cura di A. Mastino, Sassari1993.

[32] Vd. Bonu, Scrittori cit., p. 312.

[33] Come patria di Sant’Efisio in realtà le fonti indicano Elia Capitolina, Gerusalemme.

[34] L’espressione ironica ma non irriverente è in Spano, Iniziazione cit., p. 176.

[35] Sul personaggio, vd. G. Spano, Operette spirituali composte in lingua Sarda Logudorese del sac. Teol. Salvatore Cossu Rettore Parrocchiale di Ploaghe, Opera postuma colla sua Biografia, Cagliari 1873.

[36] Vd. G. Spano, Testo ed illustrazioni di un Codice Cartaceo del secolo XV contenente la fondazione e Storia dell’antica città di Plubium, “BAS”, IX, 1863, p. 125.

[37]CIL X 8053, 157, l.

[38] Memoria sull’antica Truvine, Cagliari 1852; vd. “BAS”, IV, 1858, pp. 190-201. Vd. successivamente Testo ed illustrazioni cit.; vd. “BAS”, IX, 1863, pp. 113-161.

[39] Vd. infra n. 153.

[40] Spano, Testo ed illustrazioni cit., “BAS”, IX, 1863, p. 171.

[41] Spano, Iniziazione cit., p. 209 n. 12.

[42] Spano, Iniziazione cit., p. 79.

[43] Vd. G. Spano, Proverbi sardi trasportati in lingua italiana e confrontati con quelli degli antichi popoli, Cagliari 1871, 2a ed., ristampa a cura di G. Angioni, Nuoro 1997, pp. 83 s., s.v. Bosa: «Fare come fanno in Bosa. Quando piove lasciano piovere. La città di Bosa ha provveduto tanti proverbi, ed in vece di adontarsene, come fece con noi il can. Gavno Nino, in quell’opera che dicono Del capoluogo del nuovo circondario nel territorio della soppressa provincia di Cuglieri (Cagliari 1862, p. 8 e n. 2), se ne dovrebbe lodare. In Italia si ha lo stesso proverbio per Pisa. Fare come fanno in Pisa, lasciar piovere quando piove. L’origine si racconta in vari modi, ma si crede che dovendosai ivi tenere una fiera all’aperto, uno degli anziani del Senato insorse proponendo la difficoltà: come fare se piovesse ? Un altro, dicesi, rispose:

“Fare come si fa in Pisa”.

“E cosa ?”

“Se piove si lascia piovere”.

Il sig. Nino sarà contento di questa spiegazione ?».

[44] L. Baille, Diploma militare dell’imperatore Nerva illustrato, Torino 1831, cfr CIL X 7890 = XVI 40 = AE 1983, 449.

[45] Per gli studi linguistici dello Spano, vd. G. Paulis, in G. Spano, Vocabulariu sardu-italianu con i 5000 lemmi dell’inedita Appendice manoscritta di G. Spano, I, Nuoro 1998, pp. 7 ss.

[46] CIL X 7981, già nel I volume del “Bullettino“.

[47] Vd. G. Spano, in CIL X 7892.

[48] G. Spano, Sopra un frammento di un antico diploma militare sardo, Cagliari 1848, vd. “BAS” I, 1856, pp. 191-199 e CIL X 7853 = XVI 27, cfr. A. Mastino, P. Ruggeri, La romanizzazione dell’Ogliastra, “Sacer”, VI, 1999, pp. 23 s.

[49] G. Spano, Illustrazione sopra un epitafio greco del R. Museo di Cagliari. Lettera al prof. G. Pisano, Cagliari 1849.

[50] Spano, Iniziazione cit., pp. 181 ss.

[51] Spano, Iniziazione cit., p. 185.

[52] G. Spano, Notizia sull’antica città di Tharros, Cagliari 1851; Id., Notice of the discovery of the ancient city of Tharros, “Atti Società archeologica di Londra”, 1852.

[53] Spano, Iniziazione cit., pp. 185 s.

[54] Odissea  u 301 s.

[55] G. Spano, Lettera al cav. D. Giovenale Vegezzi-Ruscalla sul volgare adagio Gevlw” Sardovnio”, «il riso sardonico», Cagliari 1853; vd. E. Pais, Sardavnio” gevlw”, “Atti R. Accad. Lincei”, Memorie di scienze morali, V, 1879-80, estr. Salviucci, Roma 1880 (si tratta della revisione della tesi di laurea, dedicata a Domenico Comparetti); vd. ora C. Miralles, Le rire sardonique, in Mevti”, Revue d’antropologie du monde gec ancien”, II,1, 1978, pp. 31-43; M. Pittau, Geronticidio, eutanasia e infanticidio nella Sardegna antica, in “L’Africa Romana”, VIII, Cagliari 1990, Sassari 1991, pp. 703-711; E. Cadoni, Il Sardonios gelos: da Omero a Giovanni Francesco Fara, in Sardinia antiqua, Studi in onore di Piero Meloni in occasione del suo settantesimo compleanno, Cagliari 1992, pp. 223-238;  G. Paulis, Le “ghiande marine” e l’erba del riso sardonico negli autori greco-romani e nella tradizione dialettale sarda, “Quaderni di semantica”, I, 1993, pp. 9-23.

[56] A. De la Marmora, Voyage en Sardaigne ou description statistique, physique et politique de cette ile, avec des recherches sur ses productions naturelles et ses antiquités, Atlas, Paris 1857; cfr. G. Spano, Cenni biografici del conte Alberto Ferrero Della Marmora ritratti da scritture autografe, Cagliari 1864 ; Id., Mnemosine sarda, ossia ricordi e memorie di vari monumenti con altre rarità dell’isola di Sardegna, Cagliari 1864, tav. XXI n. 6.

[57] G. Spano, Memoria sopra i nuraghi della Sardegna, Cagliari 1864; una seconda edizione è in “BAS”, VIII, 1862, pp. 161-199; una terza edizione è del 1867.

[58] Spano, Iniziazione cit., p. 211 n. 36.

[59] Vd. A. Accardo, La nascita del mito della nazione sarda, Cagliari 1996, p. 16.

[60] G. Spano, Vocabolario sardo geografico-patroniomico ed etimologico, Cagliari 1872-73, p. 129 n. 18.

[61] Spano, Iniziazione cit., p. 194 e pp. 211 s. n. 38.

[62] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 258.

[63] CIL I2 2226 = X 7586 = ILS 1874 = ILLRP I, 141 = IG XIV 608 = IGR I 511 = CIS I,1, 143.

[64] CIL X 7858.

[65] Spano, Iniziazione cit., p. 196.

[66] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 258.

[67] Vd. R. Bonu, Scrittori sardi nati nel secolo XIX con notizie storiche e letterarie dell’epoca, II, Sassari 1961, p. 313.

[68] CIL X 7852, 7930, 7884, 7891; CIS I 140 = ICO Sard. 19.

[69] Spano, Iniziazione cit., p. 205.

[70] P. Ruggeri, Giovanni Spano, Bullettino Archeologico Sardo (1855-64), Scoperte archeologiche (1865-76); Ettore Pais, Bullettino Archeologico Sardo n.s. (1884), in Africa ipsa parens illa Sardiniae. Studi di storia antica e di epigrafia, Sassari 1999, pp. 171 ss.; vd. anche  le introduzioni annuali alla ristampa G. Spano, E. Pais, Bullettino Archeologico Sardo 1855-1884, Scoperte Archeologiche, ristampa commentata a cura di A. Mastino e P. Ruggeri (Biblioteca illustrata sarda), Editrice Archivio Fotografico Sardo, Nuoro 2000 ss.

[71] Vd. Spano, Iniziazione cit., pp. 250 s.

[72] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 254.

[73] CIL X,2, p. 782.

[74] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie II, busta n. 152, Relazione sopra il pavimento in mosaico scoperto in un campo vicino a San Bernardo di Stampace, di Gemiliano Deidda (Cagliari, 4 marzo 1763); vd. G. Spano, Orfeo, Mosaico Sardo esistente nel Museo Egiziano di Torino, “BAS”, IV, 1858, pp. 161-165; S. Angiolillo, Mosaici antichi in Italia, Sardinia, Roma 1981, nr. 101; vd. ora P. Sanna, La «rivoluzione delle idee», “Rivista Storica Italiana”, 1998, in c.d.s.,  n. 144.

[75] Scoperte 1866, p. 35 n. 1.

[76] Vd. Spano, Testo ed illustrazioni cit., “BAS”, IX, 1863, p. 147, con la vecchia denominazione S. Maria in Bubalis; il nome moderno di S. Maria di Mesu Mundu viene collegato alla «sua forma di calotta».

[77] Lilliu, Giovanni Spano cit., p. 35. Per gli scavi nei nuraghi di Ploaghe, vd. anche A. Moravetti, Monumenti, scavi e scoperte nel territorio di Ploaghe e M.A. Fadda Pirisi, Il nuraghe Don Michele di Ploaghe, in Contributi su Giovanni Spano cit., pp. 11 ss. e 47 ss.

[78] Con la dedica allo Spano, «che dottamente illustrò liberalmente accrebbe il Museo sardo», vd. Catalogo della raccolta Archeologica sarda del can. G. Spano da lui donata al Museo di Antichità di Cagliari, Parte prima, Cagliari 1860; Parte seconda, dedicata a Monete e medaglie, Cagliari 1865. Vd. ora  C. Tronchetti, I materiali di epoca storica della collezione Spano, in Contributi su Giovanni Spano cit., pp. 115 ss.

[79] Vd. Spano, in “BAS”, IV, 1858, p. 3.

[80] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 155.

[81] Vd. Spano, Iniziazione cit., pp. 204, 213 n. 50.

[82] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 195.

[83] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 227.

[84] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 197.

[85] Vd. Spano, Iniziazione cit., pp. 202 e 212 n. 47.

[86] Vd. Illustrazione sopra un epitafio greco del R. Museo di Cagliari (Lettera al prof. G. Pisano), Cagliari 1849.

[87] Si tratta di un articolo sui vetri di Cornus, ripreso dal «Bullettino dell’Instituto di corrispondenza archeologica di Roma».

[88] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 268 n. 27.

[89] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 189.

[90] Si tratta di una ristampa di un articolo comparso sul «Bullettino dell’Instituto di corrispondenza archeologica di Roma» del 1861.

[91] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 203.

[92] Solo per la ristampa di un breve studio Sulle monete dell’impero Cartaginese che si trovano in Sardegna, che è ripreso dal volume Numismatique de l’ancienne Afrique del 1861.

[93] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 201.

[94] A. Mastino, Il “Bullettino Archeologico Sardo” e le “Scoperte”: Giovanni Spano ed Ettore Pais, in G. Spano, E. Pais, Bullettino Archeologico Sardo 1855-1884, Scoperte Archeologiche, ristampa commentata a cura di A. Mastino e P. Ruggeri (Biblioteca illustrata sarda), Editrice Archivio Fotografico Sardo, Nuoro 2000 ss. p. 27.

[95] Vd. M.L. Ferrarese Ceruti, Materiali di donazione Spano al Museo Pigorini di Roma, in Contributi su Giovanni Spano cit., p. 65.

[96] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 259.

[97] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 203.

[98] Spano, Iniziazione cit., p. 233 e p. 268 n. 24.

[99] A. Della Marmora, Sulle iscrizioni latine del Colombario di Pomptilla, “BAS” VIII, 1862, p. 113; vd. G. Spano, Serpenti che si vedono scolpiti nelle tombe, ibid., p. 138.

[100] Spano, Iniziazione cit., p. 237;vd. Id., Abbecedario storico cit., p. 75: «dimenticato da tutti e nell’inedia, mentre avrebbe meritato alto compenso dalla patria».

[101] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 261 e pp. 271 s. n. 62.  Per la posizione di G. Manno verso le Carte d’Arborea è fondamentale la lettera del 10 maggio 1859, pubblicata in Spano, Testo ed illustrazioni cit., “BAS”, IX, 1863, pp. 151 s. n. 2: «così il mio lamento dell’essersi tacciuto dagli orgogliosi storici Romani il nome degli Eroi Sardi che hanno dovuto capitanare le molte guerre d’indipendenza combattute dai nostri padri, è di molto attenuato».

[102] Spano, Iniziazione cit., p. 226.

[103] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 266 n. 4.

[104] W. Helbig, Cenni sopra l’arte fenicia. Lettera al sig. Senatore G. Spano, Roma 1876, estr. “Annali dell’Inst. di corrispondenza archeologica”).

[105] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 203.

[106] Spano, Iniziazione cit., p. 227.

[107] Vd. Spano, Iniziazione cit., pp. 261 s. e p. 272 n. 63.

[108] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 262.

[109] Spano, Scoperte 1870, p. 35 n.1.

[110] Spano, Scoperte 1875, p. 23 ss.

[111] CIL X 7957.

[112] Vd. Spano, Iniziazione cit., p. 255.

[113] Th. Mommsen, in CIL, X,2, p. 782.

[114] Vd. Mastino, P. Ruggeri, I falsi epigrafici romani delle Carte d’Arborea cit., pp. 221 ss.

[115] Vd. Spano, Postilla alla lapide , in Scoperte , p. 35

[116] CIL X 7930, vd. A. Mastino, La supposta prefettura di Porto Ninfeo (Porto Conte), «Bollettino dell’Associazione Archivio Storico Sardo di Sassari», II, 1976, pp. 187-205.

[117] Vd. E. Pais, Le infiltrazioni delle falsificazioni delle così dette «Carte di Arborea» nella Storia della Sardegna, in Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio Romano, Roma 1923, p. 670; vd. ibid., p. 331 n. 3.

[118] Vd. S. Tola, in Spano, Iniziazione cit., p. XI.

[119] Vd. G. Ghivzzani, Al prof. Teodoro Mommsen, in S.A. De Castro, Il prof. Mommsen e le Carte d’Arborea, Sassari 1878, pp. 7 s.: si criticano «certe paroline che dicono esserle uscite dalla bocca», «paroline agrette anzi che non» e lo si invita a guardarsi, nel viaggio per Sassari, «da un certo de Castro». L’imbarazzo del Mommsen è evidente nella risposta pubblicata su «L’Avvenire di Sardegna» il 25 novembre, cfr. Th. Mommsen, in De Castro, Il prof. Mommsen cit., p. 13 (dove si fa cenno a «qualche parola … detta da me in una riunione privata, riguardo a certi punti della Storia della Sardegna»; «parole probabilmente male espresse e certamente assai male ripetute di un viaggiatore tedesco»). Vd. anche a p. 15 il giudizio sulla «vostra eroica Eleonora», al quale il Mommsen si sottrae, perchè dichiara di volersi occupare solo di epigrafia latina e di storia romana.   Sui nomi degli studiosi presenti al pranzo ufficiale, vd. I. Pillitto, in De Castro, Il prof. Mommsen cit., p. 56, per il quale lo Spano, ammalato, preferì non ribattere «per non impegnarsi in una discussione ormai superiore alle sue forze».   Più in dettaglio, al pranzo ufficiale, offerto dal prefetto Minghelli Valni, erano presenti il prof. Pietro Tacchini dell’Università di Palermo, i senatori conte Franco Maria Serra e can. Giovanni Spano, il consigliere delegato cav. Alessandro Magno, il preside dell’Università prof. Gaetano Loi, i proff. Patrizio Gennari e Filippo Vivanet, cfr. “L’Avvenire di Sardegna”,  VII, nr. 247, 17 ottobre 1877, p. 3.

[120] Th. Mommsen, in De Castro, Il prof. Mommsen cit., p. 15. Vd. le ironiche osservazioni di Salvator Angelo De Castro in una lezione del 3 novembre 1877 agli studenti dell’Università di Cagliari, in G. Murtas, Salvator Angelo De Castro, Oristano 1987, p. 76.

[121] Tali osservazioni furono ripetute a Sassari, in occasione del pranzo offerto dai redattori de “La Stella di Sardegna”, cfr. De Castro, Il prof. Mommsen cit., pp. 17 s.: «quando egli, per esempio, mi veniva dicendo che, in Sardegna, di cento iscrizioni, cento son false e fratesche, poteva io credere ch’ei non celiasse ? E celiando io lo pregava a non usare una critica tanto severa per tema che col cattivo se ne potesse andar via anche il buono. Per le altre provincie d’Italia, ammise il dieci per cento d’iscrizioni vere; meno male !».  Tali giudizi sulle «iscrizioni di fabbrica fratesca» furono ripresi anche nella rubrica i “Pensieri” pubblicata su “La Stella di Sardegna”, III, 44, del 4 novembre 1877, p. 224.

[122] “L’Avvenire di Sardegna”,  VII, nr. 250, 21 ottobre 1877, p. 3, cfr. Mastino, P. Ruggeri, I falsi epigrafici romani delle Carte d’Arborea cit., p. 224 n. 10.

[123] Vd. S. Sechi-Dettori, Le pergamene d’Arborea, All’illustre Cav. S. Angelo De-Castro, “La Stella di Sardegna”, III, dicemre 1877, p. 315; S.A. De-Castro, Le carte di Arborea. Al chiarissimo Signor S. Sechi-Dettori, “La Stella di Sardegna”, IV, 6 gennaio 1878, pp. 1 s.  Di quest’ultimo vd. soprattutto Il prof. Mommsen e le Carte d’Arborea, Sassari 1878, opera dedicata alla memoria di Pietro Martini.

[124] CIL X,2, 1883, pp. 781 s.

[125] CIL X 1480*.

[126] CIL X 7946.

[127] CIL X,2, 1883, p. 781. Vd. Mastino, P. Ruggeri, I falsi epigrafici romani delle Carte d’Arborea cit., pp. 221 ss.

[128] CIL X 7852, cfr. La Tavola di Esterzili cit.

[129] Vd. R. Mara, Theodor Mommsen e la storia della Sardegna attraverso i carteggi e le testrimonianze del tempo, tesi di laurea presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Cagliari (relatori i proff. Antonello Mattone e Attilio Mastino), Sassari 1997-98,  p. 335. Vd. ora A. Mastino, A. Mattone, Il viaggio di Mommsen in Sardegna, in preparazione.

[130] Mara, Theodor Mommsen cit., p. 337. L’edizione dell’articolo del Mommsen (con qualche errore forse dovuto all’eccessiva fretta), è in Th. Mommsen, Decret des Proconsul von Sardnien L. Helvius Agrippa vom J. 68 n. Chr., “Hermes”, II, 1867, pp. 102-127.

[131] CIL X 1098*.

[132] G. Cara, Statua di Ercole in bronzo, “BAS” I, 1855,  pp. 51 ss.

[133] Spano, Iniziazione cit., p. 219.

[134] Spano, Iniziazione cit., p. 226.

[135] W. Förster, Sulla questione dell’autenticità dei codici d’Arborea. Esame paleografico, “Memorie della R. Accad. delle scienze di Torino”, LV, 1905, p. 234.

[136] F. Loddo Canepa, Dizionario archivistico della Sardegna, “Archivio Storico Sardo”, XVII, 1929, p. 370, s.v. Carte d’Arborea.

[137] Spano, Iniziazione cit., p. 239.

[138] Spano, Scoperte 1865, p. 30.

[139] Spano, Scoperte 1874, p. 9.

[140] G. Cara, Cenno sopra diverse armi, decorazioni, ecc. del Museo di Cagliari, Cagliari 1871.

[141] Spano, Scoperte 1876, p. 22.

[142] G. Cara, Considerazioni sopra una fra le opinioni intorno all’origine ed uso dei Nuraghi, Cagliari 1876.

[143] H. B. von Maltzan, Reise auf der Insel Sardinien, nebst einem Anhang über die phönicischen Inschriften Sardiniens, Leipzig 1869.

[144] Spano, Scoperte 1876, pp. 37 ss.

[145] Vd.  G. Spano, Memoria sopra i Nuraghi della Sardegna, Cagliari 1854, poi nell’VIII volume del “Bullettino“.

[146] Spano, Scoperte 1876, p. 35.

[147] A. Cara, Questioni archeologiche, Lettera al can. Giovanni Spano, Cagliari 1877.  Vd. Bonu, Scrittori cit., p. 325 n. 29.

[148] G. Spano, Bosa vetus. Opera postuma del canonico Giovanni Spano Senatore del Regno, con biografia scritta dal professore Filippo Vivanet, Bosa 1878.

[149] Ruggeri, Africa ipsa parens illa Sardiniae cit., pp. 173 ss.

[150] Memoria sull’antica Truvine, Cagliari 1852; vd. “BAS”, IV, 1858, pp. 190-201. Vd. successivamente Testo ed illustrazioni cit.; vd. “BAS”, IX, 1863, pp. 113-161.

[151] Spano, Testo ed illustrazioni cit., “BAS”, IX, 1863, p. 171.

[152] Spano, Iniziazione cit., p. 209 n. 12.

[153] CIL X 7955 = XIV 346.

[154]CIL X 8053, 157, l.

[155] CIL X 8056, 259.

[156] CIL X 7979.

[157] Da qui il quadro del Marghinotti conservato al Comune di Ploaghe; vd. G. Dore, La raccolta Spano ed altre opere d’arte a Ploaghe, in Contributi su Giovanni Spano, cit., p. 147 nr. 20. Per il Marghinotti, vd. ora M.G. Scano, Pittura e scultura dell’Ottocento, Nuoro 1997, p. 131 ss.

[158] Ruggeri, Africa ipsa parens illa Sardiniae cit., p. 239.

[159] Lilliu, Giovanni Spano cit., p. 35. Vd. anche  Moravetti, Monumenti, scavi e scoperte nel territorio di Ploaghe e Fadda Pirisi, Il nuraghe Don Michele di Ploaghe, in Contributi su Giovanni Spano cit., pp. 11 ss. e 47 ss.

[160] Spano, Scoperte 1875, p. 23 ss.

[161] W. Helbig, Cenni sopra l’arte fenicia. Lettera al sig. Senatore G. Spano, Roma 1876, estr. “Annali dell’Inst. di corrispondenza archeologica”.




La scomparsa di Claude Lepelley

Attilio Mastino
La scomparsa di Claude Lepelley

Vorrei ricordare oggi Claude Lepelley, scomparso a Montreuil (Île-de-France) il I febbraio 2015, all’età di 80 anni, a seguito di un arresto cardiaco. Era nato a Saint-Maurice, Val-de-Marne l’8 febbraio 1934.

Mentre esprimiamo il dolore profondo per una perdita che ci colpisce davvero, che impoverisce ulteriormente la generazione di studiosi che ci hanno preceduto e che sono stati anche nostri maestri, vogliamo ricordarlo a nome di tutti per le sue straordinarie imprese scientifiche, per la sua figura umana di studioso, di democratico, di amico dei paesi del Maghreb. Gli siamo grati per l’attenzione che ci ha voluto riservare, sempre con affetto e simpatia, ma anche con una sorta di nobile distacco, ricollegandosi fin dall’inizio ad un personaggio che ha voluto dare avvio ai convegni, de L’Africa Romana assieme a Giancarlo Susini, Marcel Le Glay, il maestro al quale era subentrato nella cattedra di Paris-Nanterre nel 1984.

Scrivendo la sua bella presentazione introduttiva all’XI volume de “L’Africa Romana” con gli Atti dell’incontro di Cartagine svoltosi nel dicembre 1994, Claude Lepelley ricordava proprio quell’anno lontano: <<En 1984, Marcel Le Glay m’apprit qu’il avait participé en décembre précédent, à Sassari, à une petite rencontre d’un grand intérêt consacrée à l’Afrique antique. Très vite parurent les actes, L’Africa Romana I, avec déjà une qualité d’impression qui ne devait jamais se démentir. Actes modestes, avec seulement huit communications, dont une consacrée à la Sardaigne, et quatre dues à des savants tunisiens, qui, d’emblée, s’étaient ralliés avec enthousiasme. On connaît la suite: la série des actes est désormais une publication de référence fondamentale, “un monument de la science contemporaine” a pu écrire André Chastagnol>>. E aveva aggiunto che il Convegno di Cartagine del 1994 segnava un ulteriore allargamento geografico alle province occidentali dell’impero romano, in particolare alla Sicilia, alla Corsica, alle due Spagne, alla Lusitania e poteva constatare che i nostri colloqui erano divenuti nelle nostre discipline un fatto che riguardava tutti gli specialisti del mondo romano. Poi ci aveva parlato di Helvius Vindicianus médecin et proconsul, riportandoci al tema che preferiva: la tarda antichità, Agostino di Ippona, amico del proconsole d’Africa Vindicianus nella prima età di Teodosio, tra il 379 e il 380, vir sagax, medicinae artis peritissimus, atque in ea nobilissimus.

A Cartagine Lepelley era intervenuto nei dibattiti, aveva partecipato alle escursioni, alla memorabile cena organizzata dal direttore generale dell’Office National du Tourisme Tunisien sull’Acropolium della Byrsa, quasi un mercato improvvisato all’interno della ottocentesca cattedrale di San Luigi costruita all’incrocio tra il cardo e il decumanus della colonia giulia per il cardinale Lavigerie; a Tunisi con noi aveva visitato il Museo Nazionale del Bardo, divenuto oggi il simbolo luminoso della lotta al terrorismo e al fanatismo.

Per ricordare meglio la nostra collaborazione, in questi giorni ho voluto sfogliare gli indici di tutti gli altri volumi de «L’Africa Romana», trovando centinaia di rimandi interni, richiami, riflessioni, stimoli e suggerimenti di Lepelley ripresi da altri autori, che hanno guardato a lui come al più profondo conoscitore del Nord Africa in età tardo-antica, un maestro pieno di curiosità, di interessi, di idee originali.

Nei nostri volumi Lepelley è presente quasi in ogni pagina, con i messaggi inviati ai nostri incontri, con le sue intuizioni, con la presentazione delle sue opere: io stesso ho presentato a Sassari nel 2000 l’ Hommage al nostro carissimo Pierre Salama, che ha per titolo Frontières et limites géographiques de l’Afrique du Nord Antique. Études rèunis par Cl. Lepelley e X. Dupuis. Così come avevo presentato quelle sue carte topografiche, l’accurata riedizione della carta di Pierre Salama, annunciata in preparazione presso Brepols, con il titolo Routes de l’Afrique orientale dans l’antiquité tardive, révision de la carte Salama et notices des sites, d’après les cartes redessinées par P. Salama.

Ma sono soprattutto le straordinarie sintesi di Lepelley ad aver costretto gli studiosi a confrontarsi, tentando di dare coerenza ad una documentazione epigrafica che è sempre più ricca e originale: cito solo a titolo d’esempio il penetrante dibattito sul tema della Libertas municipale, con i lavori su La fin du privilège de liberté : la restriction de l’autonomie des cités à l’aube du Bas-Empire, in ‘Splendidissima civitas’, études d’histoire romaine à la mémoire de François Jacques, publiées par André Chastagnol, Ségolène Demougin et Claude Lepelley, Publications de la Sorbonne, Paris, 1996, p. 207-220 e, più specificamente, Thugga au IIIe siècle : la défense de la ‘liberté’ , in Dougga -Thugga- . Etudes épigraphiques (actes du colloque réuni à Bordeaux en mai 1996; M. Khanoussi et L. Maurin éds.), coll. “Ausonius”, Bordeaux-Paris, 1997, p. 105-116.

Proprio a Bordeaux con lui avevamo discusso sulla nuova eccellente edizione dell’iscrizione di Thugga proveniente dal tempio dedicato alla Vittoria Germanica di Caracalla, presentata dal nostro amico Nabil Kallala, oggi Direttore Generale dell’Institut National du Patrimoine di Tunisi; ma tante altre erano state le occasioni di incontro e di confronto a Tunisi, in Algeria a Mascula, a Lambaesis, a Diana Veteranorum, alle Aquae Flavianae, a Parigi all’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres nell’Institut de France e in una delle ultime sedute della Commission pour l’Afrique du Nord du CTHS alla fine degli anni ’90: nel 1997 Lepelley era il segretario della Commissione e, assieme a Jehan Desanges ed a Maurice Euzennat, ci aveva invitato a presentare le nuove scoperte effettuate nel corso degli scavi tuniso-italiani ad Uchi Maius. Poi le diverse Rencontres franco-italiennes sur l’épigraphie du monde romain, i congressi dell’Association Internationale d’épigraphie grecque et latine, e così via, con lo sguardo sempre rivolto al Nord Africa.

Infine, avevamo iniziato a lavorare insieme all’interno della SEMPAM, la Société d’étude du Maghreb préhistorique, antique et médiéval, che aveva contribuito a fondare con René Rebuffat. Nel quadro di questa istituzione, aveva organizzato con Françoise Deroche a Porto Conte ad Alghero in Sardegna il Congresso della SEMPAM su L’onomastica africana (28-29 settembre 2007). In precedenza era stato presidente-fondatore (con Michel Christol) nel 1995 della Société française d’études épigraphiques sur Rome et le monde romain (SFER) e poi aveva presieduto, in occasione delle celebrazioni bicentenarie del 2004, la Société des antiquaires de France.

Claude Lepelley aveva studiato a Parigi nel celebre liceo Charlemagne; ammesso all’aggregazione in storia nel 1957, iniziò il suo insegnamento per due anni a Tunisi, per poi prestare il servizio militare in Algeria, tra il 1959 e il 1962. Sono gli anni nei quali, da Batna, aveva potuto visitare le straordinarie testimonianze di Lambaesis e conoscere da vicino gli archeologi francesi che operavano attivamente in Algeria, pur nel quadro convulso dell’insurrezione e della decolonizzazione. Gli era rimasta fortissima l’immagine delle monumentali testimonianze archeologiche della Numidia, che l’avevano incuriosito e indirizzato allo studio dell’Africa nella tarda antichità. Nella fase finale del periodo coloniale francese (terminato il 5 luglio 1962), proprio da questa esperienza insieme militare e civile nacque la sua ostilità nei confronti dell’OAS, la sua dimensione aperta e democratica, che ci ha lasciato una traccia costante nelle sue opere e nei suoi articoli sul Canard enchaîné. Rientrato a Parigi, fu nominato assistente di William Seston alla Sorbonne, dove restò per sei anni tra il 1962 e il 1967; insegnò poi all’università di Amiens (1967-70), quindi prese servizio a Lille prima come maître de conférences e poi come titolare di cattedra (1970-84), fino all’arrivo a Paris-X-Nanterre dove come abbiamo visto subentrò a Marcel Le Glay, che nei decenni precedenti aveva conosciuto in Algeria. Proprio a Nanterre, dove rimase fino al 2001, diresse il Centre de recherches sur l’Antiquité tardive et le Haut-Moyen-Age. Per tredici anni tra il 1987 e il 2000 aveva guidato il prestigioso Institut d’Etudes Augustiniennes in Rue de Sèvres a Parigi.

Il lavoro scientifico che maggiormente ha orientato i nostri studi è stata la sua tesi, discussa nel 1977 con il maestro William Seston, in onore del quale, tre anni prima, aveva dedicato uno studio sulla prefettura delle tribù nel basso impero. Però fu proprio la tesi su Les cités de l’Afrique romaine au Bas-Empire ad essere destinata a modificare profondamente le nostre conoscenze delle realtà urbane del Nord Africa nel III e nel IV secolo, con il superamento di tanti luoghi comuni e la dimostrazione, oggi confermata dall’archeologia, della ricchezza della vita cittadina nella fase tardo-antica, perché Lepelley rifiutava il pre-giudizio di una inarrestabile decadenza della società africana. I due volumi usciti tra il 1979 e il 1981 (Les cités de l’Afrique romaine au Bas-Empire, tome I : La permanence d’une civilisation municipale ; tome II : Notices d’histoire municipale, Paris, Institut des études augustiniennes, collection des études augustiniennes) assumono una dimensione interdisciplinare tra storia, epigrafia, fonti letterarie, giuridiche e agiografiche, e finiscono per anticipare le osservazioni degli archeologi sulla progressiva « meridionalizzazione » delle forze produttive, sullo sviluppo dell’agricoltura africana e sulla prosperità delle città del Nord Africa alla fine dell’età imperiale fino e ben oltre l’arrivo dei Vandali. Sono le posizioni già espresse già sul primo numero di Antiquités Africaines fin dal 1967, con l’articolo Déclin ou stabilité de l’agriculture africaine au Bas-Empire ? A propos d’une loi de l’empereur HonoriusTemi che tornano in tanti altri lavori, perché l’autore ha costantemente aggiornato le sue posizioni fino agli ultimi tempi..

Del resto Lepelley sapeva che non possiamo piegare la complessità della storia a formule e luoghi comuni astratti : la storia deve mettere l’uomo al centro del dibattito, deve superare le interpretazioni schematiche e superficiali, finisce per essere espressione di più cause concomitanti e diverse, che producono effetti anche contraddittori a seconda dei luoghi, delle circostanze, del trascorrere del tempo. Ma il rispetto per la complessità della storia non può obbligaci a rinunciare a stabilire connessioni, a mettere ordine, a proporre linee di riorganizzazione del passato, per comprendere e spiegare. Insomma, a fare sintesi.

Dunque il ruolo e la forza del cristianesimo africano, a partire da Tertulliano, fino a Cipriano, Agostino, Optato di Milev e così via.

Lepelley si è dedicato soprattutto ad Agostino dopo la scoperta (a Marsiglia e a Parigi) delle nuove lettere pubblicate nel 1981 da Johannes Diviak dell’Accademia Austriaca delle Scienze per il Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum: la risposta è davvero immediata, con l’articolo su La crise de l’Afrique romaine au début du Ve siècle d’après les lettres nouvellement découvertes de saint Augustin, proprio nel 1981. Due anni dopo un primo bilancio di sintesi è in L’apport des lettres de saint Augustin nouvellement découvertes à la connaissance de l’Afrique romaine : essai de bilan. Più tardi, nel 1987, avrebbe collaborato alla nuova edizione delle 29 lettere di Agostino.  E poi le omelie agostiniane inedite pubblicate da François Dolbeau.

Da questi interessi agostiniani emergono alcuni lavori davvero straordinari: soprattutto la voce « Africa » dell’ Augustinus Lexikon nel 1986; il VI capitolo della l’Histoire du christianisme, Paris, Seuil, 2007, dedicato a Saint Augustin et le rayonnement de sa pensée ; infine Augustin dans l’Afrique romaine de son temps : les continuités avec la cité classique, nel 1989.

Ma sono tanti altri gli straordinari temi «agostiniani» che emergono dalla produzione scientifica di Claude Lepelley : la persecuzione dioclezianea, gli atti dei martiri, le conversioni, il donatismo, l’evergetismo i Circoncellioni, gli iuvenes, il colonato, la schiavitù e la libertà, i lavori pubblici, le finanze municipali, l’insicurezza nelle campagne, l’enfiteusi nei possessi imperiali, le sopravvivenze pagane, l’uso della lingua punica nel V secolo, l’episcopalis audientia, la fine della città antica.

Con Andrea Giardina aveva discusso nel 1986 il tema caro ad André Chastagnol sulla fine dell’ordine equestre in Società romana e impero tardoantico; ma vd. poi Du triomphe à la disparition : le destin de l’ordre équestre de Dioclétien à Théodose, in L’ordre équestre. Histoire d’une aristocratie, 1999.

Significativi sono gli studi di storiografia pubblicati su tanti maestri: Stéphane Gsell, Hans-Georg Pflaum, William Seston, Charles Pietri, Marcel Le Glay, Henri-Irénée Marrou.

Molti altri sono i lavori che alla sua scomparsa sono rimasti incompiuti e che speriamo i numerosi allievi possano pubblicare presto.

Proprio l’allievo ed amico Xavier Dupuis l’ha ricordato in questi giorni su “Antiquités Africaines” come uno dei più grandi storici dell’Africa romana: <<Homme, historien et enseignant remarquable, Claude Lepelley impressionnait beaucoup, et pas seulement les étudiants, par son physique, son regard profond et lumineux, sa grande clarté, sa science, et aussi par son esprit critique, parfois sévère mais toujours positif et bienveillant, lorsqu’on lui soumettait un article, un chapitre de thèse ou une simple hypothèse. Très discret, il ne parlait guère de lui, mais tous ceux qui l’on approché savent quelle profonde intelligence et quelle immense culture l’habitaient. Ces grandes qualités, humaines et scientifiques, expliquent son rayonnement et son influence en France évidemment, dans les pays du Maghreb bien sûr et singulièrement en Tunisie, mais aussi à l’étranger comme en témoignent l’estime dans laquelle le tenaient [les] savants (…). Plus que tout autre il survit par l’œuvre transmise aux générations futures, par les pistes qu’il a ouvertes et par l’empreinte qu’il a imprimée en chacun d’entre nous>>.

E’ per me davvero un onore unire la mia voce in questo ricordo affettuoso e grato, per un uomo generoso e ricco di passioni e di interessi, capace indicare piste di ricerca originali e di aprire davvero strade nuove per tutti.




Natione Sardus “Achivio Storico Sardo”

Natione Sardus
“Achivio Storico Sardo”, in stampa
Attilio Mastino

1. Per spiegare il termine natio, nel senso di “patria”, origo, luogo geografico di nascita e di origine ma anche domicilium (in greco génos, éthnos, polítes), il grammatico Lucio Cincio ripreso da Festo[1] in età repubblicana faceva riferimento a coloro che sono radicati su un territorio, sul quale sono nati e continuano a vivere: genus hominum, qui non aliunde venerunt, sed ibi nati sunt ubi incolunt[2]. A questo riguardo è necessario specificare la differenza sostanziale con gens, in quanto la nozione espressa da quet’ultima si collega alla serie di antenati presenti in un lignaggio familiare e uniti da un rapporto di sangue;  la nozione di natio, invece, tiene conto del rapporto che un dato gruppo sociale ha nei confronti di un luogo geografico di origine; questo infatti identifica il suolo della patria originaria, <<solum patrium quaerit>>, in quanto è omoradicale col verbo nascor[3].

Pertanto, nella recentissima voce natio scritta per il Thesaurus linguae Latinae (a. 2014), Friedrich Spoth osserva che nell’utilizzare il termine natio si intende trattare specialmente de coetu hominum, qui coniuncti sunt vinculo, magari unius originis, linguae, religionis similiter[4]. Quindi si coglie il senso dell’espressione natione verna, che non è da intendersi come abitualmente verna “schiavo nato in casa” ma che conserva il significato più antico di “nativo”, dal momento che è assegnata soprattutto a liberi e non a schiavi[5].

In genere natio viene utilizzato per indicare un <<populus>>, cioè <<homines, nomine vinculo originis, rpreligionis similiter coniuncti>>[6]: le popolazioni straniere, alleate o sottomesse a Roma (nationes exterae); altre volte indica popoli ostili alla Res pubblica oppure etnie definite etnocentricamente “barbare e arretrate”, rispetto alla cultura di cui i Romani si ritenevano portatori primi[7]. In epoca romana questa nozione era riferita soprattutto ai peregrini che abitavano ampie aree all’interno dello spazio geografico dell’impero e che conservavano le loro tradizioni e, se si vuole, una propria cittadinanza, in qualche caso alternativa alla cittadinanza romana: natio è dunque la comunità di diritto alla quale si apparteneva per vincolo di sangue, partendo dalla terra nella quale si era nati, dal luogo d’origine, di appartenenza o di provenienza. Il termine era utilizzato di frequente per indicare anche i barbari che abitavano fuori dall’impero romano r che avevano una propria lingua e tradizione.

Natio poteva indicare genericamente un’etnia o poteva essere usato per caratterizzare anche solo un  rappresentante di un’entità geografica più ampia, comprendente diversi populi e gentes. Eppure in genere natio contiene anche un aspetto che includeva, sul piano etnico e culturale, il nostro termine “nazione” che appare oggi più caratterizzato sul piano identitario, più capace di identificazione specifica, riferito a popoli che <<hanno in comune lingua, arte, storia, tradizioni>>[8]. In ambito provinciale la questione aveva importanti contenuti culturali e giuridici, in relazione al rapporto tra la cittadinanza romana e gli iura gentis, cioè le tradizioni giuridiche locali dei peregrini, che sopravvivevano all’interno di una provincia romana, come testimonia ad esempio la tabula Banasitana[9] e, in Sardegna, l’epigrafe del nurac Sessar riguardante il popolo degli Ili(enses)[10]: elementi che in qualche modo testimonino la sopravvivenza dello <<ordinamento giuridico>> pre-romano in piena età imperiale.

Si coglie il senso dell’utilizzo del termine natio quando veniva impiegato per indicare – con una sfumatura culturale e identitaria – l’insieme dei popoli che occupavano la provincia della Sardinia, isola che anche come entità geografica non veniva considerata facente parte dell’Italia romana, in quanto organizzata attraverso una propria lex provinciae e sottoposta originariamente all’imperium di un magistrato[11]. Per contro per indicare se stessi, i Romani preferivano utilizzare civitas, patria, res pubblica, Urbs, termini che ovviamente non si sovrappongono ma contengono sfumature differenti per indicare una dimensione giuridica e istituzionale fondata sulla libertas[12].

Jean-Marie Lassère nel Manuel d’épigraphie romaine è arrivato ad affermare nel 2005, con riferimento all’espressione attribuita ad un Iulius Alexsander natione Afer, che <<le mot natio peut faire référence non à la naissance mais à la culture dont participe le personnage corcerné>>:  lo dimostrerebbe il passo del de inventione di Cicerone (I, 24,35) nel quale si chiede se un individuo sia greco o barbaro per cultura: natione, Graius an Barbarus ? In pratica, su un piano psicologico, la menzione epigrafica della natio, così frequente nel II secolo d.C., potrebbe essere l’eco di una lontana e forse inconfessabile nostalgia  <<de déracinés>>, di personaggi che, pur vivendo a distanza, continuavano a guardare alla loro patria lontana, alla loro terra di provenienza; individui desiderosi di non lasciar sopravvivere dei dubbi sulla propria origine e di non essere confusi con gli incolae, semplici residenti che non erano a tutti gli effetti membri della comunità che li aveva accolti[13].  Di conseguenza si è esplicitamente natione Sardi solo quando si vive fuori dalla Sardegna, ma è sottinteso che l’espressione porebbe essere riferita a tutti i residenti, cives e peregrini.

2. Per un paradosso della storia, proprio Marco Tullio Cicerone, accerrimo nemico dei Sardi, attribuiva loro la condizione di natio; infatti l’Arpinate utilizza di frequente il termine natio quando presenta popoli stranieri e barbari, de exteris et barbaris populis[14]. In una lettera al fratello Quinto, Cicerone parla di Africani, Spagnoli o Galli, tutti considerati come nazioni feroci e barbare, che comunque occorreva amministrare secondo i principi dell’humanitas romana: <<Quod si te sors Afris aut Hispanis aut Gallis praefecisset, immanibus ac barbaris nationibus, tamen esset humanitatis tuae consulere eorum commodis et utilitati salutique servire>>[15].

Nella decima Filippica Cicerone spiega le ragioni per le quali i Romani hanno assunto la causa della libertà; tutti gli altri popoli invece potevano essere disposti a sopportare la servitù; la comunità romana  invece non poteva accettarlo (omnes nationes servitutem ferre possunt, nostra civitas non potest); questo era possibile semplicemente perché gli altri rifuggivano la fatica e la sofferenza e, per evitarle, erano disposti a subire qualsiasi cosa.  “Noi” invece, pecisa Cicerone, abbiamo, grazie all’esempio e all’insegnamento dei padri, una formazione tale che ci fa guidare ogni nostro pensiero e ogni nostra azione col criterio dell’onore e della virtù (10, 20).

Come è da tempo noto si tratta di un testo influenzato dalla polemica politica sorta alla vigilia della costituzione del secondo triumvirato; tuttavia, è opportuno tenere presente che il topos che lega la libertà dei Romani al servaggio di un popolo che si indica col termine natio è un concetto ben definito da Cicerone dieci anni prima nella Pro Scauro, proprio con riferimento ai Sardi. Pronunciata per difendere un governatore disonesto, l’orazione mette in evidenza come tutti i testimoni sardi avessero immaginato di far cosa gradita al console Appio Claudio e volessero stringere un patto con lui (compromissum), in cambio di una possibile ricompensa per l’elezione al consolato del fratello. La loro testimonianza non poteva essere degna di considerazione, poiché dettata dall’avidità, dal momento che apud nomine barbaros, opinio plus valet saepe quam res ipsa (16,36). La credibilità dei testimoni era nulla, in quanto sarebbe stata dimostrata una congiura di Sardi, causata dalla cupiditas, spe et pr<omissione> praemiorum. Del resto si sosteneva che la loro nazione è così superficiale e vacua che per i Sardi non c’è nessuno tra di loro capace di distinguere schiavitù da libertà se non per il fatto di poter mentire impunemente: postremo ipsa natio, cuius tanta vanitas est ut libertatem a servitute nulla re nisi mentiendi licentia distinguendum putent (17,38).

I centoventi testimoni sardi usano una loro unica lingua, perseguono un loro unico scopo nascosto, non già espressione del risentimento per un abuso subito ma di simulazione, sotto l’impulso non delle offese ricevute da Scauro ma delle promesse e delle ricompense di altri: nunc est una vox, una mens non expressa dolore sed simulata, neque huius iniuriis, sed promissis aliorum et praemiis excitata (18, 41). E qui vox potrebbe davvero assumere il significato di lingua di un popolo barbaro e riferirsi, più che alla lingua cananea dei Cartaginesi,  al proto sardo degli eredi dei nuragici, la lingua perduta che ha preceduto il latino, un suono indistinto, un rumore, un frastuono fatto di parole incomprensibili, ma comunque accusatorie nei confronti di Scauro, dette per il trramite dell’intermediazione di un interprete. L’unica deposizione potenzialmente ammissibile sarebbe allora quella del cittadino romano Valerio, il vero testimone per l’accusa, perché è il solo capace di parlare in latino. Proprio per questo Cicerone afferma che tutto il processo dipendeva da questo sardo da poco entrato nella romanità, uno sconosciuto senza autorità, che con la sua testimonianza aveva voluto dimostrare riconoscenza al figlio di colui che gli aveva donato la cittadinanza vent’anni prima, P. Valerio Triario, il vincitore di Emilio Lepido.

Cicerone si poneva il prolema e si chiedeva come fosse possibile credere ad un gruppo di testimoni sardi, in quanto hanno tutti lo stesso colorito olivastro, parlano tutti una stessa lingua incomprensibile, tutti senza eccezione appartengono alla stessa nazione ? (sin unus color, una vox, una natio est omnium testium ?) (9,19).

Quindi prosegue rimproverando ai Sardi le loro origini africane e sostiene con determinazione la tesi che la progenitrice della Sardegna sia stata l’Africa. L’appellativo Afer è ripetutamente usato come equivalente di Sardus. L’espressione Africa ipsa parens illa Sardiniae suggerisce secondo il Moscati la realtà di una “ampia penetrazione di genti africane ed il carattere coatto e punitivo della colonizzazione o, meglio, della deportazione”[16].

Inoltre, sempre Cicerone riassume con brevi e offensive parole la storia della Sardegna dall’età fenicia a quella punica, fino ad arrivare alla romana; scrive che «tutte le testimonianze storiche dell’antichità e tutte le storie ci tramandarono che nessun altro popolo fu infido e menzognero quanto quello fenicio (fallacissimum genus esse Phoenicum omnia monumenta vetustatis atque omnes historiae nobis prodiderunt) (19,42). Da questo popolo sorsero i Punici e dalle molte ribellioni di Cartagine, dai molti trattati violati e infranti ci è dato conoscere che appunto i Punici non degenerarono dai loro antenati Fenici. Dai Punici, mescolati con la stirpe africana, sorsero i Sardi (a Poenis admixto Afrorum genere Sardi) (19,42), che non furono dei coloni liberamente recatisi e stabilitisi in Sardegna, ma solo il rifiuto dei coloni di cui ci si sbarazza, non deducti in Sardiniam atque ibi constituti, sed amandati et repudiati coloni. Ora, se niente di sano vi era in principio in questo popolo, a maggior ragione dobbiamo ritenere che gli antichi mali si siano esacerbati con tante mescolanze di razze».

Gli incroci di razze diverse che ne erano derivati, secondo Cicerone, avevano reso i Sardi ancor più selvaggi ed ostili; in seguito ai successivi travasi, la razza si era “inacidita” come il vino (qua re cum integri nihil fuerit in hac gente plena, quam valde eam putamus tot transfusionibus coacuisse ?) (19,43), prendendo tutte quelle caratteristiche che le venivano rimproverate: ovvero, discendenti dai Cartaginesi, mescolati con sangue africano, relegati nell’isola, i Sardi secondo Cicerone presentavano tutti i difetti dei Punici, erano dunque bugiardi e traditori, gran parte di essi non rispettavano la parola data, odiavano l’alleanza con i Romani, tanto che in Sardegna non c’erano alla metà del I secolo a.C. città amiche del popolo romano o libere ma solo civitates stipendiariae.[17]

Un alleggerimento del giudizio compare in 19,44: neque ego, cum de vitiis gentis loquor, neminem excipio; sed a me est de universo genere dicendum, in quo fortasse aliqui suis moribus et humanitate stirpis ipsius et gentis vitia vicerunt.

L’espressione natio è utilizzata pochi anni dopo (nel 37 a.C.) anche nel de re rustica di Varrone, a proposito dei Sardi Pelliti della Barbaria sarda alleati di Hampsicora durante la guerra annibalica e per questo avvicinati ai Getuli africani: quaedam nationes harum (caprarum) pellibus sunt vestitae, ut in Gaetulia et in Sardinia (Varrone, De re r. II, 11, 11). Si deve precisare che Hampsicora col figlio Hostus sono per Ferruccio Barreca <<gli unici esponenti a noi noti come individui della nazione sarda nell’antichità>>, comunque alle origini della dominazione romana[18].

Per inciso l’aspetto negativo dell’espressione omnes nationes ricorre nel discorso tenuto da Gaio Gracco al suo rientro a Roma nel 124 a.C., secondo il racconto di Aulo Gellio, che ricorda come il questore fosse rimasto in Sardegna per due anni interi: <<Biennium fui in provincia; si ulla meretrix domum meam introivit aut quiusquam servulus propter me sollicitatus est, omnium nationum postremissimum nequissimumque extimatote>> (se mai una meretrice ha profanato la mia soglia, o se un giovane schiavo per  mia iniziativa venne condotto al vizio, che io venga giudicato il più perverso e il più abietto di tutte le genti[19].

 

3. Come si è visto prima Cicerone utilizza nella Pro Scauro due volte il termine natio per indicare i peregrini Sardi; tale utilizzazione è in parallelo il termine gens, che però di solito ha un’accezione più larga, in quanto comprende la pienezza di più nationes (19,43), tanto che Forcellini può affermare che natio a gente differt ut genus a specie, perché gens enim latius patet et plures nationes complectitur[20]. Così come la nozione di natio è utilizzata spesso in malam partem, con disprezzo (i fures maritimi sono una famelica hominum natio)[21], anche gens può avere una caratterizzazione negativa, vd. Floro: gens contumax vilisque mortis (I, 22,35). Infine, genus è utilizzato da Cicerone nella Pro Scauro in modo un po’ sbrigativo e per ragioni retoriche come sinonimo di natio, sempre con riferimento ai Sardi (p.es. 19, 42 e 44).

L’argomento è stato di recente trattato frontalmente da Antonio Ibba, che, commentando la voce scritta da Gustav Meyer per il Thesaurus linguae Latinae, ritiene che gens possa essere spesso tradotto con “popolo” e finisca per collocarsi in <<opposizione a populus romanus o a civitas romana>>, <<oppure assumere un significato tecnico riferito a nationes barbare extra finem imperii, intese dai Romani quasi come un’entità politica autonoma, uno “stato”>>, <<o a tribù peregrine interne, prive di organizzazione municipale>>; ancora gens <<poteva in modo sinonimico indicare una qualsiasi natio o un populus o infine la regione nella quale quella popolazione risiedeva o una località all’interno di quel territorio>>[22]. Gens diventerebbe quindi sinonimo di natio o di tribù soprattutto nelle Mauretanie, nelle Numidie ed in Byzacena[23].

Per quanto riguarda la Sardegna, Livio utilizza l’espressione gens per indicare il popolo degli Ilienses del Marghine-Goceano che continuavano a godere della libertà ancora nel I secolo a.C.: gens nec nunc quidem omni parte pacata[24]; infatti, i loro iura (gli iura gentis analoghi a quelli della tabula Banasitana)[25] sono richiamati sulla celebre iscrizione del Protonuraghe Aidu ‘entos di Mulargia, all’indomani della sedentarizzazione nel Marghine-Goceano del I secolo d.C.[26]. Per i Greci gli Iolaeis, gli Iolaeoi, gli Iolaioi avrebbero dato il nome di Iolee alle pianure della Sardegna. Pertanto, Diodoro Siculo, riprendendo antichi miti greci, sostiene che i Tespiadi avrebbero mantenuto nei secoli la libertà promessa per sempre dall’oracolo di Apollo ad Eracle per i suoi 50 figli che avessero raggiunto la Sardegna e per i loro discendenti, dove non avrebbero dovuto subire il dominio di altri popoli. Quindi Diodoro poteva constatare che gli Iolei avevano saputo resistere ai Cartaginesi ed ai Romani; si erano rifugiati sui monti, avevano preso dimora in luoghi inaccessibili, abitando in gallerie e in ambienti sotterranei da loro costruiti, dedicandosi alla pastorizia, nutrendosi di latte, di formaggio, di carne e facendo a meno del grano; così, lasciate le pianure, si erano sottratti anche alle fatiche di coltivare la terra. Infine continuavano a vivere sui monti, senza la preoccupazione del lavoro, contenti dei cibi semplici, mantenendo quella libertà che nemmeno i Romani, all’apice della loro potenza, erano riusciti a soffocare[27].

In età triumvirale, alla fine dell’età repubblicana, Ottaviano esaltava sulle monete e con la costruzione del tempio di Antas il dio nazionale dei Sardi, il Sardus Pater, figlio di Makeris-Melkart-Eracle: sulle monete lo stesso Ottaviano, divi filius, voleva ricordare l’azione del nonno Marco Azio Balbo, propretore in Sardegna nel 59 a.C.[28]; questo era l’anno cruciale del consolato di Giulio Cesare suo cognato, il quale a sua volta poteva vantare una ascendenza divina che forse lo collegava ai Sardi Ilienses, fondando una “parentela etnica” con i Sardi della Barbaria[29].  Il santuario (le cui origini risalgono alla fine dell’età nuragica) finì per rappresentare nell’antichità preistorica, poi in quella punica e soprattutto in età romana, il luogo alto dove era ricapitolata tutta la storia del popolo sardo, nelle sue chiusure e resistenze, ma anche nella sua capacità di adattarsi e di confrontarsi con le culture mediterranee[30].

 

4. Al fine di proporre un particolare contributo alla nozione di natio da attribuire storicamente all’insieme dei populi chge occupavano la Sardegna, in questa sede intendiamo raccogliere tutti i passi epigrafici nei quali è presente l’espressione natione Sardus, <<con l’esponente natione seguito dal nominativo del nome geografico in forma aggettivale>>[31], da intendersi quindi nel senso di “sardo per nazionalità”, anche se la divaricazione temporale rende assolutamente improponibile una reale assimilazione della parola latina natio con i contenuti sostanziali del termine italiano moderno “nazione”, ormai troppo caratterizzato. Infatti, come è noto, quest’ultima si differenzia nettamente da “popolo”, in quanto si fonda soprattutto sui vincoli non giuridici ma prima facie naturali ed eredita oggi tutti i condizionamenti dei nazionalismi dei nostri tempi, allargandosi dal piano geografico a quello etico e culturale. Va premesso che l’espressione è già documentata in età flavia e soprattutto nel II secolo tra gli Antonini e i Severi ed è inizialmente utilizzata per definire la patria di militari di origine peregrina, morti fuoiri dall’isola: è frequente soprattutto per quei provinciali che ancora non hanno ottenuto la cittadinanza romana, prima di Caracalla[32].

Nel mondo romano, per indicare la provenienza dall’isola e forse più in generale dalla provincia Sardinia (che comprendeva anche la Corsica), i civili utilizzavano spesso l’espressione Sardus o domo Sardinia[33]; i legionari ed i soldati delle coorti ausiliarie portavano semplicemente l’etnico Sardus o l’indicazione ex Sardinia, insieme alla specificazione della città, Caralitanus, Sulcitanus, ecc.[34]; veniva anche indicata l’origo da un villaggio come Nur(ac) Alb(-) o da un popolo: Fifensis ex Sar(dinia), Caresius, ecc. Oltre cinquanta anni fa, nell’articolo sui Sardi nelle legioni e nella flotta romana, Giovanna Sotgiu non si è concentrata sull’espressione natione Sardus e del resto il lavoro risulta oggi ampiamente superato anche a livello di documentazione epigrafica[35]. Un’analoga ricerca di Robert J. Rowland (Sardinians in the Romam Empire), in realtà non mette a fuoco la questione che ci interessa[36].

A questo punto la verifica può partire con l’analisi dei legionari arruolati nei municipi o nelle colonie di cittadini romani dell’isola, che pure raramente ricordano la loro origo[37]. A Lambaesis in Algeria, sede della legione III Augusta a partire dall’età di Adriano, conosciamo nel II secolo un L(ucius) M[a]gnius Fortunatianus [Q]uirina Caralis vissuto 22 anni: m(iles) l(egionis) III A(ugustae) (CIL VIII 3185)[38].

Da espungere è il caso dell’iscrizione sepolcrale africana che ricorda un Iulius Maximus, (natione) Sarda, marito di Clodia Secunda (CIL VIII 11580), morta ad Ammaedara, oggi Haidra in Tunisia; Rowland ed io stesso avevamo immaginato in passato che si trattasse di un legionario, dal momento che la legio III Augusta ebbe il suo primo accampamento proprio ad Ammaedara, prima di essere trasferita a Theveste e da qui a Lambaesis[39]. In realtà il testo è stato recentemente di nuovo edito da Zeineb Benzina Ben Abdallah che ha confermato la lettura di ILTun. 437, Barda e non Sarda[40]:  Barda, cognome maschile, è un vero e proprio nome berbero, brd, assimilabile a Iasda et Zabda[41].

Sempre in Africa e più precisamente a Milev, nella regione cirtense, conosciamo un ausiliario arrivato dalla Sardegna, forse da Austis, dove in precedenza nel corso del I secolo d.C. si trovava la coorte di Lusitani: Optatus Sadecis f(ilius) decurio co(ho)rti(s) Lusitana(e), v(ixit) a(nnis) LV, Sardus[42].

Sicuramente sardo, in possesso della cittadinanza, era un legionario della legio XIII Gem(ina), C. Acilius Marcianus, centurio princeps, Caralitanus (CIL X 6574, Velletri).

Anche il diploma di Anela del 22 dicembre 68 ricorda un soldato sardo, però peregrino fino al momento del congedo: Ursaris Tornalis f. Sardus (CIL X 7891 = XVI 9 = AE 1983, 451 = ELSard. p. 663 C80). La particolarità è rappresentata dalla circostanza che quasi tutti i testimoni erano isolani, cittadini romani originari dei municipi di Carales (sette) e di Sulci (uno)[43]:

D. Alarius Pontificalis, Caralitanus

M. Slavius Putiolanus, Caralitanus

C. Iulius [S]enecio, Sulcitanus

L. Graeci[n]ius) Felix, Caralitanus

C. Herennius Faustus, Caralitanus

C. Caisi(ius) Victor, Caralitanus

M. Aemilius Ca[p]ito ve[t(eranus)] leg(ionis) I Adiutr[r]ic(is)

C. Oclatius [M]acer, Caralitanus

L. Valerius Herma, Caralitanus

 

Tra i popoli isolani sono ricordati i Cares(ii) nel diploma di Dorgali del 10 ottobre 96, che menziona la cohors II Gemin[a Ligurum] et Cursorum, cui [prae]est T. Flav[ius Ma?]gnus: il soldato è un peregrino, Tunila […] f. Cares(ius) (CIL X 7890 = XVI 40 = ELSard. p. 663 C 79).

Il diploma CIL X 7855 = XVI 79 del 15 settembre 134 rinvenuto a Tortolì, ricorda un marinaio, un ex gregale D. Numitorius Agasini Tarammoni (filio) Fifens(is) ex Sar(dinia) et Tarpalar f(ilius) eius, per il quale si precisa che l’etnico Fifens(is) è da collegarsi alla Sar(dinia)[44].

Marinaio era anche l’ex gregale di Seulo congedato da Caracalla il 13 maggio 212 o 213: C. Tarcutius Tarsaliae fil(ius) Hospitalis, Caralis, ex Sard(inia) (CIL XVI 127 = ILSard. 182 = ELSard. p. 567 A 182 = AE 2008, 613, con la rettifica della data).

Ad un villaggio sulla costa orientale della Sardegna, collocato presso un nuraghe in pietra calcarea bianca, rimanda il recente ritrovamento di un diploma del 5 maggio del 102 d.C. rinvenuto a Posada e pubblicato da A. Sanciu, P. Pala, M. Sanges[45]: si tratta di un soldato della cohors II Gemina Ligurum et Corsorum cui prae(e)st Lucius Terentius Serenus, un reparto che sappiamo presto trasferito in Siria, quando la Sardegna passò al Senato (attorno al 111 d.C.)[46]; in Siria troviamo la coorte comunque prima del 129 fino almeno al 153 d.C.[47]. Viene citato il fante ex pedite Hannibal Tabilatis f(ilius) Nur(ac) Alb(-), sua moglie Iuri figlia di Tammuga, uxor eius Sordia (da intendersi come un vero e proprio etnico, difficilmente Sarda), i figli Sabinus e Saturninus con onomastica latina; infine le figlie Tisare, Bolgitta, Bonassonis (?)[48]. Per Nur(ac) Alb(—) sembra doversi pensare ad una località vicina a Posada: forse a Siniscola, Sa Domu Bianca, a Dorgali, Nuraghe Arvu, oppure sul Golgo di Baunei, Nuraggi Albu: nella stessa area sono stati richiamati di recente da Pasquale Zucca i nuraghi di Coa ‘e Serra o di Doladorgiu[49]. La forma epigrafica nurac per indicare i nuraghi sardi è documentata a Mulargia[50].

 

5. Più interesse riveste la preziosa indicazione natione Sardus, attribuita a numerosi marinai delle flotte militari di Miseno e di Ravenna specialmente nel II secolo d.C.: l’espressione assume una caratterizzazione specifica per il fatto che si riferisce all’appartenenza ad una provincia o ad un’isola, ben delimitata geograficamente e articolata in una serie di populi, che prima di Caracalla non avevano ancora ottenuto la civitas romana. Plinio indicava come celeberrimi populi della Sardinia gli Ilienses, i Balari ed i Corsi[51]; per il resto si rimanda alla nostra carta della Storia della Sardegna antica che elenca i seguenti populi: Aconites (Logudoro ?), Aichilenses (Cornus-S. Caterina di Pittinuri), Aisaronenses (Feronia-Posada), Altic(ienses) (Barisardo), Balari-Perfugae (da Monti verso Berchidda, nel Logudoro fino a Perfugas), Barbaricini (in Barbagia e sul Gennargentu), Beronicenses (incolae aggregati alle tribus del municipio di Sulci, S. Antioco), Buduntini (sodales di Carbia-Alghero o Nure, Lago Baratz, immigrati dalla Apulia), Carenses (Irgoli), Celes(itani) (Sorabile-Fonni), Coracenses (Ittiri), Cornenses Pelliti (Cornus-S. Caterina di Pittinuri), Corpicenses (di incerta localizzazione nella Sardegna centrale), Corsi della Gallura (Olbia), Cusin(itani) (Sorabile-Fonni), Diaghesbei, Falisci (Feronia-Posada), Fifenses (Sulci-Tortolì o Vallermosa?), Eutychiani (Gurulis Nova-Cuglieri), Galillenses (Esterzili), Giddilitani (Gurulis Nova-Cuglieri), Ilienses-Iolei-Ilii-Troes (Molaria-Mulargia, estesi tra il Marghine e il Goceano), Longonenses (Longone-Santa Teresa), Luquidonenses (Castro-Oschiri e Siniscola), Maltamonenses (Sanluri), Martenses (Serri), Mauri (Sulcis), Moddol(itani) (Villasor), [M]uthon(enses) oppure [Mam]uthon(enses) Numisiarum (Gurulis Nova-Cuglieri), Neapolitani (Neapolis-S. Maria di Nàbui), Nurr(itani) (Orotelli), Parates (Logudoro ?), Patulcenses Campani (Trexenta?, immigrati dalla Campania), Patulcii (Gurulis Nova-Cuglieri), Porticenses (Tertenìa), Rubr(enses) (Barisardo), Sardi Pelliti (Marghine), Scapitani (di incereta localizzazione nella Sardegna centrale), Semilitenses (Sanluri), Sossinates (Logudoro ?), Siculenses (Muravera?), Tibulati (Tibula-Castelsardo), Uddadhaddar(itani) Numisiarum (Gurulis Nova-Cuglieri), Valentini (Valentia-Nuragus), Vitenses (Bithia-Chia), [—]rarri(tani) [Nu]misiaru[m] (Gurulis Nova-Cuglieri)[52]. Si aggiungano ora i Barsanes di Barumini e gli Uneritani di Las Plassas in Marmilla[53].  A città romane, municipi o colonie, fanno riferimento gli etnici: Caralitani (Cagliari), Cornenses (Cornus), Noritani-Norenses (Nora-Pula), Sulcitani (Sulci-S. Antioco e Sulci-Tortolì), Tharrenses (Tharros), Turritani (Turris Libisonis-Porto Torres), Uthicenses (Othoca-Santa Giusta). Occasionalmente abbiamno anche: Hypsitani (Fordongianus), Lesitani (San Saturnino di Bultei); al singolare: Bosanus (Bosa) [54], Olbiensis (Olbia), Port(u)ensis (Turris Libisonis-Porto Torres) [55], Sorabensis (Sorabile-Fonni).

 

6. Negli epitafi provenienti da località esterne alla Sardegna conosciamo ben 26 marinai indicati dagli eredi come natione Sardi, nessuno individuato con un etnico riferito ad uno dei popoli sardi o ad una città: essi sono quasi tutti provvisti di tria nomina e dunque sembrerebbero entrati nella cittadinanza in qualche caso già prima del congedo e comunque prima di Caracalla. Si segnalano i gentilizi Marius, Iulius, Flavius, Aurelius ed i quattro Valerii; alcuni gentilizi hanno sicuramente origine locale, come Tarul(l)ius Tatenti (filius) di CIL X 687, in realtà nome unico, ma si noti l’ascendente sicuramente sardo[56].

Nella città di Roma (in particolare in alcune aree come il sepolcreto salario o sulla via Appia), conosciamo 7 marinai natione Sardi, appartenenti alla flotta di Miseno: Atilius Modestus (CIL VI 3101 = AE 2008, 201), Quintus Catius Firminus, della trireme Pax (CIL VI 3105), Cossu[—] Nepos (CIL VI 32766), Marcus Marius Pudens, della trireme Part(h)icus (CIL VI 3121), Lucius Tarcunius Heraclianus, della quadrireme Dacicus (AE 1916, 52)[57], un anonimo [n]atione Sard(us) (CIL VI 37251), un altro anonimo della trireme Ops (AE 2001, 601).

A Miseno (oggi Bacoli) conosciamo 12 marinai, milites, natione Sardi appartenenti alla flotta di Miseno: Lucius Aurelius Fortis della lib(urna) Fides (CIL X 3423), Titus Fl(avius) Calpurnius, della trireme Pol(l)ux (CIL X 3613), Lucius Gargilius Urbanus, della trireme Perseus (CIL X 3466), Titus Licinius Memor, della trireme Venus (CIL X 3598), Marcius Celestinus (CIL X 3601), Gnaeus Silanius Pius, della trireme Mars (CIL X 3627), Gaius Tamudius Cassianus, della trireme Providentia (CIL X 3636), Gaius Valerius Germanus, della trireme Taurus (CIL X 3648), Sextus Valerius Ingenuus, della trireme Aug(ustus) (CIL X 3650), Lucius Valerius Victor, della quadriere Fides (CIL X 3501), [—] Burrus, della liburna Iustitia (EE, VIII, 427), [—] Saturninus (CIL X 3621).

Ad Ostia conosciamo un solo marinaio natione Sardus della flotta di Miseno: l’anonimo della trireme Sol (CIL XIV, 242); a Sorrento un Tarul(l)ius Tatenti (filius) (CIL X 687).

Per la flotta di Ravenna conosciamo 5 marinai natione Sardi: uno a Seleucia di Pieria (sulla rotta per Carales)[58], Gaius Iulius Celer (AE 1939, 229 = IGLS, 3,2, 1164); tre a Ravenna-Altinum Gaius Turellius Ru[f]us, della trireme Venus (CIL V 8819), Titus Ursinius Castor, della trireme Victoria (CIL XI 113) ed un anonimo (CIL XI 121); infine a Miseno Gaius Valerius Bassus, della trireme Virt(us) (CIL X 3645).

 

7. I personaggi elencati con i tria nomina difficilmente erano in possesso della cittadinanza romana al momento dell’arruolamento: è assolutamente improbabile che essi provenissero dai municipi e dalle colonie di cittadini romani della Sardegna, ma dovevano esser stati arruolati all’interno delle varie civitates, così come i fanti e i cavalieri delle coorti ausiliarie che pure a quanto ne sappiamo non utilizzavano l’espressione natione Sardus. Di norma i marinai avrebbero dovuto assumere i tria nomina solo al momento del congedo[59]. Sicuramente un peregrino è Tarul(l)ius Tatenti (filius) di età antonina o severiana (CIL X 687), marinaio della flotta di Miseno, di cui non conosciamo i dati biometrici. Si noti la filiazione con nome unico, l’ascendente “all’africana”[60].

Olli Salomies ha fatto notare un aspetto dell’onomastica isolana particolarmente significativo e caratterizzato, i nomi unici o i gentilizi in Tar-, che farebero riferimento a quella che Lidio Gasperini chiamava la “Sarditas” locale che emerge attraverso forme onomastiche uniche nell’impero: Taretius di ILSard. 207 e Tarcuinus Fili f(ilius) Neroneius di ILSard. 209 a Samugheo; Targuro di CIL X 7874 a Busachi; Tarammon e suo nipote Tarpalaris di CIL X 7855 = XVI 79 a Tortolì; C. Tarcutius Hospitalis e suo padre Tarsalia di ILSard. 182 = CIL XVI 127 = AE 2008, 613 a Seulo[61]. Si aggiunga il Tartalasso che compare tre volte a Longu Frùmini Pisàli a Sud del territorio di Tertenia in  ELSard. p. 655 B 101f e il marinaio che si citerà più avanti L(ucius) Tarcunius Heraclianus m(iles) sepolto a Roma e provvisto di tria nomina (AE 1916, 52).

Non sappiamo se era cittadino romano il sardo [—] Burrus, della liburna Iustitia, vissuto 32 anni, deceduto dopo 17 anni di servizio: è ricordato dalla moglie Mani[l]ia Veneria (EE, VIII, 427). Allo stesso modo [—] Saturninus, con il caratteristico nome «africano», vissuto 50 anni, morto dopo 12 anni di servizio, sepolto a cura dell’erede [—]s Draco; paradossalmente dovrebbe esser stato arruolato a 38 anni di età (CIL X 3621).

Potrebbre aver usurpato l’onomastica romana prima del congedo Atilius Modestus, arruolato a 20 anni, morto a 25 anni dopo 5 di servizio militare, per il quale si osservi l’assenza del prenome (CIL VI 3101 = AE 2008, 201). Analogo è il caso di Marcius Caelestinus, ricordato a Miseno dalla figlia: è morto in servizio a 32 anni di età, dopo 14 anni di attività, essendo stato arruolato a 18 anni (CIL X 3601). Anche Sex(tus) Valerius Ingenu(u)s della trireme Aug(ustus) è morto in servizio a 30 anni di età dopo 7 di servizio (arruolato a 23): lo ricorda un commilitone della stessa trireme, un peregrino, L(ucius) Saturninus (si noti l’assenza di gentilizio e ancora il caratteristico nome unico che richiama il Saturno africano) (CIL X 3650).

T. Fl(avius) Calpurnius della trireme Pol(l)ux è ricordato dai due commilitoni suoi eredi (marinai delle triremi Pol(l)ux e Pietas) ed è deceduto in servizio a 25 anni, dopo 7 di servizio; arruolato a 18 anni (CIL X 3613). L(ucius) Gargilius Urbanus optio della trireme Pe(r)seus è stato sepolto per volontà del figlio, che lo ricorda per i 20 anni di servizio. La formula contiene un sorprendente dettaglio e precisa che il marinaio è deceduto a 38 anni di età, 3 mesi e 7 giorni (CIL X 3466).

M(arcus) Marius Pudens della trireme Part(h)icus della flotta di Miseno è morto a 37 anni di età, dopo 17 di servizio, arruolato a 20 anni ed è ricordato da un erede a Roma (CIL VI 3121).

C(aius) Tamudius Cassianus, manip(ularius) della trireme Providentia morto a 28 anni di età, dopo 8 di servizio (arruolato a 20 anni) è stato sepolto a Miseno per volontà di un commilitone, il collega della trireme Fortuna Sex(tus) Iulius Quirinus (CIL X 3636).

In servizio è morto anche C(aius) Valerius Bassus della trireme Virt(us), vissuto 40 anni dopo 15 di servizio (arruolato a 25 anni), ricordato dai commilitoni Basilius Cerman(us), della trireme Triump(hus) e C(aius) Iul(ius) Constans della trireme Virtus (CIL X 3645).

A 40 anni di età è deceduto T(itus) Licinius Memor, della trireme Venus, arruolato a 20 anni, in servizio al momento della morte se è ricordato a Miseno dal compagno d’armi, il commilitone della quadrireme Liber(tas) M(arcus) Nonius Aquilinus: si noti la differenza nei gentilizi, per cui i due non possono essere fratelli, come pure talora si è inteso (CIL X 3598). Uguale la situazione di C(aius) Turellius Ru[f]us ancora della trireme Venus, morto in servizio a 45 anni, dopo 25 di servizio (arruolato a 20 anni), se è ricordato dal commilitone, un marinaio della stessa nave Q(uintus) Spedius Mercator (CIL V 8819).

Se il ragionamento ha un qualche fondamento, dovremmo considerare ancora in servizio anche T(itus) Ursinius Castor della trireme Vict(oria), vissuto 56 anni, dopo 26 anni di servizio: dovremmo immaginare un arruolamento a 30 anni d’età, il che sembra abbastanza improbabile, ma questo potrebbe spiegare il fatto che a curare la sepoltura sia stato un commilitone della stessa nave, T(itus) Arenius Cordus (CIL XI 113).

Sono interessanti alcuni altri casi dei marinai morti in servizio: Q(uintus) Cati(us) Firminus della trireme Pax, vissuto 38 anni, morto dopo 17 anni di servizio militare, arruolato a 21 anni (CIL VI 3105).

Dubbio è il caso di L(ucius) Valerius Victor della quadrireme Fides, victimarius principalis, vissuto probabilmente 41 anni (non 31, XXXI), dopo 23 anni di servizio (arruolato a 18): lo ricorda la moglie Aurelia Spes (CIL X 3501).

Naturalmente in possesso della cittadinanza romana erano i marinai congedati al termine del servizio militare: L(ucius) Aurelius Fortis faber duplicarius della lib(urna) Fides, vissuto 52 anni e moto dopo 25 anni di servizio militare: se è stato arruolato a 20 anni, è vissuto altri 7 anni dopo il congedo e la concessione della civitas (CIL X 3423).

A Roma sulla via Salaria fu sepolto il già citato L(ucius) Tarcunius Heraclianus m(iles) della quadrireme Dacicus, morto a 60 anni dopo 30 di servizio: se è stato arruolato a 20 anni, è sopravvissuto 10 anni dopo il congedo (AE 1916, 52): Olli Salomes ha fatto notare come egli porti un gentilizio sconosciuto fuori dalla Sardegna[62].

Forse già congedato era Cn(aeus) Silanius Pius, della trireme Mars della flotta di Miseno, morto a 45 anni dopo 25 anni di servizio, forse arruolato a 20 anni, ricordato dalla moglie Titia Nice e dal figlio Genealis, che sembrerebbe ancora privo della civitas (CIL X 3627).

Forse era stato già congedato C(aius) Iulius Celer, della flotta di Ravenna, vissuto 50 anni, di cui non conosciamo la durata del servizio militare, morto presso il porto orientale di Seleucia di Pieria (AE 1939, 229 = IGLS 3,2, 1164).

Infine dubbi sono i casi di C(aius) Valeri(us) Germanus, della trireme Taurus, morto ad un’età indefinita dopo 25 anni di servizio, ricordato da Mestria Euhodia e di Cossu[—] Nepos (di cui non conosciamo né l’età né gli anni di servizio) (CIL X 3648).

Ignoriamo se possedessero la cittadinanza alcuni anonimi: il marinaio della trireme Sol, vissuto 43 anni, morto dopo 19 anni di servizio (arruolato a 24 anni), sepolto ad Ostia per volontà di T(itus) F[l](avius) Urbatius (CIL XIV, 242); il sardo della [(centuria)] Longin(ii) Ru[fi], morto a 35 anni dopo almeno 10 anni di servizio militare (CIL VI 37251); l’anonimo della trireme Ops, vissuto 30 anni, arruolato a 19, con 11 anni di servizio (AE 2001, 601).

 

8. Non va dimenticato che proprio alla quadriere Ops apparteneva anche il classiario del diploma di Olbia congedato da Traiano assieme ai suoi commilitoni nell’estate del 114, in coincidenza con la rivolta partica[63]: Paola Ruggeri ha supposto che la nave, condotta da marinai sardi, sia stata utilizzata per il viaggio di Traiano verso Antiochia di Siria, sotto il comando di Q. Marcio Turbone, prefetto della flotta di Miseno: è nota la specifica competenza dei marinai sardi lungo la rotta transmediterranea riportata a Plinio[64], che dall’Atlantico toccava Carales, la Sicilia, la Laconia, Rodi, Patara in Licia (dove Traiano ha sicuramente fatto scalo nel 113), Cipro per arrivare fino a Myriandum, urbs Siriae in Issico sinu posita e, a brevissima distanza, fino a Seleucia di Pieria, il porto di Antiochia (dove fu sepolto il C. Iulius Celer, miles ex clas(se) pr(aetoria) Ravennate natione Sardus di AE 1939, 229 = IGLS 3,2, 1164)[65]. Noi oggi sappiamo che Traiano lasciò Roma il 27 ottobre 113 imbarcandosi probabilmente a Brundisium sulla quadriere Ops, dirigendosi a Corinto e poi ad Atene attraverso il periplo del Peloponneso. Ripreso il viaggio da Atene, la quadriere Ops si diresse ad Efeso, capitale della provincia d’Asia. Da qui Traiano proseguì per Afrodisia fino a Patara, dove si reimbarcò sull’Ops, che tenne una rotta costiera fino a Seleucia di Pieria e da qui ad Antiochia, dove Traiano giunse il 7 gennaio 114[66]. Proprio nei mesi successivi veniva congedato l’anonimo marinaio sardo del diploma di Olbia, un peregrino privo della cittadinanza romana.

Sempre Ops si chiamava la nave, una trireme della flotta di Miseno, alla quale apparteneva nel pieno II secolo un marinaio nat(ione) S(ardus) sepolto a Roma, che non va collegato al viaggio di Traiano[67]. Alla grande campagna partica e al percorso imperiale sono stati invece di recente messi in relazione il trasferimento dalla Sardegna in Siria della coorte II Gemina Ligurum et Corsorum[68] e il passaggio della provincia isolana all’amministrazione senatoria, rappresentata nel 111 dal primo proconsole L. Cossonius L. f. Stell(atina tribu) Gallus; egli divenne subito dopo, tra il 113 e il 115 (dunque prima dell’arrivo e durante la permanenza di Traiano in Oriente), legatus Augusti delle provincie imperiali della Galazia, Pisidia e Paflagonia e, sotto Adriano, verso il 120 della Giudea nel pieno della rivolta ebraica[69].

 

9. Una sicura continuità per l’impiego del termine natio riferito ai Sardi è garantita anche nel tardo impero, se Girolamo chiama Eusebio vescovo di Vercelli natione Sardus[70] e se il Liber Pontificalis allo stesso modo definisce il Papa Ilaro[71] e il Papa Simmaco natione Sardi[72].

Ma la vicenda non si interrompe in età medioevale e durante i regni giudicali. Alla metà del XII secolo, l’arabo Edrisi di Ceuta teneva conto delle immigrazioni susseguitesi nell’isola, che avevano dato luogo ad una cristianità diversa, di lontana discendenza africana:  «Gli abitanti dell’isola di Sardegna sono di ceppo mediterraneo africano, barbaricini, selvaggi e di stirpe Rum»; il fondo etnico della gente sarda formatosi da età preistorica ma confermato in età romana era dunque berbero-libico-punico[73]. La Nasio sardescha è citata ancora nel 1391 nel Proceso contra los Arborea[74]. L’espressione era stata utilizzata già l’anno precedente da Brancaleone Doria nella lettera inviata per conto di Eleonora[75]. Non è il caso di andare oltre, ma sappiamo che la tradizione non si perde e la formula continua a ricorrere sostanzialmente senza modifiche in moltissimi documenti della fine del medioevo e in età moderna[76]: un caso significativo segnalato da Giuseppe Meloni è rappresentato dalla decisione di Pietro IV d’Aragona di istituire un braccio separato, il quarto, chiamato << braccio dei Sardi>> nel primo Parlamento del 1355 in età catalano-aragonese[77].  Nel 1484 il Sindaco di Cagliari Andea Sunyer a Cordova presenta a Ferdinando il Cattolico una serie di richieste, che sono state recentemente studiate da Anna Maria Oliva, mettendo in rilievo il contrastato rapporto tra Sardi e Catalano-Aragonesi. Sunyer osserva che la nazione Sarda  in passato era stata  particolarmente devota agli Arborea e perciò selvaggia, feroce e disobbediente; solo di recente è domata, sottomessa e obbediente: «la nació sarda de salvage, ferossa e mal obedient que era, ara és domada,  subiugada e feta obedient»[78].

 

10. Per la sua trasversalità, il tema “nazione” è stato indagato  da storici del passato e del presente: riferito ai Sardi, a partire dalla loro natura ibridata da componenti diverse, il termine si presta molto bene ad essere declinato in un arco cronologico lungo, dall’antichità romana fino agli odierni confliggenti nazionalismi. Ai nostri giorni, a distanza di tanti secoli, il dibattito sulla discussa “sovranità” della Sardegna, forse si arricchisce di un nuovo tassello, che ci consente di assistere in diretta all’identificazione di una “natio” riconosciuta dai Romani, insieme eredità del passato preistorico (sintetizzato nei Giganti di Mont’e Prama) e premessa per gli sviluppi successivi (che iniziano con le cattedrali romaniche costruite dai sovrani dei quattro giudicati sardi). Franciscu Sedda suggerisce la possibilità che le parole di Cicerone nell’alternativa tra servitù della natio Sarda e libertas della civitas Romana (che però contraddicono la visione greca che riconosceva liberi i Sardi discendenti di Eracle, gli Iliei-Ilienses dei Montes Insani) possano consentire di leggere in filigrana l’alternativa fra dimensione culturale-identitaria da un lato (natio incapace di auto-affermazione) e dimensione giuridico-istituzionale (civitas caratterizzata dalla libertas): <<da questo punto di vista la distinzione natio/civitas assomiglierebbe all’attuale distinzione fra etnia e nazione-Stato, dove l’etnia appare come la nazionalità perdente e in quanto tale scivolata in una condizione di ri-naturalizzazione, distante dalla tensione alla libertà che caratterizza il demos fondatore di istituzioni>>.

A tale riguardo, si può congetturare che sbagliasse Camillo Bellieni, il padre del Sardismo moderno nel Novecento, studioso della Sardegna romana, quando riteneva che il popolo sardo fosse solo una <<nazione abortiva>>[79], <<nella quale, pur essendovi le premesse etniche, linguistiche, le tradizioni per uno sbocco nazionale, sono mancate le condizioni storiche e le forze motrici per un tale processo>>[80]. Sempre negli ormai lontanissimi anni Venti, Emilio Lussu in una lettera ad Antonio Gramsci poneva come premessa alle rivendicazioni di tipo nazionale il fatto che i Sardi si erano <<accorti da parecchio di essere una nazione fallita>>[81]; più tardi addolciva l’espessione, parlando di <<una nazione mancata>>[82]. Del resto, come mi fa notare Fiamma Lussana, <<a Torino, nella “Pietrogrado d’Italia”,  Gramsci stempera il suo focoso socialsardismo giovanile: la sua Sardegna  “nativa” resta fuori dal processo di trasformazione e modernizzazione (resta forse, come per Lussu, una “nazione mancata”). Con la sua coscienza di classe,  sarà la classe operaia torinese a incarnare l’idea potente dell’unità nazionale: per Gramsci il socialismo italiano sarà “nazionale” o non sarà>>[83]. Dopo quei fervidi momenti di straordinaria riflessione, alla base della Sardegna di oggi, da allora il rischio che perennemente si è corso è stata la subordinazione della storia agli obiettivi politici dei partiti isolani, con l’intento di suscitare una reazione, di accendere una fiamma, di rovesciare un regime, di mobilitare le persone.   Certo, nel mondo attuale le cose si complicano alquanto e il tema “nazione” si  sgretola nei sanguinosi integralismi che insanguinano il tempo che viviamo.

Pur con i suoi limiti e le sue differenze semantiche e funzionali, al di là dell’abisso cronologico e culturale che ci divide, l’espressione romana natione Sardus, che testimonia il desiderio di richiamare il luogo di nascita, di identificarsi come orginari dell’isola lontana all’interno della communis patria rappresentata da Roma e dall’impero, può dirci forse qualcosa ancora oggi, può testimoniare la ricchezza e la diversità culturale della storia isolana, senza più perdersi in un dibattito sterile sul nazionalismo ottocentesco fondato su un’identità immutabile e mummificata[84]: nell’Europa dei nostri tempi la Sardegna si affaccia con la sua complessità verso un orizzonte davvero globale.

 


[1] Sul personaggio, vd. G. Wissowa, in RE, III,2, 1899, c. 2555 s. nr. 3.

[2] Il testo è parzialmente ricostruito, presso Festo p. 166, 7 Müller. Vd. E. De Ruggiero, La patria nel diritto pubblico romano, Roma 1921, p. 31; R.W. Mathisen, Natio, Gens, Provincialis and Civis: Geographical Terminology and Personal Identity in Late Antiquity, in G. Greatrex, H. Elton, L. McMahon, Shifting Genres in Late Antiquity, Ottawa 2015, pp. 277 ss.

[3] Vd. ora F. Spoth, Th.L.L. IX, 1.2, a. 2014, c. 132, s.v. natio. Vd. anche anche A. Ernout, A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Histoire des mots, Paris 1967,  p. 431 e pp. 429 s. (s.v. nascor): natio in origine significava ‘nascita’, poi è arrivata a comprendere l’insieme degli <<individus nés au même temps ou dans la même lieu, nation>>. A. Walde, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, Heidelberg 1910, p. 508 («Geburt, Geschlecht>>, da gigno);  vd. A. Walde, J.B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, Heidelberg 1965 (2a ed.), pp. 265, 405, 722

[4] F. Spoth, Th.L.L., IX,1,2, a. 2014, c. 135.

[5] P.es. CIL X 181, Puteoli; 3646 Misenum; XI 59, Ravenna;  65, ibid.; 3736 Lorium, ecc., vd. C.G. Starr, Verna, “Class. Phil., 37, 1942, pp. 314 ss.

[6] F. Spoth, Th.L.L., IX,1,2, a. 2014, c. 132, s.v. natio.

[7] Spoth, ibidem.

[8] Così F.C. Casula, Dizionario Storico Sardo, Sassari 2001, p. 1034, s.v. Nazione Sarda.

[9] IAMar., lat. 94 = AE 1971, 534 = IAMar., lat. Suppl. 94, vd. A. Mastino, Consitutio Antoniniana: la politica della cittadinanza di un imperatore africano, “Bullettino dell’Istituto di Diritto romano “Vittorio Scialoja”, CVII, 2013, pp. 37-56.

[10] A. Mastino, Analfabetismo e resistenza: geografia epigrafica della Sardegna, in “L’epigrafia del villaggio”, a cura di A. Calbi, A. Donati, G. Poma (Epigrafia e Antichità, 12), Faenza 1993, pp. 499 ss. (AE 1993, 849). Vd. anche L. Gasperini, Ricerche epigrafiche in Sardegna, I, in Sardinia Antiqua. Studi in onore di Piero Meloni, Edizioni Della Torre, Cagliari 1992, pp. 286 ss. (AE 1992, 890); M. Bonello Lai, Il territorio dei populi e delle civitates indigene in Sardegna, in La Tavola di Esterzili, Il conflitto tra pastori e contadini nella Barbaria sarda, Atti del convegno di studi, Esterzili 6 giugno 1992, a c. di A. Mastino, Sassari 1993, pp. 161 ss.; A. Moravetti, Ricerche archeologiche nel Marghine-Planargia, 1, Sassari 2000, pp. 237 s., nr. 24.

[11] Plin. n.h. III, 46 (sulle 11 regiones Italiae).  Vd. già Augusto nelle RGDA XXV: Iuravit in mea verba tota Italia sponte sual et me be[lli] quo vici ad Actium ducem depoposcit. Iuraverunt in eadem  ver[ba provi]nciae Galliae, Hispaniae, Africa, Sicilia, Sardinia.

[12] Non vedo contraddizioni con la documentazione relativa a espressini come:  natione Italus a Roma (CIL VI 23782) e per un legionario in Egitto (CIL III 6611, Nicopoli-Alessandria); nat(ione) Italica (CIL XI 83, Ravenna), nat(ione) Gr(aecus) (p.es. in CIL XI 60, Ravenna, marinaio). Tuttavia troviamo anche riferimenti ad una singola città: nat(ione) Alex(andrinus) (AE 1906, 163, Ravenna, marinaio), nationes Nicome(dia) (CIL XI 105) ecc.,  come se fosse un sinonimo di domus (esempi ulteriori in F. Spoth, Th.L.L. IX, 1,2, 2014, cc. 132 ss. s.v. natio).  Vd. infine i liberti nationi Tebaeus, natione P(h)rugia, natione verna e nationi Smurnaeus per l’iscrizione urbana datata al 47 a.C. dalla Via Latina, cfr. I. Di Stefano Manzella, Un’iscrizione sepolcrale romana datata con la seconda dittatura di Cesare, “Epigraphica”, XXXIV, 1972,  pp. 105 ss. (AE 1972, 14): il che comunque smentisce decisamente tutti gli autori che ritengono l’uso documentato solo a partire dal II secolo d.C.

[13] J.-M. Lassére, Manuel d’épigraphie romaine, I, Paris 2005, p. 133.  In Sardegna incolae erano sicuramente gli ebrei Beronicenses di Sulci, arrivati in età adrianea dalla Cirenaica, ILSard. I 4.

[14] E. Forcellini, Totius Latinitatis Lexicon, p. 247, s.v. natio. Vd. soprattutto F. Spoth, in Th.L.L. IX,1,2, a. 2014, cc. 132 ss. s.v. natio; Meyer, ThLL, VI, a. 1949, cc. 1842-1865 s.v. gens.

[15] Ad Q. fr., I, 1, 27.

[16] S. Moscati, Africa ipsa parens illa Sardiniae, «Rivista di filologia e di istruzione classica», XCV, 1967, pp. 385 ss. ; P. Ruggeri, Africa ipsa parens illa Sardiniae. Studi di storia antica e di epigrafia, Edes, Sassari  1999, passim.

[17] La Muroni ha recentemente ridimensionato il giudizio di Cicerone: A. Muroni, Cittadinanza romana in Sardegna durante la res publica: concessioni tra politica e diritto, in “Diritto @ Storia”, XII, 2014, Tradizione romana, pp. 1-62.

[18] F. Barreca, Ampsicora tra storia e leggenda, in Ampsicora e il territorio di Cornus, Atti del II Convegno sull’archeologia romana e altromedievale nell’Oristanese (Cuglieri 22 dicembre 1985), Taranto 1988, pp. 25 ss.; vd. A. Mastino, Cornus e il Bellum Sardum di Hampsicora e Hostus, storia o mito ? Processo a Tito Livio, in Convegno internazionale di studi, Il processo di romanizzazione della provincia Sardinia et Corsica, Cuglieri, 26 marzo 2015, in c.d.s.

[19] Aulo Gellio XV, 12,1 (la traduzione è di Mario Perra).

[20] A. Ibba, Gentes e gentiles in Africa Proconsularis: ancora sulla dedica al Saturno di Bou Jelida (Tunisia), “Annali Facoltà Lettere Cagliari”, XX (LVII), 2002, pp. 173-211.

[21] Plaut. Rudens 311.

[22] Ibba, Gentes e gentiles § 1, nn. 34 ss. specie punto b.

[23] Ibid., § Conclusioni.

[24] Liv. XL, 34, 13; vd. anche XLI, 6,6 (a. 178) e 12,5 (a. 177).

[25] Vd. supra, n. 9.

[26] Mastino, Analfabetismo e resistenza cit., pp. 499 ss.; AE 1993, 849.

[27] Diod. IV, 29-30 e V, 15, vd. ora I. Didu, I Greci e la Sardegna. Il mito e la storia, Cagliari 2002, pp. 94 ss.

[28] I. Didu, La cronologia della moneta di M. Azio Balbo, “Atti Centro Studi Documentazione Italia Romana”, VI, 1974-1975, pp. 107-120. Vd. P. Bernardini, Il culto del Sardus Pater ad Antas e i culti a divinità salutari e soteriologiche, in Insulae Christi, Il Cristianesimo primitivo in Sardegna, Corsica e Baleari, a cura di P.G. Spanu, Oristano 2002, p. 24.

[29] Vd. Mastino, Cornus e il Bellum Sardum di Hampsicora e Hostus cit, in c.d.s. Eccessiva però appare la posizione di E. Melis, Miti (antichi e moderni) sulla Sardegna: Sardus Pater, “Theologica & Historica, XXII, 2013, pp. 309 ss., per il quale la figura del Sardus Pater potrebbe esser stata <<“inventata” nel I secolo a.C., sulla base probabilmente dei racconti su Iolao, da cui Sardus eredita l’epiteto cultuale. Il motivo della sua nascita è da ricercare nei rapporti tra Cesare e la Sardegna – il “predio di Cesare”, come la definisce Cicerone – e all’interno di un processo di riforma religiosa finalizzata al recupero dei culti epicori di cui Cesare e la sua cerchia si fecero promotori>>. Per il ruolo di Cesare, colpito dalla orazione Pro Sardis pronunciata alla fine del II secolo dallo zio Cesare Strabone, vd. B.R. Motzo, Cesare e la Sardegna, in Sardegna Romana, I, Roma 1936, pp. 23 ss.

[30] Vd. A. Mastino, L’iscrizione latina del restauro del tempio del Sardus Pater ad Antas  e la problematica istituzionale, “Rendiconti Accademia dei Lincei”, in c.d.s.

[31] Di  Stefano, Iscrizione sepolcrale cit., p. 122.

[32] Così Lassére, Manuel d’épigraphie romaine, cit., pp. 132 ss.

[33] P.es. ad Eburacum-York Iulia Fortunata domo Sardinia, in RIB 687, cfr. R. J. Rowland jr., Sardinians in the Roman Empire, “Ancient Society”, V, 1974, p. 226. Vd. anche na(tus) in Sar(dinia), per Auctus, L. Allien[i] veteran(i) leg(ionis) VI [—] (servus) in CIL V 2500.

[34] Non è il caso di citare i numerosi personaggi che portano Caralitanus come cognomen senza essere necessariamente originari della Sardegna: vd. ad esempio C. Iulius Carallitanus natione Italico morto a 15 anni, in CIL X 1798, Miseno.

[35] G. Sotgiu, Sardi nelle legioni e nella flotta romana, “Athenaeum”, XXXIX, 1961, pp. 78 ss.

[36] Rowland, Sardinians cit., pp. 223 ss.

[37] Y. Le Bohec, La troisième légion Auguste, Paris 1989, pp. 277, 496, 524.

[38] A. Mastino, Le relazioni tra Africa e Sardegna in età romana, “Archivio Storico Sardo”, XXXVIII, 1995, pp. 33 s.

[39] Cfr. Rowland, Sardinians cit., p. 226; Mastino, Le relazioni cit., p. 34.

[40] Z. Benzina Ben Abdallah, Inscriptions de Haïdra et des environs (Ammaedara et vicinia) publiées (CIL, ILAfr., ILTun.) et retrouveés, Tunisi 2011, p. 96 nr. 120.

[41] K. Jongeling, North African Names from Latin Sources, Leiden 1994, p 63.

[42] AE 1929, 169; vd. Mastino, Le relazioni cit., p. 33. Per Austis, vd. Y. Le Bohec, La Sardaigne et l’armée romaine sous le Haut-Empire, Sassari 1990, p. 109, a proposito di CIL X 7884.

[43] Vd. anche S. Panciera, Di un sardo con troppi diplomi, Ursaris Tornalis filius e di altri diplomi militari romani, in Sardinia antiqua. Studi in onore di Piero Meloni in occasione del suo settantesimo compleanno, Cagliari 1990, pp. 325 ss.; R. Frei-Stolba, Les témoins dans les premiers diplômes militaires, reflet de la pratique d’information administrative à Rome ? in E. Dabrowa (ed.), Roman Military Studies, Kraków 2001, pp. 93-7, 102.

[44] Per Tarpalaris, vd. F. Michel, É. Raimond, Remarques sur deux anthroponimes indigènes de Sardaigne, in L’Africa Romana, XIV, 2002, pp. 1617 ss.

[45] A. Sanciu, P. Pala, M. Sanges, Un nuovo diploma militare dalla Sardegna, “Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik “186 (2013), pp. 301–306.

[46] Vd. A. Mastino, R. Zucca, La constitutio del Forum Traiani in Sardinia nel 111 a.C., “Journal of Ancient Topography – Rivista di Topografia antica”, XXII, 2012, edited by  G. Uggeri, Mario Congedo editore, pp. 31 ss.

[47] AE 2006, 1841, 1845, 1846, 1851, 1852; W. Eck, A. Pangerl, Eine Konstitution des Antroninus Pius für die Auxilien in Syrien aus dem Jahr 144, “Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik”, 188, 2013, pp. 255-260.

[48] Vd. A. Ibba, Il diploma di Posada: spunti di riflessione sulla Sardinia all’alba del II secolo d.C., “Epigraphica”, LXXVI, 1-2, 2014, pp. 209 ss.; vd. anche A. Mastino, R. Zucca, Un nuovo titulus della cohors Ligurum in Sardinia e il problema dell’organizzazione militare della Sardegna nel I secolo d.C., in L’iscrizione e il suo doppio, Atti del Convegno Borghesi 2013, a cura di A. Donati, Fratelli Lega Editori, Faenza 2014 (Epigrafia e antichità, 35), pp. 405 ss.; degli stessi autori: L. Cossonius L. f. Stell(atina tribu) Gallus Vecilius Crispinus Mansuanius Marcellinus Numisius Sabinus pro consule provinciae Sardiniae e la constitutio del Forum Traiani, “Gerión, Revista de Historia Antigua”, 32, 2014, p. 206 n. 48.

[49] Ibba, Il diploma di Posada, p. 217 n. 31 presenta un elenco più ampio: nuraghi di Borore, Bortigali, Birori, Sinnai, Uras, Masullas, Cossoine, Perfugas, Pozzomaggiore, Baunei, Nulvi, Dorgali, Alghero, Olmedo, Quartu S. Elena, Sindia, Siniscola, San Vero Milis. Per Pasquale Zucca, vd. Il diploma militare di Hannibal nel 102 d.C. rinvenuto a Posada, Santa Maria Navarrese 18 agosto 2015, dattiloscritto.

[50] G. Paulis, La forma protosarda della parola nuraghe alla luce dell’iscrizione latina di Nurac Sessar (Molaria), in “L’epigrafia del villaggio”, cit., pp. 537 ss.

[51] Plinio n.h. III, 7, 85, vd. E. Pais, La ‘formula provinciae’ della Sardegna nel I secolo dell’impero secondo Plinio, Ricerche storiche e geografiche sull’Italia antica, STEN, Torino 1908, pp. 579 ss.

[52] A. Mastino, Storia della Sardegna antica, Nuoro 2009, 2a ed., p. 307.

[53] Per i Barsanes, vd. A. Corda, A. Piras, “Theologica & Historica”, Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, XVIII, 2009, pp. 262 ss.  Per gli Uneritani, vd.  A. Mastino,  Rustica plebs id est pagi in provincia Sardinia: il santuario rurale dei Pagani Uneritani in Marmilla, in Poikilma. Studi in onore di M. R. Cataudella in occasione del 60° compleanno, Firenze 2001, pp. 781-814.

[54]A. Mastino, La tavola di patronato di  Cupra Maritima (Piceno) e le relazioni con Bosa (Sardegna), in “Picus”, XII-CXIII, 1992-93 (1995), pp. 109 ss.

[55] G. Gasperetti, Una tabella immunitatis dal porto di T urris Libisonis, in Naves plenis velis euntes, a cura di A. Mastino, P.G. Spanu, R. Zucca, Carocci, Roma 209, pp. 266 ss. (dove Port(u)ensis non va riferito a Porto, Ostia, visto che si tratta di una naucella marina, una piccola imbarcazione adatta per le oprerazioni di trasferimento delle merci dalla ripa del porto di Turris Libisonis Porto Torres alle navi onerarie in rada).

[56] Vd. Salomies, Observations on some Names of Sailors cit., p. 176.

[57] Salomies, ibid., p. 182.

[58] A. Mastino, P.G. Spanu, R. Zucca, La Sardegna nelle rotte mediterranee, in Mare Sardum. Merci, mercati e scambi marittimi della Sardegna antica, Roma 2005, p. 27.

[59] Vd. O. Salomies, Observations on some Names of Sailors serving in the fleets at Misenum and Ravenna, “Arctos”, XXX, 1996, pp. 1676 ss.

[60] Mastino, Le relazioni cit., p. 75. Per la condizione di peregrino: Salomies, Observations on some Names of Sailors cit., p. 183.

[61] Salomies, Observations on some Names of Sailors cit., pp. 182 s.

[62] Salomies, ibid., p. 182.

[63] CIL XVI 60 = ILSard. I 311 = ELSard. p. 575 A 311, cfr. Le Bohec, La Sardaigne cit., p. 120 nr. 37.

[64] Plin, n.h., 2, 243.

[65] P. Ruggeri, Olbia e la casa imperiale, in Da Olbìa ad Olbia, 2500 anni di una città mediterranea, Atti del Convegno maggio 1994, I, Olbia in età antica, a cura di A. Mastino e P. Ruggeri, Edes, Sassari 2004, pp. 287 ss.; Mastino, Storia della Sardegna antica, cit., p. 75.

[66] G. Migliorati, Cassio Dione e l’impero romano da Nerva ad Antonino Pio alla luce dei nuovi documenti, Milano 2003, pp. 133 s.; Mastino, Zucca, L. Cossonius L. f. Stell(atina tribu) Gallus cit., pp. 215 s.

[67] M. Buonocore, Il capitolo delle inscriptiones falsae vel alienae nel CIL. Problemi generali e particolari: l’esempio della Regio IV Augustea, in Varia epigraphica. Atti del colloquio internazionale di epigrafia, Bertinoro, 8-10 giugno 2000 (Epigrafia e Antichità 17), Faenza 2001, p. 82; AE 2001, 601.

[68] Vd. Mastino, Zucca, La constitutio del Forum Traiani, cit., pp. 31 ss.

[69] Mastino, Zucca, L. Cossonius L. f. Stell(atina tribu) Gallus cit., pp. 199 ss.; per i governatori equestri, vd. ora D. Faoro, Praefectus, procurator, praeses. Genesi delle cariche presidiali equestri nell’Alto Impero Romano, Milano 2011, pp. 307 ss.

[70] Hier., Vir. ill. 96, da cui moltissimi altri autori: Eusebius quoque Vercellensis episcopus martyr et episcopus, natione Sardus, in Albertus Miliolus notarius Regini, Liber de temporibus et aetatibus (-1286), MGH SS 31, Additio, p. 394, lin. 4: Eusebius quoque Vercellensis martyr et episcopus, natione Sardus, et Dionisius Mediolanensis episcopus et Romanus presbiter nomine Pancratius damnantur exilio,..., in Sichardus episcopus Cremonensis, Chronica (-1213), MGH, SS 31, p. 121, lin. 29.

[71] Liber Pontificalis, I, p. 242, ed. Duchesne; da qui una miriade di altri autori. A puro titolo esemplificativo: Ilarius, natione Sardus, in Chronica pontificum et imperatorum Tiburtina. Pontifices (1-1227), MGH SS 31, p. 241, lin. 4: Ilarius, natione Sardus, in Iohannes de Deo, Chronica, MGH, SS 31, p. 311, lin. 18.

[72] Liber Pontificalis, I, p. 260, ed. Duchesne, seguito da molti altri autori; vd. p.es. Simachus, natione Sardus, in Chronica pontificum et imperatorum S. Bartholomaei in Insula Romani. Pontifices (1-1256), MGH SS 31, p. 203, lin. 27; Papa Simachus I. Simachus papa, natione Sardus, in Gotifredus Viterbiensis, Speculum regum, MGH, SS 22, Liber I, p. 27, lin. 8.

[73] Vd. G. Contu, Annotazioni sulle notizie relative alla Sardegna nelle fonti arabe, in Storie di viaggio e di viaggiatori. Incontri nel Mediterraneo (Isprom, Quaderni Mediterranei, 9), Tema, Cagliari 2001, pp. 37 ss.; vd. anche Id., La Sardegna nelle fonti arabe dei secoli X-XV, in La civiltà giudicale in Sardegna nei secoli XI-XIII, Edizioni Associazione «Condaghe S.Pietro in Silki», Sassari 2002, pp. 537 ss.

[74] Proceso contra los Arborea, Archivio della Corona di Barcellona, vd. Casula, Dizionario cit., pp. 1034 s.

[75] Casula, Dizionario cit., pp. 1034 s.

[76] Vd. F. C. Casula, La Sardegna aragonese, 2. La Nazione sarda, Sassari 1990.

[77] Vd. Il Braccio dei Sardi, in Il Parlamento di Pietro IV d’Aragona, Acta Curiarum Regni Sardiniae, a cura di G. Meloni, Cagliari 1993, pp. 111 ss. A puro titolo esemplificativo segnaliamo il caso del monaco Pietro da Ottana (sec. XV, vissuto a Venezia), chiamato dagli annalisti camaldolesi “Petrus sardus” oppure “Petrus de Sardinia” (o Sardinea) – Pietro di Sardigna (così negli scritti di Niccolò da Tolmezzo, Mauro Lapi, Agostino Fortunio e Silvano Razzi). Tre secoli dopo Antonio Felice Mattei nella Sardinia Sacra scriverà: <<B. Petr[us], Congregationis Camaldulensis, natione sardus>> (A.F. Mattei, Sardinia sacra seu de episcopis Sardis historia, Romae MDCCLVIII, ex typographia Joannis Zempel, p. 221). Per il XVI secolo si può ricordare un personaggio storico di cui si parla a proposito del conflitto tra Carlo V d’Asburgo e la flotta ottomana per il controllo di Tunisi (1535 ca.): Asanaga, “natione sardus” è il fidato eunuco dell’ammiraglio ottomano Ariadeno Barbarossa, che questi invia a presidiare le città tunisine. Di lui raccontano Juan Gines de Sepulveda e poi Paolo Giovio. Iohannes Genesius Sepulveda, De rebus gestis Caroli Quinti libri XXX, LLT-B liber: 12, cap. 5, vol. 1, p. 374, linea 5: <<Neque vero ceteris nostrorum copiis interim a Tunete et Charadino quies erat, sed quotidiana consuetudine frequens hostium equitatus peditatu subsequente sese castris ostendebat, nostros que ad parva certamina provocabat, duce Azanaga eunucho, natione Sardo, Charadinique liberto, a quo puer captus Christianam Religionem deseruerat, et turpissimis obsequiis carus patrono ab ineunte aetate fuerat, et tunc propter animi promtitudinem ingeniique solertiam primum auctoritatis amicitiaeque locum apud ipsum obtinebat>>.

[78] A.M. Oliva, “Rahó es que la Magestat vostra sapia”. La Memoria del sindaco di Cagliari Andrea Sunyer al sovrano, “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo”, CV (2003), pp. 335 ss.; p. 26 dell’edizione in formato digitale da “Reti Medievali”.

[79] A. Mastino, P. Ruggeri, Camillo Bellieni e la Sardegna romana, in Sesuja Vintannos. Antologia della rivista a cura di Antonello Nasone in occasione dei Ventennale della fondazione dell’Istituto di studi e ricerche Camillo Bellieni, Quaderni, 5, Sassari 2009, pp. 135 ss.

[80] A. Mattone, Le radici dell’autonomia. Civiltà locale e istituzioni giuridiche dal Medioevo allo Statuto speciale, in La Sardegna. Enciclopedia a cura di M. Brigaglia, II, L’autonomia, Cagliari 1994, p. 243.

[81] Nella lettera di Emilio Lussu in risposta alla lettera di Gramsci del 12 luglio 1926; quella di Lussu è non è datata ma presumibilmente di poco successiva: E. Lussu, Tutte le opere. Da Armungia al Sardismo 1890-1926, a cura di Gian Giacomo Ortu, Cagliari 2008, Aisara, p. 129.

[82] La definizione di “nazione mancata” si trova in “L’avvenire della Sardegna” (pp. 957-964), che apre numero della rivista “Il Ponte” intitolato “Sardegna”, anno VII, n. 9-10, settembre-ottobre 1951, p. 958. Vd. F. Francioni, [Nazione, Autonomia e Federalismo in Emilio Lussu], in Emilio Lussu e la cultura popolare della Sardegna, Atti del Convegno di studio – Nuoro 25-27 aprile 1980, Istituto Superiore Regionale Etnografico Nuoro, Cagliari 1983, p. 186 e n. 8 ; vd. ora F. Sedda, Manuale d’indipendenza nazionale. Dall’identificazione all’autoderminazione,  Collana “La nazione sarda” diretta da P. Maninchedda e F. Sedda, Edizioni della Torre Cagliari 2015, p. 51.

[83] F. Lussana, Viva voce. Vd. A. Mattone, Sardismo e socialismo federalista in Emilio Lussu, in Lotte sociali,antifascismo e atonomia in Sardegna. Atti del convegno di studiin onore di E. Lussu, 4-6 gennaio 1980, Cagliari 1982, pp. 93 ss.

[84] Vd. S. Paulis, La costruzione dell’identità: per un’analisi antropologica della narrativa in Sardegna fra ‘800 e ‘900, Edes, Sassari 2008;  G. Angioni, Identità, “Quaderni di antropologia e scienze umane”, II, 2-3, settembre 2015,  Guida editori , pp. 65 ss.; M. Satta, M. Atzori, L’invenzione dell’identità sardaibid., p. 165.




56° Premio letterario città di Ozieri

Attilio Mastino
56° Premio letterario città di Ozieri
Ozieri, 26 settembre 2015

Cari amici,

per il secondo anno ho presieduto la Giuria il Premio Ozieri fondato da Tonino Ledda nel 1956: rileggendo il volume di Salvatore Tola sui primi 50 anni di premi letterari in lingua sarda ho ritrovato i grandi temi della poesia nazionale sarda, documentati da tanti autori che mi sono cari fin dai tempi degli studi universitari a Cagliari quando nel 1971 fu votata la prima mozione del Consiglio di Facoltà di Lettere presieduto da Giovanni Lilliu sulla lingua sarda e gli anni degli Amici del libro, citerò solo Aquilino Cannas, così legato a Nicola Valle.

Emerge la continuità nel tempo del premio Ozieri guidato da personaggi come Antonio Sanna, Nicola Tanda, Domenico Masia, Cicito Masala, Rafael Catardi, Vanni Fadda, Antonio Canalis, Vittorio Ledda; ma anche la capacità di innovazione, lo svecchiamento della consuetudine poetica, il superamento dei moduli dell’Arcadia, del manierismo e della mediocrità, il passaggio dall’oralità alla scrittura, l’unificazione ortografica della lingua sarda fin dal 1974, l’allargarsi degli orizzonti con la sezione degli emigranti, la prosa narrativa in lingua sarda, il coinvolgimento della scuola e delle istituzioni pubbliche.

Un processo di modernizzazione che ha inciso eccome sulla letteratura in lingua sarda ma anche sulla vita di tutti i giorni. Fu negli anni 70 che si verificò <<un sussulto di appartenenza, una tensione e un riscatto a livello antropologico, si creò un movimento a favore dell’identità etnica e il premio Ozieri ne divenne il vero catalizzatore, ne assunse in anni di indifferenza e benessere la guida>>.   Dal 1992 con la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie e poi  con la legge regionale 26 sulla Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna e successivamente con la legge 482 sulle Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche, la lingua sarda diventa una delle componenti del patrimonio culturale del popolo sardo nella sua specificità e originalità, nel momento in cui si è progressivamente andata affermando la nostra identità di sardi.  Il sardo diventa forse oggi anche uno strumento per stabilizzare i docenti precari nell’isola e bloccarne l’emigrazione attraverso l’insegnamento della lingua materna, come prescrive la recente proposta di legge del PsdAz su Lingua, cultura e ordinamento scolastico. Oggi 26 settembre si festeggia la Giornata europea delle lingue voluta dal Consiglio d’Europa, con il patrocinio dell’Unione europea il 6 dicembre del 2001. Tra gli obiettivi generali della Giornata europea ci sono la sensibilizzazione sull’importanza dell’apprendimento delle lingue per migliorare il plurilinguismo e la comprensione interculturale, promuovere la diversità linguistica dell’Europa e incoraggiare uno studio delle lingue esteso a tutta la vita.

Abbiamo concluso nei giorni scorsi i lavori della giuria del Premio Ozieri, al cui interno operano personalità che ho sempre ammirato per la loro preparazione e per il loro impegno.

Dunque sono stati conseguiti molti obiettivi e ha finalmente prevalso la lezione di tanti premi letterari, di tante riviste scientifiche (come Quaderni Bolotanesi, oggi rappresentata da Alberto Merler), soprattutto del Premio Ozieri nel quale da lungo tempo vengono ammesse le diverse lingue in uso in Sardegna, il sassarese, il gallurese, il tabarchino, l’algherese, oltre al sardo. Le differenze sono una ricchezza alla quale non intendiamo rinunciare, perché l’identità della Sardegna di oggi è il momento finale di incontro tra lingue e culture diverse.

Vorrei oggi sottolineare come l’identità  della Sardegna sia influenzata più di quanto non si sia fin qui ammesso dalle eredità romane, espressione di una storia lunga che in qualche modo condiziona anche la società di oggi. La lunga età romana (durata oltre sette secoli), in particolare l’età imperiale con la sua dimensione mediterranea che metteva in contatto la riva Sud e la riva Nord del nostro mare è stato credo il momento più significativo della storia della Sardegna. Tra le tante eredità del momento romano ricorderei  la lingua sarda innanzitutto, la toponomastica, ma anche i percorsi della viabilità, il paesaggio trasformato dall’uomo, alcune forme dell’insediamento, le vocazioni stesse del territorio, le colture agricole, l’allevamento, ma anche le attività minerarie, la pesca, la raccolta del corallo, per non parlare di alcune tradizioni popolari. Se si ritorna indietro nel tempo fino all’età dei Giudicati, si può accertare una «spiccata atmosfera romanza» della Sardegna medioevale; in particolare nel Regno del Logudoro i condaghi documentano usi e tradizioni che si possono leggere in filigrana attraverso la documentazione scritta. L’isolamento secolare della Sardegna ha determinato quella «tendenza arcaicizzante» del sardo che conferisce ai primi documenti «un aspetto quasi esotico».

Dobbiamo ora ammettere l’impianto sostanzialmente «romano» della cultura sarda di età bizantina e giudicale; e ciò non soltanto nell’area a ridosso della colonia di Turris Libisonis, in un ambito geografico caratterizzato culturalmente come il più «romano» dell’isola, che ha lasciato traccia evidente anche nella denominazione di una curatoria: il termine Romania (oggi Romangia) compare già pienamente documentato nel Condaghe di San Pietro di Silki, con riferimento ad un’area circoscritta che potrebbe conservare il nucleo delle assegnazioni terriere ai coloni di Turris Libisonis.

Nel suo ultimo libro pubblicato nella serie dell’Università di Oxford  (The Periphery in the center: Sardinia in the ancient and medieval Worlds), il mio compianto amico Robert Rowland dell’Università di Phildelphia, ha sintetizzato la storia della Sardegna dai nuraghi all’età medioevale: troppo semplicistico gli pare il concetto di “isolamento” per la Sardegna interna, un luogo comune che vuole le popolazioni locali ribelli ai Romani e resistenti grazie all’insularità ed all’asprezza del rilevo geografico della Barbagia, tema che dovrebbe essere verificato da un punto di vista territoriale e valutato nelle diverse epoche storiche. Questo cliché sarebbe per gran parte determinato dal fatto che la letteratura antica si è occupata della Sardegna quasi esclusivamente in occasione della conquista e delle diverse ribellioni. La ricostruzione storica non può partire da formule, ma deve tener conto della complessità delle situazioni: le influenze esterne incrociate sulla Sardegna non possono essere definite sbrigativamente come “interferenze” su una cultura di sostrato solida ed immutabile. Quella sarda fu una società tradizionale e fortemente conservatrice, certo, ma costantemente trasformata e rinnovata dall’esterno. Gli indici di romanizzazione della provincia (che sarebbe meglio considerare indici di prosperità), se attestano attardamenti e resistenze e se testimoniano una vasta povertà rurale in alcune aree, confermano però che i Romani non furono soltanto degli esploratori e dei rapaci sfruttatori delle risorse locali, ma contribuirono a trasformare l’intera società sarda. L’esperienza romana fu dunque più vasta e più profonda di quanto non sia stato fin qui supposto: in questo senso la Sardegna, periferica da un punto di vista culturale ma collocata geograficamente al centro dell’impero, fu in età romana il grande ponte attraverso il quale passarono innovazioni e rivoluzioni culturali originatesi nelle diverse rive del Mediterraneo. Da questi scambi, più intensi e vivaci di quanto non si pensi, alimentati dagli spostamenti degli isolani in altre province e dai tradizionali legami con l’Africa, la Sardegna fu arricchita immensamente, partecipando essa stessa alla costruzione di una nuova cultura unitaria, ma mantenendo anche nei secoli una sua specificità. Esplorare il confine tra romanizzazione e continuità culturale (tra Change e Continuity) è compito che lo storico deve ancora affrontare, al di là della facile tentazione di impossibili soluzioni unitarie.  Le scoperte di Sant’Efisio di Orune in piena Barbagia hanno oggi dimostrato la profondità della penetrazione romana nella Sardegna interna.

In un recente romanzo storico, che mi è sembrato davvero originale (Il corpo della città), Giuseppe Elia Monni colloca come tema di fondo la fase romana della storia della Sardegna, che in modo inconsueto viene considerata come il momento vero di modernizzazione e di innovazione, l’epoca alla quale l’illuminismo settecentesco può finalmente far riferimento per superare la fiacca staticità del Seicento spagnolo e forse anche l’arcaicità della Sardegna di oggi.  Forse la storia romana è in qualche modo depositaria di un’idea di progresso che si era persa nel tempo e che alla fine del 700 inizia a riemergere. Dunque la ricerca di resti romani, l’anfiteatro, le terme, l’acquedotto lungo il Cixerri, che nella fantasia serviva milioni di persone e poteva essere riattivato.  Un’opera monumentale comunque ammirevole, per la quale furono spese risorse e genio e tempo e sudore, per dar da bere a tutti, uomini e donne, e bestie, famiglie ricche e famiglie povere. Il protagonista ci crede, investe, spende, rovina la sua famiglia,  ma il figlio perduto saprà assorbire una lezione di vita.

Proprio a questi temi realmente discussi nel corso del Settecento piemontese ci rimanda qui ad Ozieri l’opera di Matteo Madao nato ad Ozieri nel 1723, gesuita e teologo, lessicografo sardo, studioso di storia e di antichità isolane, il quale fu il primo a studiare le origini della lingua sarda al di là delle convenzionali spiegazioni precedenti e arrivò a proporre la creazione di un sardo «illustre» attraverso il «ripulimento» della variante logudorese anche attraverso un ritorno alla sua matrice latina. Per usare le parole di Dino Manca l’autore sviluppò una riflessione sulla lingua sarda, giungendo a proposte di tipo puristico, «proponendo di rifarsi al modello autorevole della matrice latina, per salvaguardare la purezza lessicale, grammaticale e sintattica di una lingua che avrebbe voluto nazionale». Al di là delle questioni strettamente glottologiche, il Madao manifestò vere e proprie aspirazioni patriottiche nei confronti della Sardegna. Nel Saggio d’un opera intitolata il ripulimento della lingua sarda lavorato sopra la sua analogia colle due matrici lingue, la greca e la latina, Cagliari 1782, egli tracciò il percorso ideale attraverso il quale il sardo dovrebbe diventare la lingua “nazionale” dell’isola. I Savoia però, per ragioni di strategia politica e interessati all’egemonia sull’intero continente italiano, nonostante avessero fino ad allora privilegiato il francese, optarono anche in Sardegna per l’uso dell’italiano. E se avessero poi invece scelto il francese o se i Savoia avessero mantenuto la Sicilia ?

Allora la domanda tante volte elusa è questa: ci sono prove che dimostrino che nell’antichità esisteva davvero una coscienza nazionale in Sardegna, ben diversa dal nazionalismo di stampo ottocentesco che troppe volte viene sbandierato per ragioni di piccolo cabotaggio ?

Debbo confessare che ho lavorato nelle ultime settimane per l’”Archivio Storico Sardo”, ad un articolo sull’espressione latina Natione Sardus, che è ampiamente documentata dalle iscrizioni per indicare l’origo, il luogo geografico di origine ma anche il domicilium isolano, una base solida sulla quale impostare un ragionamento.

Per un paradosso della storia, proprio l’acerrimo nemico dei Sardi Cicerone attribuiva loro la condizione di natio: nell’accusa ad un governatore disonesto i Sardi non potevano testimoniare poiché ipsa natio non era in grado di distinguere la libertà dalla servitù e interpretava la libertà come mentiendi licentia. I numerosi testimoni sardi che accusavano il proconsole Scauro usavano una loro unica lingua, perseguivano un loro unico scopo nascosto, non già espressione del risentimento per un torto subito ma solo della speranza di ricompense poco limpide: nunc est una vox, una mens non expressa dolore sed simulata.

Come si fa a credere ad un gruppo di testimoni sardi, se hanno tutti lo stesso colorito olivastro, se parlano tutti una stessa lingua incomprensibile – il proto sardo dei nuragici, la lingua perduta che ha preceduto il latino – , se tutti senza eccezione appartengono alla stessa nazione ? (sin unus color, una vox, una natio est omnium testium ?).

L’espressione natio è utilizzata pochi anni dopo anche nel de re rustica di Varrone, a proposito dei Sardi Pelliti della Barbaria sarda alleati di Hampsicora durante la guerra annibalica, avvicinati ai Getuli africani: quaedam nationes harum (caprarum) pellibus sunt vestitae, ut in Gaetulia et in Sardinia.

La preziosa indicazione natione Sardus è documentata epigraficamente per 26 marinai delle flotte militari di Miseno e di Ravenna specialmente in età antonina: l’espressione assume una caratterizzazione specifica per il fatto che si riferisce all’appartenenza ad una provincia o ad un’isola, ben delimitata geograficamente e articolata in una cinquantina di populi diversi, che prima di Caracalla non avevano ancora ottenuto la cittadinanza romana. Questi Sardi non abitavano soltanto sulle coste, ma anche in piena Barbaria.

Una sicura continuità per l’impiego del termine natio riferito ai Sardi, è garantita anche nel tardo impero, se Girolamo chiama Eusebio il primo vescovo del Piemonte  natione Sardus e se il Liber Pontificalis allo stesso modo definisce il Papa Ilaro e il Papa Simmaco natione Sardi.

Ma la vicenda non si interrompe in età medioevale e durante i regni giudicali: la Nasio sardescha è citata ancora nel 1391 nel Proceso contra los Arborea.  L’espressione era stata utilizzata già l’anno precedente da Brancaleone Doria nella lettera inviata per conto di Eleonora. Non è il caso di andare oltre, ma sappiamo che la tradizione non si perde e la formula continua a ricorrere sostanzialmente senza modifiche in molti documenti della fine del medioevo e in età moderna.

A distanza di tanti secoli, il dibattito sulla discussa “sovranità” della Sardegna ai giorni nostri, eredità di una storia che tocca i Giganti di Mont’e Prama come le cattedrali romaniche costruite dai sovrani dei quattro giudicati sardi, si arricchisce forse di un nuovo tassello: e allora sbagliava Camillo Bellieni, il padre del Sardismo moderno nel Novecento, studioso della Sardegna romana, a ritenere che il popolo sardo sia oggi solo una <<nazione abortiva>>, <<nella quale, pur essendovi le premesse etniche, linguistiche, le tradizioni per uno sbocco nazionale, sono mancate le condizioni storiche e le forze motrici per un tale processo>>. Pur con i suoi limiti e le sue differenze semantiche e funzionali, l’espressione natione Sardus può dirci forse qualcosa ancora oggi, può testimoniare la ricchezza e la diversità della nostra storia, senza perdersi in un dibattito sterile sul nazionalismo ottocentesco. Dobbiamo invece riscoprire l’identità profonda e quello che Nicola Tanda chiama lo statuto plurilingue della letteratura sarda del passato e sostanzialmente bilingue nel presente, in un ambito di progressivo pluriculturalismo.

Ieri su L’Unione Sarda Anna Cristina Serra scriveva che questa sera però l’ospite più di riguardo deve essere la poesia: e allora grazie ai tanti protagonisti di questa 56° edizione del premio Ozieri e grazie ai tanti autori che hanno partecipato, molto al di là dei riconoscimenti assegnati ufficialmente.

Lasciatemi ricordare oggi un personaggio brillante e di statura internazionale come Ignazio Delogu, scomparso cinque anni fa, premiato ad Ozieri nel 1977, capace di chinarsi verso la propria terra d’origine suscitando emozioni forti. Ho avuto il privilegio di fondare assieme ad Ignazio Delogu l’Associazione degli amici di San Pietro di Silki, anni dopo che lui aveva  tradotto un testo fondamentale per i nostri discorsi, il Condaghe di Silki: il documento è base della letteratura in volgare sardo, con quella sua prosa che esprime con uno stile narrativo, che sembra ricalcare il percorso degli agrimensori lungo il terreno, con l’uso continuo di verbi di moto che collegano alcuni dei confini scelti autonomamente dallo scriptor «fra gli infiniti punti possibili» (benit, iumpat, baricat, clonpet, collat, falat, cludet).

Come poeta Ignazio ci ha fatto scoprire quella che Papa Francesco chiama la tenerezza, lo sguardo partecipe verso l’ambiente, la natura, la gente di Sardegna chiamata a custodire l’isola amata.

Cun s’oju de s’arveghe t’abbàido è una poesia che vuole piantare negli occhi ciechi di tutti noi una quercia, un leccio, un gelso, un fiore di giglio giallo come il limone verde e come l’erba che cresce in primavera. Con l’occhio della pecora ti guardo e con l’occhio del falco della volpe del cinghiale e della donnola con l’occhio della fontana aperto giorno e notte con l’occhio della rugiada che si chiude al mattino.

Cun s’oju de ogni pedra

de ogni fiore e de ogni animale

e  de ogni attera cosa ch’istada

in s’oju de s’arveghe

t’abbàido terra mia

pro t’istimare e ti cantare

(a cua) un’anninnia.




L’iscrizione latina del restauro del tempio del Sardus Pater ad Antas e la problematica istituzionale.

Attilio Mastino

L’iscrizione latina del restauro del tempio del Sardus Pater ad Antas
e la problematica istituzionale*

La vitalità delle antiche tradizioni pagane in Sardegna è testimoniata simbolicamente dalla dedica effettuata attorno al 213 d.C. all’imperatore Caracalla, in occasione dei restauri dell’antico tempio di Antas (comune di Fluminimaggiore): un edificio che integrava il culto imperiale (fondato su un’articolata organizzazione  provinciale) con il culto salutifero del grande dio eponimo della Sardegna, il Sardus Pater figlio di Eracle, interpretatio romana del dio fenicio di Sidone (Sid figlio di Melkart), dell’eroe greco Iolao compagno di Eracle e dell’arcaico Babi. Quest’ultimo rimanderebbe a tradizioni locali di età preistorica (esattamente in parallelo con l’Esculapio Merre del II secolo a.C. della trilingue di San Nicolò Gerrei, interpretato in greco come Eshmun Merre e in greco come Asclepio Merre)[1].

In età storica Sardus era effettivamente venerato in Sardegna con l’attributo di Pater, in quanto era considerato il primo ad aver guidato per mare una schiera di colonizzatori giunti dall’Africa e per aver dato il nome all’isola[2], in precedenza denominata e argurófleps nésos (‘l’isola dalle vene d’argento’), con riferimento alla ricchezza delle sue miniere di piombo argentifero[3], a ridosso dell’isola circumsarda che Tolomeo conosce come Molilbòdes, Sant’Antioco[4]. A questo eroe-dio, identificato con il Sid Babi punico[5] e con Iolao patér greco, il condottiero dei Tespiadi[6], fu dedicato un tempio presso Metalla, restaurato all’inizio del III d.C.; d’altra parte la sua immagine ritorna propagandisticamente sulle enigmatiche monete di M. Atius Balbus[7].

Risulta singolare il fatto che la dedica epigrafica in dativo, la quale collega il tempio del dio nazionale dei Sardi (con suo padre Eracle-Maceride)[8] al nome dell’imperatore Caracalla negli anni della “ripresa cosmocratica”[9], sia stata effettuata una ventina d’anni dopo  la prima vicenda a noi nota: si tratta dei cristiani esiliati secondo Ippolito[10] eis metallon Sardonias. Tra essi era anche il futuro papa Callisto dopo il fallimento della banca di Carpoforo. Vicenda localizzata nelle vicine miniere sulcitane rette da un procuratore imperiale, un epitropeuon tes choras nell’età di Commodo[11], personaggio apparentemente analogo al proc(urator) metallorum et praediorum di età severiana[12], forse a Metalla e in quella stessa valle di Antas attraversata dalla strada a Tibula Sulcos in Comune di Fluminimaggiore[13]. Il distretto minerario appare fortemente presidiato dall’esercito romano e in particolare dalla cohors I Sardorum nei primi secoli dell’impero, in relazione proprio alla sorveglianza sui deportati e sugli schiavi impiegati nell’estrazione dei minerali (in particolare piombo argentifero)[14].  Il nome in dativo dell’imperatore sembrerebbe farci escludere che l’iniziativa del restauro del tempio sia stata assunta da Caracalla, ma probabilmente da un funzionario imperiale presente in Sardegna o nell’area mineraria.

Qui in onore di Caracalla ammalato, fervente ammiratore di Ercole e Libero (dii patrii di Leptis Magna, città natale proprio dell’imperatore)[15] fu restaurato il tempio di Sardus Pater e di suo padre Eracle-Maceride-Melkart: la loro immagine emerge ora sorprendentemente dalle terrecotte architettoniche conservate al Museo di Fluminimaggiore[16]. Il santuario credo abbia rappresentato nell’antichità preistorica, poi in quella punica e soprattutto in età romana, il luogo alto dove era ricapitolata tutta la storia del popolo sardo, nelle sue chiusure e resistenze, ma anche nella sua capacità di adattarsi e di confrontarsi con le culture mediterranee.

Luogo minerario antichissimo, vantava origini preistoriche analoghe a quelle del santuario di Mont’e Prama di Cabras e della necropoli di Su Bardoni, come testimoniano gli scavi delle arcaiche sepolture a pozzetto, per quanto ad Antas l’arrivo dei Cartaginesi e dei Romani non sembra aver mai interrotto l’antico culto locale, determinando soluzioni di continuità[17].

Dietro le insistenze del maestro e amico Mario Torelli, in vista della pubblicazione di un volume dei “Monumenti antichi dei Lincei” dedicato a Il Santuario del Sardus Pater ad Antas (Fluminimaggiore), siamo tornati ad Antas nel luglio 2013 per realizzare una serie di rilievi fotogrammetrici del tempio e dell’iscrizione con restituzione in modelli tridimensionali partendo dalle immagini digitali raccolte dalla fotocamera Canon 550D disposta in un drone multirotore telecomandato della Società Oben srl (Spin off dell’Università di Sassari). Nella stessa occasione si è adottato un nuovo sistema di telerilevamento ad altissima definizione su pertica, messo a punto dal disegnatore Salvatore Ganga. Il rilevamento è stato possibile grazie all’autorizzazione concessa l’11 giugno 2013 dal Soprintendente per i beni archeologici di Cagliari e Oristano Marco Edoardo Minoja rilasciata l’11 giugno 2013, grazie anche all’interessamento dell’ispettore di zona Massimo Casagrande. Negli stessi giorni nel Museo Villa Sulcis di Carbonia sperimentavamo per la prima volta il laser scanner, applicato all’indagine epigrafica[18]. Hanno partecipato ai nostri lavori numerosi specialisti, colleghi ed amici: Piero Bartoloni, Raimondo Zucca, Maria Grazia Melis, Maria Bastiana Cocco, Alberto Gavini, Marilena Sechi, Francesco La Spisa; ad essi si sono aggiunti alcuni nostri studenti (Ernesto Insinna e Stefano Cherchi).

L’obiettivo principale era quello di sottoporre a verifica il restauro effettuato cinquanta anni fa dalla Soprintendenza alle antichità di Cagliari e dall’Istituto di Studi per il Vicino Oriente dell’Università di Roma, a conclusione delle campagne di scavo del settembre 1967 e del settembre 1968[19], con la relativa ricomposizione dei dieci frammenti epigrafici secondo la proposta poi definita nel 1971 da Giovanna Sotgiu nel XXI volume della Rivista di “Studi Sardi”[20].

Come è noto fin dal 1957 Ferruccio Barreca aveva richiesto i finanziamenti necessari al deputato dell’allora Partito Monarchico Popolare Achille Lauro, mentre dopo l’anastilosi e la ricostruzione del 1967-68; una seconda fase si svolse nel 1976, quando furono ricostruiti i lati lunghi del tempio con il finanziamento del Comune di Fluminimaggiore[21].

Confermata la sostanziale validità del restauro (per  quanto la lacuna tra i frammenti 1-2 e 3 sia stata calcolata in eccesso in fase di ricollocazione), è stato possibile riordinare il materiale epigrafico e fare un deciso passo in avanti sul piano dell’interpretazione storica del “tempio grande”, articolato in pronao, cella e penetrale bipartito; in sostanza risulta una struttura che sembra ereditare una tradizione pre-romana, sia pure con una ricostruzione dalle fondamenta[22]. Il mito di Sardus figlio di Makeris, protagonista della colonizzazione della Sardegna, negli ultimi anni è stato ampiamente studiato, nell’ambito di una radicale revisione delle tradizioni mitografiche[23].

1.Il templum Sardi Patris Bab[i..]

Il tempio di Antas (Fluminimaggiore), noto dal secolo XIX, e sottoposto a scavi e ad un restauro fra il 1966-67 e il 1976[24], presenta il titulus dell’epistilio, quasi integralmente ricomposto, suddiviso su due linee, che ora possiamo così ricostituire, con una piccola lacuna sulla destra:

Imp(eratori) [Caes(ari) M(arco)] Aurelio Antonino Aug(usto) P(io) f(elici). Temp[l(um) D]ei [Sa]rdi Patris Bab[i ..], / ve[tustate c]on[lapsum] vel c]on[l(apsum) a solo] restitue[nd(um)] cur[avit] Q(uintus)  Co[cce]ius  Proculus [p(raefectus) p(rovinciae) S(ardiniae) ?].

In traduzione italiana:

All’imperatore Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto, Pio, Felice. Il [prefetto della provincia Sardinia ?] Quinto Cocceio Proculo ha curato che venisse restaurato (dalle fondamenta ?) il tempio del dio Sardus Pater Bab[i ..], rovinato dal tempo.

Nota

Linea 1: La Marmora (disegno): M. Antonino Augu[sto]; [M(arco)] Aurelio [—-] Antonino;  Schmidt in CIL X: [L(ucio) ?] Aurelio [Commod]o [divi] M(arci) Antonini f(ilio);  Sotgiu: Bab[..]; PETRAE: Bab[ai—].

Linea 2: Schmidt in CIL X: [re]stituer[unt]; Sotgiu: [vet(ustate) c]on[l(apsum)], [vet(ustate) c]on[s(umptum) re]stituer[unt], restitue[ndum] cur[avit]. Per il dedicante: Sotgiu Q. Co[cce]ius Proculus vel Q. Co[el]ius Proculus.

La lacuna di almeno tre lettere a fine della linea 2 non era stata fin qui segnalata.

Tra le proposte da abbandonare (sintetizzate dalla Sotgiu): [a fundamentis] a l. 2, [votum solvit, voto soluto], [merito], ecc.

La dedica si data per l’adozione da parte di Lucio Settimio Bassiano (alias Marco Aurelio Antonino alias Caracalla) degli attributi Pius Felix Augustus, secondo una seriazione che appare sporadicamente attestata dopo il 200 d.C., ma diviene diffusissima soprattutto dopo la morte di Settimio Severo[25]: di conseguenza non appare prudente adottare il terminus post quem del 213, data della prima comparsa di Felix sulle monete[26], dovendosi preferire il 212. L’assenza di Geta ci conduce più precisamente al periodo tra il 16 febbraio 212 d.C. (morte di Publio-Lucio Settimio Geta)[27] e l’8 aprile 217 (uccisione di Caracalla a Carre) [28]. Tutti elementi che non contrastano con la forma Aurelius del gentilizio, a fronte della forma più aulica e ufficiale Aurellius, con la L geminata, non sempre adottata in ambito provinciale[29].

La dedica col nome di Caracalla in dativo all’inizio dell’iscrizione deve interpretarsi come una vera e propria associazione tra il culto di una divinità indigena e il culto imperiale, favorita a livello ufficiale, apparentemente non per impulso della popolazione locale ma nell’ambito di una decisione adottata per tutto l’impero (trasferita attraverso il governatore provinciale, i suoi soldati e i suoi funzionari), nel quadro di un programma di rinnovamento e consolidamento del potere dei Severi.  L’occasione va collegata da un lato alla promulgazione, avvenuta 1800 anni fa, della constitutio Antoniniana de civitate, certamente salutata con entusiasmo tra i peregrini della Sardegna[30]; dall’altro con la malattia contratta nel 213 durante la guerra germanica contro gli Alamanni, che ha portato Bassiano a visitare molti santuari locali lungo l’itinerario orientale percorso sulle orme di Alessandro Magno; al di là del viaggio, l’imperatore doveva essere in contatto con molti altri santuari attraverso i funzionari provinciali o i sacerdoti che presiedevano i concilia responsabili del culto imperiale[31]. Proprio una rinnovata attenzione per i culti più radicati nelle diverse province potrebbe  avrebbe determinato da parte dell’imperatore la dedica di una serie di iscrizioni con l’espressione dis deabusque secundum interpretationem oraculi Clari Apollinis, all’indomani della visita al tempio di Apollo a Claros presso Colofone in Ionia. Così si legge su una lastra calcarea rinvenuta presso Nora in Sardegna[32]; iscrizioni con testo pressoché simile sono state rinvenute in Italia (a Marruvium ed a Gabii)[33], in Britannia (a Borrovicium)[34] e in Dalmazia (a Corinium)[35]; soprattutto in Africa: a Banasa[36] ed a Volubilis, nella Mauretania Tingitana[37] ed a Cuicul in Numidia[38]. Del resto si è già osservato che Caracalla apparteneva ad una famiglia originaria di Leptis Magna in Tripolitania particolarmente devota ad Ercole e Libero, che doveva però coltivare anche i culti di Apollo e Cirene e del loro figlio Aristeo mitico colonizzatore della Sardegna più arcaica. Del resto non può escludersi che accanto alla cella del Sardus Pater, l’adyton bipartito del tempio contenesse nell’altra cella  l’immagine di Caracalla-Ercole.

Quanto al personaggio che curò il restauro integrale del templum, Q(uintus) Co[..]ius Proculus, da integrarsi Q(uintus) Co[cce]ius Proculus, (in alternativa secondo Giovanna Sotgiu, Q. Co[el]ius Proculus), finora non si è ritenuto che fosse indicata espressamente la sua carica sull’epigrafe incisa sull’epistilio: se si accettasse l’integrazione p(raefectus) p(rovinciae) S(ardiniae), assolutamente plausibile sul piano tecnico[39], potrebbe trattarsi di un governatore equestre della Sardinia, che nella logica della piramide delle responsabilità ebbe la cura della restitutio del templum affidata a terzi, non indicati. Nel Catalogo PETRAE del resto, già tredici anni fa, si era precisato che <<non si è in grado per il momento di stabilire la carica rivestita dal cittadino, di provenienza ignota, che ordinò il restauro del tempio, un Q. Co[el]ius vel Co[cce]ius Proculus>>[40]. In questa sede, correggendo l’impaginazione del testo (che in fase di restauro, dopo l’anastilosi, è stato spostato troppo a destra) proporremo sia pur dubitativamente il titolo di governatore provinciale per il dedicante, p(raefectus) o più difficilmente p(raeses) o p(rocurator) p(rovinciae) S(ardiniae). Proprio a proposito della possibile indicazione della funzione del dedicante (nella lacuna di due o tre lettere sulla destra dell’epistilio),  Raimondo Zucca ha osservato che potrebbe essere <<anche ipotizzabile una ulteriore iscrizione all’interno o all’esterno del templum, posta dallo stesso personaggio con la menzione della propria carica>>[41].

Per il carattere sovralocale (provinciale e non cittadino) del tempio è difficile immaginare una restitutio con la pecunia di una comunità locale come Sulci, Neapolis, Karales, città peraltro non indicate nel testo, mentre potrebbe ammettersi un intervento finanziario o del concilium provinciae attraverso il sacerdos provinciae responsabile del culto imperiale ovvero una evergesia privata del nostro Q(uintus) Co[cce]ius Proculus, un personaggio che sembra portare un raro gentilizio imperiale.

Seguiremmo perciò Raimondo Zucca che ha proposto di riconoscere in Q. Co[..]ius Proculus il procurator et praefectus provinciae Sardiniae[42], così come Davide Faoro che restringe la sua presunta prefettura in Sardinia fra il 215 e il 217[43], non escludendo la sua identificazione con il Cocc(eius) Proc(u)lus, beneficiarius consularis tra la fine del II e gli inizi del III sec. d.C., documentato in un’iscrizione di Iuvanum, oggi Salisburgo nel Noricum[44].

Secondo Mario Torelli[45] non potrebbe escludersi l’identificazione del personaggio con un membro dell’ordo senatorio, connesso per interessi alla Sardinia, autore di una evergesia a favore di un celebre tempio della divinità dei Sardi. In tale ipotesi ha proposto di considerarlo un discendente di un senatore dell’età di Adriano, Q. Laberius Iustus Cocceius Lepidus Proculus[46].

La struttura complessiva della dedica non è inusuale: nome dell’imperatore Caracalla in dativo, oggetto del restauro (temp[l(um)]) con il nome della divinità locale ([Sa]rdus Pater Bab[i ..]), tipo di lavori (restauro [a s(olo)] ?), nome del dedicante, funzione svolta ([p(raefectrus) p(rovinciae) S(ardiniae)]); manca l’indicazione di chi ha pagato i lavori di restauro[47].

L’editio princeps dell’iscrizione si data al 1840 e si deve al generale Alberto La Marmora con la proposta di attribuzione ad Antonino Pio oppure a Marco Aurelio: due anni prima nel 1838, La Marmora nei suoi viaggi attraverso l’isola, intento ad acquisire notizie che poi sono confluite nella sua nota opera Voyage en Sardaigne, giunse in una <<foresta verde cupo di quercie assai pittoresca; alcuni di quegli alberi, crescendo in mezzo allo stesso tempio, ne hanno accelerato la distruzione; al primo sguardo, non si vede altro che un ammasso di frammenti di colonne accatastate con i resti di cornici e capitelli; ma esaminando questi resti con un po’ di cura, si riconosce che il basamento dell’edificio è, per così dire, completamente intatto>>[48]. Naturalmente l’impressione principale che colpisce il lettore attuale del Voyage è oggi quella della scomparsa quasi totale delle querce[49] e dell’aspetto quasi desertico della vallata, che pure mantiene il “sapore” di un luogo speciale, dove per secoli si è concentrato il culto popolare di un Genius loci, il dio nuragico, il dio punico Sid e infine il Sardus Pater libico venerato nel tempio fatto costruire da Ottaviano (in alternativa qualche decennio prima) e poi restaurato da Caracalla (difficilmente su un progetto già dell’ultimo Commodo-Ercole).  Il Generale La Marmora non riuscì ad identificare la divinità alla quale il tempio era dedicato e si rammaricò che in quel sito disabitato non potesse trovare un gruppo di persone che sarebbero state indispensabili per spostare i pesanti blocchi, onde rintracciare, in particolare, i frammenti dell’iscrizione dell’architrave, solo in parte visibili, che probabilmente avrebbero restituito la titolatura del tempio.

L’anno successivo, sempre lo stesso Generale incaricò il celebre architetto di Cagliari, Gaetano Cima, di recarsi nella valle di Antas per rilevare il tempio e per sovraintendere alle operazioni di ricerca dei frammenti mancanti all’epigrafe del frontone. La fatica del Cima non fu coronata dal successo, ma nel 1840, nel secondo volume del suo Voyage en Sardaigne, il La Marmora poté pubblicare, insieme ai rilievi ed alle proposte di ricostruzione del tempio redatti dal Cima, una assai parziale lettura dell’epigrafe, attribuita ad Antonino Pio (138-161 d.C.) oppure a Marco Aurelio (161-180 d.C.)[50].

Tuttavia, l’imponenza dei ruderi suggerì al La Marmora l’ipotesi che il tempio fosse un santuario extraurbano del territorio della città mineraria di Metalla (“Le miniere”), menzionata nell’Itinerarium Antonini, tra Neapolis e Sulci, lungo la strada costiera settentrionale e occidentale detta “a Tibulas Sulcis[51].

Pur non potendosi ricostruire puntualmente il tracciato della strada, le trenta miglia (circa 45 km) assegnate dall’Itinerarium sia al tratto Neapolis-Metalla sia a quello fra Metalla e Sulci inducevano a localizzare Metalla presso Fluminimaggiore, nei dintorni di Antas[52]. A confermare questa ubicazione venne il rinvenimento in alcune località dell’isola di una moneta romana, della seconda metà del I secolo a.C., che recava sul rovescio un tempio tetrastilo (identificato con quello di Antas) e la lettera M, ritenuta l’abbreviazione di M(etalla)[53].

Allo stesso tempio di Antas si riferì qualche tempo dopo Vittorio Angius nella voce Flumini-Majori (Fluminimaggiore) del Dizionario di Goffredo Casalis[54]. L’Angius ammise cavallerescamente che il merito della scoperta del tempio doveva tributarsi al La Marmora, pur dichiarando di aver visitato qualche tempo dopo nello stesso anno 1838, in <<quella selvosa regione>> di Antas, l’edificio monumentale, attribuito al principato di Antonino Pio; l’Angius annotava che <<la sua lunghezza era di metri 18, la larghezza di 8, con sei colonne al pronao, quattro delle quali sostenevano il frontone. Il diametro di esse era di metri 0,95. Ascendevasi al pronao per una gradinata larga metri 4, standovi tra questa e quello interposto un piano della stessa larghezza e lungo metri 10>>. Inoltre egli riportò l’impressione che il tempio fosse stato distrutto in epoca imprecisabile <<e non caduto da sé>>[55].

Giovanni Spano non si occupò in dettaglio del tempio di Antas, ma accennò ad esso in vari suoi lavori a proposito della probabile localizzazione di Metalla, cui veniva attribuito lo stesso luogo di culto[56].

Il tempio, di difficilissimo accesso, fu in conseguenza trascurato dagli studiosi: Carlo Baudi Di Vesme il 9 aprile 1874 annunciava il suo viaggio in Sardegna e il progetto di «far eseguire ricerche in un luogo dove sono grandiose rovine, che io credo essere dell’antica città di Metalla»; si trattava evidentemente di indagini presso il tempio del Sardus Pater di Antas, dove qualche anno dopo lo Schmidt avrebbe letto l’iscrizione dedicatoria, attribuendola erroneamente a Commodo e non a Caracalla[57], senza peraltro identificarne la divinità e in più collocando il tempio del Sardus Pater presso Neapolis. Inoltre aggiungeva scrivendo a Theodor Mommsen: «Non mancherò di darvi notizia del risultato delle mie ricerche»[58].

Nel penultimo decennio del secolo XIX, in quella indagine, la valle di Antas fu raggiunta faticosamente sabato 9 aprile 1881 anche da Johannes Schimdt, il giovane epigrafista tedesco cui proprio Theodor Mommsen aveva commissionato l’incarico della revisione diretta delle iscrizioni latine della Sardegna: non tutti i frammenti dell’epistilio riconosciuti dal La Marmora erano allora in vista. Pertanto l’esame approfondito dei frammenti evidenti al suolo suggerirono di riferire l’iscrizione all’imperatore Commodo (180-192 d.C.)[59]. Il giorno 11 aprile 1881, in una lettera inviata al Mommsen e datata al lunedì di Pasqua[60], lo Schmidt stendeva la sua relazione sulle sue indagini in Sardegna, ricordando di esser stato a Sant’Antioco il sabato santo 9 aprile, quindi di essersi recato ad Antas, poi il giorno di Pasqua ad Iglesias; domenica sera e lunedì 11 aprile mattina aveva visitato San Sperate, in qualche modo sempre ostacolato dai riti della Settimana Santa[61]. Theodor Mommsen avrebbe pubblicato il testo due anni dopo, nel 1883, in Corpus Inscriptionum Latinarum X, 7539.

Ettore Pais, scrivendo nel 1923 la monumentale “Storia della Sardegna e Corsica durante il dominio romano” illustrò l’epigrafe di Antas attribuendola con probabilità a Commodo; inoltre presentò l’immagine ottocentesca del tempio ancora ricoperto dal fittissimo bosco di querce tratto dall’Atlante del La Marmora. Lo stato dei luoghi, dopo un secolo, era immutato: solamente in occasione delle due Guerre Mondiali veniva raccolto il piombo delle grappe di piombo che univano i blocchi del tempio per fonderlo e realizzare  pallini da caccia. Gli incendi, la ricerca del legname, l’apertura dei cantieri minerari e la frenetica ricerca di tesori archeologici fecero lentamente scomparire le ultime tracce del lussureggiante manto boschivo presente nel sito[62].

Nel 1954 una studentessa dell’Ateneo cagliaritano, L. Caboni, nell’ambito delle ricerche per la tesi di laurea sui Culti e templi punici e romani in Sardegna (relatori Piero Meloni e Giovanna Sotgiu), fece una serie si sopralluoghi ad Antas e nel coacervo dei blocchi e delle membrature architettoniche del tempio scoprì un frammento dell’epistilio, il nostro frg 7 (recante alla prima linea EI), fino ad allora sfuggito alle precedenti ricerche; questo frammento, completato con un ulteriore blocco rinvenuto nel 1967 (frg 8), consentì successivamente a Giovanna Sotgiu di restituire nel 1970 la lezione integrale della iscrizione dell’epistilio[63].

Fino alla metà degli anni ‘60 il tempio pareva destinato a restare anonimo, ma nel 1966, nel corso dei lavori preliminari di sistemazione dell’area, nel coacervo di materiali accumulati, si era recuperata una tabella in bronzo, recante una dedica Sardo Patri. La scoperta fu presentata subito da Piero Meloni nel V Congresso Internazionale di Epigrafia Greca e Latina svoltosi a Cambridge nel 1967[64].  La tabella (largh. cm 9,6, alt. cm. 5, spess. cm 0,2, alt. lettere cm 0,6-0,7), un tempo affissa ad una base che sosteneva un dono votivo, reca la dedica dell’ex voto, disposta su 5 linee: Sardo Patri / Alexander / Aug(usti) ser(vus) / regionarius / d(ono) d(edit)[65].

L’importantissimo reperto costituiva la prima testimonianza del culto di Sardus praticato nel santuario di Antas. Il donatore Alexander è un Aug(usti) ser(vus), regionarius, ovvero adibito alla cura delle regiones in cui era suddiviso il patrimonium Caesaris fondiario in Sardinia. L’epitafio di un secondo regionarius (Axiochus Neroni Claudi ser(vus)) è venuto recentemente in luce nell’ager sulcitanus[66] a riprova dell’esistenza di questo sistema di suddivisione dei praedia imperiali, sottoposti ad un procurator, di cui è noto esclusivamente Servatus, Augg(ustorum duorum) lib(ertus), procurator metallorum et praediorum, al tempo di Caracalla e Geta Augusti, autore di una dedica alle ninfe delle Aquae Ypsitanae (Forum Traiani) pro salute di Q. Baebius Modestus, procurator et praefectus della provincia Sardinia[67].

Nell’anno successivo (nel 1967),  gli scavi archeologici restituirono in luce un nuovo frammento della iscrizione dell’epistilio (RDI, il nostro frg 8); questo si ricomponeva con quello scoperto nel 1954 (il nostro frg 7), dando l’integrale titolatura del tempio: temp[l(um) D]ei [Sa]rdi Patris Bab[i..] (Tempio del Dio Sardus Pater Babi). La vocalizzazione Babi di quello che, più che un epiteto appare come il nome di una divinità parallela locale, sembra obbligata sulla base dell’epigrafia semitica relativa al Sid di Antas[68], anche se alcuni studiosi, sulla base della lacuna di due lettere proposta da Giovanna Sotgiu, hanno proposto l’integrazione Bab[ai]. Per contro, come si vedrà, la lacuna sulla destra è decisamente più ampia e al momento preferiremmo non proporre integrazioni che pure sembrerebbero possibili.

Si deve infine ricordare come in una tomba tardo romana di un villaggio prossimo al tempio di Antas lo scheletro del defunto recasse nell’anulare sinistro un anello in argento e stagno decorato da un serpente e dotato di una iscrizione latina, interpretata da R. Du Mesnil du Buisson come dedica a Sid: Sida (vel Sidia) Babi dedi don (vel donum) denarios XCIV (ho dato in dono a Sid Babi 94 denarii) [69].

L’attribuzione all’età di Caracalla del restauro del tempio risulta sicura; più incerta rimane l’originaria costruzione nel corso della seconda metà II secolo a.C. nell’età dei Gracchi (come supposto da Paolo Bernardini e Antonio Ibba)[70] oppure triumvirale o augustea. A questo riguardo recentemente Paola Ruggeri ha osservato che fu Ottaviano-Augusto,  <<in linea con una grande operazione generale di recupero dei riti e delle divinità tradizionali, volta a costituire un elemento di stabilità dopo la sanguinosa stagione delle guerre civili, a costruire presso l’antico tempio di Babi e di Sid[71], un nuovo tempio di modello romano italico, intitolato al Sardus Pater: del resto è noto, come testimoniato dalle Res Gestae, che a partire dal 27 a.C. Augusto fece restaurare ottantadue templi nella città di Roma ed ebbe una particolare attenzione verso i santuari ritenuti fondanti per la religione nazionale, ad esempio il tempio di Quirino>>[72].

Il culto del Sardus Pater, <<deus patrius>> capace di sostituire <<all’idea di tribù l’idea di nazione>>, <<il demiurgo benefattore>>, sostanzialmente riconosce l’apporto di popolazioni libiche in Sardegna: non solo può essere collegato col Sid punico ma è in rapporto con l’arrivo di colonizzatori numidi in Sardegna, alle origini della vicenda di Hampsicora narrata da Silo Italico nei Punica. Il mito appare rifunzionalizzato nell’età di Ottaviano e innalzato sul piano religioso ad Antas, attorno ad un’area sepolcrale (si ricordino le tombe a cista della prima età del ferro): per Pettazzoni egli avrebbe <<i tratti dell’essere supremo, padre della nazione, guaritore delle malattie, difensore della lealtà, punitore dello spergiuro>>, anche se il tempio nascerebbe da una tomba per <<quel processo storico che dal culto dell’avo attraverso al culto dell’eroe assurge al culto del dio>>[73].

Fuori della Sardegna, il culto del Sardus Pater poté forse essere praticato dai militari in particolare dagli ausiliari arruolati nell’isola e trasferiti in altre province (in particolare in Africa Proconsolare e in Mauretania Cesariense)[74]. Eppure non si conservano attestazioni sicure,  per quanto il culto fosse originariamente connesso proprio con il Nord Africa. Un’iscrizione rinvenuta in Tunisia in località Henchir el-Ksar (presso l’antica Thignica) conterrebbe, secondo un’improbabile ipotesi di A. Dupont Sommer, una dedica Sar(do Patri) Aug(usto)[75]; in realtà per quanto suggestiva, questa proposta andrà abbandonata e, se non si può pensare a Serapide per gli attributi e la simbologia presenti sulla stele, dovrà ipotizzarsi una dedica a Saturno, che intendermo Sa(tu)r(no) Aug(usto), piuttosto che supporre l’esistenza di una divinità africana sconosciuta[76].

2. I dieci frammenti

I dieci frammenti che appartenevano all’epistilio romano del tempio sono in calcare, legati tra loro in sede di restauro con calcestruzzo, sormontati da una cornice aggettante alta una decina di centimetri[77]. Le dimensioni complessive sono sicure: la larghezza dell’epistilio in origine pari a 30 piedi romani (m 8,89)  – oggi m 8,75 – è leggermente inferiore alla larghezza del basamento messo in luce durante gli scavi negli anni ‘60; i blocchi erano di norma alti due piedi (comunque oggi tra i 49 e i 59 cm), molto diversificati in larghezza:  i frammenti 4 e 5 erano certamente uniti in origine in un unico blocco largo 186 cm, cioè poco più di 6 piedi romani;  risulta più difficile stabilire le dimensioni originarie degli altri blocchi, fino a 122 cm  (frammenti 1-2); i singoli frammenti (in origine uniti ad altri) vanno da 107 cm (frg 4) fino a 40 (frg 2). Lo spessore dei blocchi è molto ampio, fino a tre piedi (tra gli 80 e i 99 cm). La dimensione totale dell’epistilio doveva essere di m 8,75, la larghezza delle cornici laterali calcolata all’aggetto è di cm 7, l’altezza della cornice superiore è di cm 18, il campo inscritto di m 7,69.

Il testo corre su due linee distanziate tra loro da uno spazio di 4 cm.
Punti di separazione tra le parole di forma triangolare. La paleografia è pienamente coerente con l’epoca severiana: si noti almeno la coda allungata della R e la forma quadrata di alcune lettere (D e G, B con l’occhiello inferiore dilatato).

L’altezza delle lettere è di cm 15 a l.1, cm 14 a l. 2.

– Frammento 1 = Sotgiu Frammento a (da cui riprendiamo in sintesi la descrizione tecnica, rettificando alcune misure): alt. totale cm. 54; senza cornice cm 31; largh. cm 82; con la cornice laterale cm 83; lo spazio che precede l’inizio dell’iscrizione è di cm 59; tra la cornice e l’inizio dell’iscrizione si hanno circa 4 cm. Il frammento costituisce l’estremità sinistra dell’epistilio. Campo inscritto: larghezza 80 cm, altezza 31 cm. Vi si leggono solo una I e la prima metà di una M, che occupano cm 20 circa.  Presente già in La Marmora come frg a (1840) e Schmidt senza indicazione (1883).

Grazie all’accurato telerilevamento, nella linea 2 è ora possibile leggere le prime due lettere di VE[TUSTATE].

– Frammento 2 = Sotgiu Frammento b: alt. cm 46, senza cornice cm 24; largh. cm. 40, solo il campo inscritto cm 27; spessore  cm. 54,5; alt. lettere cm. 15. È un frammento piccolo staccatosi dal blocco principale immediatamente precedente. Vi si leggono infatti la seconda metà della M e una P seguita dal segno di interpunzione che indica la fine della parola, che è quindi IMP, per Imp(erator). Visto dal La Marmora nel 1838 (frg b), fu smarrito e in seguito (omesso apparentemente dallo Schmidt nel 1881 e dalla Caboni nel 1955), ritrovato nel corso degli scavi degli anni 1967-68.

– Frammento 3 = Sotgiu Frammento c: alt. cm. 58, senza cornice cm. 41,5; largh. cm 1.02, campo inscritto cm 99; alt. lettere l. 1 cm 15; spessore cm 94.  La pietra è molto rovinata e con un po’ di fatica nella l. 1 si legge il gentilizio AVRELIO in dativo, preceduto dal segno di interpunzione e non completamente sopravvissuto per quanto riguarda la seconda metà della O. Per la Sotgiu <<nella l. 2 di ancor meno facile lettura, all’inizio si può vedere la seconda metà di una lettera rotonda, una O piuttosto che una Q, subito dopo la prima parte di una N o, meno probabilmente, di una M e poi, sotto la E della l. 1, una O (?) e, sotto parte della E e della L, un’A>>. Dunque ON  OA.   Già presente in La Marmora frg c (1840) e in CIL X, su lettura di Schmidt (1883).

– Frammento 4 = Sotgiu Frammento d : alt. totale cm 59, senza cornice cm 41; largh. cm 107; spessore cm 96. <<Nella l. 1, il primo segno, solo parte di una lettera, non è chiaro, segue il segno di interpunzione e la parola, quasi illeggibile dalla fotografia ANTONIN. Della l. 2 si leggono, alla fine, due lettere, anche se con non poca difficoltà, RE. Tra un rigo e l’altro si hanno circa 4 cm.>>. Già in La Marmora (1840), frg d. Lo Schmidt in CIL X (1883) lo colloca in posizione errata, considerando la titolatura come se citasse non l’imperatore ma solo un ascendente di Commodo.

– Frammento 5 = Sotgiu Frammento e: alt. totale cm 57, senza cornice cm 40; largh. cm 82; spessore cm 99; alt. lettere l. 1 cm 15 e l. 2 cm 14: Segue immediatamente il frammento precedente; al tempo del La Marmora  si poteva notare l’unione perfetta dei due frammenti[78]. Nella l. 1 abbiamo la O finale della parola ANTONIN (v. frammento precedente), seguita da un segno di interpunzione triangolare; segue AVG a sua volta completata da eguale segno. Nella l. 2 le lettere STITVE e tracce di una lettera successiva: la Sotgiu pensava ad una R, come sempre si era inteso fino a lei, proponendo la lettura RESTITVER[VNT]. Preferiamo invece intendere RESTITVEND(VM) CVRAVIT. Già in La Marmora (1840) frg. e ed in CIL X da Schmidt (1883), male integrato. Il frammento fu fotografato per la prima volta da Thomas Ashby nel 1907[79].

– Frammento 6 = Sotgiu Frammento f: alt. cm 54, senza cornice cm 36; largh. cm 89, campo inscritto cm 69, spessore cm 85. Il frammento, a parere della Sotgiu, segue immediatamente il precedente: <<nella l. 1 infatti risulta chiarissima la parte rotonda di una P, mai prima notata, e d’altronde mi pare non debbano esservi dubbi sulla lettura della F successiva. Tra P e F tracce leggerissime d’un segno d’interpunzione>>, Seguono le lettere TEMP della parola TEMP[L(VM)]. Soltanto nell’ultima parte della l. 2 è ancora vagamente visibile quanto già osservato dai precedenti editori, CVR. Già in La Marmora (1840) frg. h e in CIL X da Schmidt (1883).

– Frammento 7 = Sotgiu Frammento g: alt. cm 45, senza la piccola parte della cornice cm 35; largh. massima cm 48, campo inscritto cm 36; spessore cm 80; alt. lettere l. 1 cm 15, l. 2 cm 14. Il frammento è molto piccolo, corrisponde al frammento i del La Marmora (1840), non è stato visto dallo Schmidt nel 1881, omesso dalla Caboni nel 1955. Nella l. 1, così come aveva notato La Marmora, si hanno le lettere EI, seguite dal segno di interpunzione, per cui, tenuto conto del testo dei frammenti, la Sotgiu ha proposto per prima l’integrazione – oggi sicurissima – [D]EI. Nella l. 2 la seconda parte di una lettera tonda, O o Q, una C e ancora una lettera tonda incompleta.

– Frammento 8 = Sotgiu Frammento h: alt. cm 51, senza cornice cm 44; largh. cm 59, campo inscritto cm 54; spessore cm 86; alt. lettere l. 1 cm 15, l. 2 cm 14. E’ il frammento venuto alla luce per la prima volta durante gli scavi del 1967 e quello che insieme al successivo (frg 9) permette di stabilire a quale divinità il tempio era dedicato. La cosa era ignorata fino all’articolo della Sotgiu del 1971.  Nella l. 1 si notano le tracce di una R e chiare le lettere D e I seguite dal punto indicante la fine della parola, che si può completare [SA]RDI; seguono le lettere PA della parola PATRIS, completata nel frammento successivo. Nella l. 2 si hanno la parte superiore di una I e di una V e, competa, una S; segue il solito punto e una P (completa).

– Frammento 9 = Sotgiu Frammento i: frammento ritrovato dalla Caboni nel 1954. Alt. cm 58, senza cornice cm 44; largh. cm 99, campo inscritto cm 98; alt. lettere l. 1 cm 15, l. 2 cm 14. Nella l. 1 la seconda parte della parola PATRIS, cioè TRIS, segno di interpunzione e le lettere BAB, con almeno tre lettere mancanti, BAB[I..]. Nella l. 2 intere le lettere ROC e mancanti della parte inferiore le lettere VLVS, che unite alla P del frammento precedente danno la parola PROCVLVS.

– Frammento 10: anepigrafe, alt. cm 58, largh. cm 65; è probabile che originariamente costituisse un unico blocco col frammento precedente.

3. Dov’era il Sardopatoros ieron?

Le iscrizioni latine di Antas propongono numerose problematiche: abbiamo dunque un templum Sardi Patris Bab[i..] che va identificato, con ogni probabilità. con il Sardopátoros ierón della Geografia di Tolomeo (circa 170 d.C.), che sulla costa centro occidentale della Sardegna segna Tárrai polis, le foci del Thyrsos potamós (fiume Tirso), le foci dell’Ieròs potamós (fiume Sacro), Othaia polis (Othoca-S. Giusta), il Sardopátoros ierón (tempio di Sardus Pater) e Neapolis (localizzata a sud del Golfo di Oristano, sulle sponde meridionali della laguna di Marceddì)[80]. Suscita perplessità la collocazione molto occidentale del Sardopatoris fanum (longitudine di 30° e 30’), mentre è sicuramente accettabile la posizione in latitudine di 36° e 20’[81].

Nel secolo XVI, all’avvio degli studi sulle fonti classiche relative alla Sardegna, si avevano due sole certezze: Tharros, sul promontorio di San Marco, e le foci del Tirso. Quanto al tempio di Sardus Pater si brancolava nel buio. Due scrittori medievali, l’Anonimo di Ravenna nel VII secolo e Guidone nel XII, citavano ancora il tempio di Sardus nelle proprie opere geografiche, redatte utilizzando largamente le fonti dell’antichità[82].

L’Anonimo Ravennate indicava Sartiparias (intendi Sardipatris templum = tempio di Sardus Pater) lungo un percorso tra Sulci (S. Antioco) e Neapolis (Guspini – S. Maria de Nabui). Guidone, menzionando orientativamente il medesimo itinerario tra Sulci e Neapolis, ricordava Sardiparias, una forma cioè più prossima a quella genuina di Sardipatris templum[83].

Il primo studioso ad occuparsi dell’ubicazione del tempio di Sardus Pater fu il vescovo Gian Francesco Fara, che scriveva intorno al 1580. Il Fara fissava il tempio sul caput Neapolis, l’alto promontorio sul mare attualmente chiamato Capo Pecora[84]. Sulla base degli stessi dati di Tolomeo, un trentennio dopo il grande geografo olandese, Filippo Clüver sistemava il Sardopatoros ieròn sul promontorio della Frasca, che chiude a mezzogiorno il Golfo di Oristano. Il Clüver, non riuscendo ad documentare i ruderi del tempio sull’altopiano basaltico della Frasca, pensò ad una seconda soluzione: il geografo egiziano non avrebbe parlato di un tempio (ierón) ma di un promontorio (akron) denominato, in onore di una divinità, del  “Sardus Pater’’[85]. La bizzarra ipotesi venne ben presto abbandonata. Nel Seicento si sprecarono le proposte di localizzazione del tempio sulla base di false etimologie, in omaggio al gusto acritico dell’epoca. La storiografia sarda diviene riflessione critica sulle vicende del passato isolano con la “Storia di Sardegna” di Giuseppe Manno, la cui prima edizione risale al 1825[86]. Questo autore è incerto sulla ubicazione del tempio tra il Capo Pecora, come voleva il Fara nel Cinquecento, ed il Capo Frasca.

Vittorio Angius esitava fra la tradizionale localizzazione del tempio sul promontorio della Frasca e la sua proposta di ubicarlo alla sommità del monte Arcuentu, nel Guspinese, a 785 metri di quota[87]. Anche Alberto La Marmora si mostrava favorevole a collocare il tempio a nord del Capo Pecora, sulla costa occidentale, in località Acqua Bella, dove aveva intravvisto alcuni ruderi[88]. Nel 1859 lo stesso La Marmora avrebbe mutato idea e si sarebbe riferito al promontorio della Frasca in quanto in un frammento di colonna miliaria, rinvenuto a Neapolis[89], ad oriente di quel promontorio, si menziona una via che conduce fino ad un sito, il cui nome, parzialmente conservato, termina in [—]ellum. Il La Marmora, anzichè [Us]ellum, proponeva allora di integrare [sac]ellum, tempietto (di Sardus Pater) [90].

Nel maggio del 1858, in quell’altopiano della Frasca, ricerche ulteriori condussero Giovanni Spano e il suo allievo Vincenzo Crespi, fortemente condizionati dalle Carte d’Arborea. Scriveva lo Spano: <<Io sono d’opinione che questo tempio fosse collocato alla falda orientale del monte (della Frasca) in faccia a Neapolis e al fiume sacro nel sito detto S. Giorgio, dove esistono ruderi di edificio, massi squadrati, frammenti di marmo e di stoviglie>>[91].

Di quell’edificio Crespi curò la planimetria, senza che sorgesse il minimo dubbio sulla effettiva natura del complesso edilizio, nonostante che absidi, vasche, bocche di forno ed altre particolarità indicassero chiaramente la natura termale della struttura. Purtroppo la localizzazione del tempio era ormai definita erroneamente: storici del calibro di Ettore Pais[92] e di Camillo Bellieni[93], archeologi della statura di Antonio Taramelli[94] e di Gennaro Pesce[95] si riferirono sempre al promontorio della Frasca quale sede del Sardopátoros ierón. Nel XX secolo dubbi sull’ubicazione del tempio sul Capo Frasca furono espressi da quattro studiosi: Carlo Albizzati, che in uno studio sul Sardus Pater proponeva di identificare il tempio nel Sinis, nel territorio dei Tharrenses[96]; Carlo Tronchetti[97] e Massimo Pittau[98], i quali lo connettono al santuario di Mont’e Prama; infine Giovanni Lilliu. Quest’ultimo nel 1951 diresse, per conto della Soprintendenza alle antichità, una campagna di scavi nella località di S’Angiarxia, sulla spiaggia orientale del promontorio della Frasca. Tale località corrisponde al sito di San Giorgio nel quale lo Spano aveva segnalato i ruderi del presunto tempio di Sardus Pater. Lo scavo, condotto fra il maggio ed il luglio di quell’anno, rivelò una differente realtà: le imponenti rovine di S’Angiarxia si riferivano non già al tempio di Sardus Pater, bensì ad una prestigiosa villa marittima romana[99]. Accennando a questi scavi in una nota del lavoro sui “Bronzetti nuragici di Terralba”, Lilliu, dissentendo dalla consueta localizzazione del tempio sul promontorio della Frasca, esprimeva l’opinione che il santuario andasse ricercato nelle immediate vicinanze della città di Neapolis, presso le foci del Fiume Sacro, forse il Riu Sitzerri o il Flumini Mannu che sboccano all’altezza di quella città[100]. A sciogliere il quesito sulla ubicazione del tempio fu una straordinaria scoperta nel cuore delle montagne iglesienti. Nel quadro delle missioni congiunte, effettuate dalla  Soprintendenza alle antichità di Cagliari e dall’Istituto di Studi del Vicino Oriente dell’Università di Roma, Gennaro Pesce e Sabatino Moscati decisero di promuovere un vasto intervento di scavo nella località di Antas, presso Fluminimaggiore, nella Sardegna sudoccidentale, affidandone la direzione a Ferruccio Barreca[101]. L’équipe di Barreca risolse il problema topografico dell’ubicazione del tempio tolemaico, dimostrando che il Sardopátoros ierón era stato edificato nell’area di un precedente tempio, dedicato al dio fenicio Sid[102], una divinità guerriera e cacciatrice, della quale i fedeli apprezzavano le funzioni salutifere e la forte personalità[103].

4. Il mito di Sardos e del padre Herakles-Makeris

Le epigrafi latine di Antas dimostrano, insieme ai dati letterari, l’effettiva esistenza in età imperiale romana di un culto in Sardegna del dio nazionale Sardus Pater, i cui caratteri mitici (ben più antichi) sono documentati dalle fonti letterarie, recentemente studiate da Raimondo Zucca[104].

Il complesso di fonti greche e latine, non anteriori al I secolo a.C., attesta che Sardos – Sardus fu figlio di Herakles Hercules, e che partito dalla LibyeLibya giunse in Sardegna a capo di una colonia e dal suo nome denominò l’isola[105]. Pausania nella sua Periegesi è l’unico autore classico a soffermarsi sulla figura di Herakles-Makeris, padre di Sardos: <<Dei barbari dell’Occidente quelli che abitano la Sardegna inviarono a Delfi la statua in bronzo di colui che diede il nome all’isola …Si dice che primi a passare per navi nell’isola (di Sardegna) fossero i Libyes; il capo dei Libyes era Sardos figlio di Makeris, ossia di Herakles, così chiamato dagli Aigyptioi e dai Libyes. Da un lato Makeris compì un viaggio molto celebre a Delfi, dall’altro Sardos, comandante dei Libyes, li condusse verso l’isola di Ichnoussa, e l’isola cambiò il nome traendolo da quello di Sardos>>[106].

Pausania è estremamente preciso e arriva a collocare l’eikòn, la statua in bronzo di Sardos, con lo scopo di consentire ai visitatori che dopo di lui raggiungeranno il santuario panellenico di Delfi di ritrovare la statua:  questa era sistemata alla metà del II secolo d.C. in età Antonina tra il piccolo Apollo consacrato da Echecratides di Larissa e il cavallo offerto dall’ateniese Callias, figlio di Lysimachides, nella terrazza superiore del muro poligonale del santuario, presso il tempio di Apollo[107]. La descrizione della statua costituisce l’occasione per una lunga digressione sulla storia e sui miti della Sardegna ad opera di Pausania. Egli non colloca nel tempo la dedica della statua da parte dei bàrbaroi della Sardegna ed è per questo che l’individuazione degli autori del donario ha suscitato numerosi interventi. Sembra preferibile individuare in quei barbari d’Occidente che abitano la Sardegna proprio i Sardi, eventualmente alleati con alcune comunità fenicie, che poterono celebrare con il donario delfico una loro vittoria sui Cartaginesi, al tempo di Malco, verso il principio della seconda metà del VI sec. a.C.[108], benché altri pensino ai Sardi-Cartaginesi o addirittura ai Sardi dalle molte identità di età ellenistica[109]. Si è pensato anche ai Sardi in rivolta contro i Romani, dieci anni dopo la nascita della provincia, nell’età di Annibale; a questo riguardo va però richiamato il ruolo dell’oracolo di Delfi nel corso della prima guerra macedonica (che si svolse in contemporanea con il Bellum Sardum e con la seconda guerra punica), sotto il controllo degli Etoli in funzione antimacedone: a Delfi giunge Fabio Pittore dopo Canne nel 216 a guida dell’ambasceria inviata per raccogliere il parere della Pizia[110].  Si tratta di elementi che richiamano il ruolo del santuario greco di Delfi nell’espansione verso l’occidente barbarico, in un quadro in cui allora veniva considerato il rapporto antropologico tra natura e cultura, dove la natura è la realtà sociale da civilizzare con la conquista.  Se si può concordare con Tronchetti che la dedica della statua non sia avvenuta – come sostiene gran parte della dottrina – in epoca arcaica, tenderemmo ad escludere che dietro i barbari della Sardegna si celino i Cartaginesi.  Pausania dichiara di aver visto lui stesso a Delfi la statua, e ciò alla metà del II secolo d.C.[111]. A questo punto è opportuno il quesito: da quanto tempo la statua si trovava esposta sulla terrazza del tempio greco ?  Se davvero la statua era stata donata dai principes sardi nel corso del Bellum Sardum dell’età di Hampsicora (215 a.C.), erano comunque trascorsi tre secoli e mezzo. Non va nascosta una difficoltà: il suggestivo richiamo alla religione apollinea della luce si manifesta nella battaglia finale vinta da Tito Manlio Torquato con l’intervento miracoloso del dio delfico a danno di Hostus in difesa del poeta Ennio (dunque in funzione antisarda, visto che i Sardi sul Tirso, il fiume che mantiene il nome del bastone rituale in ferula, sembrano sostenuti da Dioniso)[112].  Occorre del resto osservare la posizione del santuario delfico nel corso della guerra annibalica: l’arcaico santuario di Dodona in Epiro, vicino a Filippo V,  era stato devastato da Dorimaco e dagli Etoli nel 219 a.C., apparentemente per rafforzare l’oracolo delfico[113]. Gli Etoli nel 215 controllavano il santuario di Delfi in funzione antimacedone e filo romana, perché la Macedonia sembra aver perso il controllo sull’anfizionia delfica, almeno fino alla spedizione di Perseo del 178 a.C.  Ma ovviamente si tratta forse solo di schemi moderni, dato che Delfi mantenne costantemente il carattere di santuario panellenico aperto sul Mediterraneo. In ogni caso la statua di Sardos sarebbe stata comunque esposta alla venerazione dei fedeli dai sette ai quattro secoli all’aperto nel santuario di Delfi, un periodo lunghissimo che ci dice anche qualcosa sui tabù che proteggevano nel tempo i donari del dio Apollo.

Una celebre vicenda è quella che riguarda il viaggio proprio a Delfi di Herakles-Makeris (ossia dell’antico Herakles tirio o egizio-canopico, anche se talora le fonti distinguono due diversi personaggi): il testo genealogico di Pausania su Sardos e su suo padre (chiamato Makeris da Aigyptìoi e Libyes, forse dai Fenici), ci mostra come sussistesse in seno alla mitografia eraclea un filone che valorizzava il parallelo semitico dell’Herakles greco, il Melqart degli emporoi Tirii che navigavano sulle navi insieme agli Eubei verso le rotte occidentali. È un capitolo straordinario che ci collega con la serie degli altri Herakles, distinti dal figlio di Zeus e Alcmena.[114] Gli ultimi studi hanno enormemente ampliato questa prospettiva orientale ed egizia, anche in rapporto ai Shardana[115].

Fu già Erodoto a parlare di un antichissimo Ercole Egizio, di cui esisteva un tempio a Tiro, che egli volle visitare nel V secolo a.C., recandosi poi a Tasos dove i Fenici avevano costruito un tempio analogo:  <<Navigai fino a Tiro in Fenicia, poiché sapevo che lì c’era un tempio sacro ad Herakles . E lo vidi, riccamente adorno di molti doni votivi, e fra gli altri c’erano in esso due colonne, l’una d’oro, l’altra di smeraldo, che brillava per la sua grandezza nella notte. Venuto a colloquio con i sacerdoti del dio, chiedevo quanto tempo fosse passato da quando sorgeva quel loro tempio. E trovai che neppure essi s’accordavano con i Greci. Risposero infatti che contemporaneamente alla fondazione di Tiro era stato eretto anche il tempio del dio, e, da quando abitano Tiro, erano 2300 anni. Vidi poi a Tiro anche un altro tempio di Herakles, che ha il nome di Tasio. Andai anche a Tasos, dove trovai un tempio di Herakles eretto dai Fenici che navigando alla ricerca di Europa fondarono Tasos; e questi avvenimenti risalgono a cinque generazioni di uomini prima della nascita di Herakles figlio di Anfitrione in Grecia. Queste ricerche dimostrano chiaramente che Herakles è una divinità antica. E a me sembra che la cosa più giusta la facciano quelli dei Greci che hanno elevato due templi ad Herakles, e all’uno sacrificano come a immortale, col nome di Olimpio, all’altro invece rendono onori come a un eroe>>[116].  Proprio ai Tirii, dunque ai Fenici presenti anche a Tasos, si attribuiva la costruzione dell’Herakleion collocato in Egitto, sul braccio canopico del Nilo[117], in onore di un Eracle che andrebbe identificato con il dio di Tiro[118].  La forma documentata in Pausania Makeris (per il padre di Sardos) sembra essere la ricomposizione greca de teonimo semitico (e tirio in particolare) Melqart, secondo un processo comune di ristrutturazione ellenica dei teonimi semitici, teso ad assicurare una apparenza greca ai nomi divini[119]; del resto appaiono inconsistenti i tentativi di riferire alla teonomastica libico-berbera il nome del dio[120].

In realtà è stata sottovalutata l’importanza dell’affermazione pausianea del carattere non greco, ma piuttosto tirio, dell’Herakleion di Thespiae, presso il quale – secondo Raimondo Zucca – <<doveva essere incardinata la “storia sacra” dell’apoikia dei Thespiadi in Sardegna, che secondo l’interpretazione (o la tradizione seguita) di Pausania era raccordata ad un Herakles non greco, che avrebbe imposto una sacerdotessa vergine che ritualizzava la verginità di una delle figlie di Tespio, sottrattasi all’amplesso di quell’Herakles. Nel viaggio dell’Herakles tirio a Delfi si scopre l’itinerario storico che dalla Beozia e da Thespiae in particolare conduceva in Focide a Delfi, con un percorso che ancora l’Itinerarium Antonini conosce. È sintomatico il fatto che la Pizia secondo Zenobio accolse dapprima Herakles-Briareo che si accingeva alla spedizione verso le colonne di Briareo-Herakles, ossia il sincretismo tra l’eroe beota e il centimane euboico, e successivamente l’Herakles tirio, l’archegetes degli impianti Tirii fino all’estremo Occidente di Gadir, oltre le colonne di Herakles>>[121].

In definitiva le fonti di Pausania documentavano per Sardos una genealogia divina essendo egli figlio di MakerisMelqart, l’Herakles tirio venerato anche, con il teonimo semitico, in Egitto e nella Libye abitata dai Fenici.

Come l’Herakles tebano (il padre dei 50 Tespiadi) ottenne dal dio Apollo delfico la promessa dell’immortalità a patto che, terminate le fatiche impostegli da Euristeo[122], si trasformasse in oikistes inviando una colonia dei suoi figli in Sardegna, guidati dal nipote Iolaos, che sarebbe stato onorato con un tempio e con l’appellativo pater[123], così l’Herakles tirio, Makeris, sarebbe stato riconosciuto da Apollo delfico come il dio fenicio parallelo ad Herakles, ed avrebbe inviato una colonia in Sardegna, guidata dal figlio Sardos che avrebbe ricevuto l’identico epiteto di pater, divenendo il Sardus Pater[124]. Come si è detto, va abbandonata l’ipotesi di collegare Makeris alla teonomastica libico-berbera, in funzione di una interpretazione dei Libyes di Pausania come libici, abitanti indigeni della Libye, dell’Africa settentrionale. Siamo portati, invece, a considerare i Libyes di Pausania, che denominavano Makeris Herakles, come Fenici, secondo un uso attestato altre volte nella letteratura antica anche in rapporto alla presenza fenicia in Sardegna. In definitiva le fonti di Pausania documentavano per Sardos una genealogia divina essendo egli figlio di MakerisMelqart, l’Herakles tirio venerato anche, con il teonimo semitico, in Egitto e nella Libye abitata dai Fenici.

Dunque la celebre storia del viaggio a Delfi di Makeris, ossia dell’Herakles tirio o egizio (canopico) appare la chiave interpretativa greca del mito di Sardos, primo hegemon di una apoikia in Sardegna e eponimo dell’isola. Pausania connette i due eventi tra loro, usando la medesima costruzione sintattica e le particelle men / de, in quanto nelle sue fonti doveva essere evidente il rapporto tra il viaggio a Delfi del padre e il viaggio in Sardegna del figlio[125]. È indubbio che vadano identificati, per le considerazioni sopra svolte, il viaggio a Delfi dell’Herakles egizio narrato da Pausania e quello dell’Herakles tirio ricordato da Zenobio. Raimondo Zucca ha rilevato una incertezza delle fonti sulla sequenza degli eventi: infatti per Pausania, infatti, la Pizia riconobbe come “l’altro Herakles” l’eroe greco, venuto a Delfi dopo il viaggio dell’Herakles egizio; per Zenobio, invece, “l’altro Herakles” era il dio fenicio, giunto all’oracolo dopo il viaggio di un Herakles greco, detto Briareo, destinato a compiere l’odos Herakleia verso le colonne dette dapprima di Briareo, successivamente di Herakles[126].

L’oracolo relativo alla promessa d’immortalità dovette essere complesso poiché esso non riguardava esclusivamente il compimento delle imprese che gli sarebbero state imposte da Euristeo, ma anche l’invio di una colonia dei suoi figli Tespiadi in Sardegna. Sono sintomatici di questo legame tra il primo vaticinio delfico relativo ad Herakles e l’apoikìa sarda, gli espliciti riferimenti di Diodoro a tale oracolo: <<Concluse le imprese (di Euristeo), (Herakles) aspettava di ottenere l’immortalità, secondo l’oracolo di Apollo>>[127]. Inoltre aggiunge: <<Quando ebbe compiute le imprese, poiché secondo l’oracolo del dio era opportuno che prima di passare fra gli déi inviasse una colonia in Sardegna e ne mettesse a capo i figli che aveva avuto dalle Tespiadi, Herakles decise di spedire con i fanciulli suo nipote Iolao, poiché erano tutti molto giovani>>[128]. In relazione a questa colonia avvenne anche un fatto straordinario e singolare: <<con un oracolo il dio disse loro che tutti quelli che avevano preso parte a questa colonia e i loro discendenti, sarebbero rimasti continuamente liberi per l’eternità: e la realizzazione di questo, conformemente all’oracolo, perdura fino ai nostri giorni>>[129].  E ancora: <<secondo l’oracolo relativo alla colonia, coloro che avessero partecipato alla sua fondazione sarebbero rimasti per sempre liberi: è accaduto che l’oracolo, contro ogni aspettativa, abbia salvaguardato, mantenendola intatta fino ad oggi, la libertà degli abitanti dell’isola>>[130].

Il secondo viaggio che Herakles compì a Delfi per consultare l’oracolo appare quello più importante, in quanto in tale occasione la Pizia avrebbe fatto riferimento al viaggio compiuto da un Herakles differente dall’eroe tebano. Diodoro narra come Herakles avendo ucciso Ifito, precipitandolo dalle mura di Tirinto, cadde malato[131], colpito per Apollodoro da una tremenda malattia[132]. Pausania fa recitare alla Pizia Xenoclea un verso esametro che chiama Herakles «di Tirinto» (per avere ucciso Ifito, precipitandolo dalle mura della città), distinguendolo dall’Herakles canopico, che aveva già compiuto la consultazione dell’oracolo. Il problema fondamentale in questo complesso di narrazioni è quello di definire il valore funzionale del viaggio a Delfi dell’Herakles egizio-fenicio, ossia di Makeris. L’articolato lavoro di Corinne Bonnet su Melqart ci consente di seguire il problematico radicamento del culto dell’Herakles tirio nelle isole greche, in Ionia e nella Grecia continentale[133].

Connesso con la Sardegna è il santuario di Herakles a Tespie: sacerdotessa di questo santuario era una vergine, che doveva custodire la sua purezza per tutta la vita. Scrive Pausania: <<La causa di ciò dicono che sia la seguente: che Herakles si unì con tutte le cinquanta figlie di Tespio, tranne che con una, nella stessa notte e dicono anche che questa fu la sola che non volle unirsi a lui. Ed Herakles ritenendo di doverle fare violenza la costrinse a stare vergine per tutta la sua vita e consacrata a lui. Ma io ho sentito anche un altro racconto secondo il quale Herakles avrebbe avuto rapporti nella stessa notte con tutte le figlie di Tespio e che tutte queste ragazze gli partorissero dei figli maschi e che la più giovane e la più anziana gli generassero dei gemelli. Ma non è possibile che io ritenga veritiero questo racconto, cioè che Herakles giungesse a tal punto di ira nei confronti di una figlia di un uomo amico. Inoltre (Herakles) fin tanto che si trovava ancora fra gli uomini punendo coloro che erano stati insolenti e soprattutto quanti erano stati empi nei confronti degli dei, non avrebbe potuto lui stesso fondare un tempio in suo nome e istituire una sacerdotessa come se lui fosse un dio; questo santuario, infatti, mi è sembrato più antico rispetto all’epoca di Herakles, il figlio di Anfitrione, e io penso che esso debba appartenere piuttosto all’Herakles detto dei Dactili Idaei, quello di cui io ho visto i santuari presso gli Erithrei di Ionia e presso i Tirii. I Beoti stessi non ignorano questo appellativo di Herakles poiché gli abitanti di Mycalessos dicono essi stessi che il santuario di Demetra è consacrato anche all’Herakles Idaeo>>[134].

Insomma, appare dimostrato come tradizione greca e tradizione fenicia tiria si siano incontrate  già prima dell’età di Erodoto, con una evidente ripresa in età romana, forse nell’età triumvirale quando Ottaviano – divi filius –  consacrò sulle monete (assi in bronzo) l’immagine del dio sardo-africano figlio di Makeris-Melkart[135] affiancandola a quella del nonno Marco Azio Balbo, propretore in Sardegna nel 59 a.C.[136], l’anno cruciale del consolato di Giulio Cesare suo cognato, che a sua volta poteva vantare una ascendenza divina che forse lo collegava ai Sardi Ilienses, fondando una “parentela etnica” con i Sardi della Barbaria[137].

5. L’archeologia dei culti di Antas

Il carattere cultuale romano del complesso archeologico di Antas fu chiarito da Alberto La Marmora nel 1840, ma l’individuazione di una fase pre-romana del luogo di culto è dovuta al pittore Foiso Fois nel 1964. Nell’ambito dello studio della viabilità romana dell’isola, il Fois condusse prospezioni archeologiche ad Antas, compiendo due osservazioni di particolare interresse: nel rilevare ex-novo il tempio, da un lato si rese conto che il Cima aveva omesso nella sua pianta due piccoli ambienti quadrangolari che chiudevano il sacello sul lato breve nord-occidentale, dall’altro comprese che la tecnica edilizia usata per edificare il tempio differiva da quella delle strutture sottostanti la gradinata d’accesso. Quest’ultimo particolare indusse il Fois ad ipotizzare, due anni prima degli scavi ufficiali, una fase punica del luogo di culto di Antas[138].

Tuttavia l’ipotesi di una origine cartaginese del culto di Antas non soddisfaceva i fautori del carattere encorico di Sardus Pater. Inoltre un ricercatore e collezionista dello scorcio del XIX secolo, Vincenzo Dessì, acquisì da Antas una statuetta votiva in bronzo, di artigianato nuragico, ora nel Museo Sanna di Sassari; si trattava di un forte indizio di un luogo di culto nuragico della prima età del ferro che avrebbe preceduto i culti cartaginese e romano di Sardus Pater. La statuina rappresenta un personaggio aristocratico orante, con la bandoliera da cui pende un pugnaletto ad elsa gammata[139].

Negli scavi del 1966-67 si recuperarono vari oggetti nuragici in bronzo, riportabili al IX-VIII secolo a.C., presi in esame da Giovanni Lilliu[140] ed Enrico Acquaro[141]. Si tratta di un arto di statuina, una spada miniaturistica ad antenne, una faretrina, un falcetto, uno spillone a testa modanata.

Ad offrire un probabile contesto a tali oggetti venne la scoperta a cura di Giovanni Ugas di un sepolcreto, localizzato a sud della scalinata del tempio romano, di tombe a pozzetto indigene della prima età del ferro[142], confrontabili con le sepolture di Mont’e Prama[143].  Si tratta di tre tombe a pozzetto circolare, monosome, con deposizione primaria di un inumato, talora con corredo di vaghi di collana in oro, pasta vitrea e cristallo di rocca, ed eccezionalmente di un bronzo figurato (personaggio stante armato di lancia), dotate di copertura a tumuletto con un pilastrino-segnacolo[144], a volte accompagnate da «fossette … interpretabili come luoghi di offerte votive»[145], costituite da animali sacrificati e da bronzi figurati e d’uso. Alle tre tombe scavate da Giovanni Ugas si sono aggiunte negli scavi diretti da Paolo Bernadini negli anni 2004-05 nuove tombe a pozzetto, con fossette per la deposizione di offerte, fra cui una faretrina miniaturistica, del tardo IX sec. a.C., un cinghialetto e uno spillone[146] inscritto. L’eccezionalità dello spillone in bronzo, di tipo nuragico del IX- VIII sec. a.C., con una iscrizione, di cui si discute l’ascrizione a codice alfabetico fenicio o greco o a codice sillabico cipriota, depone a favore di un luogo funerario di rilevantissima entità[147].

Non possiamo escludere che nell’ambito funerario, di carattere aristocratico, si sia sviluppato il culto di un antenato comune, di statuto eroico o divino, che potrebbe rispondere alla citata figurina enea, rinvenuta da Giovanni Ugas, rappresentante un personaggio ignudo, stante, armato di lancia, l’arma che caratterizza Sardus Pater sul diritto della emissione enea di Ottaviano, commemorante l’avo M. Atius Balbus, forse propretore in Sardinia.  Le tombe singole, dal ricco corredo e dalle offerte rituali, denunziano un possibile complesso funerario sacrale indigeno che potrebbe essere alla base della interpretatio cartaginese e romana del dio-antenato dei Sardi, il cui culto poteva svolgersi (si tratta beninteso di una ipotesi) nel sito sacro, del tempio punico e dell’altare romano, in forme architettoniche per noi ignote (megaron ?, rotonda ?, tempio a pozzo ?). La prosecuzione del culto alla divinità-antenato dei Sardi poté svolgersi forse senza soluzione di continuità durante l’età del ferro, in contemporanea con il centro urbano fenicio di Sulci, sino alla conquista cartaginese della Sardegna. Appare indubbio che all’atto della conquista Cartaginese il luogo di culto (indigeno?) di Antas venne fatto oggetto di deposizione di doni votivi punici.  Al 500 a.C., infatti, rimonta il frammento di una protome maschile di divinità, di modello o importazione cartaginese, edita da Enrico Acquaro nel 1969 e confrontata con terrecotte figurate coeve sulcitane e tharrensi[148]. Gli studiosi concordano comunque sulla presenza di un tempio punico a partire dal IV secolo a.C.

La politica di acquisto delle miniere sarde (oltreché delle aree a vocazione cerealicola) da parte di Cartagine dovette comportare uno stretto raccordo con il luogo minerario di Antas, fino alla costruzione di un tempio punico, erede della cultualità protosarda. Attualmente si è inclini a datare questa fase costruttiva al IV secolo a.C., con il conseguente abbassamento cronologico dei più antichi votivi, anche inscritti, riportati inizialmente allo scorcio del VI-inizi del V secolo a.C. Indubbiamente una più matura considerazione ha portato Mario Torelli ad ascrivere ad età tardo ellenistica la testa marmorea di Afrodite, inizialmente riportata da Maria Antonietta Minutola al 430 a.C.[149]

Si tende ora a considerare unitaria la fase punica del tempio incentrato su una roccia-altare. Intorno allo scorcio del IV sec. a.C. anche ad Antas si introdussero gli elementi caratteristici dell’ellenismo punico, derivati dall’Egitto tolemaico, quali la trabeazione a gola egizia, unita all’ordine dorico. È presumibile che due colonne con capitelli dorici (in arenaria stuccata), prive di funzione portante, decorassero il prospetto del sacello, terminato superiormente dalla cornice a gola egizia. Questo amalgama greco-egizio di stili architettonici, proprio dell’ecclettismo cartaginese, è bene attestato non solo in area metropolitana ma anche nell’ambito dell’”impero marittimo” di Cartagine e segnatamente in Sardegna, dove lo riscontriamo nel grande tempio delle semicolonne doriche di Tharros e, particolarmente, nei prospetti di sacelli raffigurati nelle stele del tofet. A questo tempio si devono attribuire i numerosissimi votivi, consistenti in statuette ed eccezionalmente nella rappresentazione del tempio di Antas, fissati su piccole basi con iscrizioni puniche, anelli, chiodi con la testa rivestita di lamina aurea, foglie di diadema aureo, lance in ferro (considerate a torto obeloi dall’Esposito[150]).

Il dio principale del tempio, attestato dalle iscrizioni[151], è Sid, l’eponimo di Sidone[152].  Il Dio è qualificato normalmente come Adon Sid Addir Baby, ossia Signore Sid Potente Baby, ma in una epigrafe rinvenuta una ventina d’anni addietro è definito probabilmente ’b ossia “Padre” in semitico, un titolo che farebbe confluire tre diverse tradizioni. L’epiteto di pater dato a Sid consente un agevole parallelo, finora non tentato[153], fra Iolaos Pater e Sardus pater, consentendoci di accreditare l’ipotesi che Giovanna Sotgiu, Giulio Paulis, Giovanni Garbini e Ferruccio Barreca formularono a proposito dell’epiteto B’by di Sid, inteso come teonimo paleosardo, acquisito nella titolatura del dio semitico Sid e del dio romano Sardus Pater, qualificato Babi (?) nella prima linea del titulus dell’epistilio, con il significato di “padre venerabile”, “antenato”, “datore di vita” et similia[154].

Bisogna osservare che questa proposta è stata avversata da vari studiosi: in particolare F. Mazza ha visto in B’by nient’altro che l’omonimo genio egiziano (B3By) che sarebbe stato un qualificativo di Sid[155]. Lo stesso Sid è stato considerato un imprestito egiziano al mondo punico: a parte le genealogie biblica e classica che mettono in rapporto Sid sia con Sidone, sia con Aigyptos, per i fautori della origine egiziana di Sid hanno rilievo le dediche ad Antas di due statuette, una di Shadrafa, l’altra di Horon, due divinità egizie, allo stesso Sid. Inoltre Eduard Lipinski ha elaborato una teoria secondo la quale Sid non sarebbe altro che la resa semitica (fenicia) dell’egiziano dd, il pilastro identificato con Osiride, padre di Horo[156].

Queste interpretazioni, se hanno il merito di evidenziare, in filigrana, gli apporti culturali di matrice egiziana che si sovrappongono a Sid B’by di Antas, qualificandone i caratteri di taumaturgo[157], non riescono, d’altro canto, a negare le peculiarità di Sid, archegetes di Sidone e dei Sidoni-fenici, il cui culto a Cartagine e a Gaulos (Gozo, nell’arcipelago maltese) è documentato da templi, noti dalla documentazione epigrafica nelle forme composte di Sidmelqart (forse figlio di Melqart-Herakles) e di SidTanit[158].

Importante è la constatazione, acquisita negli scavi nel 1995-97, di una distruzione volontaria dei doni votivi del tempio di Sid-B’by, riportata alla rivolta dei mercenari del 240-238 a.C. (Enrico Acquaro[159], seguito da Paolo Bernardini[160]) o ai cristiani (Giovanni Garbini) [161]. La prima interpretazione è di gran lunga la più verosimile, sia per il quadro storico generale sulla rivolta dei mercenari filoromana e antipunica, che portò all’eccidio dei cartaginesi residenti in Sardegna, sia perché così può spiegarsi la presenza di votivi, anche di valore elevato, nel riempimento della gradinata del tempio romano.

La distruzione effettuata dai mercenari non significò in ogni caso la fine del culto che proseguì pienamente in età romana, in particolare durante il secondo triumvirato e poi in età severiana.

Il simulacro di culto potrebbe essere caratterizzato da una figura stante, ammantata, barbuta, coronata da una tiara di penne, come documenta sia la testina enea di Decimoputzu, di artigianato sardo della prima età del ferro, sia la figurina in bronzo di Gesturi, da taluno riportata ancora ad età tardo punica, e considerata simile all’iconografia di Ba’al Hammon di Thinissut[162], sia, infine, il diritto del citato asse di Sard(us) Pater, battuto da Ottaviano in memoria del nonno M. Atius Balbus[163]. La iconografia del copricapo di penne, analogo a quello dei Nasamoni africani[164], rimanda a quella che Pettazzoni chiamava la <<connessione etnica sardo-africana>>[165]: tutti elementi che confermano l’ipotesi di Ignazio Didu che ritiene che il mito derivi certamente da fonti pre-sallustiane[166].

In età tardo repubblicana, forse già nel corso del tardo II secolo a.C. (Giuseppina Manca di Mores) o in un periodo più tardo, eventualmente sotto Ottaviano (per il quale si dovrebbe comunque pensare ad una fase di restauri), fu ricostruito il santuario in forme romano-italiche, con lunga scalinata, dotata al centro dell’altare, e tempio tetrastilo di ordine ionico, con pronao, cella e adyton (il sancta sanctorum) bipartito[167].

L’adyton bipartito si presenta preceduto in ciascun ambiente da una vaschetta dotata di gradini, già attribuita a funzioni lustrali, oggi considerata tardo antica e ricondotta alla rifunzionalizzazione del monumento a scopo produttivo[168]. Enrico Acquaro aveva potuto notare le interferenze culturali puniche nel tempio romano, ad esempio nell’uso del cubito punico di m 0,46 per i blocchi in calcare della costruzione, benché non possa escludersi l’utilizzo del sesquipes romano di m 0,45. Più rilevante per le scelte architettoniche del tempio romano è l’adyton bipartito, per il quale recentemente Dolores Tomei ha richiamato esempi di Solunto e Oumm el ‘Amed (Hammon, presso Tiro)[169]. L’adyton probabilmente era dedicato alle statue di Sardus e di Hercules, collocate nella rispettiva cella, anche se gli ultimi studi di Giuseppina Manca di Mores confermano l’associazione con altre divinità (una femminile) rappresentate nelle terrecotte figurate collocate nel timpano[170]. Naturalmente sullo sfondo rimane l’ipotesi che dietro le fattezze di Ercole possa nascondersi Caracalla, secondo una “moda” avviata da Commodo negli ultimi anni di vita, che proprio nelle miniere di Metalla era intervenuto nel 192 (poco prima di essere ucciso per iniziativa della concubina Marcia). Sarebbe suggestivo pensare che il progetto della ricostruzione del tempio del Sardus Pater figlio di Eracle si debba attribuire inizialmente proprio a Commodo-Eracle. Ma nessun elemento confermerebbe questa ipotesi, così come è da escludere la rappresentazione di Giulia Domna (magari assimilata a Caelestis o alla Ninfa Cirene madre di Aristeo) tra le terrecotte architettoniche figurate del timpano, che si sono rivelate ben più antiche.

Il pronao, profondo m 6,60 (22 piedi) ha quattro colonne sul prospetto e due sui lati. Le colonne centrali hanno un intercolumnio di m 3 (10 piedi), mentre le colonne laterali presentano in rapporto a quelle centrali un intercolumnio di m 2,4 (8 piedi). Il diametro della colonna è alla base di m 0,95 (circa 3 piedi e 2 unciae). Le colonne, in calcare locale, composte da rocchi a fusto liscio per una altezza ricostruita di m 8, hanno basi attiche [diametro m 0,95, altezza m 0,45 (= piedi 1,5)] e capitelli ionici. Questi ultimi, dovuti a maestranze che lavoravano in loco, si distaccano dalla forma canonica per la mancanza dell’abaco e del canale delle volute; inoltre insolita importanza viene attribuita alle frecce del kyma ionico, grandi quanto gli ovoli; mentre il sommoscapo, lavorato in pezzo unico col capitello, presenta un profilo “concavo”[171].

In questa prima fase romana (II metà II sec. a.C. o età di Ottaviano) il tempio venne rivestito di lastre fittili con grifi retrospicienti e Arpia, con il frontone decorato dalla storia di Hercules e Sardus: come desumiamo dalla ricostruzione proposta dalla Manca di Mores, il coronamento fu dato da figure maschili e femminili nascenti da cespo di acanto, mentre le sime laterali sono dotate di gocciolatoi a protome leonina[172].

L’antico tempio, frequentato da tutte le comunità della Sardinia unite nella devozione verso il padre Hercules e il figlio Sardus, fu restaurato sotto Caracalla tra il 213 e il 217 d.C., pienamente frequentato e utilizzato ben oltre la pace costantiniana, fino al trionfo del cristianesimo nel IV secolo: i contenuti del culto continuano ad apparire ancora legati alla sfera medica, salutifera e soteriologica[173], che nel passaggio dal paganesimo al cristianesimo finiscono per sovrapporsi nell’isola con culti di tipo magico-religioso e la divinazione mantica (un aspetto questo che sembra originariamente connesso con il culto di Herakles-Sardus)[174].

Una problematica prosecuzione in parallelo del culto di Sid presente ancora in età medio e tardo imperiale è stata sostenuta in base a due elementi: nel centro di Sulci di origine fenicia, Giovanna Sotgiu ha infatti proposto di riconoscere nel signum Sidon(ius) di un magistrato cittadino del III secolo d.C., C. Caelius C. f(ilius) Magnus, la probabile testimonianza di una devozione personale a Sid[175]. Infine, tra le ultime attestazioni si deve ricordare l’enigmatico anello di Antas, con l’invocazione a Sid, che Paolo Benito Serra interpreta in realtà come di realizzazione cristiana[176].

Infine, in conclusione, si deve rilevare che le ultime monete gettate nel tesoro del tempio sono piccoli spiccioli in bronzo che la pietà della religiosità popolare del tempo legò al santuario al termine del IV secolo. Da allora in poi Hercules e il figlio Sardus si ritirarono nell’empireo della mitologia, fino alla riscoperta degli archeologi.


* Ringrazio Giuseppina Manca di Mores, Paola Ruggeri e Raimondo Zucca per l’ampia collaborazione. Ringrazio inoltre Mario Atzori, Maria Bastiana Cocco, Alberto Gavini, Antonio Ibba, Pier Giorgio Floris, Claudio Lo Curto, Giuseppina Manca di Mores, Maria Grazia Melis, Tonino Oppes, Marilena Sechi. Massimo Casagrande ha raccolto per noi la documentazione archivistica presso la Soprintendenza archeologica di Cagliari. I risultati preliminari della ricerca sono stati presentati al Workshop Archeologia, bioarcheologia e beni culturali: rapporto tra ricerca e sviluppo del territorio, Stintino 13 settembre 2013, promosso da Salvatore Rubino ed Esmeralda Ughi che ringrazio. Un grazie anche agli amici della Società cooperativa Start-Uno che cura il sito di Antas.

[1] CIL I,22 2226 e a.1986 add. III = X 7856 = ILS 1874 = ILLRP I, 41= IG XIV 608 = IGR I 511 = CIS I,1 143 = ICO Neop. 9.

[3] Cfr. lo scolio al Timeo platonico, 25 b, ed. Greene, p. 287.

[4] Ptol., Geogr. III, 3, 4.

[6] Il titolo di patér compare attribuito ad Iolao in DIOD. IV, 30, 3 e V, 15,6; questa divinità, citata nel giuramento di Annibale dopo Canne (POL. VII, 9, 2), è forse connessa con la denominazione della capitale della Mauretania Iol, che Giuba II ribatezzò Caesarea in onore di Augusto.

[8] Moltissime le dediche Herculi Augusto pro salute di Caracalla in area pannonica, nel corso della spedizione contro gli Alamanni, vd. solo a titolo esemplificativo CIL III 10333 = RIU 1492 = AE 2009, 1086 a Székesfehérvár, in Pannonia inferiore. Le dediche proseguono negli anni successivi, vd. ad esempio AE 2008, 1146 = AE 1990, 805, Aquincum-Budapest, una dedica He[rculi Augusto] effettuata per la salvezza e l’incolumità di Caracalla (che compare col cognomen Severus) e di sua madre Giulia Domna: templum Herculis [vetust(ate) conlaps(um) restituit] a fundamentis adie[cto – 22 c. ] Cattio Sabino I[I et Cornelio Anullino coss.] (anno 216).

[9] . Vd. A. Mastino, Antonino Magno, la cittadinanza e l’impero universale, in La nozione di “Romano” tra cittadinanza e universalità (Da Roma alla terza Roma, Studi, 2), ESI, Roma 1984, pp. 559-563; Id., Orbis, kosmos,, oikoumene: aspetti spaziali dell’idea di impero universale da Augusto a Teodosio, in Popoli e spazio romano tra diritto e profezia (Da Roma alla terza Roma, Studi, 3), ESI, Roma 1984, pp. 91 ss.; Id., Magnus nella titolatura degli imperatori romani, “Archivio giuridico Filippo Serafini”, CCXXVII, III, 2007, pp. 397 ss., anche in Il titolo di “Magno” dalla Repubblica all’Impero al Papato, Giovanni Paolo Magno, I Quaderni dell’”Archivio Giuridico”, 2, a cura di M. Baccari e A. Mastino, Mucchi editore Modena 2010, pp. 16 ss.

[10] Refutat. omn. Haeres., IX,12 (ed. P. Wendland, p. 248); vd. R. Turtas, Storia della Chiesa in Sardegna dalle origini al Duemila, Roma 1999, pp. 31 ss.

[11] Penserei al procuratore imperiale responsabile delle miniere e non all’anonimo governatore provinciale come proposto da D. Faoro, Praefectus, procurator, praeses. Genesi delle cariche presidiali equestri nell’alto Impero Romano, Firenze 2011, p. 309 nr. 12, anche se l’autorità del prefetto provinciale sembra esercitarsi sull’area mineraria, come testimonia proprio la dedica relativa ai restauri del tempio nell’età di Caracalla.

[12] AE 1998, 671 = 2001, 1112 = 2002, 265 = 2007, 685 = 2019, 618 (Fordongianus).

[13] Vd. Y. Le Bohec, Notes sur les mines de Sardaigne à l’époque romaine, in Sardinia antiqua, Studi in onore di Piero Meloni in occasione del suo settantesimo compleanno, Cagliari 1992, pp. 255 ss.

[14] Id., La Sardaigne et l’armée romaine sous le Haut-Empire, Sassari 1990, pp. 97 ss.

[15] Vd. A. Mastino (con la collaborazione di N. Benseddik, A. Beschaouch, G. Di Vita-Evrard, M. Khanoussi, R. Rebuffat), I Severi nel Nord Africa, in Atti XI Congresso Internazionale di Epigrafia Greca e Latina, Roma, 18-24 settembre 1997, Roma 1999, pp. 359 ss.

[16] Vd. ora le osservazioni di G. Manca Di Mores in questo volume e già in A. Sanna, Archeologia, Dai resti di Antas riemerge l’immagine del Sardus Pater, “La Nuova Sardegna”, 31 luglio 2013. Vd. anche G. Manca di Mores, Il paesaggio come identità del potere: la valle di Antas e la decorazione architettonica fittile del tempio. Osservazioni preliminari, in “L’Africa romana”, XIX,  Carocci, Roma 2012, pp. 1727-1738; Ead., in Meixis: dinamiche di stratificazione culturale nella periferia greca e romana: atti del convegno internazionale di studi Il sacro e il profano, Cagliari, Cittadella dei musei, 5-7 maggio 2011, Cagliari 2012.

[17] Vd. G. Ugas, G. Lucia, Primi scavi nel sepolcreto nuragico di Antas, in Atti Convegno La Sardegna nel Mediterraneo fra il secondo e il primo millennio a.C., Selargius-Cagliari 1986, Cagliari 1987, pp. 255 ss. Un commento è in P. Bernardini, Necropoli della Prima età del ferro in Sardegna. Una riflessione su alcuni secoli perduti o, meglio, perduti di vista, Tharros Felix 4, Roma 2011, pp. 354 ss. (sulle necropoli nuragiche con tombe a pozzetto). Vd. ora O. Fonzo, E. Pacciani, Gli inumati nella necropoli di Mont’e Prama, in Le sculture di Mont’e Prama, Contesto, scavi e materiali, a cura di M. Minoja e A. Usai, Gangemi, Roma 2014, pp. 175 ss.

[18] Progetto di ricerca di base dal titolo “Nuove tecnologie applicate alla ricerca epigrafica: rilievo e restituzione grafica, analisi testuale e prosopografica di una selezione delle iscrizioni della Sardegna antica” avviato dal Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione grazie ai fondi della Regione Autonoma della Sardegna (L. R. 7/2007): si è avviato l’utilizzo di un laser scanner brandeggiabile di precisione, il modello “HandyScan Revscan” della società canadese Creaform, per la creazione di modelli tridimensionali delle iscrizioni. Si tratta di uno strumento definito convenzionalmente di “terza generazione”, non vincolato stabilmente durante la scansione e utilizzabile quindi a mano libera, Il sistema è composto da una parte hardware, che trasmette i dati effettivi ad una potente workstation e da una parte software che utilizza le informazioni per calcolare la forma dell’oggetto sottoposto a scansione. Nel corso del progetto sono state rilevate 100 iscrizioni della Sardegna romana, privilegiando le testimonianze di complessa lettura e quelle di grande rilevanza per la storia dell’isola, conservate sia nei depositi della Soprintendenza per i Beni Archeologici sia nei musei statali. L’attenta osservazione della copia virtuale, spesso già nella fase di acquisizione dei dati, ha consentito in molti casi di integrare la lettura dei testi, di correggere alcune trascrizioni proposte in passato, di cogliere dettagli non visibili o difficilmente apprezzabili ad occhio nudo e di raccogliere una serie di informazioni sui supporti e sulle fasi di reimpiego, agevolando notevolmente l’analisi, l’interpretazione e la catalogazione delle iscrizioni. La scansione laser restituisce una rappresentazione tridimensionale oggettiva e completa, durevole nel tempo e sottoponibile in qualsiasi momento a nuove interrogazioni, ruotabile e osservabile da diverse prospettive nello spazio 3D, facilmente trasferibile, duplicabile all’infinito e interrogabile in qualsiasi momento anche da utenti diversi. Vd. S. Ganga, A. Gavini, M. Sechi, in c.d.s.

 

[19] AA.VV., Ricerche puniche ad Antas. Rapporto preliminare delle campagne di scavi 1967 e 1968, Università di Roma, Roma 1969.

[20] G. Sotgiu, Le iscrizioni latine del tempio del Sardus Pater ad Antas, in “Studi Sardi”, XXI, 1968-70, pp. 7-20 = AE 1971, 119 = Ead., L’epigrafia latina in Sardegna dopo il CIL X e l’EE VIII, ANRW, Berlin-New York, 2, 11, 1, 1988, (= ELSard.), p. 583 B13= AE 1992, 867. Vd. già CIL X 7539.

[21] ASAC. Ringrazio Massimo Casagrande e Marilena Sechi per le preziose informazioni (viva voce).

[22] D. Tomei, Gli edifici sacri della Sardegna romana: problemi di lettura e di interpretazione, Ortacesus 2008, pp. 35 ss.

[23] Per tutti: P. Meloni, La Sardegna romana, Ilisso, Nuoro 2012, pp. 362 ss.; A. Mastino, I miti classici e l’isola felice, in Logos peri tes Sardous, Le fonti classiche e la Sardegna, a cura di Raimondo Zucca, Carocci, Roma 2004, pp. 11-26.

[24] R. Zucca, Il tempio di Antas (Sardegna archeologica, Guide e Itinerari, 11), Sassari 1989.

[25] A. Mastino, Le titolature di Caracalla e Geta attraverso le iscrizioni (Indici), Studi di storia antica 5, CLUEB, Bologna 1981, pp. 38 s. e specialmente pp. 95 s.

[26] Così quasi tutti gli autori, sulla base di H. Mattingly, E.A. Sydenham, The Roman Imperial Coinage, IV, 1, Londra 1962, p. 84; Ph. V. Hill, The Coinage of Septimius Severus and his Family of the Mint of Rome, A.D. 193-217, Londra 1964, p. 7.

[27] Sulla data, vd. A. Mastino, L’erasione del nome di Geta dalle iscrizioni nel quadro della propaganda politica alla corte di Caracalla, “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, Univ. Cagliari”, II = XXXIX, 1978-79 (1981), pp. 47 ss.

[28] A. Mastino, Le titolature cit., pp. 78 s.

[29] A. Degrassi, Aurellius, “Athenaeum”, IX, 1921, pp. 292-299, con le osservazioni di Mastino, Le titolature cit., pp. 33 s.

[30] V. Marotta, La cittadinanza romana in età imperiale (secoli I-III d.C.). Una sintesi, Roma

2011, passim. Vd. ora A. Mastino Consitutio Antoniniana: la politica della cittadinanza di un imperatore africano, “Bullettino dell’Istituto di Diritto romano Vittorio Scialoja”, CVII, 2013, pp. 37 ss.

[31] Sulla malattia di Caracalla, cfr. DIO CASS. 77, 15, 6-7. In proposito, vd. M. Euzennat, Une dédicace volubilitaine à l’Apollon de Claros, «AntAfr», X, 1976, pp. 63-68, che sposterebbe al 213 l’emanazione dell’editto di Caracalla. Vd. anche M. Le Glay, Les religions de l’Afrique romaine au IIe siècle d’après Apulée et les inscriptions, in “L’Africa Romana”, I, Sassari 1984,  p. 51.

[32] AE 1929, 156 = ILSard. I 42.

[33] Cfr. M.G. Granino Cecere, Apollo in due iscrizioni di Gabii, 2, Ancora una dedica a tutte le divinità «secundum interpretationem Clarii Apollinis», in Decima miscellanea greca e romana, Roma 1986, pp. 281 ss.

[34] CIL VII 633 = ILS 3250 = RIB I 1579; vd. E. Birley, Cohors I Tungrorum and the Oracle of the Clarian Apollo, «Chiron», IV, 1974, pp. 511-513.

[35] CIL III 2880 = ILS 3250 a.

[36] IAMar., lat. 84, cfr. A. Mastino, La ricerca epigrafica in Marocco (1973-1986), in “L’Africa Romana”, IV, Torchietto, Sassari 1987, p. 369.

[37] R. Thouvenot, Un oracle de l’Apollon Claros à Volubilis, «Bulletin d’archéologie marocaine», VIII, 1968-72, pp. 221-227 = AE 1976, 782 = IAMar., lat. 344.

[38] CIL VIII 8351.

[39] Per l’integrazione cfr. AE 1991, 909 da Forum Traiani relativa a M(arcus) Mat(—) Romulus v(ir) p(erfectissimus) p(rocurator?) S(ardiniae), dove potremmo ammettere anche la soluzione p(raefectus).

[40] Catalogo PETRAE delle iscrizioni latine della Sardegna, Versione preliminare, a cura di F. Porrà, con la collaborazione di C. Cazzona, P.G. Floris, D. Sanna, R. Sanna, E. Ughi, Cagliari 2002, p. 1075 nr. 892.

[41] Vd. R. Zucca, Additamenta epigraphica all’Amministrazione della Sardegna da Augusto all’invasione vandalica, in Varia epigraphica. Atti del Colloquio Internazionale di Epigrafia, Bertinoro, 8-10 giugno 2000, a cura di A. Angeli Bertinelli e A. Donati (Epigrafia e antichità, 17), Faenza 2001,p. 531 nr. 32 e n. 72.

[42] R. Zucca, Additamenta epigraphica cit., p. 531 nr. 32.

[43] D. Faoro, Praefectus, procurator, praeses cit., p. 316, nr. 24.

[44] Ibid., p. 316, n. 381, AE 1982, 758.

[45]M. Torelli, viva voce (Oristano 2013). Sul personaggio: M. Gaggotti, L. Sensi, Ascesa al senato e rapporti con i territori d’origine. Italia: Regio VI (Umbria), in Epigrafia e ordine senatorio II, Tituli, 5, 1982, p. 249 e n. 22. Sulla diffusione dei Coccei, vd. H. Zabehlicky, S. Zabehlicky, “Acta Musei Napocensis”, 39-40, 2002-3, pp. 19-23 (in particolare a proposito di AE 1999, 1251, terr. di Carnuntum).

[46] CIL VI 1440; PIR2 L 7; AE 1975, 835. Cfr. G. Seelentag, “Dem Staate zum Nutzen, Dem Herrscher zur Ehre” Senats gesandtschaften im Principat, “Hermes” 137, 2009, p. 360, n. 7.

[47] I confronti sono numerosi, vd. ad es. CIL III 10109, Brattia in Dalmatia (anno 211). Per la ricostruzione del tempio di Serapide e Iside Regina a Carnuntum, effettuata dopo il 213 dal governatore di Pannonia Superiore e per il ruolo dei militari, vd. ad es. AE 2000 1209: [templum vetustate conlapsum restituit P. Cornelius Anu]llinus leg(atus) leg(ionis) X[IIII G(eminae) M(artiae) V(ictrici) Antoninianae].

[48] A. Della Marmora, Voyage en Sardaigne de 1819 à 1825, Paris-Turin 1840, II, p. 522 ss. (= pp. 433 sg. e 478 nr. 31 bis della traduzione italiana di V. Martelli, Cagliari 1927).

[49] Elci nella traduzione italiana del La Marmora, p. 431.

[50] Della Marmora, Voyage en Sardaigne, Atlas tav. XXXVI, fig. 4; Sotgiu, Le iscrizioni cit., Tav. I, 1.

[51] Itinerario Antoniniano, p. 12 ed. Cuntz, vd. I. Didu, I centri abitati della Sardegna romana nell’Anonimo Ravennate e nella Tabula Peutingeriana, “Annali Facoltà Lettere Cagliari”, XL, 1980-81, pp. 203 ss. Per la strada si rimanda ad A. Mastino, Storia della Sardegna antica, Nuoro 2009 (2° ed.), pp. 379 ss., salvo le rrecenti rettifiche di R. Zucca, di cui alla nota successiva.

[52] Il quadro è ora notevolmente murato, perché Raimondo Zucca in questo volume può ora ricostruire un diverso tracciato per la strada, localizzando a Grugua in comune cdi Buggerru (le mitiche “Rovine di Gessa”) il centro di Metalla, Il Sardopatoros ieron, Metalla e le miniere dell’Iglesiente in Sardegna.

[53] M. Grant, From imperium to auctoritas cit., pp. 105 s.; M. Sollai, Le monete della Sardegna romana, cit., p. 64; A. M. Burnett, Roman Provincial Coinage, London 1992, n. 623. Vd. già G. Spano, Moneta coloniale di Metalla, “BAS”, IX, 1863, pp. 17 ss.

[54] V. Angius, in G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, VII, Torino 1839, pp. 696 s. s.v. Flumini-Majori.

[55] Ibid., p. 697.

[56] Ad es. G. Spano, Strade antiche della Sardegna, via Occidentale, “BAS”, II, 1856, pp. 17 ss.

[57] CIL X 7539.

[58] Deutsche Staatsbibliothek, Berlin, Nachlass Mommsen, Baudi Di Vesme, 9 aprile 1874.

[59] CIL X 7539 (a. 1883), vd. A. Mastino, Il viaggio di Theodor Mommsen e dei suoi collaboratori in Sardegna per il Corpus Inscriptionum Latinarum, in Theodor Mommsen e l’Italia, Atti dei Convegni Lincei, 207, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 2004, pp. 227-344

[60] DSB, Nl. Mommsen, Schmidt, Johannes, Bl. 28/29, zweiter Osterfeiertag 1881.

[61] Vd. CIL X 1382* e 1383* e 7653.

[62] E. Pais, Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio romano, riediz. a cura di A. Mastino, Ilisso, Nuoro 1999, II, p. 263 fig. 44.

[63] G. Sotgiu, Le iscrizioni latine del tempio del Sardus Pater ad Antas, in “Studi Sardi”, XXI, 1968-1970, pp. 8-15 = AE 1971, 119 =ELSard, p. 583, B 13.

[64] P. Meloni, Stato attuale dell’epigrafia latina in Sardegna e nuove acquisizioni, in Acta of the Fifth Epigraphic Congress Cambridge 1967, Oxford 1971, p. 244.

[65] Sotgiu, Le iscrizioni latine del tempio del Sardus Pater ad Antas, cit., pp. 15-20, 2, fotografia tav. 8; AE 1971, 120 e 1972, 227; ELSard. p. 583 B14; G. Sotgiu, La civiltà romana, l’epigrafia, in Il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, Sassari 1989, p. 223 foto fig. 4; Catalogo PETRAE delle iscrizioni latine della Sardegna, versione preliminare, cit., pp. 1075 s. nr. 893.

[66] F. Cenerini, Un nuovo servus regionarius da Sulci, in: Colons et colonies dans le monde romain, Études réunies par S. Demougin e J. Scheid, Coll. École française de Rome 456, Roma 2012, pp. 337 – 346.

[67] C. Bruun, Adlectus amicus consiliarius and a Freedman proc. metallorum et praediorum: news on Roman imperial Administration, «Phoenix», 55, 2001, pp. 343 ss., cfr. AE 1998, 671 = 2001, 1112 = 2002, 265 = 2007, 685 = 2019, 618. Vd. Anche W. Eck, Der Kaiser und seine Ratgeber. Überlegungen zum inneren Zusammenhang von amici, comites und consiliarii am römischen Kaiserhof, in Herrschaftsstrukturen und Herrschaftspraxis: Konzepte, Prinzipien und Strategien der Administration in römischen Kaiserreich: Akten der Tagung an der Universität Zürich, a cura di A. Kolb, Berlino 2006, pp. 67 ss.; D. Faoro, Praefectus, procurator, praeses, cit., p. 315 nr. 22, con bibliografia precedente.

[68] Vd. F. O. Hvidberg – Hansen, Osservazioni su Sardus Pater in Sardegna, Analecta Romana Instituti Danici, XX, 1992, pp. 7 ss. e infra n. 95.

[69] Sull’anello con possibile dedica a Sid cfr. R. Du Mesnil Du Buisson, Babi sur un bracelet d’Antas, in Nouvelles études sur les dieux et les mythes de Canaan (EPRO, 33), Leiden 1973, p. 229-240 fig. 140, p. 228; G. Sotgiu, Nuovi contributi dell’epigrafia latina alla conoscenza della Sardegna romana, AA VV, Stato attuale della ricerca storica in Sardegna, in “Archivio Storico Sardo” 32, 1982, pp. 103-104; ELSard. p. 606 sg. B 104 i. Per una interpretazione cristiana dell’anello cfr. P. B. Serra, Reperti tardoantichi e altomedievali della Nurra, Sassari 1986, pp. 19 ss., nota 41. Vd. anche S. Ribichini, P. Xella, La religione fenicia e punica in Italia, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1994, p. 89. Per una lettura differente, ISIDA, vd. E. Melis, Miti (antichi e moderni) sulla Sardegna: Sardus Pater, “Theologica & Historica, XXII, 2013, p. 317 n. 50.

[70] P. Bernardini, A. Ibba, comunicazione in Sacrum Nexum: alianza entre el poder politíco y la religión en el mundo romano, UNED Madrid, 11-12 dicembre 2014, in preparazione (non vidi).

[71] Vd. G. Tore, Religiosità semitica in Sardegna attraverso la documentazione archeologica: inventario preliminare, in Religiosità telogia e arte. La religiosità sarda attraverso l’arte dalla preistoria ad oggi, a cura di P. Marras, Cittàà Nuova editrice, Roma 1989, pp. 45 ss.

[72] P. Ruggeri, in A. Mastino, Storia della Sardegna antica cit., p. 408; A. Sanna, in La Grande enciclopedia della Sardegna, a cura di F. Floris, VIII, Sassari 2007, p. 374 s.,v. Sardo; P: Ruggeri, ibid., pp. 377 ss., s.v. Sardus Pater.

[73] R. Pettazzoni La religione primitiva di Sardegna, Piacenza 1912, pp. 204 ss.

[74] Vd. la II cohors II Sardorum, la cohors I Nurritanorum e la cohors VII Lusitanorum arrivata da Austis.

[75] A. Dupont Sommer, in A. Beschaouch, Saturne ou plutot une divinité afrieail1e

inconnue? A propos d’une stèle de la region de Thigniea (A in- Tounga) en Tunisie, in “AntAfr», XV m(1980), p. 132 (= AE 1980, 948); vd. anche A. Beschaouch H, (Une inscription latine inédite d’Ain Djemaln), in ((BCTH», n.s., XII-XIV, B (1976-78), pp. 232-233.

[76] Si tratta di una dedica effettuata in seguito ad un voto dal liberto (sidin) Iunius Primus.

Per le differenti ipotesi su questa divinità, cfr. A. Beschaouch, Saturne cit., pp. 125-134. Vd. A. Mastino, Le relazioni tra Africa e Sardegna in età romana, “Archivio Storico Sardo”, XXXVIII, 1995, pp. 67 ss.

[77] A. Della Marmora, Voyage en Sardaigne, II, cit., p.433, p. 478 n.31 bis, nella traduzione italiana di V. Martelli, Cagliari 1927. CIL X 7539, facsimile di H. Schmidt; L. Caboni, Culti e templi punici e romani in Sardegna, a.a. 1955-56, tesi di laurea discussa nell’Università dui Cagliari (AE 1971, 119); G. Sotgiu, Le iscrizioni latine del tempio del Sardus Pater ad Antas, “Studi Sardi”, 21, 1968-70, pp. 8-15, fotografie tavole 1-7; Ead., L’epigrafia latina in Sardegna cit., p. 583 B 13.

[78] Voyage cit., p. 526.

[79] Vd. A. Mastino, Fluminimaggiore, Tempio di Antas: iscrizione, in La Sardegna di Thomas Ashby. Paesaggi, Archeologia, Comunità, Fotografie 1906-1912, a cura di G. Manca di Mores, Carlo Delfino editore, Sassari 2014, pp. 272 s.nr. 147.

[80] Tolomeo III, 3, 2.

[81] Vd. P. Meloni, La Geografia della Sardegna in Tolomeo, in philías chárin, Miscellanea in onore di Eugenio Manni, Roma 1979, pp. 1542 e fig. 2; Id., La geografia della Sardegna in Tolomeo, “Nuovo Bullettino Archeologico Sardo”, III, pp. 207 ss.

[82] Anonimo Ravennate, Cosmographia, V, 26, p. 411, 6 PP, ed. J. Schnetz p. 102; Guidone, Geographica, 64, p. 499, 12-15 e 22 PP.

[83] Vd. I. Didu, I centri abitati della Sardegna romana cit., pp. 203 ss.

[84] I. F. Farae Opera, I, In chorographiam Sardiniae, Sassari 1992, pp. 92-93.

[85] Ph. Cluverius, Sardiniae antiquae tabula chorographica illustrata, Torino 1785, p. 21.

[86] G. Manno, Storia di Sardegna, I, Torino 1825, p. 296; vd. A. Mastino, La Sardegna dalle origini all’età vandalica nell’opera di Giuseppe Manno, “Studi Sardi”, XXXIV, 2009, pp. 271 ss.

[87] V. Angius, in G. Casalis, Dizionario cit., XIX bis, 1851, p. 464, s.v. Sardegna

[88] A. Lamarmora, Itinerario dell’isola di Sardegna, tradotto e compendiato dal Canon. G. SPANO, Cagliari 1868, p. 344.

[89] CIL X 8008.

[90] G. Spano, Lettera ad Alberto Della Marmora e sua risposta sopra un frammento di colonna miliaria, “BAS”, V, 1859, pp. 108 ss:, con la successiva risposta di A. Della Marmora, ibid., pp. 111 ss.

[91] G. Spano, Descrizione dell’antica Neapolis, “BAS”, V, 1859, p. 136. Sul sito, vd. G. Spano, Itinerario antico della Sardegna con carta topografica colle indicazioni delle strade, città, oppidi, isole e fiumi, Cagliari 1869, pp. 45 s.; Id., Memoria sopra l’antica cattedrale di Ottana e scoperte archeologiche fattesi nell’isola in tutto l’anno 1870, Cagliari 1870, p. 35.

[92] E. Pais, La Sardegna prima del dominio romano, Roma 1881, p. 335.

[93] C. Bellieni, La Sardegna e i Sardi nella civiltà del mondo antico, I-II, Cagliari 1928-31, vd. A. Mastino, P. Ruggeri, Camillo Bellieni e la Sardegna romana, in Sesuja Vintannos. Antologia della rivista a cura di Antonello Nasone in occasione del Ventennale della fondazione dell’Istituto di studi e ricerche Camillo Bellieni, Quaderni, 5, Sassari 2009, pp. 135 ss.

[94] A. Taramelli, Il tempio nuragico di S. Anastasia in Sardara (Cagliari), Monumenti antichi dei Lincei, XXV, 1918, cc. 16-17, n. 1.

[95] G. Pesce, Neapolis. Capo Frasca near Guspini (Sardinia, Cagliari), in Fasti Archaeologici, VI, 1, 1951 [1953], p. 356 s. nr. 4672.

[96] C. Albizzati, Sardus Pater, in AA.VV., Il convegno archeologico in Sardegna (giugno 1926), Reggio Emilia 1927, pp. 87 ss.

[97] C. Tronchetti, I Sardi. Traffici, relazioni, ideologie nella Sardegna arcaica, Milano 1988, p. 130.

[98] M. Pittau, Il Sardus Pater e i Guerrieri di Monte Prama, Sassari 2008.

[99] Vd. C. Cossu, G. Nieddu, Terme e ville extraurbane della Sardegna romana, S’Alvure, Oristano 1998, pp. 68-69 ; R. Zucca, Neapolis e il suo territorio, Oristano 1987, pp. 119 ss.

[100] G. Lilliu, Bronzetti nuragici di Terralba, in “Annali Fac. Lettere Cagliari”, XXI, 1953, I, pp. 80 ss. nr. 3.

[101] AA.VV., Ricerche puniche ad Antas, cit., Roma 1969; vd. F. Barreca, Il tempio di Antas e il culto del Sardus Pater, Iglesias 1975; S. Moscati, Tra Cartagine e Roma, Milano 1971, pp. 85 ss.; Id., Italia Punica, Milano 1986, pp. 283 ss.

[102] .Per le iscrizioni puniche, vd. M. Fantar, Antas, Les inscriptions, pp. 50 ss., I; p. 77 ss. VII-XIII; p. 87 s., XVIII. Vd. anche M. L. Uberti, A.M. Costa, Una dedica a Sid, “Epigraphica”, XLII, 1980, pp. 195 ss. Sulle iscrizioni puniche di Antas cfr. G. Garbini, Le iscrizioni puniche di Antas (Sardegna), “AION”, 29, 1969, pp. 317-331; Id., La testimonianza delle iscrizioni, in P. Bernardini, L. I. Manfredi, G. Garbini, Il santuario di Antas a Fluminimaggiore: nuovi dati, AA. VV., Phoinikes BSHRDN, Oristano 1997, p., pp. 110-113; 287-289; G. Garbini, Nuove epigrafi fenicie da Antas, “Rivista di studi fenici”, 25, 1997, pp. 59-67; Id., Nuove iscrizioni da Antas, “Rivista di studi punici”, I, 2000, pp. 115-122.

[103] Così già F. Barreca, La civiltà fenicio-punica in Sardegna, Sassari1986, pp. 171 ss. Vd. per tutti F. O. Hvidberg – Hansen, Osservazioni su Sardus Pater in Sardegna cit., pp. 7 ss.

[104] Fonti in R. Zucca, Sardos in Lexicon iconographicum mythologiae classicae, VII, 1, Zürich-München, 1990 [1994], pp. 692 – 694; Id., Sardos, figlio di Makeris, in Logos perì tes Sardous. Le fonti classiche e la Sardegna. Atti del Convegno di studi, Lanusei 29 dicembre 1998, a cura di R. Zucca, Carocci Roma 2004, pp. 86 ss.; vd. anche P. Meloni, La Sardegna romana, Ilisso, cit., pp. 362 ss. e G. Caputa, Il mito di Sardo e i suoi antecedenti, in La Sardegna e i miti classici: tradizioni mitografiche e leggende, Mostra fotografica e multimediale Olbia 13 dicembre 1996-6 gennaio 1997, pp. 14 ss.

[105] Le fonti classiche sono rappresentate da Pausania, X, 17, 1-2; 18, 1; Sallustio, Historiae, Maurenbrecher; Silio Italico, Punicae, XII, 359-60; Solino, Rerum Memoriabilium Collectanea, IV, 1 ed. Mommsen; Marziano Cappella, De nuptiis Philologiae et Mercurii, VI, 645; Isidoro, Origines, XIV, 6, 39; Eustazio, Parekbolari, ad v. 458, in Müller, GGM, II, p. 304; Scholia a Dionisio Periegeta 458, in Müller, GGM, II, p. 304; Paolo Diacono, Historia Langobardorumn, II, 22; Stefano di Bisanzio, Ethnika 556; Procopio, aed. 6,7; Goth. 4, 24, 38.

[106] Paus. X, 17, 1-2.

[107] Paus. X, 17, 1 e 18,1; vd. Zucca, Lexicon cit., p. 693 nr. 3.

[108] G. Colonna, Nuove prospettive sulla storia etrusca tra Alalia e Cuma, Atti del Secondo Congresso Internazionale Etrusco, Roma 1989, p. 370; Id., Doni di Etruschi e di altri barbari occidentali nei santuari panellenici, AA.VV., I grandi santuari della Grecia e l’Occidente, a cura di A. Mastrocinque, Trento 1993, pp. 59-60.

[109] M. Torelli, in questo volume.

[110] Livio, XXIII, 11.1-6.

[111] G. Daux, Pausanias à Delphes, Paris 1936, pp. 20 ss. Vd. C. Tronchetti, Sulla statua del Sardus Pater a Delfi, in I rapporti fra il mondo greco e la Sardegna: note sulle fonti, “Egitto e Vicino Oriente”, 9, 1986, pp. 121 ss.

 

[112] Silio Italico, Punica, XII, vv. 342 ss., vd. A. Mastino, Cornus e il Bellum Sardum di Hampsicora e Hostus, storia o mito ? Processo a Tito Livio, in Convegno internazionale di studi Il processo di romanizzazione della provincia Sardinia et Corsica, Cuglieri, 26 marzo 2015, in c.d.s.

[113] Polibio 1,4, 4, 67; Strabone 322; Dione Cassio 36,101.

[114] Paus. X, 13, 8. Fonti in C. Bonnet, Melqart, Cultes et mythes d’Héraklès Tyrien en Méditerranée, in Studia Phoenicia, VIII, Leuven 1988, p. 160, n. 87. Il viaggio dell’Herakles tirio a Delfi è narrato dal paremiografo Zenobio, sulla base di Clearco, forse il comico del IV sec. Clearco spiegando il proverbio << Questo è l’altro Herakles>> afferma che Herakles chiamato Briareo andò a Delfi, e prendendo qualcosa di prezioso che stava colà, secondo l’antico costume, si mosse verso le stele chiamate di Herakles ed ebbe il sopravvento sulle genti di quei luoghi. Tempo dopo si recò a Delfi anche l’Herakles tirio per interrogare l’oracolo: e il dio lo chiamò l’altro Herakles : e così si affermò il proverbio (Zenob. V, 48). Su Briareo-Herakles fino all’estremo Occidente cfr. M. Gras, La mémoire de Lixus. De la fondation de Lixus aux premiers rapports entre Grecs et Phéniciens en Afrique du Nord, AA.VV., Lixus. Actes du colloque organisé par l’Institut des sciences de l’archéologie et du patrimoine de Rabat avec le concours de l’École française de Rome, Roma 1992, pp. 27-43 passim

[115] I. Didu, I Greci e la Sardegna, il mito e la storia, Cagliari 2003, pp. 41 ss. Vd. anche G. Ugas, L’alba dei nuraghi, Fabula, Cagliari 2005. pp. 205 ss.

[116] Hdt. II, 43-44. Cfr. C. Grottanelli, Melqart e Sid fra Egitto, Libia e Sardegna, «Rivista di Studi Fenici», I, 1973, pp. 11-158; C. Bonnet, Melqart, cit., pp. 157-163, in particolare p. 161.

[117] Hdt. II, 112. Cfr. C. Bonnet, Melqart, cit., pp. 157-160. Cfr. Grottanelli, Melqart e Sid cit., pp. 11-158; C. Bonnet, Melqart, cit., pp. 157-163, in particolare p. 161 (fonti in C. Bonnet, Melqart, cit., p. 159, n. 83 ss.). L’Herakleion canopico deve, con grande probabilità, identificarsi con un tempio di Melqart eretto dai Fenici di Tiro, presenti a Menfi nella località detta “campo dei Tirii”, che accoglieva santuari fenici noti ad Erodoto (Hdt. II, 112). Cfr. C. Bonnet, Melqart, cit., pp. 157-160. Ne ricaviamo la probabile identità, seppure non ammessa esplicitamente da Erodoto (C. Bonnet, Melqart, cit., p. 160: «Hérodote ne le confonde pas avec l’Héraclès tyrien»), tra l’Herakles canopico o egizio e l’Herakles tirio. Tale identità è esplicitamente affermata da vari autori classici (C. Bonnet, Melqart, cit., p. 160) ed era presente comunque nella fonte di Pausania che è l’unico autore antico a darci il nome di questo dio egizio-libico, denominato appunto Makeris.

[118] C. Bonnet, Melqart, cit., p. 160.

[119]M. Guarducci, Gli alfabeti della Sicilia arcaica, «Kokalos», 10-11, 1964-65, pp. 481-4; C. Bonnet, Melqart, cit., p. 252, n. 30. D’altro canto la forma Bmqr per Bdmlqrt “il servo di Melqart” è attestata nell’antroponomastica punica di Sardegna (F. Barreca, La civiltà fenicia e punica in Sardegna, Sassari 1986, p. 198 (Sulci); C. Bonnet, Melqart, cit., p. 262, n. 69).

[120] *MKR o *MGR, attestata in Kabilia sotto la forma Maqqur, con il significato “Egli è grande”, negli antroponimi Makkur, (M)accurasan, Maccurasen (cfr. C. Bonnet, Melqart, cit., p. 252).

[121] Così Zucca, Sardos, figlio di Makeris cit., p. 94. Vd. D. Van Berchem, Sanctuaires d’Hercule-Melqart, contribution à l’étude de l’expansion phénicienne en Méditerranée, «Syria», 44, 1967, pp. 73-109; 307-338.

[122] Diod. IV, 29.

[123] Pettazzoni La religione primitiva di Sardegna cit.; C. Albizzati, Sardus Pater, cit.; U. Bianchi, Sardus Pater, AA VV, Atti del Convegno di studi religiosi sardi, Padova 1963, pp. 33-51; Id., Sardus Pater, “Rendiconti Lincei”, XVIII, 1963, pp. 97-112; Hvidberg – Hansen, Osservazioni su Sardus Pater in Sardegna, cit., pp. 7-30; Zucca, Sardos figlio di Makeris cit., pp. 86 ss.

[124] L’Herakles, padre di Sardos, appartiene alla serie degli altri Herakles, distinti dal figlio di Zeus e Alcmena; anch’egli avrebbe compiuto un viaggio a Delfi. Sugli altri Herakles fonti in C. Bonnet, Melqart, cit., p. 160, n. 87. Come si è detto Pausania denomina questo Herakles, Makeris, soggiungendo che si tratta della denominazione di Herakles secondo gli Aigyptìoi e i Libyes. Un Herakles egizio, considerato di natura divina e più antico dell’Herakles greco, di natura eroica, è documentato nel celebre passo delle Storie di Erodoto, che riferisce il suo viaggio a Tiro ed a Taso, Hdt. II, 43-4.

[125] In un altro passo della Periegesi Pausania tratta dettagliatamente del viaggio dell’Herakles egizio a Delfi, avvenuto in un tempo precedente la consultazione dell’oracolo da parte dell’Herakles tebano: <<Dicono i Delfi che ad Herakles, il figlio di Anfitrione, giunto per interrogare l’oracolo la Pizia Xenoclea non volesse dare il vaticinio, poiché Herakles aveva ucciso Ifito. Avendo Herakles sollevato il tripode lo scagliò fuori del tempio e allora la profetessa disse: «Dunque c’è un altro Herakles, quello di Tirinto, non quello di Canopo». Infatti, in precedenza l’Herakles egizio era giunto a Delfi. E allora il figlio di Anfitrione restituì il tripode ad Apollo e fu istruito da Xenoclea su quanto aveva bisogno di sapere. I poeti accogliendo questo racconto hanno cantato la battaglia di Herakles contro Apollo per il tripode>> (Paus. X, 13, 8). Si è già ricordato il viaggio dell’Herakles tirio a Delfi narrato dal paremiografo Zenobio, sulla base di Clearco (Zenob. V, 48).

[126] R. Zucca, Sardos, figlio di Maceride cit., pp. 90 ss. La mitografia greca conosceva due pellegrinaggi distinti a Delfi dell’Herakles egizio-fenicio e dell’Herakles tebano, nel corso dei quali il dio si pronunziò sull’esistenza di due Herakles. Nell’ambito della vita dell’Herakles tebano sono noti, tuttavia, tre episodi di consultazione dell’oracolo di Delfi, benché solo nelle prime due occasioni Herakles compì il viaggio sino a Delfi per ottenere il responso del dio, mentre nell’ultima occasione, essendo oppresso dal chitone intriso del sangue di Nesso, mandò a Delfi Licimnio e Iolao per chiedere ad Apollo che cosa si doveva fare per la malattia (Diod. IV, 38). Il primo rapporto tra l’eroe e Delfi avvenne nell’occasione in cui la Pizia lo chiamò per la prima volta Herakles, imponendogli le dodici fatiche agli ordini di Euristeo per diventare immortale (Diod. IV, 10). Nella Biblioteca di Apollodoro il viaggio a Delfi segue e non precede la follia ispiratagli da Era (Ps. Apoll. II, 4, 12).

[127] Diod. IV, 26.

[128] Diod. IV, 29.

[129] Diod. IV, 30, vd. A. Mastino, I miti classici e l’isola felice cit., pp. 11 ss.

[130] Diod. V, 15.

[131] Diod. IV, 32,

[132] Ps. Apoll. II, 6, 2 (130-131).

[133] Lasciando da parte la documentazione archeologica che attesta una cospicua presenza di athyrmata fenici o comunque orientali a Creta, Rodi, Cos, nell’isola di Eubea e in Attica, a partire dal X secolo a.C. (J. N. Coldstream, Greeks and Phoenicians in the Aegean, AA.VV., Phönizier im Westen, Mainz am Rhein 1982; A.M. Bisi, Ateliers phéniciens dans le monde égéen, Studia Phoenicia V, Leuven 1987, pp. 225-238; M. F. Baslez, Le rôle et la place des Phéniciens dans la vie économique des ports de l’Égée, Studia Phoenicia V, cit., pp. 265-285; J.W. Shaw, M.C. Shaw, Excavations at Kommos (Crete) during 1986-1992, “Hesperia”, 62, 1993, pp. 129-190, passim; A. Johnston, Pottery from Archaic Building Q at Kommos, “Hesperia”, 62, 1993, pp. 370 ss.) sono significative le tradizioni letterarie relative all’impianto di Fenici nel mondo greco. La più importante è quella relativa a Thasos, l’isola del mare Thracicum dirimpetto alla costa del Mons Pangaeus, ricchissimo di miniere, sfruttate dal fenicio Cadmo, che aveva fatto tappa in precedenza a Samotracia (Omero conosce Lemnos come scalo fenicio (Il. XXIII, 745). Cfr. C. Bonnet, Melqart, cit., p. 351, n. 745). I Fenici avrebbero impiantato a Tasos un Herakleion, il cui culto era rivolto all’Herakles Thasios, venerato anche a Tiro. In Ionia ad Erythrae, dirimpetto all’isola di Chios, vi era un Herakleion, consacrato non all’Herakles tebano, bensì all’Herakles dei Dactili Idaei, ugualmente adorato a Tiro, che conservava una statua egizia e la zattera del dio di Tiro, evidentemente Melqart (C. Bonnet, Melqart, cit., p. 383). Il medesimo culto all’Herakles dei Dactili Idaei, esplicitamente dichiarato il medesimo di Erythrae e di Tiro, era prestato, teste Pausania, nell’Herakleion di Thespiae, in Beozia (R. Martin, Introduction à l’étude du culte d’Hérakles en Sicile, Recherches sur les cultes grecs et l’Occident,1, Cahiers du Centre Jean Bérard, V, Naples 1979, p. 14).

[134] Paus. IX, 27, 6. Per i gemelli, vd. A. Mastino, Nota su Olbia arcaica: i gemelli dimenticati, in Ministero peri Beni e le attività culturali, Bollettino di archeologia online, volume speciale, XVII, www.beniculturali.it/bao, pp. 1-7. Corinne Bonnet nel commentare questo brano ha osservato che «l’idée d’une implantation de Melqart en Béotie ne pourrait trouver un écho que dans la connexion établie entre Cadmos et Thébes» (C. Bonnet, Melqart, cit., p. 381). L’osservazione è di grande valore tenuto conto che Cadmos appare legato almeno a Thasos all’impianto del culto di Melqart. Raimondo Zucca ha osservato che <<la Beozia ci appare sin da fase geometrica estremamente dinamica in correlazione con la vicina isola Eubea, così da non farci rifiutare aprioristicamente la notizia erodotea relativa all’introduzione dell’alfabeto fenicio proprio in questa regione>>, cfr. Hdt. V, 58. Osserviamo in filigrana nei racconti mitografici relativi all’Herakles tirio in Beozia e al suo viaggio a Delfi la connessione tra i Phoinikes e gli Eubei storicamente documentata in Oriente e in Occidente tra IX e VIII secolo a.C. Questa liaison è stata autorevolmente affermata da Laura Breglia Pulci Doria in riferimento all’apoikia dei Tespiadi, figli di Herakles, in Sardegna (L. Breglia Pulci Doria, La Sardegna arcaica tra tradizioni euboiche ed attiche, cit., pp. 61 ss.).

[135] Vd. Mastino, Le relazioni tra Africa e Sardegna cit., pp. 13 ss.

[136] Didu, La cronologia della moneta di M. Azio Balbo, cit., pp. 107 ss. Vd. P. Bernardini, Il culto del Sardus Pater ad Antas e i culti a divinità salutari e soteriologiche, in Insulae Christi, Il Cristianesimo primitivo in Sardegna, Corsica e Baleari, a cura di P.G. Spanu, Oristano 2002, p. 24.

[137] Vd. Mastino, Cornus e il Bellum Sardum di Hampsicora e Hostus cit, in c.d.s. Eccessiva però appare la posizione di E. Melis, Miti (antichi e moderni) cit., pp. 309 ss., per il quale la figura del Sardus Pater potrebbe esser stata <<“inventata” nel I secolo a.C., sulla base probabilmente dei racconti su Iolao, da cui Sardus eredita l’epiteto cultuale. Il motivo della sua nascita è da ricercare nei rapporti tra Cesare e la Sardegna – il “predio di Cesare”, come la definisce Cicerone – e all’interno di un processo di riforma religiosa finalizzata al recupero dei culti epicori di cui Cesare e la sua cerchia si fecero promotori>>. Per il ruolo di Cesare, colpito dalla orazione Pro Sardis pronunciata alla fine del II secolo dallo zio Cesare Strabone, vd. B.R. Motzo, Cesare e la Sardegna, in Sardegna Romana, I, Roma 1936, pp. 23 ss.

[138] F. Fois, I ponti romani in Sardegna, Sassari 1964, pp. 117 ss. tavv. 120 s., con rettifica della pianta del La Marmora.

[139] G. Lilliu, Sculture della Sardegna nuragica, Cagliari 1966, pp. 175-176, nr. 50: <<Statuetta di devoto, alt. res. 16 cm, Museo Archeologico Nazionale di Sassari, già Collezione Dessì (Cat. Taramelli, 133; Cat. Lilliu, 254/1901). Provenienza: Fluminimaggiore (Cagliari), loc. Antas. La figurina sta frontalmente in atto di devozione. La mano destra è alzata a pregare, la sinistra protesa a reggere un’offerta che non si può precisare, in quanto il braccio è rotto sotto il gomito. Sul capo una papalina della foggia portata dai nn. 4-10, 24-25. Avvolge il corpo una doppia tunica con maniche corte a mezzo braccio, scendente sino alle cosce che restano nude come le gambe; l’elemento superiore della veste mostra una breve frangia a taccheggiature verticali sul contorno. Di traverso al petto, aderisce il solito pugnale ad elsa a “gamma”, sospeso alla larga bandoliera a tracolla sull’omero destro e legato ad una sottile striscia che gira sulla spalla sinistra e ricade sul dorso. Costruzione, modellato, espressione della testa e del collo, di accentuata stilizzazione longilinea, ripetono, da vicino, le caratteristiche del n. 4; ma i lineamenti sono più morbidi e sfumati; la superficie ancora più tersa. Spezzati il braccio sinistro e le gambe alle caviglie>>. Vedi G. Lilliu, “Studi Sardi”, VIII, 1948, p. 17, nota 47; G. Stacul, Arte della Sardegna nuragica, Milano 1961, p. 106, fig. 68.

[140] G. Lilliu, Antichità paleocristiane del Sulcis, in “Nuovo Bullettino Archeologico Sardo”, I, 1984, pp. 283-300.

[141] E. Acquaro, Una faretrina votiva da Antas, «Oriens Antiquus», 8, 1969, pp. 127 -129.

[142] F. Barreca, Recenti scoperte in Sardegna, “Rivista di studi fenici”, XIII, 1985, pp. 266-267; Idem, Sardegna nuragica e mondo fenicio-punico: Sardegna preistorica. Nuraghi a Milano, Milano, 1985, p. 134; G. Ugas, Le tombe a pozzetto T1-T3: Primi scavi nel sepolcreto nuragico di Antas, AA. VV., La Sardegna nel Mediterraneo tra il secondo e il primo millennio a.C., Cagliari 1987, pp. 255-61, 276, tav. V; P. Bernardini in P. Bernardini, M. Botto, I bronzi “fenici” della Penisola Italiana e della Sardegna, cit., pp. 40, 44, 46-47).

[143] A. Bedini, C. Tronchetti, L’heroon di Monte Prama, in A. Bedini, C. Tronchetti, G. Ugas, R. Zucca, I giganti di pietra. Monte Prama. L’Heroon che cambia la storia della Sardegna e del Mediterraneo, Cagliari 2012, p. 19; G. Ugas, I reperti ceramici dello scavo Bedini, ibid., p. 265.

[144] G. Ugas, I reperti ceramici dello scavo Bedini, cit., p. 267.

[145] P. Bernardini, Necropoli della Prima età del ferro in Sardegna, cit., Roma 2011, p. 355.

[146] Spillone a capocchia fusa con il gambo; capocchia corta ad estremità emisferica allungata e collo sottolineato da doppia modanatura, appartenente ad una tipologia diffusa in ambito sardo (tipo A2 di M. Milletti, Cimeli d’identità, tra Etruria e Sardegna nella prima età del ferro, Officina Etruscologia-6, Roma 2012, p. 56, tav. XV, 4).

[147] P. Bernardini, Segni potenti: la scrittura nella Sardegna protostorica, in E. Solinas et Alii, Verba Latina. L’epigrafe di Bau Tellas, Senorbì 2010, pp. 32-5; P. Bernardini in P. Bernardini, M. Botto, I bronzi “fenici” della Penisola Italiana e della Sardegna, Rivista di Studi Fenici, XXXVIII, 1, 2010, pp. 57, 60, fig. 25; P. Bernardini, Necropoli della Prima età del ferro in Sardegna, cit., pp. 351-386; P. Bernardini, Elementi di scrittura nella Sardegna protostorica, AA. VV., L’epigrafe di Marcus Arrecinus Helius. Esegesi di un reperto: i plurali di una singolare iscrizione, a cura di A. Forci, Senorbì 2011, pp. 19-20, fig. 4 (iscrizione probabilmente sarda in alfabeto fenicio); G. Ugas, I reperti ceramici dello scavo Bedini, cit., p. 268 (iscrizione sarda in alfabeto euboico); P. Bartoloni, In margine a uno spillone con iscrizione da Antas, Sardinia, Corsica et Baleares antiquae, 9, 2011, pp. 27-29 (esclude il codice scrittorio fenicio); R. Zucca, La rotta fra la Sardegna, la Corsica e Populonia, La Corsica e Populonia. Atti del XXVIII Convegno di Studi Etruschi ed Italici (Bastia – Aléria – Piombino – Populonia, 25-29 ottobre 2011), Roma 2014, p. 345 (codice scrittorio probabilmente cipro sillabico). Ulteriori tombe a pozzetto con deposizione di bronzi fra cui una «faretrina» sono state individuate negli scavi di Paolo Bernardini nel 2004-2005 (P. Bernardini, Necropoli della Prima età del ferro in Sardegna, cit., p. 370; L. Deriu, Le “faretrine” nuragiche. Contributo allo studio delle rotte fra Sardegna ed Etruria, AA. VV., Naves plenis velis euntes (Tharros Felix-3), Roma 2009, pp. 157-8, nr. 27). Problematica è l’ascrizione a corredo tombale piuttosto che ad un santuario-heroon degli altri bronzi nuragici individuati ad Antas (un orante, un arto di statuina, una spada miniaturistica ad antenne ed una ulteriore faretrina). Cfr. G. Lilliu, Sculture della Sardegna nuragica, cit., nr. 50; E. Acquaro, Una faretrina votiva da Antas, cit., pp. 127 -129; G. Lilliu, La grande statuaria nella Sardegna nuragica, cit., p. 315, n. 145; L. Deriu, Le “faretrine” nuragiche, cit., p. 156, nr. 26.

[148] Acquaro, Una faretrina votiva da Antas, cit., pp. 127 ss.

[149] M. A. Minutola, Originali greci provenienti dal tempio di Antas, in “Dialoghi di Archeologia”, IX-X, 1976-1977, pp.399-438.

[150] R. Esposito, Il tempio punico-romano di Antas: qualche considerazione, “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari”, XVII, 1999, pp. 111-120.

[151] M. Fantar, Les inscriptions, AA VV, Ricerche puniche ad Antas, Roma 1969, cit., pp. 47 -93; G. Garbini, Le iscrizioni puniche di Antas (Sardegna), “Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli,” 29, 1969, pp. 317-331; M. L. Uberti, Horon ad Antas e Astarte a Mozia, “Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli”, 38, 1978, pp. 315-319; M. L. Uberti, A. M. Costa, Una dedica a Sid, “Epigraphica”, 42, 1980, pp. 195 ss.; G. Garbini, Il santuario di Antas a Fluminimaggiore: nuovi dati. Le testimonianze delle iscrizioni, AA. VV., Phoinikes B SHRDN , Cagliari 1997, pp. 112-113; Id. Nuove epigrafí fenicie da Antas, cit., pp. 59-67.

[152] M. G. Guzzo Amadasi, Note sul dio Sid, in AA VV, Ricerche puniche ad Antas, cit., pp. 95ss.; M. Sznycer, Note sur le dieu Sid et le dieu Horon d’après les nouvelles inscriptions puniques d’Antas (Sardaigne), “Karthago” 15, 1969, pp. 67 ss.; J. Ferron, Le dieu des inscriptions d’Antas (Sardaigne), “Studi Sardi”, 22, 1973, pp. 269-289; C. Grottanelli, Melqart e Sid fra Egitto, Libia e Sardegna, Rivista di Studi Fenici, 1, 1973, pp. 153 ss.; F. Barreca, Il tempio di Antas e il culto di Sardus Pater, s.l. 1975; J. Ferron, Sid : état actuel des connaissances, Le Muséon, 89, fasc. 3-4, 1976, p. 425-440 (= Scripta varia, p. 219-225).

[153] Poco convincenti le osservazioni in proposito di E. Melis, Miti (antichi e moderni) cit., pp. 309 ss., che ritiene che <<la figura del Sardus Pater>> sia stata <<”inventata” nel I sec. a.C., sulla base probabilmente dei racconti su Iolao, da cui Sardus>> avrebbe ereditato l’epiteto.

[154] Tutto in G. Sotgiu, Le iscrizioni latine cit., pp. 7 ss. In realtà il titolo di Pater non sembra esser mai attribuito al Sardos delle fonti greche, vd. Melis, Miti (antichi e moderni) sulla Sardegna cit., pp. 309-324.

[155] F. Mazza, B’BY nelle iscrizioni di. Antas, cit., pp. 47-56.

[156] E. Lipiński, Le pilier Djed et le dieu Sid (Orientis Antiqui miscellanea 1), Roma 1994, pp. 61-74; Id., Dieux et déesses de l’univers phénicien et punique, Orientalia Lovaniensia, Leuven 1995, p. 324.

[157] M. Sznycer, Note sur le dieu Sid cit., pp. 67 ss.; G. Garbati, Sid ‘guaritore’ ad Antas: la mediazione di Horon e Shadrapha, Quaderni della Soprintendenza Archeologica per le Province di Cagliari e Oristano, 17, 2000, pp. 115-121.

[158] G. Garbati, Note sulle coppie divine Sid-Melqart e Sid-Tanit, Egitto e Vicino Oriente, 22-23,1999-2000, pp. 167-177; Id., Sid e Melqart tra Antas e Olbia, “Rivista di Studi Fenici”, 27, 1999, pp. 151-166; G. Minunno, Considerazioni sul culto ad Antas, “Egitto e Vicino Oriente”, 28, 2005, pp. 269-285.

[159]E. Acquaro, Cartagine nel Mediterraneo Occidentale: “Sardi” mercenari e Cartaginesi in Sardegna, in La colonización fenicia en el sur de la Península Ibérica. 100 años de investigación. Actas del Seminario, Almería 1992, pp. 143-150; Id., Prolegomeni punici, “AnnOrNap”, 53, 1993, pp. 96-101; Id., Note di archeologia punica: per una rilettura del mercenariato a Cartagine, M. A. Querol, T. Chapa (edd.), Homenaje al Professor Manuel Fernández Miranda (= Complutum Extra, 6), Madrid 1996, pp. 385-388.

[160] P. Bernardini, Le indagini sul sito, in Bernardini, Manfredi, Garbini, Il santuario di Antas a Fluminimaggiore, cit., p. 106.

[161] G. Garbini, La testimonianza delle iscrizioni, in Bernardini, Manfredi, Garbini, Il santuario di Antas, cit., p. 111.

[162] A. Roobaert, Sardus pater ou Baal Hammon? Á propos d’un bronze de Genoni (Sardaigne): C. Bonnet, E. Lipinski, P. Marchetti (eds.), Religio Phoenicia. Acta Colloquii Namurcensis habiti diebus 14 et 15 mensis Decembris anni 1984 (= Studia Phoenicia, 4), Namur 1986, pp. 333-45.

[163] Didu, La cronologia della moneta di M. Azio Balbo cit., pp. 107 ss.

[164] Dione Crisostomo, Orat. 72 Dindorf, II, p. 247, vd. Pettazzoni, La religione primitiva in Sardegna, cit., p. 164. .

[165] R. Pettazzoni La religione primitiva cit., p. 168.

[166] I. Didu, I Greci e la Sardegna, il mito e la storia, Cagliari 2003, pp. 66 ss.

[167] Vd. già R. Zucca, Il Sardopátoros ierón e la sua decorazione fittile, in Carbonia e il Sulcis. Archeologia e territorio, Oristano 1995, pp. 315 ss., vd. A, Mastino, Presentazione del volume: Carbonia e il Sulcis. archeologia e territorio, Oristano 1995, Cagliari, 6 giugno 1996, in Quaderni Soprintendenza archeologica per le province di Cagliari e Oristano, 14, 1997, pp. 189 ss.

[168] G. Rocco, M. Livadiotti, in questo volume.

[169] D. Tomei, Gli edifici sacri della Sardegna romana cit., pp. 35-41.

[170] Manca di Mores, La valle di Antas e la decorazione architettonica fittile del tempio, cit., pp. 1727-1738.

[171] S. Angiolillo, Bronzi votivi di età romana provenienti da Antas, in Carbonia e il Sulcis cit., pp. 327 ss.

[172] R. Zucca, Il Sardopátoros ieron e la sua decorazione fittile, in Carbonia e il Sulcis cit., pp. 315 ss.; Esposito, Il tempio punico-romano di Antas cit., pp. 111-120; Manca di Mores, La valle di Antas e la decorazione architettonica fittile del tempio, cit., pp. 1727-1738.

[173] Vd. D. Rigato, Gli dei che guariscono: Asclepio e gli altri, Pàtron, Bologna 2013.

[174] Vd. A. Mastino, T. Pinna, Negromanzia, divinazione, malefici nel passaggio tra paganesimo e cristianesimo in Sardegna: gli strani amici del preside Flavio Massimino, in Epigrafia romana in Sardegna. Atti del I Convegno di studio, Sant’Antioco, 14-15 luglio 2007 (Incontri insulari, I), a cura di F. Cenerini e P. Ruggeri, Carocci Roma 2008, pp. 41 ss.

[175] G. Sotgiu, Un devoto di Sid nella Sulci romana imperiale ? (Rilettura di un’iscrizione: ILSard 3), “Epigraphica” 44, 1982, pp. 17 ss. Vd. già M. Bonello, Nuove proposte di lettura di alcune iscrizioni latine della Sardegna, “Annali Facoltà Lettere Cagliari”, XL, 1980-81, pp. 179 ss.

[176] ELSard. p. 606 sg. B 104 i. Per una interpretazione cristiana dell’anello cfr. P. B. Serra, Reperti tardoantichi e altomedievali della Nurra, Sassari 1986, pp. 19, 41.




Caravaggio e i Carvaggeschi, la pittura di realtà, mostra a cura di Vittorio Sgarbi e Antonio D’Amico.

Attilio Mastino
Il mio Caravaggio
Caravaggio e i Carvaggeschi, la pittura di realtà
, mostra a cura di Vittorio Sgarbi e Antonio D’Amico
Sassari, 30 giugno 2015

Penso che solo la mia incoscienza possa giustificare il fatto di aver accettato di scrivere queste pagine, ripensando a distanza di un anno le linee del dibattito al quale avevo partecipato come Rettore dell’Università di Sassari l’8 aprile 2014, al Liceo Azuni, assieme al giovane storico dell’Arte Costantino D’Orazio, al Preside Massimo Sechi, a Mario Matteo Tola, attorno al volume dedicato a Caravaggio segreto. Un’opera pubblicata da Sperling & Kupfer, che si concentrava in particolare sui misteri nascosti nei grandi capolavori di Caravaggio.

Misteri che suscitano emozioni e un innamoramento che si è consolidato dopo la visita alla splendida mostra svoltasi alle Scuderie del Quirinale tra il 20 febbraio e il 13 giugno di cinque anni fa, nel 2010, raccontata ora nel bel volume Caravaggio a cura di Claudio Strinati, che ogni tanto sono solito sfogliare. Ricordo che potei partecipare a quell’evento memorabile, imbrogliando un poco con la tessera di giornalista e riuscendo a superare d’un balzo un’interminabile fila che costringeva ad attese di ore, il tempo che non avrei mai avuto.

Ma certo quella mostra rispondeva a una domanda profonda che continuavo a farmi, da quando a Malta avevo visitato con il Presidente dell’ISPROOM Giovanni Nonne, quasi vent’anni anni fa, l’oratorio barocco di San Giovanni Battista dei Cavalieri a La Valletta: con la rappresentazione, quasi fosse una scena teatrale, della Decollazione del Battista che davanti al carcere si sottopone di buon grado alla volontà del boia. Una scena tanto simile ma tanto diversa dalla decapitazione del generale Oloferne per mano di Giuditta a Betulia, davanti a una vecchia copiata pari pari da Leonardo.

Ho incontrato Caravaggio tante altre volte, come al Louvre, oppure a Siracusa nella chiesa di Santa Lucia presso le catacombe cristiane oppure a Roma presso la sede della Conferenza dei Rettori al Pantheon, visitando la chiesa di San Luigi dei francesi, con la Cappella Contarelli che presenta le tre tele dedicate a San Matteo: in particolare, di traverso sulla destra, la scena del martirio, del santo assistito dagli angeli: con tanti incredibili ripensamenti; e, anche, sulla sinistra la scena della vocazione e della chiamata di Matteo da parte di un Cristo che gli indica col braccio perentoriamente di lasciare il tavolo dei doganieri che lavoravano per i Romani e di seguirlo, abbandonando le monete con l’effigie di Cesare. Infine, sull’altare, la scrittura del Vangelo, con un San Matteo assistito da un angelo meno invadente di quello (maschio o femmina ?) del dipinto della Gemäldegalerie di Berlino, nell’isola dei Musei, andato perduto nel 1945 perché distrutto nel corso dell’offensiva sovietica verso la cancelleria del Reich.

Infine, nell’ottobre 2009 ebbi la fortuna di visitare la mostra su Caravaggio allestita al Museo del Guercino di Cento, dove si svolsero i lavori del nostro primo Convegno su Roma e le province danubiane, tenuto a Ferrara e a Cento per iniziativa di Livio Zerbini, in occasione dell’esposizione dell’armatura perduta dalla Colchide Georgiana, che doveva aprire un’emozionante finestra sul mondo mitico degli Argonauti e sugli eserciti ellenistici sulle orme di Alessandro e di Pompeo Magno. In questi giorni ho ricevuto il bel volume degli Atti di quell’incontro, pubblicati da Rubbettino, e vedo che avevo concluso il convegno con una frase che la dice lunga sull’emozione provata allora davanti alle opere di Caravaggio, in particolare il quadro dei Bari del Kimbell Art Museum nel Texas, con il ragazzo che estrae le carte truccate da una tasca segreta: <<Cari amici, siamo rimasti incantati ieri mattina a Cento di fronte al quadro del Caravaggio dedicato ai Bari: qui nessuno ha barato né ha giocato a carte. Vi siete confrontati con passione sui temi centrali anche per noi uomini d’oggi, quello delle integrazioni e delle intersezioni culturali. Soprattutto avete tentato di spalancare le porte, di mettere in contatto due mondi che fino a qualche anno fa apparivano non comunicanti>>.

Quello di mettere in comunicazione mondi non comunicanti, comunque mondi diversi, mi sembra sia il senso profondo della lezione del Caravaggio: innanzi tutto il mondo antico con il mondo moderno, se il Narciso di Palazzo Barberini, il ragazzo del mito greco, indossa vesti barocche contemporanee così come i protagonisti della Vocazione di Matteo o come i militari del Martirio di Sant’Orsola che indossano corazze spagnole o i soldati che accompagnano Giuda il traditore al momento del bacio sul Monte degli ulivi. Costumi che vogliono mettere in relazione diretta i fedeli contemporanei con il senso fresco della novità del primo cristianesimo.

Antico e moderno si mischiano, se la Maddalena penitente è veramente la nota cortigiana Anna Bianchini così come la Madonna dei pellegrini potrebbe essere la prostituta Lena romana o Maddalena Antognetti la donna di Michelangelo; infine se la Madonna dei Palafrenieri è anch’essa una prostituta proveniente dall’Ortaccio vicino a Palazzo Madama.

E viceversa la scena moderna del Ragazzo morso da un ramarro o quella, teatrale, dei Musici accompagnati sulla scena da un ragazzo che indossa le ali di un angelo, sono come ambientate nel mondo antico, con i costumi di scena che hanno il sapore classico che attraversa le barriere del tempo. C’è in realtà un andare e un venire nella storia anche nello stesso quadro della chiamata di Matteo, con Gesù che spunta direttamente fuori dall’antichità con le sue vesti tanto diverse da quelle barocche indossate da Matteo e dai suoi compagni corrotti che appartengono al tempo presente, che chiede una conversione profonda; come se la chiamata di Cristo riguardasse tutti noi, i fedeli che visitavano per il Giubileo la chiesa di San Luigi. Un andare e venire attraverso il tempo e attraverso lo spazio, come stupendamente nel San Giovanni Batista ragazzo che accarezza l’agnello, o meglio il montone, di sapore michelangiolesco. Oppure le ambiguità sul sesso degli angeli, ancora con un vago ricordo leonardesco.

Si incontrano nelle tele di Caravaggio tante storie diverse, tante suggestioni della Roma post tridentina, dei tempi della controriforma, tante paure concluse nel drammatico autoritratto dell’artista, rappresentato con la testa mozzata nella scena dolente di Davide e Golia: una testa che fuoriesce dal buio terrificante della notte, con Caravaggio-Golia che sente arrivare la morte.

Nelle sue tele si sente il senso di una vita vissuta pericolosamente a Roma, come a Napoli, a Malta, a Siracusa; c’è il senso profondo di una pittura che ha decisamente influenzato il nostro modo di leggere la Bibbia e i Vangeli e di guardare all’antico: Soprattutto c’era da parte di Caravaggio la capacità prensile di leggere la realtà e insieme di immaginare un mondo nuovo con una fantasia che incanta.

Una vita difficile e disordinata, anche se si avverte qua e là la protezione di Costanza Sforza Colonna marchesa di Caravaggio, dei grandi mecenati già alla bottega di Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d’Arpino, i Borghese, il gran Maestro dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme Alof de Vignacurt, i cardinali a iniziare da Francesco Maria del Monte, i Papi dopo Sisto V, perfino il monsignor Insalata, che lo aveva inizialmente accolto a Roma, nutrendolo solo di verdure.

E poi i nemici acerrimi, come quel Ranuccio Tommassoni, il capo del rione del Campo Marzio, che Caravaggio avrebbe ucciso nel 1606. Tra i nemici anche gli Accademici di San Luca, troppo fedeli ai modelli e alla Maniera.

Tante storie si incontrano intorno al Giubileo del 1600 voluto per rinnovare la Chiesa da Clemente VIII (1592-1605), poi sostituito da Paolo V Borghese.

E a proposito del suo autoritratto, lo si ritrova nudo nudo in uno dei Quattro Elementi del Casino Buoncompagni Ludovisi a Porta Pinciana, con gli dei che raffigurano la Terra, l’Aria, il Fuoco, l’Acqua e uno di loro possiede apparentemente le sembianze del Maestro. Le ambiguità di un artista che recita il Cantico dei Cantici e che osserva e giudica severamente la Chiesa del suo tempo non ancora pienamente riformata.

Non so se suona attendibile il misterioso foglietto che racconta la sua morte, che sarebbe avvenuta il 18 luglio 1609 a Porto Ercole sul Ponte Argentario, ma i luoghi hanno un significato e non possono non essere accostati al viaggio di Rutilio Namaziano lungo il litorale etrusco, raccontato nel De reditu nello spaventoso day after, dopo il sacco di Roma di Alarico: le isole dell’arcipelago toscano abitate dai monaci che si erano rifugiati nelle grotte per sfuggire all’avanzata dei Goti. Gente che per il terrore della miseria era diventata volontariamente miserabile. Come in passato Circe trasforma i corpi dei compagni di Ulisse in maiali, così ora il cristianesimo rendeva mostruosi e deformava gli animi dei fedeli: tunc mutabantur corpora, nunc animi. E allora la maledizione, il risentimento dei pagani verso i cristiani: atque utinam numquam Iudaea sublata fuisset, mai la Giudea con Gerusalemme fosse stata conquistata sotto il comando di Pompeo o l’impero di Tito. Espressioni che sono quanto mai lontane dalla comprensione di un fenomeno, lo sviluppo dell’esperienza monastica, che invece rappresentò un momento di straordinaria fioritura culturale e di profonda spiritualità.

In questa disperazione di Caravaggio che sente l’odore della morte dopo vent’anni di impegno matto e disperatissimo, in questi luoghi desolati e solitari, in questa sua fuga senza tregua, in questo suo giudizio sulla chiesa dei suoi tempi, credo ci sia forte anche il senso dir una rinascita e di una speranza di vita.

Questo il Caravaggio che ho incontrato nella mia vita, ma mai ho provato l’emozione di vederlo nella mia terra, in una Sardegna tanto distante e lontana. Adesso il suo volto giovane, sotto forma di atterrita Medusa impaurita dalla morte e dal dolore, lo si potrà vedere a Sassari. Questa mostra non solo ci mette davanti allo sguardo di Caravaggio ma apre un percorso avvincente, con molti artisti che si sono lasciati influenzare dal suo linguaggio naturalista, consegnandoci una stagione artistica di grande fermento e di straordinari capolavori che oggi rivivono davanti ai nostri occhi.

Caravaggio e i suoi seguaci ci guardano e noi ci lasceremo incantare con stupore e un po’ di incoscienza.




Ricordo di Giovanni Del Rio Sindia, 26 giugno 2015.

Attilio Mastino
Ricordo di Giovanni Del Rio
Sindia, 26 giugno 2015

Ricordare Giovanni Del Rio a sei mesi dalla scomparsa per me può essere un rischio, perché  significa assumere un punto di osservazione forse troppo limitato e personale, renderebbe obbligata una riflessione anche critica e non agiografica non tanto sul personaggio quanto sulla compagnia che in qualche caso l’accompagnava, richiederebbe un distacco che ammetto di non avere per il debito di riconoscenza, per  il forte legame con  mio padre, con i luoghi che amo, ripensando al sole e al mare di Porto Alabe. Non si può ricordare Giovanni Del Rio senza ritornare alla misteriosa Sindia di mons. Giuseppe Masia (1938-87), il paese ricco delle tante memorie cistercensi, che stanno sullo sfondo di una formazione, di una passione, di una fedeltà che non ha avuto tradimenti, fino agli ultimi giorni, nonostante i tanti dolori come la morte della prima moglie Cicita nel 1985 o il sequestro di Ernesto Pisanu nella tenuta di Bara nel giugno 1984 o le tante delusioni umane.

Percepivamo, anche nello scontro che ebbe con la dirigenza RAI per le trasmissioni regionali, nei duri contrasti dentro il suo partito, più tardi nella breve e generosa guerra con Andreotti, una sua identità profonda popolare, democratica, antifascista, fortemente radicata e addirittura inflessibile, che riscoprivo ogni volta che ci chiamava con le motivazioni più diverse, magari solo perché voleva farci sapere che continuava a seguirci passo passo oppure più di recente ogni volta che c’incontravamo con la signora Geltrude in un bar di Piazza IV Novembre a Bosa, fino agli ultimi tempi, ormai quasi novantenne, con la cordialità, l’attenzione e la lucidità di sempre. Un signore sempre più distaccato dalla politica, ma profondamente inserito nel nostro ambiente, nelle nostre amicizie, in varie associazioni, perfino nel nostro paesaggio.

Allora innanzi tutto questa Sindia dove Del Rio era nato il 12 maggio 1925 da Michele e che non avrebbe mai dimenticato, un paese così misteriosamente simile alla Domomentis del romanzo di Salvatore Sechi,  La stazione dei sogni,  perché anche Del Rio coltivava dentro di sé fin da ragazzo un mito originale, quello di un Medioevo giudicale animato dalle colonizzazioni dei monaci, delle grandi abbazie collegate tra loro in una grande rete, al di là del mare ed al di là dei confini degli stati nazionali: quello della suggestione dei riti religiosi che ipnotizzano e che conducono alla verità.

Da qui bisogna partire per spiegare questa profondissima  e oggi inusuale vocazione religiosa di Del Rio, alimentata dagli studi presso i salesiani di Lanusei e di Cagliari, ma che in realtà era il suo vero modo di vivere anche se m’immagino la politica lo abbia ripetutamente messo di fronte a scelte difficili e a compromessi imbarazzanti. Vocazione che si è rafforzata con inaspettata coerenza negli ultimi anni quando l’ho visto recitare il rosario nella chiesa parrocchiale di Sindia tra centinaia di donne devote alle reliquie raccolte dal parroco. Lo faceva anche le poche volte che saliva su un aereo. Mons. Masia aveva costruito la colonia estiva di Nigolosu nella pineta di Magomadas, dove ci recavamo a messa la domenica, guardando sbigottiti i bizzarri contenitori sanitari utilizzati per conservare i frammenti degli intonaci staccati sbrigativamente da tanti santuari mariani nel mondo. Come lo spavento che provai in una stanza buia della casa parrocchiale qui a Sindia, per la statua credo di Santa Daria stesa su un letto.

E’ stato Salvatore Sechi a descrivere il paese di Sindia negli anni 50, partendo dal suono delle campane per le feste come per la tosatura delle pecore sui piazzali di Corte, di San Giorgio, di San Demetrio, infine di San Pietro, questo microscopico gioiello romanico che ancora emoziona. Forse da qui derivava l’intolleranza di fronte all’ingiustizia ma anche la capacità di razionalizzare, di leggere e di giudicare con occhi moderni, di combattere i moralismi e le ipocrisie, di capire i drammi degli emigrati, i problemi dei pastori, l’arretratezza di un’isola che aspettava ora non più insonnolita un impegno nuovo da amministratori, capaci di realizzare obiettivi concretissimi, senza inseguire la polemica politica inutile, anzi cercando convergenze con tutti, in particolare con la sinistra. Da qui l’ammirazione per la saggezza dei vecchi, il fatalismo, la forza d’animo, l’orgoglio, la solidarietà tra conoscenti, tutti valori della tradizione sarda. E infine il giudizio severo per il modello sociale che andava affermandosi, ma sempre con rispetto per gli altri, anche per gli avversari che spesso apprezzava più degli amici, come Umberto Cardia, Mario Melis, Girolamo Sotgiu. Dalla stessa parte della barricata riuscì a raccogliere in tante occasioni tutti i partiti di centro e di sinistra, fino al PSIUP e al PCI, come ad esempio l’11 maggio 1967 durante la prima giunta Del Rio per la vivacissima discussione contro le destre sul colpo di stato militare in Grecia.

Vedevo in Del Rio, come nel protagonista del romanzo di Sechi, il dissidio quasi schizofrenico della Sardegna di allora tra un passato che continuava ad essere vitale e che continuava a pulsare violento nelle vene ed un presente, quello del villaggio globale, nel quale le culture egemoni minacciavano di soffocare e di omologare gli individui, di travolgere le identità, di eliminare la comunicazione e il dialogo. Sullo sfondo c’era l’ammirazione per il mondo dei pastori, la consapevolezza che la pastorizia sarda continuava a vivere in uno spazio eterno, dove il tempo si misurava in altro modo. Mi torna in  mente quella scena che ho vissuto a Tamuli di Macomer, quando Giovanni Lilliu riuscì ad evocare per noi studenti di Studi Sardi quasi per incanto un mondo antico, una dimensione parallela perduta, indicandoci la figura di un pastore che improvvisamente era apparso dal nulla, del tutto simile ad un personaggio dei tempi eroici protosardi: una figura, quella del pastore, che anche Del Rio osservava con grande simpatia e rispetto, perché era il testimone finale di una sapienza antica di un mondo che sentiva davvero suo.

Se dovessi raccogliere i tanti ricordi personali, dovrei parlare dell’arrivo del vescovo Francesco Spanedda a Bosa nel 1957, accolto da Del Rio Assessore regionale alla viabilità trasporti e turismo, dal sindaco Angelo Manca che aveva sostituito il vecchio Giuseppino Mannu, da mio padre, che si era occupato dei restauri del Seminario; l’impressione negativa per le condizioni spaventose della casa del vescovo nel Seminario della meridiana, la decisione di progettare un nuovo Episcopio in Viale Giovanni XXIII, alla vigilia della soppressione della diocesi. E poi le continue inondazioni del fiume Temo, che avrebbero consigliato di costruire la diga di Monte Crispu, voluta da Del Rio, che avrebbe finito per risolvere il problema una volta per sempre. Una storia di successo. Tante altre idee, il restauro del Centro storico con il travaso da Sa Costa a Caria, l’edilizia economica e popolare, l’Ospedale di Macomer d’intesa con il Sindaco Salvatore Castagna grazie alla donazione Pitzus, l’accorata difesa della Caserma Bechi Luserna, il progetto portato avanti dal Sindaco di Sindia Pietro Paolo Pisanu per la realizzazione della diga sul Rio Mannu, con un originale sistema idraulico che dopo 50 anni vedo continua ad essere indicato come fondamentale nei documenti dell’autorità di bacino della Sardegna e dell’Agenzia del distretto idrografico, intorno al nuraghe Moresa. Ricordo che il sindaco Pisanu ne aveva parlato – già vecchissimo perché era nato nel 1902 – in occasione della prima confusa assemblea del Comprensorio del Marghine e della Planargia che aveva presieduto come decano nel 1975, dopo il superamento delle aree omogenee, con la nascita dei 25 comprensori previsti dalla legge 33 del I agosto 1975 voluta da Del Rio. L’anno dopo Pietrino Soddu avrebbe istituto le Comunità Montane a seguito della legge del 6 settembre 1976 n. 45, mettendo insieme nelle giunte maggioranze e minoranze, comunisti, socialisti, democristiani.  Come dimenticare l’impegno per la nascita del Consorzio industriale di Macomer, poi la Tirsotex, l’industrializzazione di Ottana, le infrastrutture fino al Tirso ?  E anche tante polemiche, come per la nascita della provincia di Oristano nel 1974, con l’esclusione di Bosa, Sindia e parte della Planargia.

Ma ovviamente mi rendo conto che il mio orizzonte in quella fase era davvero troppo limitato, anche se qualche volta Del Rio veniva alle mie iniziative diocesane o regionali della Gioventù italiana di Azione Cattolica o del Centro Sportivo Italiano: del resto la DC di quegli anni era molto vicina alla Chiesa, forse troppo. Oppure lo accompagnavamo nei comizi in Planargia, credo proprio nel 1974, quando mi rimane nettissima la sua immagine nel Largo Moretti a Tresnuraghes, con questa sua capacità di trascinare le folle ma anche la stanchezza, il caldo, la fatica, questo enorme fazzolettone bianco col quale si asciugava il sudore che continuava a colargli sugli occhi, mentre parlava per convincere il suo pubblico che la strada giusta era quella di una prospettiva politica di centro sinistra. Ci spostavamo poi subito in corteo davanti ad altre platee ugualmente interessate.  Ancora le mie visite a Porto Alabe, dove Giosué Ligios, Nino Carrus e Del Rio avevano costruito le loro case al mare, inizialmente isolati dal mondo, perfino privi di telefono, ma circondati da amici come Titino Burrai o il discusso segretario regionale della DC Tottoi Sanna di Suni. I fanfaniani di Bosa, pur in una dimensione locale vantavano origini illustri legate alla tradizione popolare del vecchio deputato Palmerio Delitala fondatore del PPI e della DC, l’avversario di Antonio Segni. Continui erano i rapporti con i fanfaniani di Macomer ad iniziare dal sempre presente Andrea Maninchedda spesso accompagnato dalla Preside Maria Roberta Calamida ai pranzi elettorali organizzati da Giommaria Urgu, Salvatore Deriu, Gino Tanda, Salvatore Milia. L’ostilità di Tilde Chelo, cossighiana dichiarata.

Tra le mie carte ho ritrovato un ciclostilato dell’aprile del 1971, ahimé 45 anni fa, in cui difendevo il sindaco Paolo Mereu, accusando insieme fanfaniani e forzanovisti, per il clima interno, per le lotte intestine che sfioravano il cannibalismo, trasferendosi dal piano politico al piano della cattiva educazione. La maggioranza non si era presentata in consiglio dandosi così in pasto ai frizzi della sinistra. Consideravo irresponsabili gli uni e gli altri,  ma l’attacco frontale era riservato ai tre consiglieri di Forze Nuove, colpevoli di aver inviato un commando nella sede della DC per rapire schede e bollini.  Intanto Bosa attraversava una crisi gravissima. E concludevo: <<non crediamo che i lavoratori e i giovani possano umanamente ancora tollerare che si continui a giocare sulla loro pelle>>.  In realtà erano anni fecondi, che facevano emergere un’azione politica democratica e progressista e, al di là della rissosità, testimoniavano l’anima popolare della DC.

Attraverso alcuni suoi contatti Del Rio riceveva in continuazione notizie, non sempre lusinghiere ma anzi affettuosamente malevole, sulla mia attività, anche perché – oggi mi rendo conto – non riuscivo esattamente inquadrabile all’interno della galassia delle correnti DC, allievo come ero di Giovanni Lilliu e corrispondente per il giornale Il Popolo Sardo dell’avversario nuorese Ariuccio Carta, fondatore di Forze Nuove. Ma anche per altri giornali, come Sardegnavanti, diretto da Filippo Birocchi e mons. Giuseppe Lepori, con la redazione in Via Logudoro a Cagliari.  Ne soffrivo, ma senza ragione, perché Del Rio come Nino Carrus – allora impegnato nella costruzione della Cantina Sociale di Flussio per la valorizzazione della Malvasia di Bosa – hanno continuato a seguirmi, se da Sottosegretario alla Pubblica Istruzione nel terzo governo Andreotti nel 1976, Del Rio mi aveva chiesto di raggiungerlo a Roma in Viale Trastevere per non so più quale impiccio bosano. Del resto sarebbe stato proprio lui a far registrare a tempo di record presso la Corte dei Conti nel 1982 il decreto della mia nomina a professore associato.

Virtù straordinaria di Giovanni Del Rio mi pare sia stato questo lungo e fedele sodalizio con Nino Carrus, consigliere regionale, deputato, professore universitario, soprattutto uomo politico e di cultura che ha contribuito a formare generazioni di giovani intorno al tema del confronto politico rispettoso per gli altri e della rinascita della Sardegna. Entrambi uomini pieni di sentimenti, di idee, di curiosità, che partivano da un piccolo paese – Sindia e Borore – ma  non avevano una visione provinciale del mondo perché si sentivano a tutti gli effetti protagonisti di una storia più grande. Più ancora di Del Rio, Carrus era interprete di quella feconda componente del mondo cattolico dossettiano più sensibile verso il sociale, più aperta verso la sinistra, più matura e desiderosa di dialogare e di trovare un consenso più ampio: e ciò gli derivava innanzi tutto dalla sua formazione e dalle sue origini, se tra le sue opere c’è una lettura non convenzionale di Antonio Gramsci. Nei libri scritti da Carrus c’è il tema dell’etica francescana, il ruolo in politica della sinistra cristiana, ci sono soprattutto i temi dell’autonomia della Sardegna, della programmazione, della rinascita, del federalismo, della cooperazione, degli interventi contro la criminalità, in generale dello sviluppo del Mezzogiorno. Temi che hanno fortemente pesato anche sulle posizioni forse solo apparentemente meno aperte di Del Rio, come testimonia il volume sui Discorsi politici di quest’ultimo, pubblicati con introduzione e note di Nino Carrus nel 1974. Dell’uno e dell’altro conservo ora un ricordo forte e positivo, pensandoli come punti di riferimento stabile nella mia vita e nella vita di tanti altri giovani non più giovani della Sardegna centrale, che credo coincida con l’idea che di loro hanno ancora oggi persino gli avversari politici.

Proprio dal libro dei Discorsi politici emergono i temi della drammatica recrudescenza dei fenomeni del banditismo, in maniera profetica se dieci anni dopo il 3 giugno 1984, Ernesto, il cognato di Del Rio, sarebbe stato catturato dai banditi. Ho trovato molto lucida l’analisi fatta da Francesco Soddu nell’introduzione al recente volume di Salvatore Mura per Franco Angeli, Pianificare la modernizzazione, Istituzioni e classe politica in Sardegna 1959-1969, dove si ammette – forse a denti stretti – che rispetto a quello di Dettori il programma di Del Rio metteva al centro più decisamente il problema delle zone interne;  Ariuccio Carta avrebbe accusato Del Rio di badare solo al suo feudo elettorale, ma come segretario regionale sarebbe stato proprio lui a sostenerlo come presidente della Giunta. Al di là delle alleanze tattiche, la DC finiva per raggiungere al suo interno, specie nel Nuorese, forti intese operative. Salvatore Mura del resto ammette che Del Rio era <<un autentico cattolico di sinistra, e perciò antifascista e antiliberista>>. Dunque  le grandi battaglie della contestazione contro il governo centrale, il confronto-scontro con lo Stato, la progettualità autonomistica, la nuova cultura di governo, la programmazione democratica dal basso che raccoglieva l’eredità sardista e antifascista, l’impegno per l’industrializzazione delle zone interne, la incredibile conoscenza dei dirigenti nazionali della miriade di Enti a partecipazione statale e il loro contributo alla battaglia per l’approvazione del disegno di legge 509 del 1972, i dibattiti in Consiglio Regionale sull’indagine sulle zone interne, il giudizio sui risultati della commissione parlamentare d’inchiesta. Alle spalle c’è l’idea profonda della solidarietà che la Repubblica deve garantire all’isola e che si era manifestato fin dagli anni 50 con la nascita della Cassa per il Mezzogiorno, allo scopo di predisporre programmi, finanziamenti ed esecuzione di opere straordinarie dirette al progresso economico e sociale dell’Italia meridionale, per superare gli svantaggi e colmare il divario con l’Italia settentrionale. Credo che possiamo considerare la Cassa per il Mezzogiorno il frutto più maturo e coerente di una grande intuizione solidaristica della Democrazia Cristiana e non solo, ispirata ai modelli nordamericani del New Deal.  L’orizzonte che si intravvede nei suoi scritti è enormemente complesso, ampio, pienamente maturo. Suscita rimpianti, come già per la riforma ancora mancata dello statuto sardo.

Discutendo con Manlio Brigaglia, naturalmente è emerso il fatto che Del Rio sarebbe stato coinvolto nel 1967 nella congiura giagu-cossighiana contro Paolo Dettori, che in qualche modo avrebbe fatto deragliare su altri binari la nuova Questione sarda. Sempre Brigaglia mi ha detto che Dettori non aveva risentimenti, perché nella sua bontà perdonava tutti. Dettori aveva presieduto la XII Giunta Regionale tra il 22 aprile 1966 e il I febbraio 1967, per un periodo breve ma luminoso. Un breve volo. La cacciata di Dettori è oggi considerato dagli storici un episodio ignominioso da dimenticare.

Forse è così, ma il libro dei Discorsi politici testimonia anche l’ammirazione che Giovanni Del Rio nutriva nei confronti di Dettori, che apparteneva con Pietrino alla corrente di morotei alleata di Forze Nuove di Nuoro, decisamente schierati contro i Fanfaniani: le dichiarazioni programmatiche della Giunta Del Rio il 7 marzo 1967, dove Soddu era assessore alla PI,  iniziano con queste frasi: <<Mi è di conforto l’ispirazione che ho tratto dalla testimonianza personale e dall’impegno politico del mio predecessore onorevole Paolo Dettori, al quale devo rendere un tributo di gratitudine non solo per il patrimonio di idee che mi ha consegnato, ma anche per l’esempio della sua opera di intelligente politico e di buon amministratore. La sua azione ha caratterizzato un importante momento del nostro impegno autonomistico e darà sicuramente risultati fecondi nella vita della nostra Regione>>.

Non mi sembra siano solo parole di circostanza e posso oggi testimoniare con tanti amici il rispetto che Del Rio ha sempre manifestato nei confronti di Dettori, inizialmente proposto lui stesso come Presidente della Giunta e poi, il 9 luglio 1968, eletto presidente del Consiglio regionale. Ma Del Rio era un combattente forse più coraggioso e meno prudente, più decisamente schierato per il centro sinistra organico contro le deboli correnti democristiane di destra, meno capace di trovare un compromesso interno e un accordo con i Socialdemocratici e Sardisti antichi alleati della DC. E il 2 febbraio 1967 era stato Dettori, indebolito dall’aventino sardista, a rinunciare alla Presidenza per motivi di carattere personale e familiare.  La replica dell’11 marzo 1967 dimostra la natura progressista del programma della coalizione di centrosinistra, contro <<una defatigante ricerca di mediazioni o contro le forme involutive di moderatismo, sordo allo svolgersi delle cose>>: <<la base popolare dei due partiti [la DC e il PSU] esige coraggio per andare avanti, per mettersi al passo con la realtà, per un impegno totale, nel quale crediamo e che non può essere oggetto di distorte interpretazioni>> .

Ma andiamo con ordine. Dal 1944 proprio qui a Sindia Giovanni Del Rio aveva presieduto a soli 19 anni d’età, il Comitato di concentrazione antifascista (come si chiamava in Sardegna l’organismo omologo del CLN). Questo forse spiega la virulenza dei suoi attacchi alla destra, che abbiamo ereditato tutti e di cui qualche volta mi sono pentito. A 23 anni Del Rio si laurea in Giurisprudenza a Sassari il 5 luglio 1948, con una tesi su “Regolamento giuridico dei rapporti tra gli Enti ecclesiastici e i loro dipendenti”, discussa con la prof.ssa Ginevra Zanetti. Nell’Archivio Storico dell’Università è conservata copia della tesi e il titolo delle due tesine discusse con Sergio Costa e Antonio Castiglia: una di esse trattava un tema davvero bizzarro, la suppurazione di un callo della mano, indennizzabile per un assistente di laboratorio. Era stato poi eletto a soli 28 anni consigliere regionale nella seconda legislatura nel 1953, confermato nel collegio nuorese per 5 legislature fino al 1976, quando si sarebbe candidato al Parlamento.  Era stato assessore al lavoro e artigianato nella Giunta Crespellani nel secondo semestre del 1953 quando la DC aveva ottenuto il 43% dei consensi. Confermato nelle giunte Corrias per un anno e mezzo, fino al 13 giugno 1955; aveva avuto la delega sulla viabilità, i trasporti e il turismo tra il 1957 e il 1958 nella giunta Brotzu, quindi i lavori pubblici nelle giunte Corrias per 5 anni dal 1958 fino al 1963, passando poi all’Agricoltura e foreste e di nuovo ai lavori pubblici ancora con Corrias fino al 1966. Sono gli anni dell’ingresso nel Consiglio Nazionale della DC a seguito del IX Congresso del settembre 1964. A due anni prima risaliva la legge 11 giugno 1962 n. 588, il Piano straordinario per favorire la rinascita economica e sociale della Sardegna, che inizialmente metteva in campo 400 miliardi di lire (da qui la LR 11 luglio 1962 n. 7). Sono gli anni delle battaglie per il centro sinistra, condotte inizialmente in solitudine, con solo 10 amici come nel novembre 1963, assieme proprio a Dettori, Pisanu e Soddu.

La prima Giunta presieduta da Giovanni Del Rio operò nella fase conclusiva della V legislatura tra l’11 marzo 1967 e il 14 giugno 1969, oltre due anni. Il 12 maggio 1967 si segnala la dura posizione assunta da Del Rio nel quadro della tensione con il Governo Moro a causa delle inadempienze clamorose – così scrive Carrus – in ordine agli impegni di intervento del Governo nell’isola dopo la legge sul piano di rinascita di quattro anni prima. La mozione unanime col “voto” al Parlamento rappresenta anche lo sforzo per una risposta nuova della politica regionale alla grave crisi che la Sardegna subiva in quegli anni, e il primo tentativo di definire uno sviluppo economico diverso da quello dei primi anni del piano di rinascita. Il 6 luglio il Consiglio regionale approvava un ordine del giorno unitario col quale si deliberava di promuovere una giornata regionale di azione rivendicativa: commenta Carrus che era <<un momento di particolare tensione che avrà il suo culmine nel rifiuto della RAI di trasmettere il messaggio ai Sardi del Presidente della Regione>>.  Sarà stato certo così, ma ho un lontanissimo ricordo, il duro intervento del Presidente Del Rio nella televisione di Stato, credo attraverso Badde Urbara, che mi aveva colpito per questo fortissimo accento sardo-sindiese di cui mi vergognavo e che di persona non ero mai riuscito a cogliere.

Il 14 luglio Del Rio interveniva in Consiglio Regionale per suggerire interventi per il ristabilimento dell’ordine pubblico in Sardegna contro il banditismo e per commentare l’indagine svolta dalla Commissione rinascita nelle zone interne a prevalente economia pastorale. Tema ripreso il 12 ottobre, sulla  proposta di nominare una Commissione parlamentare d’inchiesta sui problemi della Sardegna, che sarebbe stata costituita solo due anni dopo con legge 755 del 1969, sotto la presidenza del Sen. Giuseppe Medici. Il 2 ottobre 1967 denunciava ancora le inadempienze del Governo e anticipava le impostazioni del IV programma esecutivo del Piano di rinascita economica e sociale della Sardegna nei suoi rapporti con il piano economico nazionale: un documento straordinario, che ho riletto in questi giorni nel volume pubblicato da Fossataro dopo l’approvazione in Giunta Regionale il 26 luglio 1968. Analisi profonde e progetti complessi, che in qualche modo richiamavano i piani quinquennali dei paesi socialisti. Temi anticipati anche il 25 gennaio 1968 nell’intervento sul bilancio di previsione che denunciava il pericolo che la Sardegna regredisse anche rispetto al Mezzogiorno e che illustrava le ragioni profonde della politica di contestazione.

Sono ripetuti gli interventi che denunciano la crisi della pastorizia a seguito della siccità del 1967 e la morìa del bestiame (6 dicembre 1967); nel momento in cui si accentuavano i sequestri di persona, i ricatti, le estorsioni, l’analisi della situazione delle zone interne condotta dal Governo risultava già il 13 aprile 1967 troppo superficiale sicché era necessario che si orientasse in ben altra direzione: in modo sorprendente, Del Rio rifiutava con sdegno la scorciatoia dell’inasprimento delle pene per il furto del bestiame, l’abigeato. E poi la solidarietà ai minatori, ai disoccupati, ai lavoratori precari, agli emigrati, il richiamo ai doveri della classe dirigente per abbattere le barriere che intaccano la dignità dell’uomo e ne impediscono la crescita civile e politica (23 dicembre 1967). Il 9 febbraio 1968 Del Rio condannava l’arresto dell’operaio Fenu e del Sindacalista Giovannetti (lo stesso che vediamo in un comizio a  Carbonia nel film di Fiorenzo Serra L’ultimo pugno di terra) durante la manifestazione dei pastori delle zone interne davanti al Palazzo Regio, pur lodando le forze dell’ordine ma criticando la legislazione post bellica di tipo repressivo. Il 5 dicembre 1968 commentando i risultati dell’indagine consiliare sulle zone interne formulava la proposta di costituire un demanio pascoli e proponeva una serie di misure sul programma di interventi in campo industriale. Temi che ricorrono nella discussione al bilancio della Regione per il 1969 (il 16 dicembre 1968).

Già nel clima della campagna elettorale per la VI legislatura Del Rio interviene il 14 marzo e il 30 maggio 1968 per difendere le prerogative costituzionali dell’autonomia speciale, di fronte alle accuse della sinistra mosse alla Giunta. Il 3 ottobre torna la polemica per le ombre e le furbizie del PCI sull’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe dell’URSS. E poi la realtà locale, il 9 ottobre 1968 compare il primo cenno alle industrie a partecipazione statale nelle zone interne e in particolare nelle Baronie.

La seconda giunta, di nuovo con Giagu e Abis assessori, durò solo sei mesi,  tra il 7 agosto 1969 e il 26 gennaio 1970, dopo lo straordinario successo della DC nuorese alle elezioni per il VI Consiglio Regionale, quando toccò la punta massima del 53,2%. Le dichiarazioni programmatiche del 4 agosto, elencando i traguardi raggiunti e i nuovi orizzonti di impegno, contengono un vero e proprio discorso di legislatura che – scriveva Carrus  quattro anni dopo – conserva ancora oggi la sua piena attualità. <<Purtroppo le vicende della legislatura hanno presto interrotto una prospettiva che può esser ripresa ancora oggi – nel 1974 – in tutta la sua interezza>>.  Il 10 ottobre 1969 Del Rio interviene sulle interpellanze e le mozioni, presentando un programma operativo dettagliato per l’industrializzazione delle zone interne e definisce gli obiettivi, i metodi e le finalità dell’operazione “Sardegna Centrale”. Una visione strategica che oggi, col senno di poi, può apparire inadeguata, forse troppo succube rispetto ai poteri forti, ma che allora era incredibilmente capace di mobilitazione popolare da parte di una classe politica meno debole e subalterna di quanto si creda. Troppo facile è perciò parlare oggi di fallimento della Rinascita, soprattutto se si tengono presenti le condizioni di partenza della Sardegna.

Nonostante la fine della sua seconda Giunta, il successo elettorale della DC nel Nuorese spiega la presenza di Del Rio ancora nelle giunte successive, come assessore alla rinascita, al bilancio e all’urbanistica nella giunta Abis del 1970. Poi  nella giunta Giagu per tutto il 1971 assessore agli EELL personale e AAGG; nel 1972 nella giunta Spano assessore all’industria e commercio; di nuovo nella giunta Giagu nel 1973 come assessore ai LLPP e trasporti e poi, negli ultimi mesi del 1973  ancora con Giagu come assessore alle finanze, al bilancio, alla programmazione. Tutte materie centrali, che testimoniano il riconoscimento di una competenza davvero speciale, formatasi sul campo di tante battaglie.

Il ritorno di Del Rio alla Presidenza fu veramente significativo: egli presiedette la sua terza giunta tra il 22 dicembre 1973 e il 16 giugno 1974, con Dessanay e Giagu, alla fine della VI legislatura: con le dichiarazione programmatiche manifestava l’esigenza di ricostruire un quadro di solidarietà politica e operativa tra i partiti del centro sinistra. In questo clima il 12 febbraio 1974 Del Rio ritornava sulle prospettive dell’industrializzazione in Sardegna e sulla battaglia per il finanziamento e l’approvazione del disegno di legge 509 del 1972, che rifinanziava la Rinascita con mille miliardi, poi ridotti a 600  (Legge 268 del 1974).  Il 22 marzo 1974 Del Rio presentava i risultati raggiunti dalla sua terza giunta, indicando i pericoli di degenerazione burocratica e clientelare della struttura centralistica della Regione Sarda e proponendo un processo continuo di democratizzazione delle strutture rappresentative e delle varie e multiformi espressioni della società civile e del popolo sardo. Il bilancio si chiudeva alla vigilia dell’approvazione voluta da Mariano Rumor nel suo V governo sul Rifinanziamento del piano straordinario per la rinascita economica e sociale della Sardegna e riforma dell’assetto agropastorale in Sardegna, con il discorso dell’11 aprile 1974 che rivendica – scriveva Carrus – la conquista più importante della legislatura, non solo per la Giunta ma per l’intera classe politica regionale.  Non per nulla Rumor fu in quei giorni in Sardegna, dove lo ricordo a Badd’e Salighes arrivare in elicottero tra migliaia di simpatizzanti. In questo quadro veniva pubblicato nel giugno 1974, il volume Discorsi politici, che usciva proprio a fine mandato, per affrontare con molta determinazione la polemica con lo stato, un poco evidentemente in chiave elettorale.

Il 16 giugno 1974, prima ancora dell’approvazione della legge sulla rinascita, un colpo di teatro (credo voluto dal Segretario Nazionale della DC Amintore Fanfani) che mobilitava enormi risorse in Sardegna, si arrivava alle elezioni per il settimo Consiglio Regionale che vide la sconfitta della DC ormai decisamente in calo fino al 38,3%. Nonostante tutto Del Rio fu riconfermato alla presidenza il I agosto, con lo scopo di condurre in porto la nuova programmazione a valle della legge 24 giugno 1974 n. 268 che finalmente rifinanziava il piano di rinascita. Per ottenere questo risultato ricordo a Cagliari in Via Sonnino i cortei, le manifestazioni, l’impegno della Giunta. Come assessore al bilancio aveva al suo fianco proprio Paolo Dettori, che sarebbe drammaticamente scomparso il 14 giugno del 1975. Manlio Brigaglia ricorda Del Rio piangere come un bambino per la morte dell’amico assessore, che commemorò davanti alla chiesa di Sant’Agostino. Subito dopo il Consiglio Regionale approvava  la legge regionale n. 33 del I agosto 1975 sui Comprensori. La quarta Giunta Del Rio durò due anni, fino al 4 maggio 1976, quando il Presidente venne sostituito da Pietrino Soddu, con la giunta nella quale entrava per la prima volta Nino Carrus come assessore agli EELL, finanze e urbanistica. E’ l’anno della legge 45 sulle Comunità Montane che per la prima volta faceva confrontare nelle loro Giunte maggioranza e minoranza e costruiva una fase nuova nei rapporti – fino a quel momento molto conflittuali – tra DC, PSI e PCI.  Oggi, nel momento della liquidazione delle province e della nascita dell’area metropolitana di Cagliari, cogliamo meglio il senso di una programmazione unitaria fondata sulla partecipazione, ancorata ai territori, interessata al confronto tra le forze politiche democratiche. Da qui sarebbe nata l’idea della più tarda Legge regionale 14 del 1996, sui programmi integrati d’area finalizzati allo sviluppo locale, che vincolavano i finanziamenti europei alle aree programma e alle province, senza gli intollerabili squilibri che anche le più recenti assegnazioni dei fondi FAS hanno testimoniato.

Proprio nel 1976 Del Rio si dimetteva dal Consiglio Regionale per essere eletto deputato per due legislature, la VII (Presidente Pietro Ingrao) e dal 1979 l’VIII (Presidente Nilde Iotti): fu allora sottosegretario alla pubblica istruzione nel terzo governo Andreotti (dal 29 luglio 1976 all’11 marzo 1978), successivamente alla Presidenza del Consiglio dei Ministri (con delega alla Pubblica Amministrazione) nel IV governo Andreotti dal 16 marzo 1978 il giorno terribile del rapimento di Aldo Moro fino al 30 novembre, quando si dimise per protesta; poi ai Trasporti (nel V governo Andreotti, dal 20 marzo al 4 agosto 1979), alla Difesa (Primo Governo Cossiga, dal 4 agosto 1979 al 4 aprile 1980). Membro di numerose commissioni parlamentari. Con Andreotti era entrato in rotta di collisione quando, con delega alla Pubblica Amministrazione, firmò un contratto nazionale degli ospedalieri, poi sconfessato dal Presidente del Consiglio. Si dimise il 14 luglio 1982.

Cessata l’attività politica è stato nominato Consigliere della Corte dei conti fino al 1997, quindi Consigliere di Stato.

Naturalmente in questa sede non possiamo dimenticare che Giovanni Del Rio fu uno tra i fondatori dell’Associazione Nino Carrus nata con lo scopo di <<ricordare – attraverso attività di natura politica e culturale – la sua figura di uomo politico e di cultura durante la sua attività parlamentare, di amministratore locale e di docente nelle università sarde, nonché di promuovere attività di studio e di ricerca politico-culturale con particolare attenzione alla formazione delle giovani generazioni>>.

Se c’è una nota negativa che vorrei emergesse da questo incontro, è la costante sottovalutazione del ruolo di Del Rio nella storia della Rinascita: una sottovalutazione alla quale oggi forse iniziamo a porre rimedio, chiedendo in particolare agli storici di iniziare a ripensare periodizzazioni, contenuti e giudizi sui protagonisti di quegli anni.




Per Passione e missione Scritti inediti di don Peppino Murtas.

Per Passione e missione
Scritti inediti di don Peppino Murtas
Oristano, Auditorium San Domenico, 18 giugno 2015

Attilio Mastino

Grazie all’arcivescovo di Oristano Mons. Ignazio Sanna e al vescovo d’Ogliastra Mons. Antonello Mura per avermi proposto di presentare davanti ad un pubblico di amici questo libro curato da  Lucio Casula e a Carla Murtas, ai quali dobbiamo questa paziente ricerca sugli scritti inediti di Peppino Murtas pubblicati da Soter editrice nella collana del Coordinamento del Progetto culturale della Conferenza Episcopale Sarda. La presenza del mio amico Vittorio Sozzi, responsabile del servizio per il progetto culturale della CEI e soprattutto per me direttore dell’Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’Università della CEI accompagna un momento di condivisione che non può essere solo locale.

Questo volume – Per passione e missione – appare molto utile per ricostruire con freschezza tanti aspetti sconosciuti della figura di un sacerdote, di un paese Paulilatino, di un’isola, la Sardegna negli anni del secondo dopoguerra. Io stesso ho ricordi che per tanti versi si sovrappongono e si incrociano: rileggendo le sue omelie ho ritrovato tanti temi che gli erano cari, soprattutto ho scoperto cose che non sapevo,  anche se l’ho incontrato decine di volte. L’uomo mi aveva davvero colpito per la sua preparazione, per la sua capacità di ascolto, per la sua autorevolezza, per la sua pazienza, perfino per il tono della voce, per questa sua nobiltà e per questo suo distacco, per questo straordinario desiderio di entrare in sintonia con i giovani.

Credo di aver conosciuto per la prima volta don Peppino a Roma, ad un incontro nazionale della Gioventù italiana di Azione Cattolica, quando ero ancora al Liceo e il vescovo mons. Francesco Spanedda mi aveva chiamato come Propresidente diocesano a seguire i circa 600 tesserati, fino all’assorbimento della GIAC nell’Azione Cattolica nel 1970. Anche se non se ne parla nel suo curriculum, ero sempre convinto che don Peppino fosse allora un dirigente nazionale della Giac, e questo per il suo ruolo, per il prestigio di cui godeva, per l’attenzione che ci dedicava, per i temi che trattava, come a proposito dell’enciclica Pacem in Terris di Giovanni XXIII, scritta – dice ora Papa Francesco – quando il mondo vacillava sull’orlo di una crisi nucleare – tema che era stato l’oggetto della tesi di Teologia discussa a Cuglieri nel 1964. Ne avrebbe fatto un libro pubblicato da Fossataro nel 1970.

Egli in realtà già dal 1963 era divenuto assistente regionale della GIAC per la Sardegna, affiancando il delegato regionale il laico Pietro Meloni, mio maestro e oggi nostro vescovo emerito di Nuoro. In questo ruolo l’ho incontrato più volte negli anni immediatamente successivi alla chiusura del concilio dal 1965, soprattutto negli incontri di La Madonnina di Santulussurgiu tra il 1968 e il 1970, lui sempre protagonista, capace di animare i giovani provenienti da tutte le diocesi ma anche gli assistenti ecclesiastici che ci seguivano alcuni forse con meno entusiasmo. Ma per Bosa c’era il can. Antonio Francesco Spada, una risorsa per la Chiesa sarda. Più tardi a Cagliari lo conobbi come assistente ecclesiastico della FUCI, perché era riuscito a sviluppare quella dimensione pedagogica che sentivamo non come un’imposizione ma come un confronto alla pari.

Col passare degli anni vidi Don Peppino all’opera in un ruolo per lui meno congeniale e più esposto alle polemiche, come consulente ecclesiastico del Comitato provinciale del Centro Sportivo Italiano di Oristano, come testimoniano le foto di questo libro, con sullo sfondo le bandiere che uniscono l’azzurro e l’arancione del CSI in occasione di tanti incontri, tanti dibattiti sullo sport servizio sociale, tante premiazioni di giovani che si erano distinti nel calcio, nella pallavolo, nell’atletica, nel ciclismo, nel tennis tavolo. Io nel ruolo di presidente del Comitato CSI di Bosa, con oltre 2000 tesserati e poi di vicepresidente regionale, durante la presidenza di Pino Zucca, con l’assistenza di don Vincenzo Fois, il parroco di Sant’Agostino a Cagliari.  Allora eravamo noi a fornire gli arbitri per il calcio, non sempre apprezzati nell’Oristanese. Ma Don Peppino sarebbe rimasto più fedele di me al CSI e nella sua bibliografia vedo un articolo sul meeting nazionale del CSI “Famiglia e sport” del settembre 1993.

Un mondo lontanissimo che riemerge per me con emozione in queste pagine. Oggi, a guardare indietro nel tempo, eravamo davvero una banda di pazzi furiosi, sfiancati da un impegno matto e disperatissimo, che però ci aveva messo in relazione con tanti luoghi e tanti giovani della Sardegna: per la prima volta potevamo organizzare e seguire anche le ragazze, dopo la soppressione della FARI; si creavano occasioni di incontri inattesi che non si dimenticano, a Sant’Antonio di Macomer, a Sant’Antioco di Scano Montiferru, a Bosa Marina, a Bau Mela e Bau Mandara di Villagrande Strisaili, a Santulussurgiu e a Cuglieri.

Infine, il terzo livello di conoscenza, stimolato da Raimondo Zucca, legato al rapporto di Don Peppino con altri intellettuali oristanesi: Peppetto Pau, Giorgio Farris e tanti altri studiosi alcuni non sempre rigorosissimi, che hanno ispirato i temi oggetto delle sue attenzioni nella rivista “Quaderni Oristanesi” tra il 1982 e il 1999. La scoperta degli scavi paleocristiani di Cornus di Ovidio Addis, le iscrizioni, i monumenti archeologici, le basiliche, i documenti medioevali, la storia del Giudicato, come quando fondò nel 1997 e iniziò a presiedere l’ISTAR fino al 2000, splendidamente affiancato dal direttore Giampaolo Mele. Emergono dai suoi articoli alcune figure centrali come il can. Salvator Angelo De Castro, forse uno dei falsari delle Carte d’Arborea. E poi il poeta Pietro Delitala, il senatore Salvatore Parpaglia, Enrico Costa, Grazia Deledda,  Antonio Garau, Tonino Ledda alle origini del Premio città di Ozieri. Infine avevo letto le cose scritte sull’Oristanese, ma anche su Joyce Lussu, Chiara Samugheo, Giampaolo Mele, Giulio Angioni. Articoli, studi, ma anche raccolte di poesie, racconti, recensioni di uno studioso che si sforzava di capire e di farsi capire dagli altri.

Eppure, anche se forse lui non l’avrebbe ammesso, per me le cose più limpide e originali rimangono oggi le sue omelie, le sue prediche, i suoi discorsi religiosi, carichi di sentimenti, aperti alla carità, testimonianza in anni tanto difficili di una sensibilità che arde e che sentiamo bruciargli  addosso e che non gli consente di tacere di fronte all’ingiustizia, al dolore, alla malattia. Don Peppino si muoveva in un orizzonte di gioia, di serenità, di luce, aveva la capacità di leggere il mondo con gli occhi della speranza,  sapeva indicare strade nuove, aveva il dono della compassione.

Questo libro rende bene il senso profondo di un impegno che è stato animato dalla gioia di amare, di partecipare con gli altri, di contribuire a cambiare il mondo. Basta leggere l’omelia “Ferite da rimarginare” per la festa della Pentecoste nella marina del porto di Oristano il 7 giugno 1987, dove pure non mancano gli accenti critici nei confronti delle autorità, che non potevano – se vogliamo non possono – condannare il porto alla foce del Tirso a restare <<troppo grande e vuoto>>. Parlando ai marinai e ai pescatori, don Peppino afferma un’idea di progresso che non si fa inquinando, uccidendo, abbruttendo; rileva che <<non solo il nostro spirito ha ferite da rimarginare, ma anche la bellezza della natura è stata ferita>>, anche <<per le folli decisioni venute dall’alto>>. Occorre battersi contro <<la povertà e la stanchezza di questa parte della Sardegna, benedetta da Dio ma poco valorizzata da noi>>. E’ necessario che <<ciascuno non deleghi ad altri la parte di responsabilità che ha nell’impegno per il bene comune>>, per difendere la bellezza del creato, come in occasione della giornata missionaria del 21 ottobre 1990, a proposito della necessità di predicare il Vangelo a tutte le creature, perché <<la nostra presenza nel mondo, in qualche modo, riguarda l’umanità ma anche tutte le altre creature, la natura da usare, abbellire e rispettare senza farle violenza>>.  Sembra di sentire le parole indimenticabili che 25 anni dopo sarebbero state pronunciate dal nostro Papa Francesco nell’omelia della Messa per l’inizio del suo pontificato, nell’invito a tutti gli uomini di buona volontà di essere <<custodi della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, dell’altro e dell’ambiente>>. Temi che ricorrono nella Enciclica “Laudato sì, sulla cura della casa comune” proprio di questi giorni.

Sul piano politico, a leggere queste pagine scritte nei tempi lunghi dell’attesa di quella che si immaginava la Grande Rinascita, ci sono tanti spunti: la legge 11 giugno 1962 n. 588 aveva approvato il Piano straordinario per favorire la rinascita economica e sociale della Sardegna, che inizialmente metteva in campo 400 miliardi di lire (da qui la LR 11 luglio 1962 n. 7). Fu la prima Giunta Del Rio con l’Assessore Lucio Abis a proporre il 26 luglio 1968 la delibera regionale del Piano di rinascita economica e sociale della Sardegna, ma occorre arrivare al 12 febbraio 1974 con la terza Giunta Del Rio per il dibattito sull’industrializzazione in Sardegna e sulla battaglia il rifinanziamento della Rinascita con mille miliardi  (Legge 268 del 1974).

Qui ci sono tante anticipazioni, tante prese di posizione, tante cose positive, che derivano a Peppino Murtas da questa sua vocazione di sacerdote, di insegnante, di giornalista, di studioso di storia e di sociologia: la promozione della cultura da parte di un intellettuale che insieme era fortemente radicato nella realtà sarda dopo la difficile esperienza di parroco di Paulilatino: allora la sete di giustizia sociale, di solidarietà e di pace, contro la miseria, il dolore, l’emigrazione, l’ingiustizia nella distribuzione della terra, l’idolatria del denaro, l’odio, l’avidità, l’egoismo, perfino il potere ecclesiastico. Sullo sfondo c’è l’esempio luminoso delle prove di Giobbe, ingiuste, incomprensibili ma salutari, come nell’omelia del 10 febbraio 1991. Impressiona questa sua capacità prensile non solo di cogliere i problemi ma anche di tracciare soluzioni concrete, come a proposito della cooperativa tra i pastori di Paulilatino. Nella predica su I mercanti del tempio del 6 marzo 1988 Don Peppino ribalta l’episodio per affermare che <<la fiducia nell’uomo è tra i segni nuovi>>, ovviamente ripensando a Matteo e alla polemica di Cristo con Farisei e Sadducei, incapaci di leggere i segni dei tempi evocati da Giovanni XXIII  nel discorso di indizione del Concilio Gaudet mater ecclesia. Dietro ogni frase c’è lo spessore di letture profonde, di rimandi incrociati, di richiami sottintesi.

C’è soprattutto la voglia di accogliere, ascoltare, dialogare, camminare insieme, come tra gli infelici emigrati sardi in Lombardia, che don Peppino visita a Fagnano, all’immediata periferia occidentale di Milano, una frazione di Gaggiano, o a Gallarate: ci si commuove perché saranno loro a quotarsi per offrirgli un biglietto aereo per un rientro più comodo in Sardegna, per poter avere il parroco amato un giorno in più a Milano.

In questo volume ci sono tanti aspetti significativi attuali anche nel dibattito d’oggi: la lingua sarda, la traduzione in italiano, il rapporto delle parlate locali con una lingua standard e unitaria. Più in generale il tema del linguaggio al quale eravamo così abituati, padrone e servo,  il servo-pastore, la domestica chiamata la teracca, la serva. Modi di dire ma anche forme di sfruttamento legate alla costante minaccia di un licenziamento sui due piedi, che nella visione di Don Peppino in realtà si accompagnano all’espressione di una cultura più ricca e profonda, che ciascuno di noi si porta dietro anche inconsapevolmente e che risale di generazione in generazione, perché proprio tra la povera gente si conservano abilità artigianali, conoscenze, linguaggi che non si perdono.

Emergono da queste pagine tanti problemi che spiegano il mancato sviluppo, legati all’analfabetismo, alle conseguenze della guerra, ad una agricoltura di sussistenza, ad una pastorizia ancora arcaica; il freddo, la pioggia, i furti di bestiame, lo strozzinaggio. La difficoltà dell’associazionismo tra pastori abituati da secoli all’individualismo, la crisi casearia, il ricatto dei grandi caseifici, la sovrapproduzione, il confronto duro con l’industria. Temi che vengono affrontati non in generale, ma con l’indicazione puntuale di interventi radicali, di investimenti, di forme nuove di solidarietà, capaci di rilanciare l’economia di un paese che ancora viveva nel medioevo.  E poi gli incendi che bruciano il raccolto, come a Tanca Regia, il freddo, il vento, i mali che affliggono le persone care, temi che don Peppino ci racconta registrando le testimonianze e con gli occhi di un giovane pastore, che vive anni di solitudine, di sofferenza, di disagi. E poi le miniere, la cardatura del lino, il lavoro duro di muratore. Negli stessi anni (1967) in Consiglio Regionale ci si interrogava sulle misure da adottare per eliminare la proprietà agraria assenteista e ogni altra forma di rendita parassitaria.

Eppure in Sardegna tutto ha una dimensione più intima e personale, perché quello che interessa a chi scrive è soprattutto l’individuo come persona: l’attesa della morte, la malattia, il rapporto con gli animali, le vacche, i maiali, i cavalli, le pecore,  i poveri prodotti di un’economia di sussistenza, la fame, la stanchezza per chi sa di arricchire solo i latifondisti che affittano la terra ai pastori, i contratti ingiusti, gli scioperi, perfino il carcere. La partecipazione al dolore del mondo, l’invalidità, la perdita di una persona cara, una classe medica che si occupa solo dei ricchi, così come i carabinieri si ostinano a proteggere solo coloro che contano, i nobili, i giudici, i ricchi esponenti di un’aristocrazia agraria di provincia.  Ma anche, in positivo, la devozione popolare e i tanti luoghi significativi di un paese che ritrova nella festa una dimensione di felicità, come per Santa Cristina di Paulilatino, con la statua contesa con gli abitanti di Bonarcado.

E poi le forme arcaiche del fidanzamento e del matrimonio che si rapportano con il ripetersi delle Missioni, l’arrivo di Padre Manzella, il pentimento del peccato, le tradizioni popolari, le feste, la morte con i suoi riti, le sue nenie, le sue forme tradizionali che si possono seguire nel loro evolversi nel tempo. Torna in mente il volume di Ernesto De Martino sul lamento funebre in Morte e pianto rituale, pubblicato per la prima volta proprio alla fine degli anni 50, con un occhio proprio verso la Sardegna.

A leggere questo libro, a sentire la voce degli emigrati diventati operai e delle loro donne, in Continente, in Francia o in Canada, costretti a fuggire per vivere, tornano alla mente tante pagine di Gavino Ledda, come quelle sull’emigrazione in Australia di Padre Padrone: la miseria, il dolore, ma anche la rabbia di chi parte e di chi resta, in quello che Ledda descrive come un funerale doppio, dove i morti sono ancora vivi e dove gli abitanti di Siligo che rimangono accompagnano all’autobus, come al camposanto, i parenti che partono per sempre; e dove gli emigranti pensano di partecipare al funerale di quelli che restano, condannati ad una miseria senza scampo.   E sembra di vedere le immagini del documentario di Fiorenzo Serra del 1959 con gli emigrati sulla corriera della Sita che parte da Cossoine per Sassari attraversando Torralba e Bonnanaro con sullo sfondo Monte Arana o le immagini della nave che trasporta gli emigrati carichi di valigie di cartone legate con lo spago; o la frase sul maledetto treno del mio paese, quanta gente hai portato via. Ce le ricordiamo quelle navi, come la Lazio, piccole, instabili, dove da bambini venivamo stipati come bestiame dai marinai napoletani. È questa la transumanza degli uomini che Fiorenzo Serra raccontava, in parallelo con la transumanza delle pecore, mentre la cinepresa coglieva il pianto dei parenti, la sofferenza profonda, il segno di una sconfitta di un popolo intero di fronte alla miseria del dopoguerra. Tutto esattamente come la corriera che scivola nel buio in una poesia di Don Peppino: la corriera scivola nel buio  / densa di fumo / che pare una taverna. / Il cielo senza luna.

La Paulilatino di questo volume non è però il paese letterario immaginato nel romanzo di Gavino Ledda: è un paese reale, che il prete toccato dalla bellezza di Dio osserva con gli occhi dolci di chi sa amare, sa comprendere, sa compatire; guarda con orrore la sorte dell’operaio ucciso da una gru o ustionato in una fonderia come Tommaso. Capisce chi sceglie la strada della protesta o del comunismo (anche se in una poesia dedicata ai compagni appare duro con chi bestemmia), presta denaro che sa non sarà mai restituito, ascolta e capisce. Sa soprattutto partecipare alla gioia dei giovani per una promessa, per un fidanzamento, un matrimonio, la nascita dei gemelli. E le donne sono anch’esse protagoniste, protette dai loro sposi ma sempre pronte a sacrificarsi e ad amare. Il paese di Paulilatino non dimentica il suo parroco.

Così nelle poesie fin qui inedite è coerente la rivalutazione di Pier Paolo Pasolini, sorprendente ancor più perché espressa nei giorni della morte e della condanna. Alla rovescia ricordo che su Frontiera Remo Branca (già direttore del settimanale cattolico Libertà a Sassari) giustificava in qualche modo l’uccisione del regista travolto – questo era il titolo – dai fiotti purulenti della sua passione omossessuale. Ma il mondo cattolico era più ricco e complesso di quanto non possa apparire ad uno storico superficiale. Per Don Peppino quella di Pasolini (un poeta in forma di rosa) fu una vita scomoda, un comportamento reprensibile / per la società. / Una voce messa a tacere, ma anche una voce che rimarrà per sempre. E la sua fu una morte violenta, / una morte voluta dal potere. Così il dramma dell’aborto, una pratica che non si può accettare, ma anche la partecipazione al dolore della madre, l’incubo, il morale a pezzi, una pena che si sconta in silenzio per tutta la vita e che appartiene  oltre che ai genitori alla coscienza del sacerdote confessore.

Se guadiamo le date, certo chi non lo conosceva resterà sorpreso pensando alla posizione ufficiale della Chiesa, che pure don Peppino sapeva interpretare con saggezza e senza fughe in avanti.

Capace sempre di accogliere, di non fermarsi in superficie, di capire le ragioni profonde di tutti. In una terra che ancora lo ama.