Il lapidario di Rimini intitolato a Giancarlo Susini.

Il lapidario di Rimini intitolato a Giancarlo Susini.

Il lapidario di Rimini è stato intitolato a Giancarlo Susini (Bologna 1927-2000): il 12 dicembre scorso Angela Donati ha svolto in quella sede una breve presentazione del nostro maestro, che vogliamo ora ricordare con le parole pubblicate sui Rendiconti dell’Accademia dei Lincei nel 2003.

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Giancarlo Susini e la Sardegna antica di Attilio Mastino

Ho avuto l’onore di ricordare Giancarlo Susini a Sassari già nel dicembre 2000, in occasione del XIV convegno internazionale de “L’Africa Romana”, dedicato al mare tra Geografia storica ed economia: ebbi allora modo di ricordare che il  23 ottobre precedente, mentre con il Rettore Alessandro Maida e con il Senato Accademico dell’Università di Sassari percorrevamo Henchir ed Douâmis, ‘la collina dei sotterranei’ ad Uchi Maius in Tunisia, apprendemmo con dolore profondo la notizia della scomparsa di questo grande maestro, che ci era caro ed al quale ci legano tanti ricordi preziosi.

Volli raccontare allora i vincoli che univano Susini alla Sardegna:  negli anni 70, la presenza di Angela Donati nella Facoltà di Magistero di Sassari aveva confermato i legami di Susini, di famiglia originaria della Corsica, con un’altra isola, la Sardegna, alla quale guardava con simpatia ed affetto, sia che studiasse le fasi della romanizzazione a Capo Testa, a Santa Reparata ed a Capicciolu, alla scoperta delle cave di granito, dei non finiti, delle colonne e dei blocchi semilavorati con i segni degli strumenti antichi abbandonati sulla costa; sia che ricostruisse con la lampada di Wood le incerte tracce di un alfabeto greco sulle pareti dell’ipogeo di San Salvatore di Cabras; sia che percorresse la valle del Temo o raggiungesse con i suoi studenti l’acropoli di Cornus sulle orme di Ampsicora, l’alleato di Annibale raccontato da Livio oppure l’area paleocristiana di Columbaris, alla ricerca delle scritture antiche; sia infine che si avventurasse coraggiosamente con me e con Raimondo Zucca su un’instabile barchetta per osservare Tharros dal mare.  E poi l’attenzione per l’età nuragica anche su riviste locali di modestissima diffusione e per la fase fenicia e punica in una dimensione mediterranea; le curiosità per i musei locali ed in particolare per le collezioni epigrafiche, con attenzione per gli aspetti istituzionali di quella che fu forse la colonia cesariana di Turris Libisonis; l’aggiornamento continuo e la presentazione delle più recenti pubblicazioni sulla Sardegna romana, come la recensione del volume di studi in onore dell’Accademico dei Lincei Giovanni Lilliu. In sintesi, la Sardegna come una terra di periferia, un mondo di periferia, una preziosa periferia, con fenomeni di conservazione, di relegazione ma insieme un punto collocato al centro del Mediterraneo antico tra Africa ed Europa, dunque anche aperto alle differenti influenze culturali. Ad Oristano nel 1992 Susini presentò il volumetto-guida di Angela Donati e di Raimondo Zucca sui segni, sulle navi, sulle scritture antiche dell’ipogeo di San Salvatore a Cabras, l’antico santuario dedicato ad Eracle Salvatore, vascelli effigiati che restituivano la suggestione della Sardegna come terra di approdi dal mondo e di pulsioni verso il mondo.

A Sassari Susini è stato uno dei fondatori dei convegni de “L’Africa Romana”, ai quali ha partecipato dalla prima edizione nel 1983 con grande assiduità, riferendone sul bollettino dell’Association Internationale d’Épigraphie Grecque et Latine per “Epigraphica”. Voglio citare solo alcune frasi dell’intervento conclusivo improvvisato in occasione del I convegno che era stato aperto da Marcel Le Glay, ormai vent’anni fa: <<io vorrei sottolineare, uscendo dal temenos del nostro colloquio, che quanto è trionfato [qui a Sassari], nei discorsi e negli interventi, sono il rispetto, l’attenzione, la simpatia, la passione per il valore e la complessità delle culture antiche dell’Africa>> un interesse <<fatto di curiosità non banali che non coinvolge solo gli addetti ai lavori, ma che dilaga, partendo dal momento punico: c’è il bisogno profondo di capire l’essenza, i coefficienti delle culture molteplici, complesse, che camminavano prima e dopo Annibale, lui che veniva dalla lontana Iberia, seguendo la via di Ercole e che hanno composto tanti momenti e tanti aspetti della storia comune del Mediterraneo>>.

Scrivendo l’introduzione al quinto volume, Susini riprendeva la premessa fenicio-punica, la via aperta dai Cartaginesi da Tiro a Gades, tra il Vicino Oriente e l’Atlantico, quando le storie dei Libii, dei Mauri, dei Numidi, si incontrarono con quelle dei Cartaginesi, con i Greci e con i Romani. Susini ridisegnava la geografia antica:  «La storia dell’Africa romana – nel significato di un corònimo culturale – è storia di intersezioni; non si scrive tale storia senza prendere conoscenza con i palinsesti libico, numida, mauro, perché la storia punica è ancora storia di tali radici e di tali apporti, perché la storia romana è ancora punica e la storia bizantina sarà storia punica e romana».

Per Susini l’impresa africana non serve soltanto un tratto limitato della storia antica, ma fruga e si approfondisce in un pertugio – quasi un mundus che mena all’accumulo delle memorie nel sottoterra – aperto tra le ragioni di fondo della storia intera della civiltà: quella nella quale l’Africa romana si delinea come versante essenziale del sapere e della formazione delle conoscenze: Annibale, Giugurta, Agostino sono alla base anche della storia delle nuove nazioni africane, che riconoscono il proprio passato come una storia unitaria.

Nell’89 a Sassari, Giancarlo Susini ha presentato gli Atti del VI Convegno dedicato alla fase tardo-antica, ed i volumi di Pierre Laporte sull’accampamento della coorte dei Sardi a Rapidum, di Michel Christol ed Andreina Magioncalda sui governatori della Mauretanie e di Gianni Brizzi su Cartagine, tra storia militare ed ideologia politica, tra Annibale, Ampsicora e mondo celtico: icasticamente Susini osservava che tra le pagine di Brizzi rimbalza la testa mozzata di Gaio Flaminio.

L’attenzione di Susini per l’Africa risale però già agli anni ’60: timoli e suggestioni che l’avevano visto da ultimo accogliere la proposta dell’Institut National du Patrimoine di assumere il coordinamento per gli studi storici nell’ambito del progetto pilota del Ministero degli Affari Esteri diretto da Piero Bartoloni sulle indagini archeologiche a Zama Regia in Tunisia. Un impegno che ancora una volta lo vedeva lavorare alla raccolta delle fonti storiche e all’interpretazione delle nuove iscrizioni, come quella straordinaria che cita i Zamenses Regii recentemente scoperta da Ahmed Ferjaoui. Un impegno che si affiancava a quello delle Università di Sassari e di Cagliari ad Uchi Maius, ad Uthina, a Numluli e ad Agbia. Ne abbamo parlato il  15 dicembre 2002 a Tozeur, in occasione della seduta conclusiva del XV Convegno de “L’Africa Romana”.

La nascita a Sassari nel 1990 del Centro di studi interdisciplinari sulle province romane (oggi diretto da Paola Ruggeri) interpretava  l’insegnamento di Giancarlo Susini, alla ricerca delle specificità regionali e locali nel quadro del generale fenomeno della romanizzazione, con particolare attenzione per le persistenze e le sopravvivenze locali, puniche ed ellenistiche: l’organizzazione provinciale romana, la cultura, l’urbanizzazione, l’economia, la vita religiosa dell’area occidentale del Mediterraneo in età romana, con attenzione però per quelle correnti culturali nate in periferia ma capaci di proiettarsi in modo vitale, creativo ed originale verso il centro della romanità; il tema del contributo che le singole realtà provinciali hanno dato per la costruzione di un impero nel Mediterraneo; lo spazio di contatto, di cooperazione e se si vuole di integrazione sovrannazionale. Proprio al nostro Centro (presso il Dipartimento di Storia che lo annovera tra i suoi benefattori)  Giancarlo Susini volle generosamente donare la sua preziosissima biblioteca, oltre mille volumi e 4000 estratti, riordinate a suo tempo con l’assegnazione di tre distinte tesi di laurea seguite dalla nostra Tiziana Olivari.




La viabilità della Sardegna romana: un nuovo praetorium a Sas Presones di Rebeccu (Bonorva).

La viabilità della Sardegna romana:
un nuovo praetorium a  Sas Presones di Rebeccu (Bonorva)
a Nord della biforcazione della centrale sarda  per Olbia ?

1. L’edificio rurale di Sas Presones si trova alle pendici del ciglio basaltico dell’altopiano della Campeda di Bonorva (altitudine m. 490 s.l.m.), a breve distanza dal villaggio abbandonato di Rebeccu (ad Est) e dagli ipogei preistorici di S. Andrea Priu con i dipinti rupestri di epoca tardo antica, bizantina e medievale, recentemente sottoposti a restauro (ad Ovest). L’area di Rebeccu ha rappresentato certamente il cardine della viabilità romana in Sardegna ed uno dei luoghi che ancora oggi conservano prodigiosamente il paesaggio antico, al piede delle colline vulcaniche del Meilogu e lungo la piana un tempo paludosa di Santa Lucia, sulla direttrice per Olbia, una variante che si biforcava dalla strada centrale sarda Karales-Turris. L’area conserva uno straordinario interesse paesaggistico, storico e archeologico e lo stesso edificio di Sas Presones, segnalato già nell’Ottocento, è in realtà parte di una struttura termale tardo-antica arrivata fino ai nostri giorni, che ipoteticamente potrebbe essere identificata come quello che resta in piedi di un praetorium pubblico al servizio della viabilità per Olbia, dotato di un impianto termale realizzato in epoca tarda.

Numerosissimi sono i ritrovamenti di miliari stradali in quest’area, alcuni recentemente pubblicati ed esposti nel Museo comunale di Bonorva, utili per localizzare la biforcazione della a Karalibus Olbiam dalla strada centrale sarda a Karalibus Turrem, tema che ha rappresentato negli ultimi anni il vero problema storiografico sulla viabilità romana in Sardegna, a partire dal dibattito avviato negli anni ’70 da Piero Meloni, proseguito con una penetrante indagine territoriale da Emilio Belli e Virgilio Tetti. Di fatto gli studiosi si sono divisi ed hanno collocato la biforcazione in varie località del Logudoro, tutte collocate tra un punto che oggi appare troppo meridionale (Mulargia) ed un punto troppo settentrionale (Giave).

Le indagini recentemente effettuate dalla Soprintendenza archeologica di Sassari e Nuoro nell’edificio di Sas Presones di Rebeccu hanno riaperto il problema topografico, storico, archeologico, epigrafico, che siamo lieti di richiamare sia pur sommariamente in questa sede in omaggio agli interessi, alle passioni ed alle curiosità dell’amico e maestro Giovanni Uggeri (pensiamo da ultimo con ammirazione ed un poco di invidia al volume su La viabilità della Sicilia in età romana).

In occasione di recenti lavori di restauro finanziati col Piano integrato d’Area “Meilogu-Valle dei Nuraghi”, sono stati studiati i due ambienti superstiti di Sas Presones e la pianta complessiva dell’edificio originario, che doveva essere articolato in almeno otto vani, con una complessa sistemazione spaziale ed un’articolazione degli ambienti caldi e degli ambienti freddi. Per la descrizione del complesso dobbiamo rinviare alla rapida sintesi finora disponibile a firma Nicola Ialongo, Andrea Schiappelli ed Alessandro Vanzetti, che hanno potuto presentare in tempo reale i risultati dell’indagine in occasione delle Giornate di studio di archeologia e storia dell’arte promosse nella Cittadella dei Musei a Cagliari nel marzo 2006: il misterioso edificio di Sas Presones di Bonorva si è rivelato un complesso termale collocato a breve distanza dalla Fonte di Su Lumarzu, lungo la strada per Olbia ai piedi del versante settentrionale della Campeda, La planimetria finale con la rete di canalette consente di definire le funzioni dei diversi ambienti, dall’apodyterium al frigidarium, per arrivare alle sale calde con ipocausto e tubuli alle pareti, il tepidarium centrale, i due sudatoria laterali ed a Nord il calidarium con il praefurnium.

Più in dettaglio gli studiosi hanno ricostruito i flussi idrici delle canalette di scolo ed hanno distinto un’articolazione in gradoni: l’ambiente 1 (m. 5,70 x 3,60) viene interpretato come frigidarium, con le caratteristiche banchine e le canalette, con la volta originaria parzialmente conservata; l’ambiente 5 (m. 4,50 x 3,00) potrebbe essere l’apodyterium; segue il terrazzo sul lato ovest, a ridosso dell’ambiente 8, con una vasca per le abluzioni; più in basso si trovavano gli ambienti caldi, in particolare l’ambiente 2 (m. 5,40 x 3,60) viene interpretato come tepidarium per i tubuli alle pareti, la probabile banchina, l’originale ipocausto; mentre gli ambienti simmetricamente contigui 6 e 3 sarebbero due piccoli sudatoria, ugualmente riscaldati, come il vicino ambiente 4, che potrebbe essere il vero e proprio calidarium con annesso a nord il praefurnium.

Nel tepidarium centrale (ambiente 2) le indagini hanno consentito di portare alla luce il pavimento originario con lastroni rettangolari di basalto, parte in realtà di un vero e proprio ipocausto, del tutto originale e credo senza confronti in tutto l’impero romano: il pavimento copre l’intercapedine ed è sospeso su 24 pilastrini in trachite alti 60 cm., che si sono rivelati in realtà tronconi di cippi miliari in riutilizzo, recanti tracce di iscrizioni, non tutti al momento raggiungibili e leggibili. Ecco la descrizione degli studiosi: <<Una serie di pilastrini in trachite, alti circa 60 cm. ciascuno, poggia sul substrato roccioso ed è stata rinvenuta inglobata nel terreno di infiltrazione e di ributto, il quale conteneva sparuti frustuli di terra sigillata, ma anche reperti di età moderna. A un controllo più accurato (…) i pilastrini si sono rivelati essere tronconi di cippi miliari, recanti tracce di iscrizioni, di cui è stato ottenuto il calco>>. Sui pilastrini <<poggiano dei lastroni rettangolari di basalto, forse anch’essi di riutilizzo, di circa 60/80 cm. di lato, coperti a due strati di malta, tra i quali è intercalato un livello di mattoni bipedali e di tegole riadattati>>.

Sono ora disponibili le piante dell’edificio termale di Sas Presones, variamente rimaneggiato in epoca medioevale e moderna, con un progressivo rialzamento dei piani d’uso: il complesso restituisce sotto il pavimento una serie di miliari provenienti con tutta probabilità dalla biforcazione della strada che, superata la Campeda, si dirigeva in direzione di Olbia oltre che di Turris. I frammenti di miliari stradali si presentano tutti in pessime condizioni di conservazione, utilizzati come suspensurae nel praefurnium termale. Si tratta di almeno 8 miliari diversi, che dovevano essere riferiti al punto miliario 112 da Karales (o 65 da Olbia) od a punti miliari vicini, affiancati l’uno all’altro come avviene in altri punti cruciali della rete stradale romana: cedutici recentemente con generosità da Antonietta Boninu, i preziosissimi e quasi illeggibili calchi dei miliari, effettuati nei mesi scorsi, rivelano la titolatura di imperatori del III e del IV secolo e rappresentano il terminus post quem per la costruzione stessa dell’impianto termale, che non escludiamo vada riferito ad un praetorium al servizio del cursus publicus tardo lungo la principale strada romana della Sardegna: al momento sono stati identificati tre praetoria in Sardegna: Muru de Bangius di Marrubiu, Domu de Cubas, presso la chiesa di San Giorgio megalomartire in comune di Cabras, infine Bacu Abis.

Allo stesso <<edifizio antico che i paesani dicono le Prigioni>> nell’Ottocento si era interessato il can. Giovanni Spano, che l’aveva visitato nel 1849 e vi aveva trovato e trascritto un miliario stradale apparentemente di Massimino il Trace datato al 236 e con il 42° miglio da Turris: la segnalazione di Giovanni Spano, non fu verificata da Theodor Mommsen e da Johannes Schmidt in occasione dei soggiorni in Sardegna rispettivamente del 1877 e del 1881, ma fu comunque ripresa in CIL X ed il luogo di ritrovamento è indicato inter Bonorvam et Rebeccam prope domus antiquae rudera q.d. le Prigioni. Il Mommsen aveva manifestato seri dubbi sulla lettura del testo (huius cippi lectio etiam minus certa videur esse quam relioquorum est ab hoc auctore prolatorum), anche se una possibile soluzione potrebbe essere collegata al trasferimento in epoca moderna della pietra, che fa riferimento alla distanza da Turris, 42 miglia, 63 km circa: (M.p. XLII, viam quae ducit [a] Turr[e—] vetustate corruptam restituit). Effettivamente non escluderemmo che la lettura della pietra effettuata dallo Spano sia inesatta, perché la colonna miliaria <<in pietra vulcanica>> ritrovata <<vicino>> all’edificio di Sas Presones era già nel 1849 in pessime condizioni:  <<siccome era incrostata di calce, appena abbiamo potuto rilevare le parole seguenti>>. In questo caso si potrebbe addirittura porre il problema dell’identificazione del testo con la nostra iscrizione nr. 2, unica non cilindrica collocata sopra pavimento dell’edificio termale e non utilizzata con le altre suspensurae: il Maxim<inus> di l. 3 di CIL X 8017 difficilmente può essere allora il Galerio della terza tetrarchia.

Un altro miliario con il numero di miglia superiore a 110 (MP CX[—]) fu segnalato vent’anni fa da Roberto Caprara <<presso una costruzione romana ridotta ad un rudere>>,  come <<architrave del cancello d’ingresso della vigna che si trova sotto Sas Presones>>. Del resto due frammenti di miliari in trachite sono ancora oggi murati nella chiesa di Rebeccu.

In questa sede possiamo ora presentare alcuni dei calchi realizzati in occasione ella scoperta per alcuni dei miliari ancora in situ, uno quei quali relativo ad una colonna clindrica difficilmente leggibile che conserva l’immagine del Sole, che potrebbe portarci a Costantino: può essere infatti confrontato con CIL X 7954, un miliario ritrovato a Teli alle porte di Olbia, con una dedica a Costantino perpetuus semper Aug(ustus) da parte del clarissimo T. Septimius Ianuarius. Attilio Mastino ed Alessandro Teatini hanno osservato in passato che Costantino promosse il culto del Sol invictus:  nella scena di profectio da Milano rappresentata sull’arco del 315 sono raffigurati due signiferi con la Victoria ed il Sol invictus, mentre sui medaglioni costantiniani dell’arco compaiono le immagini di Sol oriens e di Luna occidens e, come noto, nei Fasti Filocaliani, al 28 agosto, è regolarmente registrato il giorno festivo Solis et Lunae. Del resto non si può escludere neppure una data più tarda, con riferimento alla devozione di Giuliano per il culto del Sole. In questo contesto, come a suo tempo osservava Pierre Salama, i miliari avevano una chiara funzione “propagandistica”, tesi a diffondere fra i viandanti quei concetti cari all’amministrazione imperiale: è quindi significativo che anche a Sas Presones, evidentemente uno fra i punti nevralgici della viabilità isolana, trovassero posto simili forme di propaganda.

Rimane sullo sfondo un enigma irrisolto, quello di comprendere le ragioni che hanno portato a raccogliere in un’unica località un numero tanto alto di miliari. Come è noto esistono punti miliari della Sardegna che hanno restituito in passato anche una decina di miliari, come a Sbrangatu presso Olbia. Eppure non escluderemmo che i miliari  di Sas Presones siano stati prelevati da diversi punti miliari vicini dopo esser stati sostituiti, quindi accatastati in un centro di raccolta, presso un edificio pubblico alla radice della strada per Olbia, proprio perché si trattava di un praetorium controllato direttamente dal governo provinciale. E dunque non escluderemmo che i lapicidi itineranti incaricati di reincidere e aggiornare i miliari dismessi potessero far capo ad un’officina lapidaria localizzata a ridosso di Sas Presones.

 

2. Tra i cippi collocati sotto il pavimento, possiamo presentare per il momento almeno il fac-simile del miliario che sembra debba essere riferito al regno di Costanzo Cloro e Galerio Augusti, Severo e Massimino Daia Cesari, posto a cura del praeses Galerius (?) Valerius Domitianus nell’anno 305-6, come è possibile ipotizzare sulla base di un confronto con un altro miliario già noto trovato a Code in comune di Torralba al miglio 118°. Il governatore è ampiamente conosciuto in Sardegna sui miliari e anche nella dedica a Galerio ancora Cesare di Turris Libisonis.

Il testo è inciso su una pietra cilindrica della trachite del Meilogu, delle seguenti dimensioni: circonferenza 123 cm, alt. 55 cm.

—— / — novilissmo [Cae]/sari cor[a]n[te ?] / [Valeri]o Domitiano / [v(iro) p(erfectissimo)] presidi pro[vinciae Sardiniae —].

La condizione della pietra non permette neanche in questo caso di verificare se il preside Domitianus facesse precedere a Valerius, il nome Galerius, come a suo tempo sottolineato da Armin Stylow e Maria Antonietta Boninu per il miliario di Torralba, un’ipotesi che purtroppo, forse a causa di un successivo deterioramento della pietra, non ha trovato riscontro nella lettura fornita da Giuseppina Oggianu nel 1990. È  d’altro canto curioso osservare come tutti i testi del praeses siano allo stato attuale delle nostre conoscenze concentrati nella parte settentrionale dell’isola, nel triangolo compreso fra Olbia, Portotorres e Torralba, quasi che questo ristretto territorio, nevralgico per i rifornimenti annonari verso Roma, fosse stato oggetto di particolare attenzione del governatore.

 

3. Una lastra rettangolare e a sviluppo verticale, nella trachite del Meilogu, collocata originariamente sul pavimento dell’ambiente 2, conserva su 15 linee un testo che solo in parte è possibile ricostruire: per il momento rimandiamo al fac-simile realizzato da Salvatore Ganga, senza ulteriori precisazioni. Come abbiamo osservato più sopra, il testo va difficilmente identificato con CIL X 8017 pubblicato dallo Spano (sopralluogo dell’anno 1849).

Dimensioni: alt. cm. 87, largh. cm. 35

M(ilia) [p(assuum) CX ?]. / [I]mp(eratori) Caes(ari) / D(omino) [n(ostro) ..] Ga/[lerio Valer]io ? S[.]/ A (vacat) Maxim[.]/[…](vacat) Aug(usto) / [co](n)s(uli) [..] proc[o(n)s(uli)] / F[la(vio)] Val(erio) Sev[ero] / [Ga]l(erio) Val(erio) Ma[x]i/[m]iano  et F ? Vale(rio ?) / [Consta]nt ? Max[..] vel [po]nt(tifici) max(imo) / [cu]rante San[..] / idem p[.]aaesi(de) / [S]ard(iniae) v(iro) e(gregio) ? nu/[mini ? de]v(o)to e[o]r[rum]?

A prima vista si tratta di un miliario stradale proveniente da località vicina, del quale è tuttavia è difficile comprendere il testo, molto usurato e probabilmente fratto lungo lo spigolo sinistro. Solo con estrema cautela potremmo quindi pensare al collegio della Terza Tetrarchia, non ancora attestato in Sardegna e rarissimo nell’impero, quando l’isola sotto un governatore anonimo (forse ricordato nelle ultime linee del testo), nella confusione posteriore alla morte di Costanzo Cloro, non era ancora passata a Massenzio (dunque anteriormente all’anno 308). In quel momento non doveva essere ancora nota la morte di Severo avvenuta forse nel settembre del 307. In questo caso accanto a un Galerio con una titolatura quasi tradizionale (evento non raro nelle iscrizioni di questo imperatore), che in questa fase aveva già ricoperto per sei volte il consolato, forse accompagnato da alcuni cognomina ex virtute, troveremo correttamente al secondo posto Valerio Severo (secondo Augusto), Massimino Daia e forse Costantino; resterebbe da spiegare in questo caso la forma finale MAXIM (non pare convincente una restituzione pont(ifici) maxim(o), in posizione alquanto inusuale rispetto ai formulari standard). Suggestivo ma difficilmente dimostrabile il ricordo sul miliario anche di Massenzio come ultimo dei Cesari, quindi in un momento fra il 28 ottobre 306 e presumibilmente la fine di quello stesso anno, quando i tentativi di una pacifica conciliazione con Galerio sfumarono di fronte all’attacco di Severo contro Urbe. Eppure una dedica da Tebessa, in Algeria, lo ricorda accanto a Costantino, almeno se stiamo ad una controversa restituzione proposta da Stephan Gsell. Non si può negare d’altronde che possa esser esistito un legame fra la Sardegna e Massenzio ben prima della conquista, sia perché in passato la provincia era stata sotto il controllo del padre Massimiano, che ora appoggiava il figlio nella sua scalata al potere sia perché il signore di Roma, grazie alla flotta del Miseno, finiva per esercitare un controllo anche sull’isola. Un collegio formato da cinque Augusti non sembrerebbe attestato al momento in nessuna altra parte dell’impero.

 

4. In attesa di un esame più esteso della documentazione epigrafica, attualmente non direttamente accessibile sotto il pavimento in corso di restauro, appare di maggiore interesse il discorso topografico sulla viabilità locale, utilizzando i recenti risultati delle ricerche condotte da Maria Giuseppina Oggianu e Lorenza Pazzola sulla base dei numerosi miliari che modificano alquanto l’immagine fornita dall’Itinerario Antoniniano per la via a Tibula Carales: la carta topografica che presentiamo, curata da Salvatore Ganga, rappresenta un primo tentativo di sistematizzazione dei dati disponibili.

Se collochiamo il nostro punto di vista a Bonorva, in direzione Sud possiamo lasciare da parte in questa sede intanto la strada centrale che, partita da Turris, dalla Campeda raggiungeva Carales: essa toccava l’antica fortificazione punica di San Simeone, quindi la cantoniera Tilipera in regione Salamestene e risaliva l’altopiano, superando il Punto Culminante (in località Pedra Lada, quota 669 m s.l.m., col 109° miglio da Carales), Berraghe, Padru Mannu presso il bivio per Bolotana, il ponte sul Rio Temo (miliario con l’indicazione di lavori di restauro effettuati dai Severi e massicciata di S’Istriscia); toccato il Nuraghe Boes, raggiungeva Mulargia. Qui presso il nuraghe Aidu Entos, forse al 100° miglio da Carales è stato localizzato il limite del popolo degli Ilienses, che occupavano il Marghine ed il Goceano fino al Tirso. Oltrepassata Molaria la strada proseguiva per Ad Medias, Forum Traiani e Othoca.

In direzione Nord, possiamo ugualmente sorvolare sul tronco principale per Turris Libisonis, che da San Simeone di Bonorva raggiungeva San Francesco e poi entrava in comune di Giave a Corona Pinta e Campu de Olta, per proseguire verso Prunaiola di Cheremule, Torralba, Bonnanaro, Mesumundu di Siligo. Credo vada riferito a questo tronco il  miliario di Rebeccu, più volte citato, con XLII miglia [a] Turr[e], che in passato si riteneva trasferito in età moderna, ma che potrebbe essere stato collocato nell’edificio di Sas Presones già in età tardo-antica, se chi costruì l’edificio termale raggruppò i miliari dalle aree circostanti e non dal solo punto miliario CXI.

Dobbiamo invece concentrarci sulla variante orientale per Olbia, che si originava in comune di Bonorva nella parte settentrionale della Campeda in direzione di Rebeccu all’incirca al 112° miglio (si ricordi che il Punto Culminante di Pedra Lada porta il 109° miglio da Carales) ed arrivava ad Olbia, che va ora collocata al 177° miglio. La variante era dunque lunga 65 miglia, cioè 96 km, tra Bonorva ed Olbia. Essa è parzialmente documentata anche dall’Itinerario Antoniniano con due stazioni della centrale sarda a Tibula Carales:

Hafa oggi Mores (24 miglia, 35 km a Nord di Molaria);

Luguidonis c(astra) oggi Nostra Signora di Castro in comune di Oschiri (24 miglia, 35 km a NE di Hafa e 25 miglia, 37 km a Sud di Gemellae-Perfugas).

La documentazione più significativa è però rappresentata dai numerosi miliari ritrovati a Nord di Bonorva (l’ultima scoperta in località Mura Ispuntones), con la numerazione delle miglia calcolata sempre da Carales, tranne il miliario di Errianoa di Berchidda che ha l’indicazione 24 miglia, calcolate evidentemente da Olbia nell’età di Magno Massimo e Flavio Vittore. Del resto anche un miliario di Sbrangatu con 5 miglia nell’età di Costantino II  (accanto a quelli con 170 miglia) ci conferma l’esistenza di un computo inverso meno frequente; ma ciò non sembra dover comportare un mutamento nella denominazione ufficiale della strada alla fine del IV secolo.

Il tratto iniziale si staccava dalla strada a Turre a Nord della Campeda di Bonorva (lungo il tratto tortuoso di Sa Pal’e Càcau); la strada per Olbia, raggiunto San Lorenzo e poi il bivio di Rebeccu, doveva toccare secondo Emilio Belli Pedra Peana e, superato su un ponte nella piana di Santa Lucia il Rio Casteddu Pedrecche, aggirava a Est la palude e raggiungeva, alle falde del Monte Frusciu, le località di Mura Ispuntones nel versante nord-occidentale dell’altopiano di Su Monte, al punto miliario 114 (168 km da Cagliari), documentato dal cippo dell’anno 248 dei due Filippi durante il governo di Publio Elio Valente.

Il punto miliario successivo era a Mura Menteda in comune di Bonorva (circa 8 km a NNE dal paese): siamo certamente al 115° miglio da Carales (170 km), come testimonia un miliario di Costante Cesare posto tra il 333 ed il 335 dal perfettissimo  Fl(avius) Titianus.

La strada procedeva quindi per S’ena ‘e sa Rughe, passava il rio Badu Pedrosu, proseguiva ad Est per la borgata di Monte Cujaru, la caratteristica collina vulcanica del Logudoro, che ci ha restituito (senza la numerazione delle miglia) i miliari che attestato dei restauri al tempo di Filippo l’Arabo con il praefectus et procurator provinciae Sardiniae M. Ulpius [V]ictor, di Valeriano e Gallieno con [P. Maridius Ma]ridian[us], di Diocleziano e Galerio con il governatore Val. Fla[vianus]; il cippo dedicato a Costantino il Grande con il già ricordato governatore vir clarissimus T. Semptimius (!) Ianuarius si configura invece come un miliario “di  propaganda” (si noti la formula finale devotus numimi maiestatique eius) piuttosto che prova di reali lavori condotti.

Da località ignota nei pressi di Bonorva, probabilmente in un punto corrispondente al 116° o 117° miglio, durante dei lavori agricoli svoltisi nel 1973, proviene un cippo irregolarmente cilindrico di trachite, sul quale si legge il nome di [H]eraclitus, forse riferibile al governatore della Sardegna fra il principato di Decio e quello di Treboniano Gallo e Volusiano.

La strada proseguiva lungo il viottolo campestre che costeggia Planu Chelvore presso Monte Calvia: da qui provengono i miliari con il 117° miglio da Carales, uno dei quali fu posto dal prefetto Octabianus a Massimino il Trace.

Il punto miliario successivo (dove sono stati scoperti ben cinque cippi) è quello del versante occidentale della valletta di Code all’estremo lembo orientale del comune di Torralba, con l’indicazione del 118° miglio nell’età di Elagabalo (anno 220) e del divo Aureliano. La medesima località ha restituito inoltre cippi dedicati ai Cesari Erennio Etrusco e Ostiliano, probabilmente a Decio o Treboniano Gallo e Volusiano da M. Ant. Sept. H[eraclitus], a Valeriano e Gallieno da [P. Maridius Ma]rid[ianus], per Costanzo Cloro, Galerio, Valerio Severo e Massimino Daia, forse ad opera di Valerio Domiziano, a Costanzo Cloro dal già ricordato Valerio Domiziano: in quest’ultimo caso il cippo non fu posto per un reale o presunto restauro della strada ma più verosimilmente come atto di devozione del governatore all’imperatore che nella gerarchia tetrarchica deteneva, almeno nominalmente il primato nel collegio degli Augusti.

Resti delle carraie rimangono presso il nuraghe Mendula, da dove la strada raggiungeva la depressione di Silvaru-Add’e Riu in comune di Mores, con almeno tre miliari (due con il 119° miglio da Carales) come quello di M. Ulpius Victor sotto Filippo l’Arabo o quello di M. Calpurnius Caelianus sotto Valeriano e Gallieno o quello di M. Aurelius Quintillus sotto l’impero del fratello Claudio il Gotico.

La strada raggiungeva Su Coticone di Mores, con il miliario ancora di M. Ant(onius) Sept(imius) Her[aclitus] a Decio, Erennio Etrusco e Ostiliano; toccava quindi Planu Alzolas e superava il Rio Mannu di Mores sul Ponte Edera o meno probabilmente  sul Ponte Etzu di Ittireddu.

Alla periferia di Mores, in località Santa Maria ‘e Sole presso la collina dal caratteristico toponimo Montigiu de Conzos va collocata la stazione di Hafa, che si trovava secondo l’Itinerario Antoniniano 24 miglia, 35 km a Nord di Molaria; la strada toccava forse San Giovanni Oppia, la Tola di Mores e raggiungeva il bivio di Sant’Antioco di Bisarcio: qui, in località San Luca, va riportato il miliario del Cesare Delmazio che conserva la menzione del 131° miglio da Carales. La strada si dirigeva decisamente ad Est, superava quindi il Rio Mannu di Ozieri sul Pont’Ezzu di Ozieri (un grande ponte a sei arcate, lungo quasi un centinaio di metri), quindi evitava l’area paludosa del Campo di Ozieri; altri ponti sono quelli di Badu Sa Femmina Manna e di Castra, coperto dal lago Coghinas; qui la strada raggiungeva Nostra Signora di Castro in comune di Oschiri, dove localizziamo i Luguidonis c(astra) della cohors III Aquitanorum, della cohors Ligurum e della cohors Sardorum.

Come si vede, la documentazione rimastaci è abbondante e testimonia un’attenzione del governo imperiale per la viabilità tra il Meilogu, il Monteacuto e la piana di Olbia che si sviluppa soprattutto in età tardo antica: solo alla fine del IV secolo risale dunque l’edificio di Sas Presones che reimpiega miliari stradali che dall’età di Galerio arrivano almeno fino a Costantino od a  Giuliano. La vitalità del territorio appare sicura almeno fino all’arrivo dei Vandali alla metà del V secolo, di cui ci rimane una testimonianza vivacissima, l’affondamento delle navi del porto di Olbia.

A.Mastino, P. Ruggeri, La viabilità della Sardegna romana. Un nuovo praetorium  a Sas Presones di Rebeccu a nord della biforcazione Turris-Olbia ?, in Palaià Filìa. Studi di topografia antica in onore Giovanni Uggeri, a cura di Cesare Marangio e Giovanni Laudizi, Mario Congedo editore, Galatina 2009, pp. 555-572.

Riassunto: Storia. La viabilità della Sardegna romana. Un nuovo praetorium a Sas Presones a Rebeccu, “Almanacco Gallurese”, Giovanni Gelsomino editore, 2009-10, pp. 314-320.




Tonino Oppes, Il ballo con le janas, Racconti.

Tonino Oppes, Il ballo con le janas, Racconti, Domus de janas editore, Cagliari 2015
Pozzomaggiore, 5 gennaio 2016

Per questa serata si è mobilitato il Comune di Pozzomaggiore, Isperas, gli alunni della Suola Media, l’editore Domus de janas. Grazie a Gianni Piu e a Paolo Pillonca per i loro interventi.

Tonino Oppes continua a percorrere una sua strada originale, con una prosa luminosa e una narrativa che emoziona, con questo volume dedicato alle leggende sulle janas della cultura popolare sarda, reinterpretando in copertina e nel testo il celebre quadro La danza di Liliana Cano, un’artista ribelle e non convenzionale che amiamo. Ma questa volta si fa accompagnare dalle nitide illustrazioni di Daniele Conti, che raffigurano una danza scatenata, quella di quattro bellissime fate che travolgono la vita del giovane protagonista, Antine, un ragazzo  capace di amare, di sognare e di vedere al di là del reale. Un incantamento.

Checché ne pensi l’autore, anche se l’ispirazione di queste 15 storie è davvero legata alla cultura popolare della Sardegna, alle tradizioni dei paesi e delle campagne sarde, in particolare a Pozzomaggiore, c’è una dimensione personale che prevale, una visione del mondo positiva e poetica, il mito della bellezza, dell’amore, del ballo, della musica, della festa, che sembrano aspetti periferici e dimenticati della cultura sarda tradizionale, rappresentata purtroppo sempre come animata da una barbarica ribellione a un ordine sociale ingiusto e inaccettabile. La poesia di Sebastiano Satta metteva in luce tutta la tragedia della Sardegna, immortalata come “madre in bende nere che sta grande e fiera in un pensier di morte”.

Non che manchino in queste pagine le cose terribili, i drammi e la povertà della Sardegna, la siccità, i malefici, la musca maccedda, Lughia rabiosa come presso la domu de janas, una tomba neolitica di Pompu, sul Monte Arci oppure sulla vetta di Cuccureddì sul M. Santa Vittoria a Esterzili (a circa mille metri di altitudine). Qui la tradizione narrava i misteri della Domu de Orgìa, la casa della maga, nota in tuta la Sardegna come Luxìa Arrabiosa o Georgìa Arrabiosa, distrutta dal dolore per la perdita dei figli e ridotta in pietra, come la sventurata Niobe della tradizione classica. Pietrificata  come il contadino blasfemo che aveva continuato ad arare mentre passava la processione di San Marco a Tresnuraghes. Oppure le altre spaventose immagini del repertorio abituale di un’isola irrigidita e chiusa su se stessa nel dolore, le streghe malefiche condannate dall’opinione pubblica o dall’inquisizione, come nel caso della bruxia Julia Carta originaria di Mores a Siligo, capace di scagliare i malefici e di manipolare forze oscure, alla fine condannata e costretta ad abiurare nel castello di Sassari nel 1596.  L’invidia, le uccisioni dei vecchi, i sequestri, la criminalità che risorge ancora oggi anche là dove non ti aspetti.

Ma Tonino Oppes scopre la dolcezza della memoria, ritrova il filo dei ricordi di un’infanzia luminosa e spensierata che è stata felice, è capace di far emergere l’incanto di una Sardegna diversa, dove le Janas non sono le malefiche bitie dalla duplice pupilla che inceneriscono con lo sguardo, le streghe del Malleus maleficarum, ma donne innamorate della vita, timide nei loro affetti, custodi di tesori luccicanti, che come Tidora sanno donare una felicità senza tempo, fatta di passione e di dedizione senza ricompense, di gioia : <<qualche volta – racconta Tidora – dopo aver fatto l’amore, abbiamo portato i nostri uomini nel palazzo di Monte Oe, per mostrargli i tesori nascosti in un grande pozzo scavato nell’ultima stanza. Durante il viaggio gli spiegavamo come comportarsi, dovevano solo guardare>>. Antine aspetta Tidora nel suo letto, lei lo trova bellissimo, per un anno intero lo bacia appassionatamente, danza con lui magicamente, gli fa scoprire l’amore al ritmo di una musica soave; e lui la osserva quando lei vola via, senza voltarsi indietro; la fata gli aveva lasciato in bocca un forte profumo di frutto di corbezzolo maturo, appena raccolto, dopo una notte di rugiada, come nella campagna sarda non più fatta solo di rocce e di vento, descritta nel libro di Ignazio Camarda Custa bella de ervas familia e de animales.  Allo stesso modo il poeta Orlando Biddau raccontava l’amore per la sua donna, sentendolo pian piano spegnersi: <<Se il comune sentiero dovesse biforcare, / l’incubo della tua assenza s’addolcirà / nel tempo come sorba o dattero o corbezzolo, / solo per il calore assicurato a una casa >>.

Contribuisce a definire questo clima fiabesco l’ammirazione per un ambiente naturale incontaminato pro custa terra de Musas, santa et beneitta e per una cultura millenaria sintetizzata dalle misteriose finestrelle buie delle domus de janas preistoriche scavate sui costoni del Monte Chirisconis che si affaccia sul Rio Badu ‘e Crabolu a Suni, quasi fosse una torta di marzapane abitata da minuscoli geni benefici. Proprio a Suni io stesso ho scoperto i miei primi nuraghi, prima a Nuraddeo nell’altipiano di Pedrasenta sulla strada per Padria, arrampicandomi sul finestrone della grande torre e poi scendendo per la scala interna nelle viscere del nuraghe, fino alla camera più bassa, con la sua nicchia poligonale interrata, un luogo pieno di fascino e di mistero. Altre volte scendevamo a piedi lungo il viottolo di Binzales, verso la vallata di Modolo, al margine dell’altopiano della Planargia, fino ad arrivare al protonuraghe Seneghe, che ci impressionava per i suoi cunicoli al posto dell’ogiva, per le sue nicchie, per i suoi crolli, per le sue scale, all’esterno per le vaschette in pietra usate ancora dai pastori per abbeverare i maiali. Infine Sirone, con i suoi misteri raccontati da Pietro Casu, il monastero dei cistercensi di Sant’Ippolito completamente demolito dove la leggenda voleva che si conservasse un tesoro medioevale, unu siddadu custodito da un cane demoniaco.  Mi rendo conto che sto spostando la scena un po’ troppo verso il mare e sto mischiando i miei ricordi con quelli dell’amico; eppure c’è in questo libro anche il mare di Bosa, osservato dalle colline da chi vorrebbe partire verso altri mondi come da Palos. E poi  quella strada attraversava finalmente il fiume Badu ‘e crabolu e alla fine ci faceva arrivare a Gurulis vetus, Padria, la città delle tre colline, tanto legata al mito di Ercole e dei suoi 50 figli, che sono al centro del XII capitolo di questo libro, l’isola dei miti, che fa riemergere l’idea che nell’immaginario collettivo già degli antichi greci e romani la Sardegna fosse una terra fertililissima, eudaimon, felice, apportatrice di tutti i prodotti, una terra dove i figli di Eracle e i loro discendenti avrebbero mantenuto per sempre la libertà promessa al padre dal dio Apollo. Bene ha fatto Tonino ad allargare lo sguardo all’immagine ideale e fiabesca che gli scrittori classici avevano sulla Sardegna, un punto di vista esterno ma non estraneo alla realtà sarda: quella che per Erodoto era l’isola più grande del mondo, appariva nei miti greci come una terra “felice”, che per grandezza e prosperità eguagliava le isole più celebri del Mediterraneo; le pianure erano bellissime, i terreni fertili, mancavano i serpenti, i lupi, altri animali pericolosi per l’uomo, non vi si trovavano erbe velenose (tranne quella che produceva il “riso sardonico”); collocata nell’estremo Occidente, l’isola appariva notevolmente idealizzata, soprattutto a causa della leggendaria lontananza e collocata fuori dalla dimensione del tempo storico. Ciò non significa affatto però che i Greci e più di loro i Cartaginesi ed i Romani non avessero informazioni precise sull’ambiente e sulla società isolana, variamente intrecciate con il mito: il paesaggio in particolare era sentito come fortemente originale, caratterizzato da una incredibile biodiversità, percorso sulle montagne dai mufloni, nelle lagune dai fenicotteri, sulle montagne dai molti e grandi uccelli – megalon ornéon kai pollòn; ma erano soprattutto i nuraghi dell’età del bronzo che marchiavano il paesaggio isolano modificato dall’uomo, le torri a cupola, «le tholoi dalle mirabili proporzioni costruite all’arcaico modo dei Greci», che il mito attribuiva a Dedalo, l’eroe fondatore dell’architettura greca, arrivato in Sardegna su invito di Iolao, il compagno di Herakles; nuraghi forse distrutti dallo schiaffo di un dio, dall’onda voluta da Poseidone, per soffocare l’Atlantide del mito. L’Eracle di Gurulis (identificato con il libico Maceride con il fenicio Melqart) era il leggendario padre di Sardus, il dio venerato nel tempio di Antas assieme al padre contubernale in due diversi penetrali. Quella che veniva poeticamente chiamata l’”isola dalle vene d’argento”, divenne poi Ichnussa e Sandaliotis, una terra fortunata, caratterizzata da una mitica eukarpía, da una straordinaria abbondanza di frutta e di prodotti: il latte, il miele, l’olio, il vino, che si attribuivano alla generosità del dio Aristeo, il figlio di una ninfa. Ancora nel IV secolo l’Expositio totius mundi parlava di una Sardinia ditissima fructibus et iumentis et valde splendidissima. Gli antichi definivano la bellezza del paesaggio attraverso le ninfe che abitavano il Golfo delle Ninfe, Porto Conte, attraverso la ninfa Ciene amata da Apollo, madre appunto di Aristeo e attraverso la sposa di Ermes, l’Erizia di Gades, all’estremo occidente, madre di Norace il fondatore di Nora.

I miti classici intorno a Gurulis Vetus  trovano un riscontro nella realtà delle scoperte archeologiche che raccontano di Eracle e della sua clava, del leone e delle sue fatiche, di Minerva che ha dato il nome all’altopiano che separa Romana da Montresta, la dea greca che viene raccontata nell’VIII capitolo con accenti originali e inattesi. Risalendo la stradina che dal lago sul Temo conduce al piede del Monte Minerva ogni settimana rientrando a Bosa osservo la rocca dei Doria e il pittoresco villaggio fortificato di Monteleone, e poi sul colle di Monte Minerva, più in alto le varie diramazioni fino ad arrivare al misterioso Palazzo Minerva di Luigi Canetto, le tante fattorie ancora oggi popolate di cavalli e di altri animali  che si fanno accarezzare dal viaggiatore. Erano stati gli Ateneniesi arrivati assieme ai figli di Eracle secondo il mito greco a fondare Gurulis: e qui il protagonista osserva la dea ateniese protetta dal caratteristico elmo intenta a trasformare la capanna originaria in un grande palazzo e al risveglio si trova al centro di un sogno inatteso: <<dormiva in un letto vero, sopra un comodo materasso. Non c’era più la stuoia, ma soprattutto non c’era più la capanna. Si trovava dentro una casa con tante stanze, in una c’era un telaio nuovissimo>>. Come impazzito è uscito di corsa e davanti alla porta ha trovato uno splendido cavallo: era nero, come piaceva a lui. Lo ha osservato bene, aveva la coda di seta. E’ saltato subito in groppa, lanciandolo al galoppo. Nell’aria, la gioia del ragazzo si fondeva con il suono metallico degli zoccoli del cavallo, che sembrava fatato. L’animale dalla coda di seta correva veloce, più veloce dell’aquila reale che aveva steso le sue ali in cielo e volava lontano dal nido. Il giovane correva ora nel territorio di Villanova tra Punta Cancarados, Monte Ozzastru, fino alle cascate di Sa Entale, dove finiva per incontrare le janas di Sas Concas, che lo avrebbero fatto re di questo Monte: un luogo splendido, che nella primavera profumava di rose.

Ma se lasciamo da parte per un momento gli altri luoghi, al centro di questo libro, nel cuore dell’autore, c’è il paese amato, Pozzomaggiore, il luogo dell’infanzia, con intorno tutta la Sardegna con il suo ambiente naturale, dal villaggio abbandonato di Rebeccu fino ad Aritzo o ad Orani, dal nuraghe Appiu che si affaccia sul Marrargiu fino alla misteriosa Pedra Mendalza, il condotto vulcanico di Annaru a Giave che abbiamo visto essere il luogo dove sono ambientate altre leggende ed altri tesori; e poi le fate di Sos Sette Coroneddos di Banari, di Mandra Antine a Thesi, di Santa Lucia di Bonorva, di Bonuighinu di Mara, del dolmen di Sa Coveccada sotto il Monte Santo di Mores, di Funtana Pinta di Siligo, di Museddu a Cheremule, di Enas de Cannuja a Bessude, la voragine di Mamuscone a Cossoine, perfino i castelli come quello di Roccaforte a Giave o di Bonvehì-Bunuighinu.  Tanti luoghi diversi, fino alla rupe scavata con tante camere sotterranee di Sant’Andrea Priu ai piedi di Rebeccu a Bonorva, compresa <<una stanza dipinta con i colori della terra e del cielo>>, che avrebbe ospitato le janas. Uno spazio straordinario, con le pitture delicate che dalla preistoria arrivano all’età romana e oltre. A due passi da qui ho avuto anch’io un’emozione forte, a Sas Presones di Rebeccu, visitando l’edificio isolato, che sembra una casa colonica, ma che in realtà è quello che resta dell’antico praetorium imperiale con le terme destinate agli alti funzionari che da Karales raggiungevano Olbia lungo la via romana. Intorno, i luoghi conservano prodigiosamente ancora oggi il paesaggio antico, al piede delle colline vulcaniche del Meilogu e lungo la piana un tempo paludosa di Santa Lucia, sulla direttrice per Olbia, dopo la biforcazione per Turris.  Gli ambienti ancora in piedi hanno volta a botte e un pavimento in pietra che poggia su venti pilastrini per consentire il passaggio dell’aria calda per l’ipocausto delle terme: crollando parte del pavimento, dopo duemila anni, abbiamo ritrovato uno spazio sotterraneo che emoziona perché segnato dalle scritture antiche dei miliari del 122° miglio da Karales (183 km da Cagliari) abbandonati al margine della strada e reimpiegati nell’impianto termale tardo-antico.   Rimane sullo sfondo un enigma irrisolto, quello di comprendere le ragioni che hanno portato a raccogliere in un’unica località un numero tanto alto di miliari. Come è noto esistono punti miliari della Sardegna che hanno restituito in passato anche una decina di miliari, come a Sbrangatu presso Olbia. Eppure non escluderemmo che i miliari  di Sas Presones siano stati prelevati da diversi punti miliari vicini dopo esser stati sostituiti, quindi accatastati in un centro di raccolta, presso un edificio pubblico alla radice della strada per Olbia, proprio perché si trattava di un praetorium controllato direttamente dal governo provinciale. E dunque non escluderemmo che i lapicidi itineranti incaricati di reincidere e aggiornare i miliari dismessi potessero far capo ad un’officina lapidaria localizzata a ridosso di Sas Presones, oggi un luogo che ha il sapore profondo di una eloquente verità di vita, sintesi della storia lunga della nostra terra.

Ma in realtà i luoghi di questo libro sono quelli delle campagne di Pozzomaggiore, Monte Oe, Cannas de Chegia, S’oltu de sa ide, Pischina niedda, luoghi dove le stelle che guidano il cammino degli uomini si fermano sopra i colli, come sul colle di San Pietro con la sua chiesa medioevale; oppure sul misterioso palazzo di Monte Oe, mentre le fate che percorrono la strada per Cossoine arrivano fino al nuraghe Alvu, a questo stranissimo nuraghe coronato di calcare che caratterizza il paesaggio della valle.  Dal villaggio attorno al nuraghe era forse originario il soldato che conosciamo dal nuovo diploma trovato a Posada, il fante ex pedite Hannibal Tabilatis f(ilius) (si noti il nome punico) nato presso il Nur(ac) Alb(-), sua moglie – con nome paleosardo come il suocero e il padre – Iuri figlia di Tammuga, uxor eius Sordia (da intendersi come un vero e proprio etnico, difficilmente Sarda), i figli Sabinus e Saturninus con onomastica latina perché destinati al servizio militare; infine le figlie Tisare, Bolgitta, Bonassonis (?), tutte con nome paleosardo.

Dopo la crisi e la dissoluzione dell’età nuragica e la fine dell’età romana, durante l’età dei Giudicati dalla campagna è nato il paese, le sue case, le sue vie, le sue piazze: e il mistero è quello di saper tornare indietro nel tempo, immaginare e ricordare la leggenda della Jana che si era innamorata di un giovane, aveva ottenuto di poter vivere qui, accanto al suo uomo, aveva chiesto di poter costruire la sua casa vicino ad un pozzo: <<Così è nato il paese, in un avvallamento non lontano dal luogo in cui abitavamo già noi janas. Prima una casa, poi un’altra ancora, poi una chiesa, poi un’altra ancora. Una via, una piazza, tante piazze. I campi coltivati a grano, i vigneti, i pascoli abbondanti colorati dal bianco di migliaia di pecore, la terra ricca di acqua, uomini, donne e bambini che arrivavano dagli altri villaggi abbandonati. Almeno allora era così. Anche noi janas eravamo felici. Andavamo molto spesso in paese a ballare, a divertirci di notte, dopo un’intera giornata di lavoro>>. Ho scritto in questi giorni che non riesco a recitare i brani letterari come faceva un tempo Enzo Espa, lo scrittore nuorese scomparso un anno fa, con quella sua voce che costruiva paradossi, che modulava toni tra loro distanti, che faceva immaginare misteri lontani, con una profondità che lasciava incantati gli ascoltatori. Anche lui aveva scritto novelle, ma dure, nuoresi, pubblicate da Guido Fossataro a Cagliari nella bella raccolta di Racconti Nuoresi illustrati proprio da Liliana Cano, ahimé quaranta anni fa.

Altre leggende tradizionali le ho lette nei giorni scorsi a Suni in lingua sarda per la terza edizione del Premiu de contadura in limba sarda “Contos e Paristorias”, con tanta fantasia, curiosità, voglia di ritrovarsi. Ma la scrittura di Tonino Oppes è più limpida, i sentimenti via via che invecchia prorompono senza dighe, senza freni, con la voglia forte di ricordare per tutti, perché al centro di questo libro c’è il tema della memoria, un bene prezioso, una leva per far risorgere una terra che inevitabilmente si spopola, che ha bisogno di motivazioni forti per restare unita, perfino ha necessità di una capacità nuova di compatire e di compatirsi, di sacrificarsi per gli altri, perché come si esprime la mamma raccontata da Remundu Piras  ja basto deo a piangher po tres.

Ci sono nelle orecchie di Tonino ancora i canti uditi da ragazzo, come l’espressione <<dacci l’acqua o Signore che siamo stremati per la siccità>>, ripreso dal poeta di Modolo Orlando Biddau in una poesia del 1966, Sa Siccagna:

E filàda una corona de pruinca andaian

cantende de domo in domo: ” Dadenos
s’abba  Segnore: sos pitzinnos cherent
pane sos pastores cherent erba,
sos avantzos de sa chena dàdenos…”

Custa càlema frimma in garrela sas musca
suta petas in camula appietadas , in bidros
consumidas su mesu die affrebbadu,
sa campagna ch’attitan desoladas
furriadorzas de chigula; e s’ajania
chi ti che trazat in s’umbra ‘e s’aposentu
ue sognos s’ingalinan e disizos,
cun sa broca imbagantas in su jannile;
ed est terra de rosina in s’impedradu
ue passas andende a sa funtana,
a manu in chintu, broca a duas
asas, pienas de frores siccos
sas petorrras, de arrascios sos ojos.

Cherrinde sas isperas ch’ispighende

andas in sa messera, sen’isetu

ti remuzas sas dies, una pena cumassende
sena madrighe; e su cabu chilchende
in su ghindaalu  ‘e sa vida s’imbudrugliat

s’azzola.

Ma it’affinada como
isettas chi su tunciu nieddu ziret i
n frisca risada: as a viziliare ista
note a lampana alluta su segretu

de su ‘eranu chi morit

ajanu, chi s’isprunit in allegria.

Sutta sa parra de sa luna

noa benis dae sa funtana

sa broca a cuccuru

s’andanta lenta.

Oppure il suono delle launeddas. Il correre dei cavalli per la festa di Costantino. O anche il gusto dolce della narrativa popolare che si conserva dall’infanzia, quando i bambini si nutrivano di pane e colostro e nella piazza di Pozzomaggiore circondavano il vecchio narratore che li incantava con le sue immagini e con la sua tradizione orale. Oggi se possibile ci trasmette ancora di più la voglia di continuare a sognare ed a farci sognare, di riuscire a ricavare per ciascuno uno spazio di solitudine e di silenzio – ma non di isolamento -, dove cogliere i suoni, i profumi, i misteri della nostra terra antica. Di guardare al futuro consapevoli di un’identità ricca e profonda.

C’è da chiedersi perché il paese di Pozzomaggiore abbia tanto peso in questo libro, perché ciascuno di noi è rimasto attaccato ad un paese dal quale non riesce a staccarsi. Come non pensare al romanzo La luna e  i falò di Cesare Pavese, scritto proprio negli anni della nostra giovinezza:  «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».




La Tavola di Esterzili

La Tavola di Esterzili

Il documento epigrafico più importante rinvenuto in Sardegna è la Tavola di Esterzili, con la trascrizione di una sentenza con la quale il proconsole Lucio Elvio Agrippa condannava durante l’età di Otone i pastori sardi della tribù dei Galillenses: si tratta di un esempio significativo di una politica tendente a privilegiare l’economia agricola dei contadini immigrati dalla penisola italiana in Sardegna. Inciso sicuramente a Carales il 18 marzo 69, esposto al pubblico per iniziativa dei Patulcenses originari della Campania all’interno di un villaggio agricolo, il documento (scoperto nel 1866, studiato da Giovanni Spano e Theodor Mommsen e conservato al Museo Nazionale di Sassari) ci informa su una lunga controversia, conclusasi con una sentenza con la quale il governatore provinciale ripristinava la linea di confine fissata 170 anni prima dal proconsole Marco Cecilio Metello, dopo una lunga campagna militare durata per almeno cinque anni e conclusa con la sconfitta della popolazione locale e con il trionfo del generale vittorioso celebrato a Roma fino al tempio di Giove Capitolino.

Il documento (una lastra di bronzo larga 61 cm, alta 45 cm e pesante circa 20 kg) fornisce informazioni preziose sul governo provinciale, passato nell’età di Nerone dall’imperatore al Senato, sul funzionamento degli archivi in provincia e nella capitale e sul conflitto tra pastori indigeni dediti all’allevamento transumante e contadini immigrati dalla Campania, sostenuti dall’autorità romana, interessata a contenere il nomadismo sul quale si alimentava il brigantaggio; ma anche decisa a valorizzare le attività agricole ed a favorire un’occupazione stabile delle fertili terre nelle pianure della Trexenta e della Marmilla, soprattutto a promuovere l’urbanizzazione delle zone interne della Barbaria sarda, dove si era andata sviluppando una lunga resistenza alla romanizzazione.

«Documento tra i più importanti e significativi dell’età antica in Sardegna – ha scritto recentemente Giovanni Brizzi – la Tavola di Esterzili propone agli studiosi una gamma vastissima di problemi del più alto interesse: geografico-storici, per l’identificazione delle sedi dei Galillenses e Patulcenses, nonché dei territori tra loro contesi; giuridici, per le forme dell’intervento romano ed il rapporto tra tabularium principis e tabularia provinciali; linguistici, per le forme adottate, gli imprestiti, il grado di alfabetizzazione degli estensori; archeologici, per il rapporto tra il documento, il luogo di rinvenimento ed il contesto paesaggistico e monumentale, epigrafici, storici, infine». Si ripete in questo caso ad Esterzili, su scala assai ridotta, «quanto si era verificato già nella penisola, conducendo l’Italia delle piane costiere, l’Italia tirrenica progressivamente identificatasi in Roma, l’Italia dei contadini, a scontrarsi con l’Italia appenninica, l’Italia dei pastori unita sia pur solo superficialmente dal vincolo della transumanza. Viene da chiedersi, dunque, se non sia stata proprio questa scelta di campo ormai consueta, questo atteggiamento connaturato nella politica dello stato egemone, uno tra i motivi fondamentali della mancata metanoia tra i Sardi ed il potere romano» (G. Brizzi, in La Tavola di Esterzili. Il conflitto tra pastori e contadini nella Barbaria sarda, a cura di A. Mastino, Sassari 1993).

Il sito di Corte Lucetta a Esterzili, luogo presso il quale la Tavola è stata ritrovata, è stato recentemente studiato da Nadia Canu. Visto che erano i Patulcenses Campani ad aver vinto la causa e ad aver chiesto copia del documento, è probabile che ad Esterzili passasse il confine con i Galillenses.

Ecco il testo del documento in traduzione italiana:

«Addì 18 marzo, nell’anno del consolato di Otone Cesare Augusto (69 dopo Cristo).

Estratto conforme, trascritto e controllato dal testo inciso nella V tavola cerata ed in particolare nei capitoli 8, 9 e 10 del codice originale contenente i provvedimenti adottati dal proconsole della Sardegna Lucio Elvio Agrippa e pubblicato da Gneo Egnazio Fusco, cancelliere dell’ufficio del questore.

Il giorno 13 di marzo il proconsole Lucio Elvio Agrippa, esaminata ed istruita la causa, pronunziò la seguente sentenza.

Dal momento che è senz’altro di pubblica utilità attenersi alle sentenze precedenti, viste le pronunzie più volte espresse da Marco Giovenzio Rixa, uomo di provate qualità, cavaliere e procuratore imperiale (governatore della Sardegna negli anni 65-67 d.C.), circa la causa promossa dai Patulcenses, secondo le quali dovevano essere rispettati i confini come erano stati anticamente stabiliti da Marco (Cecilio) Metello (proconsole della Sardegna dal 114 al 111 a.C.) ed esattamente come erano stati delimitati nella tavola catastale di bronzo conservata nell’archivio provinciale (a Carales);

ritenuto che ultimamente lo stesso Rixa aveva sentenziato di voler condannare i Galillenses che, non obbedendo all’ingiunzione da lui emessa, volevano riaprire in continuazione la lite, ma ha receduto da tale proposito per rispetto alla clemenza del nostro Principe Ottimo Massimo (Nerone), limitandosi ad invitarli alla calma, ad ottemperare al giudicato, lasciando liberi i territori dei Patulcenses, senza turbarne il possesso, entro il primo di ottobre (del 66 d.C. ?), perché in mancanza, se recidivi, li avrebbe severamente puniti e condannati come rivoltosi;

rilevato che in seguito esaminò la causa il senatore Cecilio Semplice (proconsole nel 67-68), interpellato dagli stessi Galillenses che intendevano produrre come prova una tavola catastale depositata a Roma presso l’archivio imperiale sul Palatino, il quale reputò umano concedere un rinvio per la produzione delle prove e stabilì un termine di tre mesi, decorsi i quali, se non avessero depositato quanto annunziato, si sarebbe comunque servito della copia catastale che si trovava nell’archivio proviciale a Carales;

io pure, interpellato a mia volta dai Galillenses, che si giustificavano col fatto che non fosse ancora pervenuta la copia da Roma, ho prorogato il termine fino al primo febbraio ultimo scorso (69 d.C.), ma, ritenuto altresì che un ulteriore differimento della lite giova solo proprio ai Galillenses;

ordino che essi rilascino ai Patulcenses Campani, entro il primo aprile (69 d.C.), il territorio che avevano occupato con la violenza.

Ed abbiano per certo che, non obbedendo alla mia ingiunzione, li riterrò colpevoli di ribellione recidiva ed incorreranno in quella pena già più volte minacciata.

Componevano il Consiglio del Governatore 8 consiglieri, senatori e cavalieri: Marco Giulio Romolo, legato propretore; Tito Atilio Sabino, questore propretore, Marco Stertinio Rufo iunior, Sesto Elio Modesto, Publio Lucrezio Clemente, Marco Domizio Vitale, Lucio Lusio Fido, Marco Stertinio Rufo senior».

Seguono le autenticazioni degli 11 testimoni: Gneo Pompeo Feroce, Lucio Aurelio Gallo, Marco Blossio Nepote, Gaio Cordio Felice, Lucio Vigellio Crispino, Gaio Valerio Fausto, Marco Lutazio Sabino, Lucio Cocceio Geniale, Lucio Plozio Vero, Decimo Veturio Felice e Lucio Valerio Peplo>>.




Enzo Espa

Enzo Espa

Nel ricordare Enzo Espa a un anno dalla scomparsa mi risuona stranamente nelle orecchie l’allegra canzoncina di Bert nel film su Mary Poppins: <<Vento dall’Est, la nebbia è là… Qualcosa di strano fra poco accadrà… Troppo difficile capire cos’è… Ma penso che un ospite arrivi per me…>>.

Il vento misterioso che Enzo Espa citava in continuazione con me era quello dell’ovest, il libeccio, proveniente dalla direzione di Bosa, perché bosanu si ortat a parte ‘e sero, “il vento bosano si leva verso sera”, portando ricordi, memorie, momenti vissuti insieme, che sono stati felici davvero.  E l’ospite un poco bizzarro che arrivava inatteso era poi proprio Enzo, che stranamente associavo alla figura amata del mio maestro elementare, con il suo inguaribile accento nuorese, ruvido nella sua implacabile durezza, ma al quale mi legava anche un’amicizia che non ha avuto ombre, anche se avvertivo una distanza davvero grande tra noi.

Frugando tra le mie carte ho ritrovato le due novelle nuoresi lette  a Bosa da Enzo Espa il 31 maggio 1975, ahimè ormai 40 anni fa, recitate con quella sua voce che costruiva paradossi, che modulava toni tra loro distanti, che faceva immaginare misteri lontani, con una profondità che lasciava incantati gli ascoltatori. Le due novelle  furono poi pubblicate due anni dopo da Guido Fossataro a Cagliari nella bella raccolta di Racconti Nuoresi illustrati da Liliana Cano, con una prefazione di Marco Aimo.

L’occasione della performance, che davvero ci aveva emozionato, era stata l’inaugurazione nei nuovi locali della Pro Loco di Bosa della straordinaria mostra del pittore Pietro Muroni, aperta da Giovanni Del Rio, da poco confermato per la quarta volta come Presidente della Giunta Regionale, all’indomani del rifinanziamento del Piano di Rinascita. In quei giorni Enzo curava l’edizione dell’Archivio pittorico della città di Sassari di Enrico Costa pubblicato da Chiarella nel 1976.

Enzo Espa, che pure si era laureato tra Pisa e Roma, allievo di Natalino Sapegno, aveva finito per concentrarsi sulla Sardegna che più amava, dove svolgeva il suo lavoro di insegnante e di preside, percorreva il territorio, conosceva ogni angolo dell’isola, presiedeva giurie come a Pozzomaggiore (nei lontani ricordi di Tonino Oppes), scriveva romanzi, stimolava tutti coloro (pochi davvero) che allora si occupavano di lingua sarda e che chiedevano l’adozione di norme ortografiche chiare, di una grafia unificata, in sintonia con il Prenio Ozieri di Antonio Sanna, Angelo Dettori, Tonino Ledda. Si occupava di poesia, a Ossi con i Gosos di Santu Mengu Gloriosu, a Nule, a Sorso, a Sennori, a Nuoro. I ninnidos, i cantigos, i gosos de Nadale e de sos tres Res, i sonettos, le modas, le ottavas, le benedizioni nuziali sarde, i proverbi, le tradizioni popolari, i canti, le serenate trasgressive. E poi le ricerche storiche sui gremi e i candelieri di Sassari, i tanti prodotti della cultura, della vita e della tradizione sarda che un tempo ci si scambiava con il baratto, in particolare i dolci ed i vini; infine alcuni monumenti come i nuraghi della preistoria oppure i castelli medioevali, studiati assieme ad Aldo Cesaraccio che frequentava con noi la sezione sarda dell’Istituto Italiano dei Castelli. Tante curiosità, tanti interessi, tanti punti di vista davvero eterogenei che mantenevano fresco il sapore di chi si confrontava nella Facoltà di Magistero con Francesco Alziator e con Massimo Pittau, alimentate dalla variegata compagnia che frequentava la Dante Alighieri, da lui presieduta.

L’ho visto tante altre volte all’opera, sempre più burbero ma con me anche davvero affettuoso, come quando nel 1994 curò lo straordinario volume Siniscola: dalle origini ai nostri giorni, coordinando decine di studiosi tutti con le loro esigenze, i loro tempi, i loro caratteri. Scrissi in quei giorni con Marcella Bonello quasi cento pagine su Il territorio di Siniscola in età romana,  ma Enzo era irrequieto e veniva coinvolto in continue baruffe con gli amici che generosamente avevano pagato la stampa presso l’editore Il Torchietto di Ozieri. Mi ero impegnato a superare i battibecchi, che proseguivano fin quasi sul palco il giorno della presentazione, e stranamente si era lasciato convincere dalle mie ragioni.

Cinque anni dopo mi aveva chiesto consiglio per l’edizione del suo incredibile Dizionario sardo italiano dei parlanti la lingua logudorese, che pazientemente Carlo Delfino  aveva pubblicato due volte, combattendo un vero corpo a corpo con l’autore e riuscendo a editare l’opera anche nei 4 volumi distribuiti assieme a La Nuova Sardegna nel 2005. Quando Enzo ci ha lasciato un anno fa a 95 anni d’età, l’aggiornamento successivo dell’opera era ormai ben avviato: Salvatore Tola ha seguito la fase della preparazione della seconda edizione e ha raccontato che l’autore ora si limitava a combattere con il suo computer, che si ribellava a tanto accumulo di materiali.

L’opera è davvero straordinaria, anche se oggi è stata seguita da tanti altri vocabolari forse ancora più maturi e completi, che abbiamo consultato con ammirazione negli ultimi anni: ma qui quello che conta soprattutto è la prospettiva “logudorese”, che valorizza la ricchezza e la diversità della lingua sarda, che recupera una tradizione letteraria e una dimensione davvero conservativa;  soprattutto la sensibilità dell’autore per le tradizioni popolari, che caratterizza ciascuna pagina, fino all’appendice dedicata ai nomi di persona, ai nomi di paesi, luoghi, blasoni popolari, alle locuzioni e ai paragoni proverbiali.

Proprio il Dizionario Sardo, frutto di un impegno esteso per oltre 40 anni a partire dai tempi nuoresi del Ginnasio Asproni, è il capolavoro di Enzo Espa, che ha saputo tenere i contatti con migliaia di informatori: Giulio Paulis ha acutamente descritto questo <<piacere intellettuale nell’impegnarsi nel suo lavoro>>, quando traduceva in sardo celebri frasi di Shakespeare  <<per inserirle a fianco di brani tratti da mutos e canti a ballo sardo>> oppure quando coniava neologismi, sempre restando in equilibrio tra una dimensione universale in continuo divenire e <<i ristretti confini territoriali>> nei quali la lingua sarda dell’area nuorese, logudorese e barbaricina viene tradizionalmente impiegata.  Questo Dizionario Sardo, come voleva Enzo, rimane un <<libro da leggere>>, un’<<opera sistematica>>, una <<grande antologia>> della cultura sarda, molto più di un dizionario sul modello di quello di Giovanni Spano.  <<Se veramente amiamo la nostra lingua popolare – scriveva Enzo nella Introduzione – dobbiamo anche scriverla, non solo parlarla>>: dietro queste pagine c’è il senso di una perdita irreparabile, la sensazione che una parte della nostra cultura sta irrimediabilmente scomparendo, il desiderio di trovare un equilibrio tra <<la lingua della koiné e la lingua di falco>> che in lui convivevano non senza disagio: tanto da rendere evidenti e sempre più insopportabili <<gli atti di arroganza nei confronti della lingua subalterna>>.  Se oggi guardiamo al futuro della lingua sarda con maggiore ottimismo, se diamo per acquisto un radicamento territoriale di una lingua sarda che deve mantenere una freschezza e una capacità espressiva innanzi tutto in rapporto con un luogo, con una geografia, con un ambiente naturale e umano; se abbiamo superato definitivamente il concetto di <<culture subalterne>>, se abbiamo raggiunto il senso profondo di una ricchezza che dobbiamo difendere e coltivare nel rispetto di una storia lunga dove la lingua sarda è stata pensiero, riflessione, strumento per intendere la realtà, per entrare in comunicazione profonda con gli altri, tutto questo è merito senza alcun dubbio anche di Enzo Espa.

Attilio Mastino




La scomparsa di Marcella Bonello (27 dicembre 2015)

La scomparsa di Marcella Bonello (27 dicembre 2015)

Per raccontare con rimpianto la nostra Marcella Bonello (Pisano 1943 – Cagliari 2015) voglio scegliere una prospettiva inconsueta: quella fatta di competizione e di complicità tra due amici veri, che si stimavano e lavoravano insieme giorno per giorno.  Specialista di storia militare romana (la tesi era stata dedicata all’esercito imperiale), quindici anni fa era diventata professoressa associata di Antichità ed epigrafia della Sardegna romana nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari. Fino a quel momento, ci eravamo sempre inseguiti, dal 1972, quando era diventata borsista, poi contrattista, infine ricercatrice, allieva di Piero Meloni e Giovanna Sotgiu, collega di Franco Porrà e Ignazio Didu.

Occupava con me la Biblioteca dell’Istituto di Storia Antica, traduceva il tedesco, raccoglieva senza interruzione schede e materiali a futura memoria. Io avevo iniziato le mie ricerche studiando Caracalla (partendo dal tempio del Sardus Pater) e lei aveva affrontato di petto Giulia Domna, la sposa di Settimio Severo, la grande imperatrice di origine siriana, in particolare i suoi viaggi per tutto l’impero assieme al figlio Caracalla. Poi la Scuola di specializzazione di Studi Sardi e la presentazione di tante epigrafi inedite, spesso correggendoci a vicenda, sempre con affetto, fino a scrivere a quattro mani le quasi cento pagine del volume sulla storia di Siniscola curato da Enzo Espa. A Sassari dal 1991 aveva avuto la sua prima supplenza di Storia Romana nei corsi di laurea di Pedagogia e di Materie Letterarie; da allora aveva avuto le porte spalancate anche a Cagliari, insegnando Storia romana, Storia greca e romana e Storia antica presso la Facoltà di Magistero e presso la Facoltà di Lettere.

Era davvero impagabile nel seguire i nostri studenti per la redazione di tesi di laurea e di dottorato, per le esercitazioni e nei viaggi di istruzione. Alcuni di loro oggi sono in cattedra. Ha fatto parte per oltre trent’anni delle commissioni di esame e del collegio del dottorato “Il Mediterraneo in età classica” a Sassari. Ci aveva seguito nella nostra avventura dei convegni internazionali su “L’Africa Romana”, conoscendo tanti colleghi famosi, divertendosi incredibilmente e pubblicando alla fine il volume sui cavalieri e i senatori della famiglia dei Pullaieni, imprenditori delle fabbriche localizzate presso i praedia collocati nel territorio della  nostra colonia di Uchi Maius in Tunisia. Lo avevamo gradito, perché era un omaggio sincero e inatteso, la testimonianza di voler camminare ancora assieme.

In questi anni ha svolto un’intensa attività di ricerca, presentando i risultati in convegni nazionali ed internazionali, con una produzione scientifica di qualità che dalla Storia Romana si è estesa alle Antichità Romane e all’Epigrafia Latina. 35 anni di impegno, con alcuni principali filoni di ricerca, le antichità della Sardegna romana, l’epigrafia del Nord Africa in età romana, i Severi, gli aspetti generali dell’Epigrafia latina e della Storia romana.

Il nucleo principale di studi è riferito alla storia della Sardegna romana: tra l’altro ha pubblicato un catalogo di monete tarde rinvenute nell’isola; ha pubblicato alcune iscrizioni inedite e riletto diversi documenti epigrafici del cui testo ha proposto nuove letture e interpretazioni. Ha fatto oggetto di studio le città di Tharros, Sulci, Olbia, relativamente alla loro condizione giuridica; Carales e Nora, relativamente agli edifici di spettacolo ed alla possibilità di stabilirne la capienza, che ha messo in relazione con il numero dei residenti; il territorio di Siniscola e di Selargius. Ha dedicato pagine indimenticabili ai popoli della Sardegna antica, localizzando i Galillenses e i Patulcenses Campani della Tavola di Esterzili, i Balari del Logudoro, gli Ilienses del Marghine Goceano a Molaria, i Giddilitani di Cornus (in territorio di Cuglieri), i Celesitani di Sorabile (Fonni). Ha dedicato un articolo al simbolo dell’ascia presente nei documenti funerari sardi, per appurare quando e da chi esso sia stato introdotto nell’isola. Ha studiato i pani di piombo trovati in diverse località della Sardegna o su relitti di navi e cercato di stabilire se essi siano stati prodotti nell’isola, ricca di piombo argentifero, oppure nella penisola iberica anch’essa ricca di galena. Ha affrontato il problema concernente le iscrizioni, contenute nelle opere barocche del Seicento spagnolo, considerate false dal celebre epigrafista tedesco Theodor Mommsen, iscrizioni delle quali, attraverso due articoli, ha proposto una sia pur parziale rivalutazione, anche alla luce di alcuni rinvenimenti epigrafici recenti. Ha infine affrontato in vari studi la storia delle donne, come nel lavoro dedicato all’analisi di una iscrizione inedita nella quale viene menzionata a Carales una abbatissa del monastero di San Lorenzo, ed ha messo in rilievo che si tratta di una delle rarissime testimonianze epigrafiche relative donne che rivestirono il ruolo di badessa di un monastero a noi note.

Ad aspetti più generali si riferiscono altri studi, come quello sul ius trium liberorum per il quale ha raccolto le epigrafi che documentano il particolare privilegio accordato sulla base di due leggi di età augustea per chi aveva tre figli. Oppure l’articolo con il quale ha indagato la cronologia di alcuni iuridici, alti funzionati del tardo impero nella Penisola.

Nel giudizio per il concorso a professore associato avevamo scritto: <<La produzione scientifica della candidata si distingue per originalità, e corretto utilizzo degli strumenti critici, nella sostanziale continuità della ricerca nei quattro ambiti individuati e nell’armonia tra i diversi settori dell’ indagine scientifica e le pubblicazioni presentate che abbracciano l’arco di un ventennio. L’attitudine e l’ impegno scientifico sostenuto da una solida formazione classica di base, da una buona capacità critica e da un’evidente ampiezza di interessi e di conoscenze. Il contributo fornito ad alcuni settori dell’ antichistica appare consistente, così come la sua diffusione a livello nazionale e internazionale>>.

Al di là delle formule burocratiche, volevo dire che nella sostanza Marcella Bonello non si sentiva una filologa pura ma si poneva problemi storici generali che spesso risolveva in modo sorprendente e con abilità. Soprattutto ci legavano alla fine una simpatia e una complicità che avevano permesso tanti passi in avanti, lei sempre con più generosità e disponibilità al dialogo. Da qui anche il senso di colpa oggi, perché non ci aveva fatto sapere nulla della sua malattia; questo rende più doloroso un distacco da un’amica che ha saputo costruire giorno per giorno per i suoi allievi ma anche per la sua famiglia un futuro diverso.

Non so quante iscrizioni funerarie latine ha studiato, corretto, emendato nel corso dei suoi studi, certamente diverse centinaia. Mi tornano ora in mente le loro formule, così ripetitive ed insistenti. Se veramente la morte non è niente, perché sei solo passata dall’altra parte come scrive Henry Scott Holland, asciughiamo le lacrime di tutti i tuoi, e ti lasciamo andare in pace con le parole antiche di una grande poetessa, Alda Merini, <<Che la terra ti sia finalmente lieve>>.

Attilio Mastino




Vindice Lecis, La Cohors II Sardorum ai confini dell’impero, romanzo storico, Condaghes 2015.

Vindice Lecis,
La Cohors
II Sardorum ai confini dell’impero, romanzo storico, Condaghes 2015
Presentazione di Attilio Mastino
Alghero, 4 dicembre 2015

Vindice Lecis negli ultimi ci ha abituato ad un nuovo genere di romanzo storico, dedicato alla Sardegna: Le pietre di Nur nel 2011; Buiakesos, le guardie del Giudice nel 2012; il Condaghe segreto nel 2013; Judikes nel 2014.

E’ evidente il fascino che esercita su di lui la Sardegna nuragica, sia pure nella sua fase finale, quella della crisi e della dissoluzione sintetizzata dai Giganti di Mont’e Prama; così come l’età giudicale: il mito di un’isola che vedeva riconosciuta una sua sovranità, forse anche una dimensione nazionale autonoma.

Eppure, questo volume dedicato ai primi cinque anni del regno dell’imperatore Adriano, testimonia la ricchezza della fase romana della storia della Sardegna, ma va oltre, si spinge verso le sterminate terre africane della Numidia e della Mauretania tra Tunisia, Algeria e Marocco. Il periodo trattato, la piena età imperiale, il secolo degli Antonini,  è proprio quello in cui si afferma l’espressione natione sardus riferita a decine e decine di marinai della flotta da guerra  che percorrevano il Mediterraneo tra la Sardegna e il Nord Africa, in un Mediterraneo non ancora diviso dalla cortina di ferro tra cristiani e musulmani.

Per un paradosso della storia, è stato  Marco Tullio Cicerone, acerrimo nemico dei Sardi, ad attribuire loro la condizione di natio; l’Arpinate utilizza di frequente il termine natio quando presenta popoli stranieri e barbari, de exteris et barbaris populis. In una lettera al fratello Quinto, Cicerone parla di Africani, Spagnoli o Galli, tutti considerati come nazioni feroci e barbare – immanibus ac barbaris nationibus, che comunque occorreva amministrare secondo i principi dell’humanitas romana.

Cicerone spiega le ragioni per le quali i Romani hanno assunto la causa della libertà; tutti gli altri popoli potevano essere disposti a sopportare la servitù; la comunità romana  invece non poteva accettarlo; questo era possibile semplicemente perché gli altri rifuggivano la fatica e la sofferenza e, per evitarle, erano disposti a subire qualsiasi cosa.  “Noi invece, precisa Cicerone, abbiamo, grazie all’esempio e all’insegnamento dei padri, una formazione tale che ci fa guidare ogni nostro pensiero e ogni nostra azione col criterio dell’onore e della virtù”.  Il luogo comune che lega la libertà dei Romani al servaggio di un popolo che si indica col termine natio è un concetto ben definito da Cicerone nell’orazione Pro Scauro, proprio con riferimento ai Sardi. Pronunciata per difendere un governatore disonesto, l’orazione mette in evidenza come tutti i testimoni sardi fossero stati corrotti dall’accusa: la loro testimonianza non poteva essere degna di considerazione, poiché dettata dall’avidità. La credibilità dei testimoni era pari a zero, in quanto sarebbe stata dimostrata una congiura di Sardi contro il proconsole Scauro.

Del resto la loro nazione è così superficiale e vacua che non c’è nessuno tra i Sardi capace di distinguere schiavitù da libertà se non per il fatto di poter mentire impunemente: postremo ipsa natio, cuius tanta vanitas est ut libertatem a servitute nulla re nisi mentiendi licentia distinguendum putent. I centoventi testimoni sardi usano una loro unica lingua, perseguono un loro unico scopo nascosto, non già espressione del risentimento per un abuso subito ma di simulazione, sotto l’impulso non delle offese ricevute da Scauro ma delle promesse e delle ricompense di altri: nunc est una vox, una mens non expressa dolore …  praemiis excitata. E qui vox potrebbe davvero assumere il significato di lingua di un popolo barbaro e riferirsi, più che alla lingua dei Cartaginesi,  al proto sardo degli eredi dei nuragici, la lingua perduta che ha preceduto il latino, un suono indistinto, un rumore, un frastuono fatto di parole incomprensibili, ma comunque accusatorie nei confronti di Scauro, dette per il tramite dell’intermediazione di un interprete.

L’unica deposizione potenzialmente ammissibile sarebbe allora quella del cittadino romano Valerio, il vero testimone per l’accusa, perché è il solo capace di parlare in latino. Proprio per questo Cicerone afferma che tutto il processo dipendeva da questo sardo da poco entrato nella romanità, uno sconosciuto senza autorità, che con la sua testimonianza aveva voluto dimostrare riconoscenza al figlio di colui che gli aveva donato la cittadinanza vent’anni prima. Cicerone si chiedeva come fosse possibile credere ad un gruppo di testimoni sardi, in quanto avevano tutti lo stesso colorito olivastro, parlavano tutti una stessa lingua incomprensibile, tutti senza eccezione appartenevano alla stessa nazione ? (sin unus color, una vox, una natio est omnium testium ?). Cicerone rimprovera ai Sardi le loro origini africane e sostiene che la progenitrice della Sardegna è stata l’Africa. L’appellativo Afer è ripetutamente usato come equivalente di Sardus. L’espressione Africa ipsa parens illa Sardiniae suggerisce secondo il Moscati la realtà di una “ampia penetrazione di genti africane ed il carattere coatto e punitivo della colonizzazione o, meglio, della deportazione”.

Cicerone riassume con brevi e offensive parole la storia della Sardegna dall’età fenicia a quella punica, fino ad arrivare alla romana; scrive che «tutte le testimonianze storiche dell’antichità e tutte le storie ci tramandarono che nessun altro popolo fu infido e menzognero quanto quello fenicio; da questo popolo sorsero i Punici e dalle molte ribellioni di Cartagine, dai molti trattati violati e infranti ci è dato conoscere che appunto i Punici non degenerarono dai loro antenati Fenici. Dai Punici, mescolati con la stirpe africana, sorsero i Sardi (a Poenis admixto Afrorum genere Sardi), che non furono dei coloni liberamente recatisi e stabilitisi in Sardegna, ma solo il rifiuto dei coloni di cui ci si sbarazza. Ora, se niente di sano vi era in principio in questo popolo, a maggior ragione dobbiamo ritenere che gli antichi mali si siano esacerbati con tante mescolanze di razze».

Gli incroci di razze diverse che ne erano derivati, secondo Cicerone, avevano reso i Sardi ancor più selvaggi ed ostili; in seguito ai successivi travasi, la razza si era “inacidita” come il vino, prendendo tutte quelle caratteristiche che le venivano rimproverate: ovvero, discendenti dai Cartaginesi, mescolati con sangue africano, relegati nell’isola, i Sardi secondo Cicerone presentavano tutti i difetti dei Punici, erano dunque bugiardi e traditori, gran parte di essi non rispettavano la parola data, odiavano l’alleanza con i Romani, tanto che in Sardegna non c’erano alla metà del I secolo a.C. città amiche del popolo romano o libere ma solo civitates stipendiariae. L’espressione natio fu utilizzata pochi anni dopo anche nel de re rustica di Varrone, a proposito dei Sardi Pelliti della Barbaria sarda alleati di Hampsicora durante la guerra annibalica e per questo avvicinati ai Getuli africani: quaedam nationes harum (caprarum) pellibus sunt vestitae, ut in Gaetulia et in Sardinia. E si deve precisare che Hampsicora col figlio Hostus sono per Ferruccio Barreca <<gli unici esponenti a noi noti come individui della nazione sarda nell’antichità>>, comunque alle origini della dominazione romana.

Se perdoniamo Cicerone per la polemica giudiziaria, cogliamo però  un aspetto, quello di una lingua paleo sarda parlata tra loro prroprio dai Sardi, anche quando si trovano a Roma oppure in Numidia o in Maureatania: in questo romanzo operano sulla scena quasi esclusivamente dei militari sardi, cittadini romani che combattevano in Algeria nella Legione III Augusta o ausiliari peregrini componenti della I coorte di Nurritani, della II coorte di Sardi ma anche alcuni soldati di altri reparti come la VII Lusitanorum equitata trasferita da Austis (dove conosciamo un trombettiere) a Milev presso la capitale della Numidia Cirta. Tutti sono gli straordinari protagonisti di questo romanzo dedicato a Rapidum, l’accampamento voluto da Adriano in Mauretania Cesariense, lungo la nuova linea fortificata verso il deserto algerino e la linea degli chotts, prima che Settimio Severo estendesse il limes ancora di più verso il deserto algerino. Vediamo partire i Sardi dall’isola lontana, rimasta nostalgicamente nel cuore, per arrivare a Thamugadi, l’attuale Timgad, presso Batna in Numidia, oggi in Algeria, per entrare poi profondamente nel territorio, alla ricerca di nuove terre da contendere ai mauri nomadi.

Qui i Sardi, le loro donne e le loro famiglie compaiono come un’entità distinta, continuamente in relazione tra Turris Libisonis, la colonia di Cesare, il municipio di Carales, Nora, Sulci, Tharros, Cornus: impegnati a conquistare le vastissime terre africane, sbarcando sui tanti porti della costa algerina, ad iniziare proprio da Icosium-Algeri, collocato di fronte alla Sardegna e distante solo 100 km da Rapidum.

Allora non possiamo eludere in apertura il tema della “nazione” sarda nell’antichità e ai giorni nostri, che per la sua  trasversalità è stato indagato  da storici del passato e del presente: riferito ai Sardi, a partire dalla loro natura ibridata da componenti diverse, il termine si presta molto bene ad essere declinato in un arco cronologico lungo, dall’antichità romana fino agli odierni confliggenti nazionalismi. Anche attraverso romanzi come questo, che interpretano una realtà storica ben nota, possiamo  partire dall’identificazione di una “natio” riconosciuta dai Romani, insieme eredità del passato preistorico (sintetizzato nei Giganti di Mont’e Prama) e premessa per gli sviluppi successivi (che iniziano con le cattedrali romaniche costruite dai sovrani dei quattro giudicati sardi).

Franciscu Sedda suggerisce la possibilità che le parole di Cicerone nell’alternativa tra servitù della natio Sarda e libertas della civitas Romana (che però contraddicono la visione greca che riconosceva liberi i Sardi discendenti di Eracle, gli Iliei-Ilienses dei Montes Insani) possano consentire di leggere in filigrana l’alternativa fra dimensione culturale-identitaria da un lato (natio incapace di auto-affermazione) e dimensione giuridico-istituzionale (civitas caratterizzata dalla libertas): <<da questo punto di vista la distinzione natio/civitas assomiglierebbe all’attuale distinzione fra etnia e nazione-Stato, dove l’etnia appare come la nazionalità perdente e in quanto tale scivolata in una condizione di ri-naturalizzazione, distante dalla tensione alla libertà che caratterizza il demos fondatore di istituzioni>>.

A tale riguardo, si può congetturare che sbagliasse Camillo Bellieni, il padre del Sardismo moderno nel Novecento, studioso della Sardegna romana, quando riteneva che il popolo sardo fosse solo una <<nazione abortiva>>, <<nella quale, pur essendovi le premesse etniche, linguistiche, le tradizioni per uno sbocco nazionale, sono mancate le condizioni storiche e le forze motrici per un tale processo>>. Sempre negli ormai lontanissimi anni Venti, Emilio Lussu in una lettera ad Antonio Gramsci poneva come premessa alle rivendicazioni di tipo nazionale il fatto che i Sardi si erano <<accorti da parecchio di essere una nazione fallita>>; più tardi addolciva l’espressione, parlando di <<una nazione mancata>>.  Certo, nel mondo attuale le cose si complicano alquanto e il tema “nazione” si  sgretola nei sanguinosi integralismi che insanguinano il tempo che viviamo.

Pur con i suoi limiti e le sue differenze semantiche e funzionali, al di là dell’abisso cronologico e culturale che ci divide, l’espressione romana natione Sardus, che testimonia il desiderio di richiamare il luogo di nascita, di identificarsi come originari dell’isola lontana all’interno della communis patria rappresentata da Roma e dall’impero, può dirci forse qualcosa ancora oggi, può testimoniare la ricchezza e la diversità culturale della storia isolana, senza più perdersi in un dibattito sterile sul nazionalismo ottocentesco fondato su un’identità immutabile e mummificata: nell’Europa dei nostri tempi la Sardegna si affaccia con la sua complessità verso un orizzonte davvero globale.

Forse sono andato oltre quelle che apparentemente erano le intenzioni dell’autore: eppure come non pensare che le “teste di cuoio” sarde, come le chiama Costantino Cossu, non siano state costituite con lo scopo di creare dei reparti speciali resi ancora più temibili grazie alla identica origine etnica e alla forte coesione di gruppo, alla stessa religione e in particolare al culto per il dio libico Sardus Pater venerato a Metalla: un po’ come nella prima guerra mondiale e ancora oggi la Brigata Sassari, il 151 e il 152 reggimento di fanteria meccanizzata, assistiti dal 5 Reggimento Genio guastatori di Macomer e dal terzo reggimento bersaglieri di Teulada, tutti reparti che ho visto all’opera a Herat in Afganistan, professionisti veri. Ma in precedenza analoghe motivazioni debbono aver guidato i cartaginesi ad arruolare mercenari sardi, più tardi i sovrani aragonesi a costituire il Tercio de Cerdeña, i Savoia il Reggimento di Sardegna e infine la Brigata Cagliari operante tra il 1862 ed il 1991.

Spero mi vorrete perdonare per questa divagazione che si giustifica solo per il fatto che in questi giorni ho consegnato un articolo per l’Archivio Storico Sardo su Natione Sardus, Unus color, una vox, una natio.

Ma questo romanzo ambientato tra la Sardegna e la Algeria riapre vecchie ferite e fa riemergere con competenza, tante relazioni e tante questioni che il pubblico in genere non conosce. Jean Pierre Laporte, l’archeologo parigino che ha scavato il campo di Rapidum in Algeria e che ha pubblicato qui a Ozieri con Il Torchietto nel 1989 il volume sull’accampamento dei Sardi, mi ha scritto nei giorni scorsi  osservando che spesso i romanzieri riescono a fare dei collegamenti ai quali gli storici paludati  non avevano osato pensare.  Nel corso di un lunga telefonata, Laporte mi ha parlato del deserto che avanza inesorabilmente verso il mare negli ultimi decenni, delle nuove scoperte a Rapidum, del progetto di un nuovo museo.  Del rischio del terrorismo che ormai unisce le due rive del Mediterraneo, arrivando a colpire fino al Bataclan di Parigi.

Il nostro maestro Yann Le Bohec, il più grande  storico militare vivente, che si è occupato tra l’altro della legione III Augusta africana, un reparto nel quale venivano arruolati i karalitani, e ha pubblicato una storia militare della Sardegna romana nel 1990 con Delfino, mi ha inviato un messaggio di saluto, precisando però: nihil novi sub sole, per il fatto che i romanzieri continuano a vivere ingrassandosi sul lavoro degli storici.

Permettete dunque ad uno storico come me di evitare di mettere in rilievo oggi anacronismi e imprecisioni, che pure non mancano e che sono resi evidenti anche alla luce degli ultimi studi di Franco Porrà. Alcune soluzioni sono francamente poco praticabili o troppo colorite.

Da lettore appassionato voglio però dire che questo romanzo è davvero speciale, diverso, ricco di documentazione, capace di attingere al patrimonio di conoscenze fin qui messo insieme con tanta fatica, partendo dalle scritture antiche, i resti archeologici, le torri, le terme, le statue, gli archivi, gli edifici di spettacolo, i magazzini, le strade, le produzioni, che illustrano in Algeria, a Rapidum e ad Altava, come in Sardegna a Luguido, a Metalla o a Carales, l’attività dei due reparti gemelli costituiti dai Sardi, affiancati dalla coorte I di Nurritani che oggi colleghiamo non con Nora ma alla Barbagia, più precisamente al cippo terminale di Porgiolu in comune di Orani-Orotelli sul Tirso. Sono una trentina i documenti di questi reparti, che hanno operato ben oltre l’età di Adriano, l’imperatore filosofo, sulle due sponde del Mediterraneo.

Eppure è stata davvero felice la scelta di far perno sulla visita di Adriano in Africa e sul celebre discorso pronunciato davanti alla legione a Lambesi che fortunatamente ci è conservato su pietra: ripercorriamo ora le ragioni di un consolidamento delle frontiere come Britannia o in Mesopotamia o in Africa. La competenza del principe in materia militare. La profondità dell’addestramento dei professionisti. Abbiamo poche luminose immagini della possibile ispezione di Adriano a Rapidum ma anche di quella vicenda dolce e amara che Marguerite Yourcenar ha solo immaginato nelle Memorie di Adriano, quando colloca gli amori di Adriano e di Antinoo in una capanna di contadini del litorale sardo, dove il giovane bitinio avrebbe cucinato per l’imperatore del tonno appena pescato, riparandosi dalla tempesta. Lo vediamo Adriano accarezzare i riccioli del giovane amato sulla nave che lo condurrà in Sardegna, parlare e ridere nell’incanto di un amore travolgente e per noi incomprensibile, indicando l’orizzonte lontano, prima della tragica morte sul Nilo.

Ci sono in questo romanzo anche tanti amori più convenzionali e profondi, come quello tra Giulia Fortunata e l’ufficiale pretoriano Gneo, una storia a lieto fine davvero sorprendente ambientata a Turris Libisonis. Ci sono tante storie di spie, emissari imperiali, con la rivolta di Lusio Quieto in Mauretania repressa dal prefetto Quinto Marcio Turbone fedelissimo di Adriano. Ci sono i comandanti dei reparti, gli ufficiali, i classiari, i soldati fanti e cavalieri provetti, le loro insegne, le loro parole d’ordine, il loro armamento. Ci sono buoni e cattivi, come Ursaris, la sua amata Sestia, forse troppo silenziosa e paziente, i due figlioletti rapiti.  Ci sono i procuratori delle dogane, i magistrati  di Turris Libisonis, i governatori provinciali, i responsabili, delle miniere, dei praedia imperiali e delle saline. Tutti personaggi i cui nomi sono tratti dalle iscrizioni effettivamente ritrovate in Sardegna o in Africa e dalle fonti letterarie, magari per altri periodi. Ci sono i popoli della Mauretania, in particolare i Baquati, come quelli della Sardegna. Soprattutto c’è la geografia sullo sfondo, il Mons ferratus in Africa, il Montiferru della Sardegna e i vicini Montes Insani, le isole frequentate dai pirati, i briganti, la resistenza organizzata.

C’è la religione militare, Giove Valente, Marte, Mercurio, la Vittoria Augusta, Iside, Sileno, Apollo, tra natura e cultura. I sacerdoti come gli auguri che predicono il futuro.  E poi la magia, l’interpretazione dei sogni, la pratica di astrologie straniere, la medicina popolare con infusi ed erbe. C’è la flora e la fauna del deserto, le pantere, le gazzelle, le scimmie dell’Atlante che interagiscono con le piante, i leoni. A Turris c’è il musico Apollonio, suonatore della cetra nel coro, vincitore del periodo, delle quattro gare panelleniche, Delfi, Olimpia, Corinto, Nemea, finito chissà per quale ragione nella colonia sarda. Ci sono le somme spese per costruire un acquedotto o una strada, le tecniche utilizzate dall’esercito in marcia in territorio ostile per innalzare ogni giorno un accampamento e per trincerarsi di fronte al nemico. Ci sono le ville romane, come a Sant’Imbenia di Alghero, con i suoi stucchi, i suoi affreschi, i suoi mosaici, le sue peschiere, le sue terme. Alla fine ci rimane il sapore forte di verità, il gusto per collegamenti, la voglia di continuare a seguire una vicenda piena di violenza e di misteri, che sicuramente avrà un seguito.

Sfogliando queste pagine, ho ricordato un luogo lontano, che mi è davvero caro: qualche anno fa abbiamo visitato con i nostri studenti le terme di Ain Mellegue in Tunisia: una serie di edifici a volta, malamente restaurati, che sorgono presso il grande fiume, l’oued Mellegue, che sono rimasti prodigiosamente ancora in piedi con i loro calidaria che continuano a distribuire dalle bocche di leone acque termali nella sala dove si bagnano i maschi e in quella, più riservata, dove in piscina si bagnano le donne.

Una foto come questa potrebbe esser stata scattata duemila anni fa.




Fiorenzo Serra e la Sardegna degli anni 50.

Fiorenzo Serra e la Sardegna degli anni 50
Sassari, Aula Umanistica, 27 novembre 2015


Cari amici,

Grazie a Maria Margherita Satta per l’invito ad intervenire a questo seminario di studi sul tema “Antropologia Visuale e ricerca sul Campo” promosso dal Laboratorio di Antropologia Visuale del Dipartimento di storia scienze dell’uomo e della formazione del nostro Ateneo che nel nome ricorda la figura di Fiorenzo Serra. Grazie agli amici della Società Umamitaria-Cineteca Sarda e a tutti gli intervenuti, che hanno testimoniato l’utilizzo di nuove categorie per descrivere e comprendere alcuni momenti fortemente identitari del patrimonio etnografico della Sardegna. Grazie a tutti i presenti.

Mi è stato chiesto di ripercorrere brevemente l’esperienza di Fiorenzo Serra, regista, preside, amico, che ho conosciuto con qualche preoccupazione ad Isili nel 1982, quando ho presieduto per la prima volta gli esami di maturità al Liceo Scientifico. Avevo solo trent’anni ed ero ancora un ragazzo timido e insicuro; mi spaventò l’arrivo del burbero ispettore scolastico Fiorenzo Serra che percorreva in lungo e in largo tutta la Sardegna per verificare la regolarità degli esami: l’armonia in commissione, le modalità delle prove, la qualità dei docenti, l’impegno nella compilazione dei registri. Furono momenti frenetici: quando terminate le formalità di rito finalmente risalì sulla sua auto e se ne partì, rivolgendomi un sorriso affettuoso, trassi un respiro di sollievo.

L’avrei rivisto più tardi mille volte a Sassari e a Nuoro in tante altre occasioni, soprattutto nelle serate trascorse al Rotary dove ci presentava i suoi cortometraggi, i suoi film, soprattutto quello davvero strabiliante sull’Ardia di Sedilo girato da Mario Vulpiani alla fine degli anni 50, un frammento che documenta tradizioni religiose che sopravvivevano prodigiosamente dall’età antica nella valle del Tirso in ricordo dell’imperatore romano Costantino. Un piccolo tassello che conserva il ricordo dei cavalleggeri al servizio del dux bizantino cristiano di Forum Traiani, sul limes verso la Barbaria pagana, l’organizzazione della Sardegna giudicale, le forme arcaiche della religiosità popolare in Sardegna, colte per la prima volta con una capacità prensile di scendere in profondità attraverso il tempo. Ci aveva spiegato la difficoltà tecnica di collocare le cineprese in modo da poter seguire la corsa sfrenata dei cavalli che da Su Frontigheddu si fanno strada nella polvere fino all’arco dedicato CONSTANTINO MAXIMO AVGVSTO per salire fino al santuario e iniziare il carosello rituale, con il sapore arcaico di una Sardegna vera. L’ho incontrato spessissimo al piano terra del palazzo Cincilla, dove collaborava con Mario Atzori, Maria Margherita Satta, i loro allievi, passava le giornate montando il materiale girato in tutta la sua una vita, se è vero che tra il 1948 e il 1969 era riuscito a girare ben 55 documentari quasi tutti a colori.  Un patrimonio incredibilmente ricco, che pian piano fa ora riemergere una Sardegna lontanissima, tanto diversa da quella che la  Giunta Regionale voleva presentare al grande pubblico negli anni della Grande Rinascita, alla vigilia dell’approvazione della legge 11 giugno 1962 n. 588 sul Piano straordinario per favorire la rinascita economica e sociale della Sardegna, che inizialmente metteva in campo 400 miliardi di lire.

Due anni fa la Società Umanitaria Cineteca Sarda e il Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione hanno promosso un convegno su Fiorenzo Serra regista etnografico ed intellettuale che, a partire dagli anni ’50, ha realizzato tanti splendidi documentari sulla Sardegna. Nella stessa occasione è stato presentato, nel nuovo teatro comunale, un cineconcerto intitolato Isura da filmà, Fiorenzo Serra e la Sardegna filmata in libertà; lo spettacolo è stato realizzato con la proiezione di numerosi spezzoni, girati tra gli anni ’50 e ’60 da Serra e appositamente montati da Marco Antonio Pani; la proiezione del documentario è stata accompagnata dalle musiche di Paolo Fresu.

Nell’ambito dello stesso convegno sono stati affrontati, secondo differenti prospettive, anche gli interessi etnoantropologici che sono alla base di  gran parte della produzione cinematografica di Fiorenzo Serra. In particolare, sono stati proiettati alcuni documentari chiaramente etnografici: Costa Nord (1954), Pescatori di corallo (1955), Nei paesi dell’argilla (1955), Artigiani della creta (1956), Sagra in Sardegna (1957), Maschere di paese (1962), L’autunno di Desulo (1966), Carbonia anno Trenta (1966), Un feudo d’acqua (1967), Dai paesi contadini (1967), La novena (1969). Ma voglio ricordare il documentario su San Francesco di Lula uscito a partire dal 1976, in parallelo con Il Consumo del Sacro di Clara Gallini.  Come dimenticare anche i primi documentari, L’invasione delle cavallette del 46 o Arte rustica in Sardegna (1948) o Terra di Artigiani (1949),  La terra dei nuraghi (1950), Costumi della Sardegna (1952) ?

Prima ancora della Rinascita, Fiorenzo Serra aveva raccolto nel lungo documentario L’ultimo pugno di terra, 97 minuti, pubblicato nel 1965, tante esperienze e tante immagini di una Sardegna arcaica girate negli anni precedenti.  Collaborava con lui il filosofo del diritto Antonio Pigliaru (scomparso nel 1969), ispiratore di un’intera generazione di giovani intellettuali isolani, nel 1949 fondatore di Ichnusa, che portava con se il sapore fresco di una sardità profonda, radicata sulle sue origini orunesi e sulla sua Barbagia. Temi che nel lungometraggio di Fiorenzo Serra esplodono nelle bellissime scene della transumanza delle greggi di pecore da Fonni verso la Nurra, nella rappresentazione della vita dei pastori fatta di solitudine e di sofferenza, ma anche di scoperte quotidiane come l’emozionante nascita di un agnello che perde la placenta, accolto dal gregge quando ancora non riesce a reggersi sulle zampe, collocato con altri agnelli nella tasca di una bisaccia – sa bertula – sotto la pioggia. Il nuraghe massiccio della prima scena testimonia le origini preistoriche della pastorizia sarda che continuava a vivere in uno spazio dove il tempo si misurava in altro modo, una dimensione parallela perduta, interpretata dal pastore, testimone finale di una sapienza antica.  Ma nel film c’è anche l’eco del volume di Pigliaru del 1959 La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, con il corpo del pastore ucciso nelle campagne di Sedilo, vestito d’orbace, con il portafoglio vuoto, le mosche che si accaniscono sul viso, il trasporto della salma dall’ovile, il funerale, la fossa per la bara nera, s’attittidu e il silenzio dei parenti e insieme il pianto della vedova che invita alla vendetta.

Così c’è Pigliaru nell’intervista quasi televisiva al pastore che racconta che i sardi che non sanno rubare sono destinati a restare miserabili, ad essere disprezzati, a non essere amati in famiglia. Ci sono gli animali che vivono con gli uomini, certo le pecore transumanti per tratturi millenari, ma anche gli asini, i cavalli, i buoi, i cani, perfino le volpi temute tanto che non se ne riesce a pronunciare il nome. Nel volume Antiles Mario Medde ha descritto le porte che occorre varcare e che immettono ad un territorio, ma anche ad una cultura, ad un ambiente sociale, ad un momento della nostra vita, che conserva intatto il sapore della vita vera, il senso delle cose che ci colpiscono, il profumo della casa che continuiamo ad amare anche quando ne siamo stati sradicati. Esplode in quelle pagine straordinarie l’immagine dei mozziconi delle orecchie delle pecore rubate e mutilate, recisi e abbandonati lungo Sa Bia de Cotzula, a Sas Benas da Norbello verso Domus. Segni della proprietà del bestiame recisi con la mutilazione delle pecore. Segni che proiettano nella memoria quasi in un film la corsa disperata della nonna materna incinta di 7 mesi verso la chiesa della Madonna delle Grazie ad Orracu, per ritrovare alla fine sconvolta il corpo insanguinato del compagno ucciso su questo caminu de sa fura che conduceva ad Otzana e ai monti della Barbagia, dove transitava il bestiame rubato nella valle. Un’ingiustizia, l’uccisione di un testimone scomodo, che i pastori specialisti de s’arrastu, alla ricerca delle orme degli abigeatari, non avrebbero saputo vendicare.

La Giunta Regionale Corrias e l’Assessore ittirese alla rinascita Francesco Deriu, patrono di Peppe Pisanu, non volevano una rappresentazione così dura della Sardegna, con Carbonia ormai quasi decrepita con i suoi casermoni a vent’anni dalla magniloquente fondazione mussoliniana; gli Assessori volevano un lungometraggio capace di esaltare il progresso dell’isola e gli effetti benefici della rinascita a lungo desiderata. E invece, nel film restaurato per i Quaderni della Cineteca Sarda, in questa versione ritrovata a fatica partendo dai negativi, dai positivi, dagli spezzoni e dai cortometraggi, c’è in realtà molta emozione, molta tristezza, molta amarezza, molta verità vera di vita, molta poesia che rimanda ad un amore profondo per la propria terra sfortunata. C’è anche molta polemica contro la famiglia esclusiva, quei legami troppo stretti, che in qualche modo condizionano lo sviluppo della comunità e riducono i diritti di tutti. Debbo dire che un anno fa il restauro filologico ha restituito un documento unico ed emozionante, un vero capolavoro, capace di leggere in profondità la Sardegna, lasciando da parte i luoghi comuni e le leggende, proprio come quella del pugno di terra che il creatore avrebbe utilizzato per collocare la Sardegna in mezzo al mare, imprimendo l’impronta del suo piede destro per formare l’Ichnussa del mito. Una leggenda da abbandonare, evidentemente un racconto mitico ripreso dal celebre libro Sardegna quasi un continente di Marcello Serra, pubblicato nel 1958, un autore che sicuramente Fiorenzo non amava.

Accanto a Pigliaru ci sono soprattutto Peppe Pisanu e Manlio Brigaglia, autore quest’ultimo di gran parte del commento, c’è Peppino Fiori con i suoi baroni Carta e la sua laguna di Mare ‘e pontis, la sua Società del malessere; c’è l’antropologo tiesino Luca Pinna, Michelangelo Pira, Giuseppe Zuri alias Salvatore Mannuzzu, c’è la consulenza di Cesare Zavattini. Soprattutto c’è uno straordinario circolo di intellettuali progressisti che era interessato a suscitare nello spettatore reazioni capaci di innescare una rivolta partendo da una riflessione non convenzionale sull’isola, di denunciare i mali della Sardegna, di convincere l’opinione pubblica del diritto della Sardegna ad essere risarcita, di provocare, di stimolare, per raccogliere le forze sane, smuovere la politica, avviare reazioni non di rigetto ma di amore più grande. Per mettere in evidenza l’estraneità di uno Stato esattore e inquisitore, l’assenza totale di investimenti. Per sottolineare la distanza quasi schizofrenica tra il vecchio che permea di sé quasi tutta l’isola e il nuovo, che ancora non riesce ad affermarsi, se anche Cagliari, <<la città d’acqua>> di Giulia Clarkson è fatta di baracche cadenti a Santa Gilla, di casotti a Giorgino e di edifici distrutti dalle bombe a due passi dalla Rinascente.

Il restauro della pellicola ci ha restituito il sapore originario, dopo che l’autore l’aveva profondamente rimaneggiata per poter essere accettata dai sardisti e dai democristiani che governavano la Regione Sarda durante la III e la IV legislatura sotto la presidenza di Efisio Corrias, come l’Assessore all’Industria e commercio Pietro Melis (P.S.d’A.), ai Lavori pubblici Giovanni Del Rio, al Lavoro e pubblica istruzione Paolo Dettori, alla Rinascita Francesco Deriu.

Con la IV legislatura dal 26 luglio 1961 Paolo Dettori diventava Assessore all’Agricoltura e foreste, Pietro Melis all’Industria e commercio, Giovanni Del Rio ancora ai Lavori pubblici, Francesco Deriu alla Rinascita. Pietrino Soddu comparirà solo a conclusione di questa vicenda a partire dal 14 dicembre 1963 proprio come assessore alla rinascita in Viale Mameli, nello scorcio della IV legislatura e della penultima Giunta Corrias. Fu Pietrino Soddu a venire incontro a Fiorenzo e a chiudere con un compromesso che certamente non riteneva esaltante la vicenda di questo documentario che sarebbe stato poi premiato a Firenze dall’Agis al Festival dei popoli. Ma il capolavoro non è quello premiato, ma invece quello che la precedente Giunta Corrias non aveva gradito e che voleva impietosamente cestinare.

Tutta la vicenda è stata  ricostruita in mille dettagli per le Edizioni Il Maestrale da Giuseppe Pilleri, Paola Ugo, Gianni Olla, Laura Pavone, Maria Margherita Satta, mentre la figlia Simonetta Serra ci ha raccontato Fiorenzo, scomparso nel 2005, e lo ha fatto con delicatezza e rimpianto.

Del resto L’ultimo pugno di terra ha un prima e un dopo: basta vedere le immagini pubblicate da Delfino per la mostra alla British Academy di Roma per rendersi conto di come l’isola descritta da Thomas Asbhy nel 1906 fosse diversa, ancora più preistorica e selvaggia, una terra rimasta prodigiosamente quasi fuori dal tempo, chiusa nella sua identità, irrigidita nei suoi costumi millenari che rimandano ai “Sardi Pelliti” raccontati da Tito Livio durante la guerra annibalica, che abitavano ancora in capanne o in pinnette come a Paulilatino, che macinavano il grano nelle mole di pietra, che utilizzavano la corrente dei ruscelli per muovere i molini ad acqua.

Quella mostra di un anno fa a Roma ci aveva comunicato la memoria fotografica di questa Sardegna archeologica, ma anche paesaggistica e demo-antropologica di un secolo fa, con quelle straordinarie immagini, che raccontano un passato che oggi sembra lontanissimo, ma che a sua volta era lontanissimo dalla prima vera documentazione uscita dalla Sardegna ad opera del can. Giovanni Spano alla metà dell’Ottocento. Sembrano trascorsi millenni, con un’isola che era in realtà una terra incognita, che finalmente si scopriva al mondo, vista da Ashby attraverso l’obiettivo e da Serra attraverso la cinepresa con mille curiosità, con passione, con competenza, con uno sguardo intelligente e partecipe. Una Sardegna lontana, segnata in tutte le sue regioni storiche da un paesaggio dell’età del bronzo, visto attraverso documenti inediti, che ci consentono oggi di ritrovare un mondo che pure ci appartiene nel profondo.

Proprio nella Paulilatino degli anni ‘50, ripercorrendo di recente la vicenda di Peppino Murtas, ho riscoperto la sete di giustizia sociale, contro la miseria, il dolore, l’emigrazione, l’ingiustizia nella distribuzione della terra, l’odio, l’avidità, l’egoismo. Attraversano l’opera di Fiorenzo Serra tanti problemi significativi che riguardano anche il mondo d’oggi: la lingua sarda, più in generale il tema del linguaggio al quale eravamo così abituati, padrone e servo,  il servo-pastore, la domestica chiamata la teracca, la serva. Modi di dire ma anche forme di sfruttamento, che in realtà si accompagnano all’espressione di una cultura più ricca e profonda, che ciascuno di noi si porta dietro anche inconsapevolmente e che risale di generazione in generazione, perché proprio tra la povera gente si conservano abilità artigianali, conoscenze, linguaggi che non si perdono.

Emergono da questi documentari tanti problemi che spiegano il mancato sviluppo, legati all’analfabetismo, alle conseguenze della guerra, ad una agricoltura di sussistenza, ad una pastorizia ancora arcaica; il freddo, la pioggia, i furti di bestiame, lo strozzinaggio. La difficoltà dell’associazionismo tra pastori abituati da secoli all’individualismo, la crisi casearia, il confronto duro con l’industria. E poi gli incendi che bruciano il raccolto, il freddo, il vento, i mali che affliggono le persone care, con gli occhi di un giovane pastore, che vive anni di solitudine, di sofferenza, di disagi. E poi le miniere, la cardatura del lino, il lavoro duro di muratore. Negli stessi anni in Consiglio Regionale ci si interrogava sulle misure da adottare per eliminare la proprietà agraria assenteista e ogni altra forma di rendita parassitaria.

Eppure in Sardegna tutto ha una dimensione più intima e personale, perché quello che interessa è soprattutto l’individuo come persona: l’attesa della morte, la malattia, il rapporto con gli animali, le pecore soprattutto,  i poveri prodotti di un’economia di sussistenza, la fame, la stanchezza per chi sa di arricchire solo i latifondisti che affittano la terra ai pastori, i contratti ingiusti, gli scioperi, perfino il carcere. La partecipazione al dolore del mondo, l’invalidità, la perdita di una persona cara, una classe medica che si occupa solo dei ricchi, così come i carabinieri si ostinano a proteggere solo coloro che contano, i nobili, i giudici, i ricchi esponenti di un’aristocrazia agraria di provincia.  Ma anche, in positivo, la devozione popolare e i tanti luoghi significativi di un paese – Paulilatino – che nelle pagine di Peppino Murtas ritrova nella festa una dimensione di serenità, addirittura di felicità, come per Santa Cristina, con la statua contesa con gli abitanti di Bonarcado.

E poi le forme arcaiche del fidanzamento e del matrimonio, il pentimento dal peccato, le tradizioni popolari, le feste, la Pasqua, la morte con i suoi riti, le sue nenie, le sue forme tradizionali che si possono seguire nel loro evolversi nel tempo. Torna in mente il volume di Ernesto De Martino sul lamento funebre in Morte e pianto rituale, pubblicato per la prima volta alla fine degli anni 50, con un occhio proprio verso la Sardegna.

A sentire la voce degli emigrati diventati operai e delle loro donne, costretti a fuggire per vivere, rivediamo tante pagine di Gavino Ledda, come quelle sull’emigrazione in Australia di Padre Padrone: la miseria, il dolore, ma anche la rabbia di chi parte e di chi resta, in quello che Ledda descrive come un funerale doppio, dove i morti sono ancora vivi e dove gli abitanti di Siligo che rimangono accompagnano all’autobus, come al camposanto, i parenti che partono per sempre; e dove gli emigranti pensano di partecipare al funerale di quelli che restano, condannati ad una miseria senza scampo. Sembra di vedere le immagini del documentario di Fiorenzo Serra del 1959 con gli emigrati sulla corriera della Sita che parte da Cossoine per Sassari attraversando Torralba e Bonnanaro con sullo sfondo Monte Arana o le immagini della nave che trasporta gli emigrati carichi di valigie di cartone legate con lo spago; o la frase sul maledetto treno del mio paese, quanta gente hai portato via. Ce le ricordiamo quelle navi, come la Lazio, piccole, instabili, dove da bambini venivamo stipati come bestiame dai marinai napoletani. È questa la transumanza degli uomini che Fiorenzo Serra raccontava, in parallelo con la transumanza delle pecore, mentre la cinepresa coglieva il pianto dei parenti, la sofferenza profonda, il segno di una sconfitta di un popolo intero di fronte alla miseria del dopoguerra. Tutto esattamente come la corriera che scivola nel buio in una poesia di Peppino Murtas: la corriera scivola nel buio  / densa di fumo / che pare una taverna. / Il cielo senza luna.

Il lungometraggio di Serra segna un momento diverso, l’uscita dalla guerra: l’isola che abbandona i costumi tradizionali, anche se non a Desulo e in Barbagia; gli uomini sono vestiti con abiti di fustagno o in orbace, anche quelli più logori, recuperati con grandi pezze di stoffa colorata; ci sono tante storie dimenticate, le scene popolaresche come quelle di una stranissima partita a carte, i fumatori di sigaro, i pastori che sostano per mangiare nel corso del lungo e faticoso viaggio verso i pascoli della pianura. Sono le donne che preparano con un atteggiamento quasi religioso il pane per i loro sposi, i pastori partono a dicembre sotto la prima neve e toneranno alla fine

della primavera.

Come non pensare a Desulo e a Montanaru:

Deo affaca a su fogu solu solu
mentras chi forsas mulinas sos nies
penso a bois e canto una canzone,
suspirende ‘e sa rundines su olu.
E conto sas oras, numero sas dies,
de bos bider torrende in s’istradone.

Prima di potersi di nuovo affacciare sullo stradone, i pastori debbono condurre al pascolo i propri animali. E lo fanno con i fischi, i richiami gutturali rivolti al bestiame, che rimandano a una lingua perduta, che precede l’età romana. Ma c’è anche in questo documentario la lingua sarda, che riesce ad esprimere meglio emozioni e sentimenti. E poi la pesca negli stagni gestiti secondo un modello ancora feudale sotto gli occhi del Barone Carta, con i pescatori che indirizzano per la peschiera coi remi ma con difficoltà i fassonis di falasco, i paesi di mattoni di fango e paglia, i ladiris disfatti e cadenti, i lavatoi per le donne di Cabras, la nevicata, le automobili di un tempo lontano, come la giardinetta di mio padre incapace di superare i dislivelli minimi, l’analfabetismo generalizzato, i rapporti sociali arcaici come quelli tra padroni e servi, l’incredibile scena del prete che conta il denaro offerto in dono agli sposi, le difficili elezioni politiche. La crisi mineraria, i licenziamenti di migliaia di operai, gli scioperi, i comizi dei leader comunisti, le gru abbandonate che si coprono di ruggine, i medaus del Sulcis riscoperti per necessità dai più poveri, le città in agonia, la ricchezza e i colori delle tradizioni locali, i Mamuthones di Mamoiada che in qualche modo ci invitano a tradurre la tradizione, è un’espressione di Franziscu Sedda, nel senso di mettere in rapporto l’idea di tradizionalità e di modernità per tradurre nell’attualità elementi provenienti da tempi e luoghi diversi. Questa finisce per essere l’essenza della vicinanza emozionale che lo spettatore di questo film prova dinanzi al travestimento dei Mamuthones e alla loro danza ritmata dal suono dei campanacci. Quasi che ad ognuno di noi il suono e il ritmo tintinnante e grave al tempo stesso evochi frammenti di una storia lontana, lontanissima, ma reale, relitti di un passato che improvvisamente si risvegliano e si disvelano pur nel parossismo della finzione rappresentativa del teatro popolare. E questi lontani echi, questa storia antica e contemporanea al tempo stesso è raccontata in questo lungometraggio. Che dire del commento che accompagna le immagini ? Per Antioco Floris il commento è qualche volta caratterizzato da un’enfasi retorica e da un’impostazione roboante fastidiosa, certo eredità dell’Istituto Luce, ma non mi sono sorpreso se un anno fa ne ho sentito un’eco ancora nel tono di voce di Bruno Pizzul che commentava i mondiali.

Come c’è un prima, allo stesso modo c’è un dopo anche in tanta produzione cinematografica recente sulla Sardegna, come nel film Ballo a tre passi di Salvatore Mereu con le scene invernali girate su una spiaggia orientale che accompagnano la morte del vecchio pastore.

Questo di stamane è solo un esempio, prezioso e vicino alla nostra sensibilità di oggi, di come la documentazione filmata sull’antropologia possa svilupparsi, attraverso strade nuove, che passano innanzi tutto per un rilancio di Sardegna digital library voluta da Elisabetta Pilia e Maria Antonietta Mongiu e per una valorizzazione degli archivi della Regione Sarda che possono essere davvero una miniera, da riscoprire al di là della documentazione burocratica, per ritrovare foto, filmati, documenti, relazioni che hanno accompagnato i rendiconti finanziari e che spiegano quello che oggi ignoriamo, banche dati legate anche alla storia della ricerca scientifica dentro e fuori le università, per riscoprire il ruolo che la Regione autonoma ha svolto nel tempo, ben al di là dell’arida rappresentazione di delibere, leggi regionali, regolamenti. Archivi che debbono aprirsi agli studiosi.

C’è molto da fare in particolare nel settore antropologico e mi auguro che possa sviluppasi una sinergia tra Associazioni, Enti, Università, Istituto Regionale Superiore etnografico, insieme ai nostri colleghi specialisti di storia del cinema, Sardegnafilm Commission, i Cineclub di Sardegna film festival, la Cineteca Sarda, la Società Umanitaria, e così via. Oggi c’è un soggetto nuovo, un futuro protagonista, il Laboratorio di antropologia visuale Fiorenzo Serra dell’Università di Sassari voluto dagli assessori Sergio Milia e da Claudia Firino. Auguri di cuore per quello che farete.




Presentazione del volume di Ottavio Olita, Anime rubate.

Presentazione del volume di Ottavio Olita, Anime rubate, Città del sole
Sassari, Biblioteca Comunale, martedì 24 novembre ore 17,30

La cronaca di questi ultimi mesi rinnova una ferita, quella del più noto esponente della criminalità e del banditismo sardo compatito o addirittura esibito come campione della “sardità”, “balente”, testimonial in concorsi letterari come in Costa Smeralda o anche oggetto di curiosità morbosa da parte di turisti, villeggianti, autorità di passaggio.

Il libro di Ottavio Olita, Anime rubate, rimette le cose a posto, racconta il banditismo e i sequestri di persona nei tragici anni 70 e 80 dalla parte delle vittime e non dei carnefici, accompagna l’educazione di un ragazzo difficile, Giorgio, nipote di uno dei protagonisti di tanti romanzi di Olita, il capitano dei carabinieri Gino Murgia: il ragazzotto saccente che giustifica tutto, immagina il bandito come un Robin Hood che toglie ai ricchi per dare ai poveri, ama i paradossi più superficiali, inizia a capire ed a crescere a contatto con il dolore, la rabbia, lo strazio di chi ha subìto un sequestro di persona. Il suo percorso di maturazione passa attraverso una comunità di recupero animata da un sacerdote che è facile identificare tra gli amici di Ottavio e attraverso i discorsi con due ex sequestrati.

Un percorso di maturazione che, immaginiamo, riguardi più in generale anche l’opinione pubblica isolana, fortemente impegnata a giustificare il sequestro e forse anche l’inerzia degli onesti, in particolare di alcuni intellettuali che oggi debbono fare i conti con i loro errori, con i loro giudizi su quelli che sono stati oltre 120 tragici sequestri di persona, alcuni attribuiti a Barbagia rossa. Con motivazioni diciamo così politiche e giustificazioniste, che appaiono ben radicate nella letteratura isolana: tutti hanno coinvolto esecutori materiali, mandanti, professionisti dall’apparenza rispettabilissima.

Sebastiano Satta, che da poco abbiamo ricordato ad un secolo dalla scomparsa, amava la Barbagia e non nascondeva di nutrire sentimenti di simpatia e rispetto per la folta schiera di banditi che, per sfuggire alla cattura, si davano alla macchia. Secondo il poeta nuorese, i banditi altro non erano che degli uomini divenuti simili ad animali randagi, che manifestavano con le loro gesta fuorilegge una barbarica ribellione a un ordine sociale ingiusto e inaccettabile. La poesia sattiana mette in luce tutta la tragedia della Sardegna, immortalata come “madre in bende nere che sta grande e fiera in un pensier di morte”.

Ma Satta non ha conosciuto i sequestri di persona nelle forme moderne e incivili descritte in questo romanzo coinvolgente, opera di un autore sensibile e dotato di spirito critico. Oggi, anche se il sequestro è un reato di cui nessuno parla più, anche se si è completato un processo collettivo di rimozione più o meno consapevole, la criminalità in Sardegna ha fatto un salto di qualità, allargandosi sul versante della droga, degli investimenti immobiliari, delle speculazioni, coinvolgendo anche avvocati, giudici, politici collusi ma insospettabili. Colpendo come in questi giorni i sindaci onesti. Dunque è ancora necessario raccontare le angosce, le paure, la violenza, la capacità che ha l’uomo di diventare peggiore delle bestie quando mette via umanità e sensibilità per farsi rubare l’anima dal richiamo del denaro, anche di quello sporco di fango e di sangue. Dunque Olita si schiera senza riserve dalla parte delle vittime dei reati, dalla parte di chi desidera giustizia contro le prevaricazioni, percorrendo un itinerario di impegno civile.

Questo romanzo prosegue un filone fortunato aperto con Il faro degli inganni a Capo Comino e rimette in campo i tre investigatori che affiancano i magistrati, Gino Murgia, Nicola Auletta e Giuliano Deffenu, impegnati a condurre un’indagine parallela che rivela sorprese ed emozioni. Li avevamo lasciati sulle curve della strada per Capoterra, di fronte alla moto Ducati travolta da un furgone guidato da un killer, a piangere la morte di una donna amata, Francesca.

In questo volume le pagine più straordinarie sono quelle dedicate ad una ragazza sequestrata a La Caletta di Siniscola, Alice, strappata dalle braccia di Alberto e trasferita brutalmente e con violenza nei paraggi di Perda Liana in Ogliastra, il tacco rupestre, il segnacolo visibile da Correboi, che per Ignazio Camarda si trasforma prodigiosamente in una mammella, nel capezzolo di una gigantessa, titta e sa terra, tapicciu de gigantessa colcada palas a terra.

Qui il tempo si dilata a dismisura immobile, mentre i banditi incappucciati e armati moltiplicano l’angoscia e la disperazione per la donna incatenata, per un trattamento davvero disumano e violento nei confronti di una ragazza con i suoi pudori, le sue intimità, le sue aspirazioni a costruirsi un futuro pieno di speranza, che ora è definitivamente rubato. Mentre i pastori che osservano da lontano girano la faccia da un’altra parte e fingono di non vedere, per un paradosso della vita, proprio qui il sollievo viene dall’odore del bosco, dal profumo delle foglie umide sotto il grande corbezzolo, dal vento e dall’acqua, soprattutto dagli animali, gli uccelli, i serpentelli, i cinghiali, i mufloni; e poi i versi delle capre e delle rane, i suoni del bosco abitato da tanti animali che finiscono per essere l’unico sostegno per la sequestrata.

<<Ma c’erano anche insetti che mi terrorizzavano, come enormi ragni pelosi che spesso entravano nella tenda e che io bruciavo o scacciavo usando la fiamma di una candela che mi era stata data per leggere qualche giornale che mi veniva messo a disposizione: E tante mosche che tormentavano le mie piaghe>>. L’unica vera consolazione in tante mattine di desolante solitudine era però un riccio timido e affettuoso: quel riccio, confessa Alice, come tutti gli altri animali del bosco, mi aiutò a custodire l’idea del bello, proprio mentre i sequestratori carichi di rabbia volevano dimostrare con le loro azioni come l’orrido e la brutalità della vita prevalgano sulla bellezza. E proprio per questo volevano ostentatamente cancellarne ogni manifestazione.

Lo ritroveremo alla fine della storia questo riccio dagli aculei arrotondati e dagli occhietti neri e vivaci, per chiudere un cerchio assieme al gatto di casa e al ricordo ora più dolce del bosco delle sue prigioni.

Più in generale in queste pagine c’è il contrasto quasi schizofrenico di una Sardegna ancora barbara e selvaggia da un lato e la bellezza delle opere dei suoi artisti come Costantino Nivola, lo splendore dei suoi paesaggi, la dolcezza del suo sole, delle sue spiagge come a Chia nei pressi dell’antica Bithia, dove vediamo le protagoniste crogiolarsi al sole, oppure anche in Ogliastra, perfino nei momenti della dura prigionia, intorno ai luoghi favolosi ed amati. E anche il contrasto tra la rozzezza dei criminali e il sentimento di affetto tra le giovani donne, infine l’amore che per Gino inizia lentamente a svilupparsi di nuovo dopo la tragedia dell’incidente in moto proprio in direzione di Chia, su quella strada non più maledetta.

Dietro queste pagine si avverte un’esperienza vissuta, un trauma ancora sanguinante, una storia vera, magari come quella di Silvia Melis (oppure di Daphne e Annabel Schild), raccontata riservatamente al cronista giudiziario dai protagonisti, dalle vittime e dagli emissari, perché questo romanzo affianca realtà e fantasia, utilizza sullo sfondo quasi una colonna sonora radicata nel tempo e nello spazio, che pure si incrocia con l’invenzione di tante pagine, che aprono capitoli nuovi, cari alla sensibilità dell’autore. Ma non è un’invenzione la vicenda delle 14 statuine di Costantino Nivola, recuperate in un muretto a secco di un ovile di Fonni, poi finite al museo di Orani, tra speculazione, traffici illeciti, bieco affarismo dei mercanti d’arte e di alcuni latitanti sardi: una vicenda ricostruita a tutto tondo, in un modo che ancora una volta testimonia la sensibilità artistica dell’autore. In passato abbiamo visto Olita leggere la San Sperate di Pinuccio Sciola, quando il paese contadino del Campidano era finalmente uscito da un sonno millenario, quando i suoi abitanti tutti all’improvviso si erano appassionati di arte, avevano creduto nella rivoluzione del sorriso, avevano compiuto un percorso culturale che è stato anche un’esperienza collettiva di liberazione che possiamo riconoscere ormai entrata nella storia della Sardegna. Quando il grigio paese di fango all’improvviso era diventato candido, aveva riscoperto i colori, le figure, le emozioni, aveva condiviso la passione, le curiosità, i desideri di un ragazzo come tanti, chiamato a guidare tutta la sua gente, che non era rimasta a guardare, ma si era fatta incantare e quasi sedurre.

Anche nelle pagine de Il futuro sospeso Olita aveva raccontato con delicatezza e incanto il percorso seguito per riemergere dalle macerie della vita: scrivere o raccontare diventava un momento di riflessione prima di ricominciare a vivere, una pausa per indagare su se stessi, con tanti sentimenti contrastanti, con una capacità nuova di compatirsi per l’ingiustizia del dolore e insieme con la speranza per i tempi nuovi che si annunciano, con emozione e senso del mistero.

Con questo nuovo romanzo, attraverso tanti colpi di scena, attraverso la gioia della liberazione dell’ostaggio da parte di una pattuglia di polizia, anche dopo i fatti di Osposidda che pure hanno segnato una svolta vera, il lettore capisce come gli anni tragici dei sequestri continuino a mantenere aperte nel tessuto sociale della Sardegna ferite profonde, ancora non del tutto rimarginate, perché l’omertà, la paura di interi territori in mano ai banditi, quando l’intera Sardegna era stata posta sotto sequestro finiscono per condizionare pure la storia di oggi.

Sarà il pentimento del nonno, ormai in punto di morte, a costringere Bettina a percorrere con generosità e altruismo una strada dolorosa alla ricerca di una terribile verità: il percorso dei protagonisti parte dalla Via Crucis di una pasqua romana e dai singhiozzi di fronte alle parole nuove di Papa Bergoglio, che invitano a varcare una soglia, ad affrontare le proprie responsabilità, a muoversi verso nuovi orizzonti di senso.

Dunque per perdonare e per perdonarsi occorre sapere e capire, abbattere il muro del silenzio e della vergogna, ritrovare l’identità rubata, completare un percorso di riabilitazione: solo la conoscenza di quello che avvenne realmente negli anni dei sequestri in Sardegna può oggi farci arrivare ad una pacificazione che non può evitare il tema del risarcimento, anche emotivo, di chi ha sofferto, pianto, patito di fronte a belve assetate di sangue, di fronte a magistrati collusi (aleggia ancora una volta il sequestro di Silvia Melis, l’intitolazione di Piazza Repubblica al giudice suicida), comunque incapaci di chiudere risolvendole le inchieste più spinose, anche a causa di comportamenti anomali da parte di alcuni avvocati. Alcuni palazzi di giustizia che venivano osservati – forse ingiustamente – con qualche riserva. Una rete di complicità che neppure la procura distrettuale Antimafia sembra esser riuscita a soffocare e che forse sopravvive ancora oggi. Dunque i reati rimasti impuniti, le ombre su alcuni patrimoni, gli eredi che beneficiano di grandi ricchezze. Ma anche i fallimenti di imprese come quella dei fratelli Vinci.

C’è nei romanzi di Olita un altro aspetto, che mi piace far emergere: quello del ruolo svolto da alcune donne, che finiscono per determinare i processi positivi: così la deliziosa Gaia-Sandra o la splendida Giulia-Giovanna de Il Futuro Sospeso; la Francesca del Faro degli inganni; così Bettina, Alice, Margherita, in questo romanzo. C’è soprattutto un amore intenso e contrastato per la Sardegna, da Perda Liana e da Gairo Taquisara in Ogliastra, lungo la vallata del Flumendosa o lungo la ferrovia del trenino verde; ma anche fino alla punta di N.S. di Gonare al di là di Correboi, da Oliena a Fonni, dal Tonneri fino al nuraghe Ardasai di Seui, da Seulo a Desulo. Luoghi amati per il paesaggio naturale, ma anche per le persone, per le sofferenze, per il senso di giustizia che è la leva su cui fare forza per un futuro diverso, che credo sia iniziato proprio tra Oliena e Orgosolo ad Osposidda col sequesto di Tonino Caggiari.

Qualche mese fa Flavio Soriga ha scritto che è davvero incredibile quanto poco si sia scritto in questi anni sui sequestri di persona, tenuto conto dell’immensità dell’orrore che un certo numero di sardi ha compiuto ammantando assai spesso le proprie azioni con una vena di presunta giustizia sociale e godendo di diffusissima omertà: <<Quanto disonore è venuto a questa terra per questo crimine, compiuto spesso a danno di bambini, donne, anziani e comunque sempre di innocenti. Orrori, violenze, torture, vite rovinate, famiglie distrutte, ferocia e spietatezza>>.

Ottavio Olita già vent’anni fa ha dimostrato di respingere il conformismo e con l’inchiesta sul caso Manuella, che si è mossa tra mille condizionamenti, ripresa nei mesi scorsi su “Chi l’ha visto”, ha scelto una nuova prospettiva per leggere la realtà, perché, ha recentemente scritto, la letteratura potrebbe ora impegnarsi per un risarcimento morale collettivo, che non può prescindere da una rilettura critica dei terribili anni che ormai abbiamo superato, anche se tante anime sono state rubate nell’indifferenza, senza che si determinasse quella reazione che deve stare alla base di una società civile.

Con questo romanzo ci lasciamo alle spalle i pensieri di morte di Sebastiano Satta e la Sardegna si apre con dolcezza verso un futuro luminoso di speranza, perché davvero vorremmo che giungesse la primavera, con le parole di Pedru Mura, il poeta di Isili. Vorremmo chi colet ridende su beranu:

In su muru ‘e s’odiu
Aperibi una janna
Chi siat de artura tantu manna
Cant’est artu su sole a mesudie.
Chi siat de largura tantu larga
Cant’est largu su coro ‘e sa natura ;
pro chi colet ridende su beranu
chin tottu sos profumos ch’hat in sinu;
pro chi avantzet cantande s’arbèschia
chin tottu sos lentores de manzanu;
pro chi si nde confortet su desertu
e ti torret sos fizos fattos frores.




L’Epigrafia latina nelle province danubiane negli ultimi 15 anni 2000-2015.

L’Epigrafia latina nelle province danubiane negli ultimi 15 anni (2000-2015)
Vienna, 10 novembre 2015, Istituto Italiano di cultura
3rd International Conference on Roman Danubian Provinces
di Attilio Mastino (Testo letto da Angela Donati.)

1.L’epigrafia provinciale. 2. Lo specifico epigrafico. 3. La lunga conquista. 4. Questa rassegna. 5. Storia degli studi. 6. Nuove acquisizioni sui governi provinciali. 7. La storia: novità sui viaggi imperiali. 8. Recenti acquisizioni sui fasti provinciali. 9. La municipalizzazione. 10. Alcuni populi e nationes. 11. Gli immigrati. 12. Opere pubbliche. 13. L’esercito: legioni, coorti, alae, flotta. 14. Miniere e dogane. 15. La vita religiosa. 16. Le articolazioni e le festività del culto imperiale. 17. Conclusioni

 

1.L’epigrafia provinciale.

Dopo Ferrara e Cento, Livio Zerbini mi ha nuovamente coinvolto chiedendomi di intervenire a questa 3rd International Conference on the Roman Danubian Provinces (Society and Economy), prevalentemente dedicata all’epigrafia, promossa dal Laboratorio della sua Università d’intesa con l’Institut für Alte Geschichte und Altertumskunde, Papyrologie und Epigraphik Wien (Fritz Mitthof e Theresia Pantzer). Allora lasciatemi dire la gratitudine per l’onore che mi viene fatto e l’ammirazione per il lavoro portato avanti in questi anni dal “Laboratorio sulle province danubiane di Ferrara”, che in qualche modo collabora in parallelo con il nostro “Centro di studi interdisciplinari sulle province romane” dell’Università di Sassari fondato 25 anni fa, con attenzione al tema delle specificità regionali e locali nel quadro del generale fenomeno della romanizzazione, coordinando gruppi di studiosi e proponendo una cooperazione interdisciplinare e internazionale sulla cultura, l’urbanizzazione, l’economia, la vita religiosa di un impero mediterraneo divenuto spazio di contatto, di cooperazione, di integrazione fra popoli differenti. Negli ultimi anni il Laboratorio di Ferrara, in una linea di continuità con antichi indirizzi di studi dell’Università di Bologna, è riuscito sempre più a porsi progressivamente come punto di riferimento per la cooperazione scientifica internazionale, tra archeologia, epigrafia, numismatica, storia delle religioni; è diventato un prezioso strumento per allargare l’indagine in ambito continentale e per costruire nuove reti di ricercatori[1].

Il volume del II Convegno internazionale dedicato a Culti e religiosità nelle province danubiane, pubblicato nel 2015 dal Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Ferrara, si concentra sulla vita religiosa attraverso i contributi di alcuni dei più autorevoli ricercatori del mondo danubiano in età romana, provenienti da quindici Paesi. Gli esiti delle ultime ricerche mettono sempre più in evidenza che il mondo provinciale danubiano non costituisce un organismo uniforme e omogeneo, in quanto ogni provincia è caratterizzata da una propria identità che è andata maturando nel tempo, i cui tratti specifici meritano di essere ulteriore indagati e studiati[2].

L’esigenza di distinguere la storia delle province dalla storia di Roma, le sue fonti, i suoi orizzonti, le sue relazioni, è dovuta alla necessità di far emergere le specificità regionali, le persistenze indigene, gli apporti originali che le differenti realtà nazionali e locali hanno espresso all’interno dell’impero romano. Questo tipo di analisi, che nel rapporto tra centro e periferia valorizza gli apporti specifici delle diverse province e supera il tema dell’egemonia e dell’imperialismo rilevando il ruolo fondamentale della geografia nella storia, è stata definita già in occasione del Colloquio di Cluj-Napoca del settembre-ottobre 2006. Ho potuto rileggere lo splendido volume degli Atti che mi è stato donato animo grato da Ioan Piso, per conto del Centrul de Studii Romane dell’Universitatea “Babeş-Bolyai” e del Muzeul Naţional de istorie a Transilvaniei[3]: un volume di sintesi che poneva il tema della flessibilità romana nella creazione di nuove province e insieme si soffermava ad analizzare aspetti specifici relativi alla storia provinciale romana. Per quanto ci riguarda in questa sede, con riferimento alla Rezia (C. Sebastian Sommer), al Norico (Ekkehard Weber), all’Illirico (Péter Kovács), alla Mesia (Miroslava Mirković, Costantin C. Petolescu, Florian Matei-Popescu), alla pianura della Dobrugia tra le attuali Romania e Bulgaria alla foce del Danubio (Alexandru Suceveanu), alle Pannonie (Eduard Nemeth), soprattutto alla Dacia (Gelu Florea, Paul Puppeză, Viorica Rusu-Bolindeţ, Barnabás Lőrincz, Ioan Piso), tutti studiosi che hanno animato il fervido dibattito storiografico sull’epigrafia e la storia delle province danubiane fino ad oggi. È particolarmente la Dacia la provincia per la quale in questi ultimi anni viene rapidamente colmato un ritardo storico di conoscenze e di dati, anche per merito dei nostri colleghi italiani[4]. Nel frattempo abbiamo maturato una coscienza nuova sul tema della diversità delle società provinciali, delle distinte identità e appartenenze, dell’assoluta inadeguatezza di formule astratte e di categorie interpretative capaci di definire nel tempo e nello spazio processi che hanno determinato eterogenee trasformazioni politiche, economiche, sociali, culturali, fortemente condizionate dalla geografia, dalla distanza, dall’impegno di Roma in una provincia. Del resto è nostro dovere evitare di ingabbiare in schemi precostituiti una realtà complessa, vivace, articolata, che va molto al di là delle formule e che aderisce a situazioni locali ancorate a tradizioni, ad ambienti culturali e territoriali, all’evoluzione diacronica sempre in rapporto con l’ambiente circostante. Non ci sono formule semplici per definire realtà complesse. Eredità dell’ellenismo, è evidente il progressivo affermarsi di una realtà culturale nuova che attraversa tutto l’impero, una Romanitas che oggi appare assai differenziata, fondata soprattutto nelle regioni di frontiera su un controllo militare che si innestò con il processo di urbanizzazione[5] e le promozioni giuridiche di intere comunità peregrine a livello municipale[6], il coinvolgimento delle popolazioni locali, la scelta strategica di stabilizzare i territori[7], la promozione dell’evergetismo cittadino[8]; il controllo militare fu incardinato su singoli avamposti che controllavano i flussi di uomini, animali, merci da e per l’impero. Sullo sfondo rimangono i temi ambientali che emergono con prepotenza, il paesaggio, la flora, la fauna, come da ultimo a proposito della caccia al bisonte d’Europa sui Balcani documentato dall’iscrizione di Montana in Mesia Inferiore[9]. Quindi gli aspetti amministrativi legati alla conquista e alla provincializzazione, il governo, gli avvenimenti storici riflessi sulle pietre.

Partecipano ai nostri lavori alcuni maestri, molti giovani ricercatori, molti studiosi provenienti da numerose università europee, che ci condurranno per mano a ricostruire i paesaggi antichi delle province danubiane, con relazioni che investiranno aspetti storici, epigrafici, archeologici, topografici di un’area vasta che si affaccia sul grande fiume, alla quale guardiamo con rinnovato interesse, alla ricerca delle origini della cultura europea, ritrovando radici comuni e percorsi storici convergenti. Il nostro mestiere di storici del mondo antico deve sempre di più renderci consapevoli dell’importanza e della vitalità dell’eredità dell’antico nel mondo che viviamo e insieme deve farci cogliere il senso della responsabilità di un impegno di ricerca che si proietti nella costruzione di un futuro comune. I nostri lavori consentiranno di colmare fossati, di abbattere steccati antichi e muri moderni e di trovare una strada insieme, soprattutto promettono uno sviluppo di rapporti tra Paesi diversi, tra Università, tra scuole, tra metodi di indagine, nella direzione che porta verso il consolidamento di una rete di relazioni che immaginiamo intensa e vitale, capace di avviare un fortissimo rinnovamento di metodi e di modelli culturali su un’area vasta, complessa, piena di fermenti nuovi.

Proprio lungo le frontiere danubiane la cultura politica romana produsse efficaci modelli di organizzazione civica: fondazioni di colonie, istituzioni municipali, governi per territori con specifiche identità etno-culturali ed economiche mentre «l’urbanizzazione fece passi considerevoli, anche con l’affiancamento di nuove città ad impianti castrensi, specie sul limes». Parlando al convegno sul Limes svoltosi nel 1989 a Svishtov, l’antica Novae, alla vigilia della caduta del muro di Berlino che segnava la fine di quella che era stata la cortina di ferro del secondo dopoguerra, Giancarlo Susini volle ribadire che il Limes romano non fu soltanto una barriera, ma anche una soglia, un liminare da varcare per entrare di là, e una strada di terra e magari di fiume, che raccordava “a valle” singoli entroterra per farli comunicare, una via maestra, insomma, che tale si potrebbe definire perché tramite primario dei transiti e delle conoscenze, e perché straordinario fattore di omologazione tra le culture che, dai lati della via, vi confluivano[10]. Oggi tante cose sono più chiare, intorno alle funzioni diverse che il limes ha svolto nel tempo, all’attività di legioni, coorti, alae, numeri, alla edificazione di castra e di fortificazioni come burgi e praesidia militari, ad esempio come quelli in Pannonia Inferiore per iniziativa del prefetto del pretorio Tigidius Perennis, nell’età di Commodo[11]; o quelli sul basso Danubio in età tardo antica presentati nella sintesi di D. Bondoc[12].

Sono ora disponibili numerosi lavori sull’archelogia e l’epigrafia delle province danubiane in atti di convegni, come quello bulgaro di Veliko Tărnovo del luglio 2000 per il centenario degli scavi di Nicopolis, con particolare attenzione anche per Novae[13]; il volume udinese Roma sul Danubio del 2002[14]; la Giornata di studio del settembre 2008 a Ratisbona[15]. Consentitemi di citare infine il volume di D. Boteva-Boyanova, L. Mihăilescu-Bîrliba e O. Bounegru, pubblicato nel 2012, Pax Romana, dedicata alla cultura e all’economia nelle province danubiane, con gli Atti del Convegno di Varna e Tulcea del 2008[16].

Ma anche questo terzo convegno viennese appare ricchissimo soprattutto per la parte epigrafica. Proprio per questa ragione ci siamo dedicati a raccogliere un quadro, per quanto rapido e per saltus, delle scoperte e riscoperte epigrafiche effettuate dal 2000 ad oggi nelle province danubiane: un periodo di 15 anni, lungo, ricco di novità e di risultati, in relazione ai numerosi scavi archeologici che si stanno conducendo per iniziativa di soggetti diversi in dieci Paesi, con una forte componente internazionale e con un progressivo ampliarsi dei soggetti coinvolti, con il prodigioso riemergere di intere collezioni e il riordino dei lapidari di antichi musei. L’impressione generale che ne abbiamo tratto è quella di un forte rinnovamento degli studi, del passaggio di testimone tra due generazioni di studiosi, di una nuova vivacità della ricerca archeologica ed epigrafica, di un interesse crescente per i risultati scientifici che toccano territori tanto diversi, che hanno vissuto il fenomeno della romanizzazione in modi e forme davvero originali[17].

Ora che nuove porte si aprono in Europa e che nuovi muri purtroppo si innalzano, abbiamo un’opportunità ed un’occasione storica, che è quella di ritrovare una dimensione perduta, quella di ricostruire una rete di rapporti, di relazioni e di amicizie che rafforzi la comprensione tra i popoli, affermi valori comuni, definisca un quadro di stabilità e di pace, in un’Europa più consapevole delle proprie radici comuni, più capace di individuare quelle complesse e radicate esperienze culturali che da gran tempo compongono i suoi fondamenti. Eppure nulla come l’esodo di intere popolazioni attraverso nuove strade e nuovi percorsi di terra, di mare e di fiume che osserviamo in questi ultimi mesi ci può far capire quella che fu nella sostanza la fragilità e la crisi del mondo antico.

Noi oggi possiamo articolare nel tempo e nello spazio i flussi migratori che hanno investito le province danubiane dall’Italia o da altre aree del Mediterranneo; soprattutto possiamo apprezzare il ruolo delle élites locali, attratte dai vantaggi economici, giuridici e politici offerti da Roma, interessate ad adottare volontariamente usi e costumi di una comunità nuova, talvolta, come ricordava Géza Alföldy, con un gusto quasi antiquario nell’illusione di essere i veri discendenti di Roma, i soli custodi di valori comuni[18]. Possiamo allora ribaltare la prospettiva e sostenere il ruolo fondamentale della geografia nella storia: in età imperiale nacquero diverse società provinciali, che ideologicamente si richiamavano a Roma ma che nella pratica, senza contraddizioni con l’identità romana, erano peculiari di un determinato territorio giacché della cultura italica avevano recepito solo alcuni elementi, quelli che meglio si adattavano alla società locale e che preservavano numerosi tratti della tradizione pre-romana; su questa base si innestavano poi gli influssi divergenti, dovuti ai tanti funzionari, militari, coloni provenienti da altre provincie che esportavano la specifica concezione di “cultura romana”. Senza contare l’apporto ininterrotto proveniente da quelle popolazioni stanziate nel Barbaricum oltre il limes rappresentato dal grande fiume simboleggiato dal Neptunus Danuvius dell’iscrizione di Stepperg in Baviera, pubblicata nel 2012[19], una linea che in realtà è stata costantemente attraversata, se non altro per consentire ai giovani peregrini di svolgere il servizio militare all’interno dei reparti ausiliari romani, come dimostrano tanti diplomi[20]. La divinizzazione del grande fiume Danuvius (allo stesso modo in Pannonia il Dravus, il Savus[21], il Colapis, il Bathinus) testimonia il suo ruolo nell’immaginario collettivo e l’importanza del traffico fluviale[22]. Analogamente parliamo del Fluvius Acaunus paredro della dea Salacia (la sposa di Nettuno) a Vienna[23]. A Salzburg-Iuvavum nel Norico la personificazione del fiume Salzach onorato da un navicularius comparirebbe nella spettacolare base decorata con un’aquila, dedicata insieme I(ovi) O(ptimo) m(aximo) et Iuvavo pro salute Mari Aniceti e per il suo successo commerciale, negotiationi eius[24]. A Vranjske Njive presso Podgorica in Montenegro (Doclea) ci rimane la dedica studiata da D. Grbić che richiama i pericoli della navigazione marittima sull’Adriatico piuttosto che fluviale: un commerciante italico offre un altare a Nettuno con un epiteto davvero inconsueto: Neptuno sacrum periculorum absolutori[25].

In questo contesto, il tema della provincializzazione delle province danubiane e in particolare della Dalmazia ad esempio è da affrontare alla luce di un doppio orizzonte culturale, quello del processo di integrazione e unificazione di popoli tanto diversi nell’ambito della communis patria Roma (attraverso la religione ufficiale, il culto imperiale, l’urbanistica, le iscrizioni pubbliche), ma anche quello, generato dalle delimitazioni cittadine e provinciali, che ha determinato profonde differenze tra popoli e province, con i presupposti della successiva frammentazione dioclezianea[26]; fino a giungere all’estremità orientale del territorio, come ad Odessos (oggi Varna) in Mesia Inferiore, dove quattro termini indicano nella seconda metà del I secolo d.C. il percorso della frontiera amministrativa della provincia e della città: [F(ines) te]rr(ae) [T]hraciae, [F(ines) terr(ae) Ode[ss(itanorum)][27].

 

2. Lo specifico epigrafico.

In questo quadro emerge uno specifico, nello studio delle scritture antiche, latine soprattutto e greche, quello dei metodi utilizzati dalle diverse epigrafie, le paleografie come il lavoro di Mrozewicz per 230 iscrizioni di Novae[28], i graffiti[29], i tituli picti anche per il restauro di monumenti[30], gli errori del lapicida e gli strumenti officinali[31], le officine lapidarie[32], le damnationes[33] e le successive reincisioni[34], le provenienze dei marmi epigrafici[35], i marchi di artisti e artigiani[36], i bolli sui vasi, mattoni, importati o fabbricati localmente anche da figlinae imperiali nelle province danubiane[37]; le scritte sulle corazze militari[38] o su anelli[39]; le tesserae nummulariae della Carinzia[40]; in generale l’instrumentum come nei Testimonia epigraphica Norica[41] o negli ex voto religiosi, come quelli dedicati alle divinità dalle terme salutari di Aquae Iasae in territorio di Poetovio in Pannonia Superiore[42]. E poi i tituli picti[43], le tavolette di cera dalla Dacia[44], la decorazione iconografica[45], le tipologie monumentali[46], gli errori del lapicida[47], il reimpiego ad es. dei miliari [48], i falsi[49], i “doppi epigrafici”[50], il ductus[51], il formulario[52], la damnatio memoriae[53], la poesia epigrafica studiata da Paolo Cugusi e Maria Teresa Sblendorio Cugusi[54], con varie reminiscenze ovidiane che da Tomi riemergono nei carmina epigrafici, come a Sarmizegetusa (heroides, 21,91)[55], oppure come a Transmarisca secondo D. Adameşteanu dai Tristia di Ovidio, hic ego qui iaceo tenerorum lusor amorum (III, 3, 73 s.)[56]. Sulla stessa linea a Melta (oggi Lăžane in Bulgaria), un carme funerario racconta della lunga malattia della defunta quattordicenne, con riprese dal mito di Atlante nelle Metamorfosi di Ovidio (X, 689-690)[57]: temi che ci riportano alle radici della cultura latina di età augustea, in ambiente danubiano. Infine l’epigrafia rupestre tanto cara a Lidio Gasperini: in Bulgaria a Pleven R. Ivanov ha rivisto l’iscrizione rupestre di Somovit[58]. Come dimenticare che dieci anni fa Miroslava Mirković attraverso le iscrizioni rupestri diel Djerdap nelle emozionanti gole del Danubio (già note al Marsigli) ha ricostruito la politica imperiale romana tra Tiberio e Adriano in territorio mesico[59] Ma l’epigrafia è capace di far riemergere tradizioni, riti, miti di un passato lontanissimo da noi[60]; fa scorgere il tema dell’assenza, la disperazione, il cordoglio, il pianto di fronte alla morte, ben al di là degli stereortipati formulari epigrafici legati al rimpianto da parte degli eredi[61]; suscita emozioni e contiene indicazioni erotiche[62]; oppure ci informa sugli aspetti sociali come a proposito dell’applicazione in Mesia delle leggi matrimoniali di Augusto dopo la recente scoperta delle due tavole bronzee contenenti la Lex Municipii Troesmensium dell’età di Marco Aurelio e Commodo, ffettuata nel 2003[63]; oppure sui rapporti di parentela come a proposito dell’utilizzo del termine amita o del termine nepos/neptia in Dacia[64].

Significativi passi in avanti sono stati compiuti sui fenomeni linguistici caratteristici del latino parlato in provincia, in particolare in Pannonia, a causa dei rapporti transfrontalieri e della varietà di provenienze della componente militare, per quanto assistiamo sul piano geografico a una progressiva riduzione della “densità epigrafica” dopo l’età dei Severi[65]; è stata studiata da B. Fehér la sintassi delle frasi complesse nel latino della Pannonia e la coesistenza tra lingue differenti[66]; in Mesia Superioe a Naissus V. Nedeljković ha studiato l’evoluzione del volgare in età tardo-antica[67]; la lingua latina sulle iscrizioni daciche è stata studiata da Eugenia Beu-Dachin[68]; per non parlare della prosopografia[69], della situazione sociale e del ruolo degli schiavi e dei liberti imperiali[70]: l’applicazione della lex Aelia Sentia, che secondo L. Mihăilescu-Bîrliba in Dalmatia, Pannonia, Mesia, Dacia testimonia che gli schiavi erano liberati molto giovani, a meno di 30 anni di età[71]. La vita familiare in particolare dei liberti nell’Illyricum[72] oppure in Dacia[73]; ma anche la condizione femminile[74], l’età del matrimonio, lo ius hereditatium in Dacia[75], l’onomastica specie in ambiente militare[76], i gentilizi imperiali, i pseudogentilizi[77], la vita religiosa, l’organizzazione del culto imperiale a livello municipale e provinciale[78], le tradizioni legate al mondo della magia[79], della religione o della medicina ufficiale nelle loro interrelazioni[80]; le minacciose defixiones[81]; con attenzione per tanti aspetti sociali, come l’età media o la speranza di vita[82]; ancora le nuove possibilità offerte dall’epigrafia alla delimitazione dei territori delle città e delle province, come ad Histria (civitas libera et immunis), dove un editto del governatore della Mesia Inferiore nei primi anni di Traiano Manius Laberius Maximus fissava i limiti territoriali della città, alla base di successive controversie che giunsero fino all’età dei Severi[83]; oppure ad esempio alla conoscenza delle professioni[84] o alla navigazione fluviale e all’attività di mercatores e dei corpora naviculariorum[85]; alla realizzazione di opere pubbliche[86] e di edifici da spettacolo, come gli anfiteatri, in Dalmazia a presso il campo legionario di Burnum (Ivoševci)[87] e Salona[88], in Pannonia a Brigetio[89], a Carnuntum già nell’età di Vespasiano[90], ad Aquincum[91] e nella Dacia romana[92].

Infine, il rapporto tra culture religiose differenti, la presenza ebraica come a Brigetio[93] o ad Aquincum[94] o nelle province daciche[95]; la fase cristiana è testimoniata ad esempio dalle citazioni della Bibbia[96]. L’insieme dei documenti è ora studiato anche con riferimento alla collocazione cronologica, attraverso i formulari, le caratteristiche tecniche, la paleografia[97], la scrittura corsiva[98].

Già il nostro compianto Géza Alföldy si interrogava nel volume degli atti della Conferenza sul Danubio svoltasi a Belgrado edito da M. Mirković nel 2005 sulla concreta possibilità di ricondurre ad un discorso unitario il processo di sviluppo della “cultura epigrafica” nelle province danubiane, in rapporto a variegati processi di urbanizzazione e municipalizzazione nello spazio danubiano, visto che dobbiamo registrare ritmi differenti di un discorso articolato per province tanto differenti tra loro, con tante originali diversità. In alcune aree, specie nel settore illirico, la “cultura epigrafica” si affaccia già a partire da Augusto; Pannonia e Mesia hanno ospitato reparti legionari, mentre altri territori, come la Rezia e il Norico, sono stati controllati solo da guanigioni ausiliarie; in molte province, a maggior ragione in Dacia, si può parlare di cultura epigrafica solo dopo la prima metà del II secolo d.C., a causa della “bassa densità epigrafica” per tutto il I secolo d.C. (e ci troviamo di fronte prevalentemente a iscrizioni funerarie)[99]. Di conseguenza mi sono interrogato a lungo se proporre con questa relazione un quadro unitario per l’insieme dell’area balcanico-danubiana oppure più correttamente un ragionamento articolato per settori e per province. Ovviamente mi riservo in futuro di raggiungere un livello maggiore di dettaglio e di approfondimento.

 

3. La lunga conquista.

Sembra opportuno partire ancora una volta dalla “regina inscriptionum”, le Res Gestae Divi Augusti, con le parole di Augusto evocate da Werner Eck al nostro primo convegno di Ferrara: Pannoniorum gentes quas ante me principem populi Romani exercitus numquam adiit…imperio populi Romani subieci protulique fines Illyrici ad ripam fluminis Danuvi[100]. Le recenti riflessioni di H. Grassl e di K. Strobel hanno portato a rivalutare l’azione di Augusto e ad arrivare ad una sintesi sulle nuove teorie sulla provincializzazione di Rezia, Norico, Pannonia[101]. Anche il recente lavoro di D. Grbić sulla conquista romana alla luce dei monumenti trionfali (partendo dalle statue che rappresentano i popoli balcanici provenienti dall’Augusteo di Afrodisia), ha chiarito i contenuti delle campagne militari di Ottaviano Augusto, segnando le tappe della conquista dell’Illirico e delle regioni danubiane[102].

Augusto costituì definitivamente la provincia dell’Illirico solo nel 27 a.C., considerandola pacificata e lasciandola nelle mani del Senato, che vi inviò dei proconsoli. Qualche anno dopo, a seguito di una nuova rivolta di Dalmati, la provincia fu dichiarata imperiale, allargata fino a comprendere parte della Pannonia e della Mesia e, tolta al Senato, a partire dall’11 a.C. ospitò un presidio legionario che aveva sede a Salona, sotto il comando di un legato di rango consolare (il primo fu il figliastro Tiberio). Gli ultimi studi hanno chiarito molti aspetti della grande rivolta pannonica del 6 d.C.: Sirmio (Mitrovica in Serbia) sulla Sava fu a lungo assediata da Tiberio, indebolita da carestie e pestilenze, come ha dimostrato Dénes Gabler dell’Università di Budapest[103]. La Pannonia, ormai quasi spopolata, fu allora sottoposta ad una dura occupazione militare ed affidata inizialmente col nome di Illyricum Inferius ad un autonomo legato, così come ora precisato dalla Šašel Kos, M. Emilio Lepido nel 9 d.C. e alla morte di Augusto Quinto Giulio Bleso[104]. È possibile ricostruire l’attività delle legioni e dei reparti ausiliari, impegnati a costruire strade, canali, accampamenti. L’esercito è presente con i suoi castra legionari e ausiliari affiancati dalle canabae. Le regioni adriatiche della Dalmazia venivano definitivamente scorporate dalla Pannonia e costituivano una provincia distinta. I recenti lavori di Jenő Fitz hanno spostato nel tempo la bipartizione della provincia di Illiria. La divisione non sarebbe avvenuta come fin qui sostenuto tra il 9 e il 20 d.C. ma solo sotto Claudio tra il 46 e il 49. Dopo aver fatto parte del Norico, Carnuntum appartiene alla Pannonia dal 50. Savaria ha ottenuto il titolo di colonia allo stesso tempo delle città del Norico con un perfetto sincronismo. La prima menzione di un governatore in Pannonia è del 50, di Dalmazia dal 65[105].

Già in ertà augustea si sviluppa una forte immigrazione di artigiani, come i Barbii recentemente studiati da G. Piccottini[106]; a questi anni può forse essere riferita l’iscrizione incisa sulla gamba della celebre statua di atletas Jüngling von Helenberg che si data alla seconda metà del I secolo a.C. (dunque all’inizio di età augustea secondo Wohlmayr) e su uno scudo perduto sempre dal Magdalensberg con i nomi M. Gallicinus Vindili f. L. Barbius L. l. Philotaerus procurator, Craxantus Barbi P. servus [107]. Infine ad officine di inizio di età augustea viene riferita la dedica effettuata alle calende di maggio alle divinità ctonie con 25 misure di vino per libagioni da A. Poblicios D.l. Antiochus [108].

 

4. Questa rassegna.

Naturalmente la nostra ricerca è partita da L’Année épigraphique che a questi primi 13 anni (l’ultimo numero del 2012 è uscito in questi giorni) riserva oltre 500 schede, e da numerose altre riviste (Arheološki Vestnik nr. 66 dedicato a Slavko Ciglenečki sulla tarda antichità è arrivato al 2015) e altri repertori, tra i quali l’Annona epigraphica Austriaca di E. Weber su “Tyche”, dal XV volume, curata da un gruppo di studiosi: K. Böhm, V. Hofmann, M. Holzner, M. Pesditschek, R. Selinger, I. Weber-Hiden, fino a F. Beutler nel 2014-15; una rassegna che raccoglie articoli spesso difficili da trovare, accompagnata da un commento epigrafico, indici e lista di concordanze[109]. Ma ormai possediamo numerosi repertori bibliografici, come quelli sulla religione in Dacia curato da Cs. Szabó e I. Boda, uscito nel 2014.

Ma questi sono gli anni della pubblicazione di diversi nuovi volumi del Corpus Inscriptionum Latinarum, relativi ad alcune province e ad alcune categorie di iscrizioni, come i 572 nuovi miliari, quelli della Rezia e del Norico studiati nel 2005 nel volume XVII, Pars V, Illyricum et provinciae Europae Graecae, fasc. I, miliaria provinciarum Raetiae et Norici del CIL, da Anne Kolb, dal compianto Gerold Walser e da Gerhard Winkler (Berlino New York 2005), pubblicato a cura di Manfred G. Schmidt e Ulrike Jansen per conto dell’Academia Scientiarum Berolinensis et Brandenburgensis. Nel nuovo fascicolo (CIL, XVII, IV, 1), si raccolgono 73 miliari delle sette vie della Rezia e 155 miliari lungo dieci vie del Norico: citerò almeno la via a Vindobona per Cetium Lauriacum Ovilavis ad Aenum flumen in Norico[110] e la via sulla riva destra del Danubio (via secundum amnem Danuvium) in Rezia, tra Guntia, Augusta Vindelicorum, Castra Regina, Boiodurum (in totale 229 nuovi testi o riedizioni con significative rettifiche)[111].

A tre anni fa, al 2012 risale il secondo fascicolo CIL, XVII, IV, 2, relativo ai miliari della Dalmazia (ediderunt Anne Kolb et Gerold Walser, nel frattempo deceduto, adiuvante Ulrike Jansen), con altri 342 miliaria provinciae Dalmatiae e gli indici dei fascicoli 1 e 2 curati da A. Fassbender[112]. L’opera permette di identificare almeno 11 strade della Dalmazia, tra le quali la strada costiera settentrionale che si originava da Aquileia: via ex Italia per Tarsaticam, Seniam, Burnum ad Salonas; ma la messe più significativa di nuovi documenti è quella relativa ai quasi cento miliari delle due strade meridionali lungo la costa, le viae a Narona Scodram.

L’impresa della riedizione di CIL III per le iscrizioni pannoniche (in particolare di Carnuntum) presentata a Ferrara da Ekkehard Weber rende bene la difficoltà di un impegno internazionale di ricerca che però rappresenta una speranza per il futuro. Siamo certi che accanto alla individuazione di nuovi falsi, accanto alla riedizione di testi già noti ed alla riorganizzazione dei dati, la nuova edizione di CIL III presenterà rilevantissime novità e numerosi inediti[113].

Le iscrizioni della Pannonia sono state già ampiamente discusse nei cinque fascicoli degli Studia Epigraphica Pannonica SEP, curato dal gruppo di lavoro ungherese che prepara il nuovo volume di CIL III seconda edizione consacrato alla Pannonia (ultimo a cura di P. Kovács, B. Fehér), con attezione per Aquincum, Brigetio, Scarbantia, e la revisione delle epigrafi, in particolare le false di Carnuntum; un capitolo significativo è dedicato agli umanisti alla corte del re Matthias Corvin[114]. Rare (37 in tutto) le nuove iscrizioni greche della Pannonia studiate da P. Kovács, 11 delle quali bilingui, a testimonianza di specifiche componenti sociali (soldati, negotiatores, cristiani)[115]. Proprio P. Kovács ha curato la terza edizione accresciuta del Corpus Inscriptionum Graecarum Pannonicarum: 31 su pietra, 11 bilingui locali, nelle due province di Pannonia e nella contigua regione del Barbaricum, con osservazioni sull’influenza del greco sul latino della regione e la confusione tra alfabeti diversi[116]. Non mancano le iscrizioni ebraiche, una delle quali in lingua greca conserva un versetto del Deuteronomio (6,4), proveniente dalla Pannonia Superiore, il più antico testimonio ebraico in suolo austriaco, II secolo[117].

Al 2011 risale il Corpus Inscriptionum Latinarum et Graecarum Montenegri, di J. Martinović: in totale 347 iscrizioni latine e 8 greche scoperte nel Montenegro, quasi tutte già note, con non poche imprecisioni[118] .

Le iscrizioni latine dell’Albania sono state presentate in due volumi usciti a pochi anni di distanza, rispettivamente nel 2009 e nel 2012: il primo è opera di Skender Anamali, Hasan Ceka, Élisabeth Deniaux (Corpus des inscriptions latines d’Albanie), il secondo di Ulrike Ehmig e di Rudolf Haensch (Die lateinischen Ischriften aus Albanien)[119].

Naturalmente per i nostri territori sono molto significativi i recenti dati relativi a nuovi diplomi militari (pubblicati da Wener Eck e dai suoi colleghi)[120] e gli aggiornamenti a CIL XVI. Un incredibile numero di nuovi diplomi (una sessantina) ci provengono dalla Mesia, pubblicati su “Chiron” da P. Weiss, W. Eck, A. Pangerl: di essi 26 sono riferiti alla Mesia Superiore, 25 alla Mesia Inferiore[121]. Un significativo aggiornamento dei RMD con precisazioni e rettifiche sulla consistenza dell’esercito del Norico è stato effettuato dopo le scoperte di Lauriacum, Porgstall an der Erlauf in Bassa Austria[122]. Sono venuti alla luce dodici nuovi diplomi relativi all’esercito della Pannonia, 5 alae e 13 coorti, uno (da Bakonycsernye) relativo ad un C. Iulius C. fil. Ael(ia) Passar della legio II Adiutrix a Brigetio, poi trasferito da Settimio Severo alla X coorte pretoria pia vindex, congedato il 22 febbraio 206: egli era originario Mogionibus, forse un popolo, i Mogiones, da avvicinare al vicino municipium Aelium Mogentiana affiliato alla pseudo tribù Aelia[123]. Ci sono molti altri casi che andrebbero richiamati, come quello di Cornacum che ricorda due consoli fin qui sconosciuti: Euphrata et Romano coss., un 7 settembre tra il 192 ed il 206, diploma concesso all’ex gregale (un marinaio della flotta) Priscinus Prisci f. Priscus ex Pan. Inf. Iatumentianis e ai figli. Egli era originario di un villaggio sconosciuto della Pannonia Inferiore, Iatumentianae[124].

Sono state studiate varie collezioni, come quella Matijević di Salona, ora presentata in Varia Salonitana di D. Maršić e M. Matijević[125]. Gli ultimi anni sono stati animati dalle ricerche che hanno portato alla monumentale edizione delle iscrizioni cristiane di Salona (Salona IV, Inscriptions de Salone chrétienne, IVe-VIIe siècles, E. Marin, N. Gauthier, F. Prévot edd., Coll. EFR 194,4, Roma Split 2010): 825 iscrizioni, 742 latine e 84 greche dal IV al VII secolo conservate in prevalenza a Split, utili anche per definire i raporti di parentela[126]. L’opera è stata più volte annunciata negli anni precedenti da E. Marin, che aveva segnalato le datazioni consolari della pars Occidentis, perché la Dalmazia non fu aggregata alla pars Orientis[127] e da N. Gautier, che invece pensava ad un’epigrafia di frontiera tra Roma e Costantinopoli e segnalava l’alto numero di iscrizioni in lingua greca, in relazione ai numerosi immigrati[128]. Anche F. Prévot nella Miscellanea Emilio Marin ha presentato una brillante sintesi sulle iscrizioni di Salona cristiana, con particolare attenzione per le relazioni familiari[129]. In un epitafio che contiene le istruzioni per la tomba, conosciamo nel V secolo per la prima volta un [p]rocura[t]or Ecles[ia]e Saloni[a]nae, un titolo che richiama la struttura dell’amministrazione imperiale[130].

In conseguenza delle nuove scoperte è cambiata profondamenrte la prospettiva storica, ad esempio sulla storia della Pannonia, come testimonia l’ampio articolo di Géza Alföldy in “Rivista Storica dell’Antichità”, 41, 2011, sintesi rinnovata attraverso le fonti letterarie, epigrafiche, iconografiche, con rettifiche rispetto al volume di P. Kovács, B. Fehér, pubblicato a Budapest nel 2005 in inglese (dal 54 al 166 d.C.) [131]. La storia della Pannonia tra il 235 e il 284 durante l’anarchia militare era stata studiata da P. Kovács[132].

Se ci fermiamo sulla Panonia inferiore (più orientale), emerge l’edizione di nuovi volumi del RIU e la costante revisione dei volumi precedenti: J. Fitz, A. Mócsy, S. Soproni hanno presentato il sesto volume: Die römischen Inschriften Ungarns, 6, Das Territorium von Aquincum, die Civitas Eraviscorum und die Limes-strecke Matrica-Annamatia und das Territorium von Gorsium, Budapest Bonn 2001, che comprende i territori di Aquincum, di Gorsium, della civitas Eraviscorum e il limes tra Matrica e Annamatia. L’opera è stata ampiamente commentata su AE e recensita da Alföldy e Lőrincz su “ZPE”[133].

Numerosi inediti da Aquincum sono presenti nei primi due volumi dei Tituli Aquincenses, curati da P. Kovács e A. Szabó, usciti a Budapest tra il 2009 e il 2010, che raccolgono oltre 650 iscrizioni, in particolare quelle relative ad opere pubbliche, onorarie, sacre, sepolcrali[134]. A B. Fehér si deve il III volume dei Tituli Aquincenses uscito a Budapest nel 2011 e dedicato a 523 bolli su instrumentum domesticum[135].

Le ricerche epigrafiche in Ungheria tra il 1994 e il 2005 sono sintetizzate da B. Lőrincz partendo da RIU[136]. Un buon supplemento al RIU è quello dedicato a oltre duecento iscrizioni ungheresi, 49 delle quali trovate nel Barbaricum Sarmaticum: P. Kovács, Tituli Romani in Hungaria reperti (TRH), Supplementum, Budapest Bonn 2005, con 47 inediti[137]. Una particolarità delle Pannonie sembra la ricchezza della decorazione dei monumenti funerari[138], come ora testimoniato dal volume di C. Ertel del Corpus Signorum Imperii Romani, Ungarn, IX[139]. B. Fehér ha presentato un supplemento al Lexicon epigrahicum Pannonicum (LEP), con riferimento alle scoperte effettuate tra il 1989 e il 2003[140]. Altri studi sono dedicati all’Instrumentum, con le più diverse provenienze.

Davvero straordinari appaiono i risultati del progetto iniziato e sviluppato da F. und O. Harl www.ubi-erat-lupa.org (Bilddatenbank zu antiken Steindenkmälern), oggi www.ubieratlupa.com (Römische Steindenkmäler) del Gruppo di ricerca per Archeometria e Beni Culturali Computing dell’Università di Salisburgo, in collaborazione con EAGLE (European network of Ancient Greek and Latin Epigraphy), con oltre 25000 monumenti fin qui schedati.

Der derzeitige Datenbestand umfasst 21 056 Steindenkmäler und 31 655 Bilder (Stand 26.02.2013).

Numerose sono le Numerose sono le raccolte di iscrizioni dei Musei Nazionali, come il Lapidario romano del Museo Nazionale Ungherese studiato da M. Nagy, con i suoi specifici problemi di classificazione dei monumenti per epoche o per argomenti; le iscrizioni in totale sono 116[141]. Oppure il museo epigrafico del bastione della fortezza di Komárno (con epigrafi prevalentemente da Brigetio)[142]. Per Brigetio L. Borhy presenta un catalogo 256 monumenti del lapidario del forte di Igmánd, 73 iscrizioni, 8 inedite[143]. Il nuovo lapidario nella città di Memesvámos-Balácapuszta (Comitato di Veszprém in Ungheria) è studiato da S. Palágyi[144]. La piccola collezione lapidaria del Museo di Hamság di Mosonmagyaróvár (Ad Flexum) è stata è presentata da E.T. Szőnyi; alcuni testi provengono da Bruckneudorf in Austria[145]. Ad E. Tóth dobbiamo l’edizione del Lapidarium Savariense, con ben 238 testi ritrovati a Savaria in Pannonia Superiore, oggi Szombathely in Ungheria, con molti inediti.[146] A Carnuntum, 31 iscrizioni del parco archeologico e del museo carnuntino studiate da K. Genser riguardano essenzialmente soldati della legione XIV gemina Martia Victrix e della legio XV Apollinaris o membri della loro famiglia, talora con riferimento alle canabae[147].

Se passiamo alle Mesie, a Belgrado aspettiamo il III/1 volume delle Inscriptions de la Mésie supérieure (région des Portes de fer) che sarà pubblicato dal Centre d’Études Épigraphiques et Numismatiques “Fanula Papazoglou”, ma possediamo nuovi dati dal Catalogul expoziţiei The Romans in the Left Pontus during the Principate, Exhibition Catalog, Aegyssus 2000, Tulcea 2012 ICEM, Institutul de Cercetări Eco-Muzeale Tulcea, Muzeul de Istorie şi Arheologie. Sono stati inaugurati nuovi musei come a Capidava, anche se le iscrizioni vengono regolarmente trasferite nei lapidari dei musei nazionali, a Bucarest e Costanza.

Il nuovo corpus delle iscrizioni di Dacia, a valle dei Cronica epigrafică della Romania dedicato alla Dacia ed alla Scizia minore (cioè alla parte romena della Mesia Inferiore), si deve a C.C. Petolescu, con l’opera Inscripţii latine din Dacia (ILD) uscito a Bucarest nel 2005, con 805 iscrizioni, in parte riprese da SCIVA, soprattutto con le nuove nuove iscrizioni, non incluse nei volumi IDR, già pubblicati: il numero dei diplomi della Dacia (50) appare davvero ragguardevole[148]. Allo stesso autore dobbiamo fuori collana rispetto ad IDR i due volumi (l’ultimo dei quali pubblicato nel 2000) Inscriptions de la Dacie romaine. Inscriptions externes concernants l’histoire de la Dacie (Ier-IIIe siècles), II, Zones du CIL III et du CIL VIII, Bucarest 2000, dalle province danubiane e balcaniche, Asia Minore, Africa[149]. Entro le IDR III,5, I. Piso presenta le 724 Inscriptions d’Apulum, Inscriptions de la Dacie romaine (Mémoires de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, XXIV), III,5, Paris 2001, con alcune inedite. Un utile aggiornamento epigrafico dobbiamo a C.C. Petolescu, per Dacia, Scizia Minore, parte rumena della Mesia Inferiore, vd. la rassegna annuale “SCIVA”, arrivata al 65° fascicolo nel 2014[150]. Lo stesso autore ha presentato il manuale Epigafia latină, Bucarest 2001, commentando un centinaio di testi prevalentemente dalla Dacia. L. Ruscu ha raccolto i 152 testi del Corpus inscriptionum Graecarum Dacicarum (Hungarian Polis Studies, 10), Debrecen 2003.

Il catalogo delle iscrizioni del museo rumeno di Caracal in Dacia è presentato da D. Bondoc e D.R. Dincă[151]. Lo stesso D. Bondoc pubblica una nuova raccolta delle iscrizioni lapidarie del Museo di Craiova provenienti dalla Dacia inferiore[152]. Le iscrizioni di Micia (oggi Veţel) raccolte nella collezione del Museo Nazionale di storia di Transilvania a Cluj vengono riedite da D. Alicu[153]. Per il territorio di Sarmizegetusa, Apulum e Micia in Dacia Superiore, significativo è il corpus di 216 monumenti funerari inscritti curato da C. Ciongradi[154]. I. Piso ha presentato nel 2006 le cento straordinarie iscrizioni dal forum vetus di Sarmizegetusa[155].

Per la parte romena della Mesia Inferiore è stato pubblicato lo studio epigrafico postumo di N. Gostar sul grande monumento funerario del c.d. tropaeum Traiani (2008, ma scritto 40 anni fa), ora commentato da A.S. Ştefan, per il quale si tratterebbe di un tropaeum Domitiani, decisamente più antico[156]. Infine, è appena uscito il IV volume delle Iscrizioni della Scizia Minore (2015) di Em. Popescu.

5. Storia degli studi.

L’attività dei precursori dell’epigrafia e lLa Laa storia degli studi epigrafici parte con il bel contributo di X. Espluga sugli umanisti del XV secolo Ciriaco di Ancona, Giorgio Begna, Pietro Donato e Giovanni Marcanova, interessati all’epigrafia di Split e Salona in Dalmazia[157]. In Croazia nel XVIII secolo agisce Frane Radman, studiato da V. Kapitanović[158]. A Sisak (Siscia in Pannonia Superiore) nella seconda metà del XIX secolo, le figure di Mijat Sabljar e Ivan Tkalčić sono presentate da V. Vukelić[159]; a Seggauberg nel territorio di Flavia Solva nel Norico è stata ricostruita la storia delle ricerche epigrafiche effettuate da Richard Pococke nel Settecento[160]. In Dacia particolarmente rilevanti le figure di Stephanus Taurinus e Georg Reichesdorffer, umanisti del XVI secolo: attraverso i manoscritti degli umanisti possiamo ricostruire una ventina di iscrizioni[161].

Una storia degli scavi e delle scoperte nel Norico (Oberösterreich) in età romana è stata pubblicata a cura di J. Leskovar, C. Schwanzar, G. Winkler, con attenzione specifica per Ovilava, Lentia, Celeia[162].

Una difficoltà è rappresentata dall’incrociarsi delle raccolte organizzate per provincia e quelle invece promosse all’interno dei nuovi confini “nazionali”, in Austria[163], in Ungheria, in Romania, in Bulgaria, perfino nella Germania bavarese e Svizzera, nell’Albania settentrionale e nella ex Jugoslavia, non sempre all’interno dell’Unione Europea (sono entrate Croazia e Slovenia; non sono nell’U.E. Bosnia, Serbia, Montenegro, Macedonia, Kosovo). Alla rovescia, alcune province vengono frammentate sulla base dei moderni confini nazionali: nel Norico, S. Djura Jelenco e J. Visoćnik presentano il catalogo delle iscrizioni lapidarie della Carinzia slovena[164]. E. Weber presenta un quadro dell’epigrafia delle Alpi orientali e in particolare delle regioni meridionali dell’Austria[165]. M. Huber ci presenta una storia degli studi epigrafici nel Tirolo, riprendendo le iscrizioni pubblicate nel 1756 da Anton Roschmann, con uno sguardo storico e archeologico[166]. S. Loma ha effettuato una revisione di epigrafi sul corso superiore del Lim, a Nord est del Montenegro[167]. Ma ci sono altri musei internazionali, come quello di Monaco, che contengono collezioni che ci riguardano, come ha dimostrato R. Gebhard per i 125 anni del Museo, con una collezione lapidaria che comprende anche iscrizioni dalla Rezia e dal Norico.

Carattere ampio e interprovinciale hanno diversi volumi in onore di valenti studiosi, come quelli per Ioan Piso[168], Emilio Marin[169], Alexandru Suceveanu[170], Doina Benea[171], Mihai Bărbulescu[172], Dorin Alicu[173], Radu Ardevan[174], György Németh[175]; anche Silviu Sanie, Dumitru Protase, Lucia Ţeposu Marinescu. Per altri, come Géza Alföldy[176], Alexandru V. Matei[177] e Vasile Lica, si tratta di volumi in memoria. Raccolte di scripta varia sono state edite, come ad esempio per Mihai Bărbulescu[178], Alexandru Suceveanu sulla Dobrudja romana[179], Barnabás Lőrincz[180], Gerhard Winkler[181].

 

6. Nuove acquisizioni sui governi provinciali.

In Dalmazia possiamo distinguere tre circoscrizioni giudiziarie (conventus), con i capoluoghi Scardona per la Liburnia a Nord, Salona al centro, Narona per i territori meridionali. Il legatus Augusti propraetore di rango consolare, assistito da un procuratore equestre per l’amministrazione finanziaria, risiedeva nella capitale Salona, mentre il concilium provinciae, l’assemblea che organizzava il culto imperiale almeno per le comunità liburniche, aveva sede a Scardona[182].

Alcune delle più recenti scoperte epigrafiche hanno riguardato i primi governatori. Un’iscrizione di Iader ricorda il patrono Cn. (Baebius ?) Tamphilus Vala (Numonianus ?), forse il primo proconsole di Illiria al momento della creazione della provincia da parte di Augusto, il che spiegherebbe la frequenza dei Baebii[183]. Più informazioni possediamo ora per il legato Dolabella, grazie ai lavori di S. Mesihović[184] e alle nuove scoperte di Epidaurum (ogggi Cavtat), relative all’amministrazione della città, all’attività del legato, ai magistrati cittadini[185]. Furono i primi legati di Dalmazia all’epoca di Tiberio P. Cornelius Dolabella e L. Volusius Saturninus ad organizzare il culto imperiale in Liburnia in particolare a Scardona. Gianfranco Paci ha studiato a Narona la dedica di Dolabella ad Augusto divus, dopo la consecratio voluta da Tiberio[186]. L’attività di Dolabella è documentata anche sul territorio, con la terminatio tra Asser(iates) e C[or(nienses)] studiata da Sl. Čače: da Podgađe (Asseria) proviene il terminus posto ex [dec(reto) P. Corn(eli)i] Dol(abellae) leg(at)i pr(o) [pr(aetore)] det(erminavit) C. Titius Geminus (centurio) legionis VII inter Asser(iates) et C[or(nienses)][187]. Di grande interesse le operazioni di delimitazione catastale, iniziate come si è visto già con Augusto: proprio ad Asseria in Dalmazia conosciamo cinque iudices dati a M. Pom[peio] Silvano leg(ato) Aug(ust)i propr(etore), i quali inter r(em) p(ublicam) Asseriatium et inter rem p(ublicam) Alve[ritarum] in re praesenti per sententiam [suam] determinaverunt, documento analogo ad altri termini già noti[188]. In questo ambito, Dolabella ha provveduto ad una totale progettazione della rete stradale in Dalmazia, come ora dimostra il lavoro di M.G. Schmidt, sulle 500 miglia delle strade dell’Illirico con partenza da Salona nelle tabulae Dolabellae: ad fines provinciae Illirici inferioris, ad Batinum[189].

I Fasti della provincia del Norico, con una lista aggiornata dei procuratori governatori e finanziari del Norico si deve a G. Winkler[190], con le osservazioni di S. Demougin e S. Lefevbre e soprattutto di Andreina Magioncalda, in occasione del XII Congressus AIEGL[191].

I governatori della Provincia dell’Illiricum superior sono studiati da S. Mesihović dal 42 (rivolta di Scribonianus) al 68[192]. L’antica unità della Dalmazia, della Mesia e della Pannonia fu mantenuta nel distretto doganale, dove veniva riscosso in modo unitario il publicum portorii Illyrici (con le precisazioni ora di Lyuba Radulova). La separazione in più province dell’Illirico, l’epoca e le forme della divisione delle Pannonie, delle Mesie, delle Dacie sono stati oggetto di ampi studi. Fitz ha definito i confini della Pannonia inferior e superior dopo il 213: fu Caracalla, nel corso della guerra contro gli Alamanni, ad aggregare la legione di Brigezio (sulla riva del Danubio, ad Est del lago Balaton) e il suo territorio alla Pannonia Inferiore[193]. I miliari di Pannonia Inferiore che ricordano Pontius Pontianus e Aelius Triccianus presso Ménfosanak confermano che la frontiera coincideva con la linea del fiume Arrabo. Ciò consente di aggregare alla Pannonia Inferiore i territori a Nord e a Sud e del lago Balaton.

L’annessione del Norico (nel 15 a.C.) non abolì inizialmente l’antico regno alpino fino alla costituzione della provincia (sotto Claudio), che mantenne qualche autonomia e sopravvisse oltre il principato di Tiberio, a testimonianza forse di un’occupazione pacifica ottenuta per via diplomatica: un vincolo federale univa le tribù celtiche degli Alauni, degli Ambisonti e dei Taurisci, che riconoscevano un unico re. Più tardi, dopo la costituzione della provincia del Norico, sul Magdalensberg sorse il tempio del Divus Augustus e della Dea Roma, centro federale del culto imperiale, ricco punto terminale delle importazioni di vino, olio, garum[194], persino di metalli dalla penisola iberica[195]. Fu già Augusto ad esentare dalle imposte C. Iulius Vepo[196]. Il territorio provinciale fu sottoposto inizialmente all’autorità di un procuratore equestre (procurator regni Norici), di rango ducenario, dotato di ius gladii: una vera e propria riorganizzazione territoriale si dovette all’imperatore Claudio, protagonista con il procuratore C. Baebius Atticus (originario di Iulium Carnicum) di un’intensa opera di romanizzazione, testimoniata dalla realizzazione dell’intera rete stradale in direzione del Brennero e della valle dell’Isonzo fino ad Aquileia, tra la Rezia e la Pannonia e da una vivace politica di municipalizzazione, con l’assegnazione dello Ius Latii e la promozione ad esempio di Celeia di cinque importanti oppida celtici: Celeia, Virunum, Teurnia, Aguntum e Iuvavum al rango di municipio (municipia Claudia)[197]

La presenza romana nel Norico ebbe come immediata conseguenza l’intervento militare nella vicina Rezia (a cavallo tra Svizzera ed Austria), voluto da Augusto per proteggere il limes danubiano e per estendere il controllo sui valichi alpini. Furono Druso e Tiberio a comandare la spedizione che con due distinte colonne raggiunse oltre i valichi alpini il Pons Aeni (Innsbruck, Veldidena)[198] attraverso le vallate dell’Adige, dell’Isarco e dell’Inn e il lago di Costanza presso le sorgenti del Danubio. Come è noto la vittoria fu consacrata sul trofeo alpino di Monaco e il nome delle civitates Raeticae e Vindelices sottomesse compare nell’elenco di Plinio il vecchio[199].

Dopo la conquista la Raetia-Vindelicia et Vallis Poenina fu affidata inizialmente ad un praefectus civitatium, come [S]ex. Pedius Sex(ti filio) An(iensi) Lusianus Hirrutus, originario di Interpromium, pr[aef(ectus)] Raetis Vindolicis vallis Poeninae[200]. A. Schaub e R. Rollinger hanno studiato il governo della provincia in età augustea e tiberiana : Q. Octavius Sagitta procuratore sotto Tiberio, Q. Caecilius Cisiacus Septicius Pica Caecilianus governatore della Rezia, Vindelicia, Vallis Poenina tra Tiberio-Caligola e Claudio; per quanto Davide Faoro neghi l’esistenza di una provincia autonoma ancora nei primi anni di Tiberio e sposti il secondo al II secolo[201]. I confini della provincia furono tracciati più volte e raggiunsero il Danubio a Nord e la confluenza con l’Inn, che segnava il confine orientale. Il territorio perse successivamente (con gli Antonini) l’area della Vallis Poenina che divenne provincia a sé stante lungo l’alta vallata del Rodano. Anche la valle dell’Adige e l’attuale provincia di Trento furono presto sottratte all’autorità del prefetto provinciale ed inserite nelle regioni X e XI della penisola: la popolazione tribale fu allora aggregata (adtributa) ai vicini municipi della Cisalpina, con una sorta di subordinazione testimoniata dalla tabula Clesiana.

Per la Pannonia, la lista dei governatori curata da B. Lőrinz è in Fontes Pannoniae Antiquae in aetate Severorum, edito da P. Kovács (Budapest 2007)[202].

In Mesia Inferiore a Gigen R. Ivanov pubblica l’iscrizione che ricorda il fratello di Settimio Severo con una base dedicata P. Septimio Getae leg(ato) Augg(ustorum) pr(o) pr(aetore) patronus col(oniae), onorato dai coloni di Oescus, come governatore provinciale nominato da due Augusti diversi, forse prima Commodo nel 192, poi Pertinace nel 193[203]; la questione fa davvero difficoltà, ma del resto a Lepcis Magna Geta è ricordato anche come legato di tre Augusti, dunque anche Severo nel 194, prima di diventare nel 195 governatore della Dacia[204].

In Mesia, la Tavola di Durostorum, che proviene dall’accampamento della legione XI Claudia Pia Fidelis[205], analoga a quella di Brigetio[206], contiene nell’edizione di N. Sharankov le sacrae litterae del solo Licinio, datate al 10 giugno 311 ed è indirizzata ad un Tertius dux oppure praeses della Moesia secunda con benefici per veterani, mogli e soldati ammalati.

La creazione della provincia Dacia è affrontata nel ricco volume miscellaneo Dacia Augusti provincia : crearea provinciei, con gli Atti del Convegno di Bucarest dell’ottobre 2006 curati da E.S. Teodor ed O. Ţentea[207], dove compaiono gli importanti contributi di C.C. Petolescu sull’organizzazione della provincia e di L. Petculescu sull’esercito in Dacia durante l’età di Traiano[208]. In parallelo, per i 1900 anni dopo l’integrazione della Dacia nell’impero Romano, D. Benea ha curato l’edizione degli atti del convegno di Timişoara del marzo 2006, Simpozionul Internaţional <<Daci şi Romani>>[209].

 

7. La storia: novità sui viaggi imperiali.

I numerosi viaggi attraverso le province danubiane di alcuni imperatori sono spesso documentati epigraficamente.

Dobbiamo partire con le campagne militari di Ottaviano che si svolsero in Dalmazia dopo la guerra contro Sesto Pompeo. Si segnalano numerose novità dal Magdalensberg anche sui populi o meglio sulle otto civitates del regno del Norico in età augustea, forse attorno al 10-9 a.C. in occasione di una visita di Augusto ad Aquileia: N[orici, Ambilinei], Amb[idr(avi), Uperaci, Saev(ates)], Laian[ci, Ambisontes, (H)e[lv[eti], che effettuano le quattro dediche alla famiglia imperiale Livia, Giulia, Giulia iunior, oltre che Augusto[210].

Le iscrizioni ci forniscono particolari su alcune campagne militari, come quella di Domiziano in Dacia (a Dolno Rjahovo, la Cohors I miliaria Batavorum quingenaria partecipa alle guerre di Domiziano contro i Daci tra l’89 e il 92, costruendo un fortino in legno poi abbandonato)[211] e di Marco Aurelio contro i Marcomanni in Pannonia; quest’ultima è studiata da P. Kovács, che ha curato una raccolta di fonti sulla Pannonia tra 166 e 192[212]. Un tema che ha suscitato molte curiosità partendo dalla colonna Aurelia è il c.d. miracolo della pioggia, attribuito a Marco Aurelio forse un 11 giugno, una data che forse veniva ricordata annualmente nel tempio di Giove Ottimo Massimo di Carnuntum[213].

Se partiamo dalla prima acclamazione imperiale di Settimio Severo effettuata dai legionari di Viminacium, una specifica attenzione per le città delle Pannonie, con vaste promozioni municipali è ben nota ed è stata studiata da Z. Mráv[214]. Un’iscrizione del Lapidarium Savariense dedicata nel 198 pro salute di Severo e della domus divina ripresa da E. Tóth ricorda il duoviro di Lugdunum Iun(ius) Q.f. Marcia(nus) Lugu(dunensis), partigiano di Severo, fuggito all’arrivo di Clodio Albino nel 196, assieme al governatore T. Flavius Secundus Philippianus, alla vigilia della battaglia di Lugdunum, rifugiatosi a Savaria in Pannonia[215]. Alla spedizione siriaca di Settimio Severo contro Pescennio Nigro sembra alludere l’iscrizione di Budapest che ricorda un miles rientrato dalla Siria nel 194, che consacra una dedica a Giove Ottimo Massimo: ab expedit[ione] Suriat(ica) rev[ersus] [216]; tra i sopravvissuti della seconda spedizione partica di Settimio Severo possiamo considerare L. Sep(timius) Veranus vet(eranus) leg(ionis) II Ad(iutricis) apparentemente ferito in ex[p]editione Parthica, congedato con una missio causaria, poi guarito e rientrato in Pannonia Inferiore nel 205 (Székesfehérvár)[217]; mentre C. Iul(ius) Sabinus civ(is) Campanus domo Capua ha forse preso parte all’expeditio urbica della legio II Adiutrix nell’epoca dei Severi in qualità di contabile, adiu(tor) off(icii) rat(ionum)[218]. Al ritorno di Settimio Severo nelle province danubiane nel 202 d.C. è riferita l’iscrizione di Lauriacum in Norico, che ricorda significativi lavori nel campo legionario ad iniziativa del legato M. Iuventius Surus Proculus, per quanto nella nuova lettura di G. Winkler il numero delle potestà tribunizie di Settimio Severo, dieci, non si concilia con le quattro eventuali potestà tribunicie di Caracalla[219]. Conosciamo anche miliari sloveni dell’anno precedente; al 201 risale il miliario di Söchtenau in Baviera con Settimio Severo (con la dodicesima acclamazione che non si lega alla nona potestà tribunizia), Caracalla (con la quarta) e Geta Cesare[220]. Sicuramente da emendare i due miliari di Murau nella Stiria, Lorch e Celje che rimanderebbero al passaggio di Settimio Severo nel 201 o 202 (VIIII o X potestà tribunicia) e più tardi di Caracalla nel 214 (XVII potestà tribunicia), lungo il percorso: Aquileia, Celeia, Virunum, Ovilava: miliaria vetustate corrupta restitui iusserunt[221]; perplessità rimangono sull’assenza di Britt(annicus) max(imus) tra i cognomina ex virtute di Caracalla [P]art(hicus) max(imus) e [Germ(anicus) max(imus)] su un miliario di Ad Pontem (Unzmarkt in Stiria), a 46 miglia da Virunum[222]. Singolare che Caracalla abbia mantenuto il testo del miliario di Settimio Severo, ma perplessità rimangono sul fatto che nel 201 si tacerebbe il nome di Geta e del governatore provinciale. A Cibalae in Croazia, nella Pannonia Inferiore, la dedica di un tempio effettuata da Settimio Severo, Caracalla e Geta ha fatto ipotizzare una visita conclusa con la dedica di un tempio della triade capitolina nel 202 d.C.[223]. È nota la partecipazione di truppe pannoniche alle guerre partiche di Settimio Severo e Caracalla (Z. Mráv)[224]. Nell’età dei Severi numerose opere pubbliche furono realizzate in Pannonia, per compensare l’economia locale indebolita a causa dell’assenza delle truppe impegnate in altre province. Fu Caracalla a promuovere la revisione delle frontiere tra le due Pannonie: alla sua spedizione germanica si riferisce il noto epitafio di Aquincum in Pannonia Inferiore; conosciamo un soldato della legio II Adiutrix morto di morte naturale a Lauriacum durante la spedizione contro gli Alemanni: defu(n)c(tus) exp(editione) Germ(anica) Lauri(aco) mort(e) sua; il defunto era aquilifer e vexillarius; il corpo è stato rimpatriato dopo la victoria Germanica[225]. Alla visita di Caracalla nel 213 è stata collegata l’epigrafe di Ad Statuas, in Pannonia posta per la ricostruzione del tempio del Deus invictus Sarapis [pro s]alute et victoria di Caracalla e Giulia Domna: dopo la vittoria del 213 la legio I Adiutrix stanziata a Brigetio fu dunque inclusa nella Pannonia Inferiore. La titolatura di Giulia Domna proposta da Z. Mráv è errata[226].

Come è noto P. Kovács ha ripreso le fonti relative all’età di Caracalla, ridimensionando il numero delle iscrizioni che secondo la vecchia tesi di J. Fitz potrebbero conservare riferimenti al viaggio[227]. Si veda in particolare Fontes Pannoniae Antiquae in aetate Severorum, edito da P. Kovács (Budapest 2007)[228]. A questo periodo (più probabilmente alla fine dell’età severiana) dovremmo riferire il liberto imperiale Aurelius Phaon, praeposit(us) lecticariorum, morto nel corso di una visita imperiale ad Aquincum, di cui a Budapest ci rimane il sarcofago[229].

Nel Norico citerei almeno i viaggi dei Severi ed in particolare ancora Caracalla alla vigilia della campagna contro gli Alamanni del 213, apparentemente nella XV potestà tribunizia ad Engelhartszell in Baviera, lungo il Danubio, a 15 miglia da Boiodorum: Viam iuxta amnem Danuviuum fieri iussit a Boiiodur(o) in [—] m.p. XV[230].

Le sei visite di Settimio Severo, Caracalla e Geta in Mesia Inferiore tra il 193 e il 211 sono state studiate da D. Boteva[231]. Le vexillationes dell’esercito del Danubio che dalla Mesia Inferiore hanno accompagnato Severo Alessandro nella spedizione contro i Parti fino ad Antiochia (Herod. VI, 4), sono citate in un ex voto collocato da un praepositus riconoscente, appena rientrato in Oltenia[232].

Gallieno è ricordato per le guerre contro i Marcomanni, ma P. Kovács ha raccolto le allusioni epigrafiche alla peste Antonina del 182 (lues)[233]; un caso ripreso da F. Steffan è quello di Bedaium nel Norico, con una famiglia travolta dalla peste[234].

A Piliscsaba in Pannonia Inferiore, G. Alföldy commenta la dedica Adventui [[[d(ominorum) n(ostrorum) Philipporum] Aug(ustorum duorum)]] effettuata nel 247 dagli ausiliari Cretenses della Cohors I Cretum o della cohors II Cretensis in Mesia Superiore[235].

In Pannonia a Bölcske un’iscrizione dedicata a Giove Teutanus l’11 giugno 251, [di]vis Deccis co(n)s(ulibus), per la salvezza di Treboniano Gallo (invictus Aug(ustus)) e Ostiliano (Aug(ustus)) permetterebbe di datare la battaglia di Abrittus tra il 27 maggio e il I giugno, che si concluse con la vittoria dei Goti e la morte di Decio e Erennio Etrusco (Cesare tra maggio-giugno 250)[236]. All’anno successivo (ancora all’11 giugno) collochiamo la dedica I(ovi) O(ptimo) M(aximo) Teutano et dis deabusq(ue) omnib(us) per la salvezza di Treboniano Gallo e Volusiano consoli[237].

Nella Pannonia Superiore è stata rivista da G. Alföldy la straordinaria dedica di Vienna rinvenuta negli scavi del 1899 alla confluenza della Wienfluss col Danubio; si tratta di un altare militare della serie che ricorda il Fluvius Acaunus: [I.]O.M. Neptuno [Aug(usto) S]alaceae Nimph[is Fluv]io Acauno dis [deabus]q(ue) omnibus, dove Salacia è la sposa di Nettuno; Acaunus è l’antico nome del fiume Wien, che sarebbe stato difeso da un attacco di barbari. La vexillatio della Legio VIII Augusta da Strasburgo, verso il 260 fu trasferita in Illirico a Sirmium contro Ingenuo e Regaliano, poi fu attiva nel Bellum Serdicense contro i due Macriani. Da Sirmium la vexillatio fu trattenuta a Vindobona dal 260 dopo l’usurpazione di Postumo che ne impediva il rientro. Solo nell’aprile-maggio 268, al momento della partenza da Vindobona, fu posto l’altare prima che la vexillatio partisse per Lauriacum in Norico dove avrebbe dovuto sostenere l’impegno della legio II Italica[238]. L’ara conserva un rilievo di Nettuno con tridente e delfino e di Eracle che trionfa su Acheloo, dio di un fiume in Etolia[239].

Presso Sirmium in Pannonia Inferiore, nella villa imperiale di Turris Ferrata, fu ucciso l’imperatore Probo dai soldati in rivolta[240]. Conosciamo inoltre una dedica a Caro, in occasione della marcia dell’imperatore attraverso la Rezia e il Norico verso Sirmium[241]; sulle circostanze della morte di Carino, P. Kovács ha studiato le province della Pannonia nella I tetrarchia in Fontes Pannoniae Antiquae (FPA VI) in aetate Tetrarcharum, I, 2011 con attenzione per le iscrizioni di portata storica, i diplomi, le iscrizioni su medaglie[242]. Più di recente nel 2013 è stato pubblicato il volume Fontes Pannoniae Antiquae in aetate Constantini, con l’incontro degli imperatori a Carnuntum, la divisione della Pannonia, il bellum Cibalense tra Costantino e Licinio, le guerre sarmatiche, la cristianizzazione[243]. Secondo E. Tóth i numerosi anelli ritrovati ad Iovia in Pannonia Inferiore poterebbero essere collegati alla visita di Costantino II a Sirmio nel 337[244].

 

8. Recenti acquisizioni sui fasti provinciali.

Dopo i lavori di B. Lőrincz conosciamo il governo provinciale della Pannonia e più in dettaglio i fasti della provincia, come il nuovo legato tra il 133 e il 136 M. Nonius Mucianus. Viene corretta la cronologia di sei governatori equestri dopo Gallieno, il primo dei quali è nel 267 d.C. T. Clementius Silvius[245]. P. Kovács, B. Fehér, Budapest nel 2005 hanno presentato una storia della Pannonia, mentre B. Lőrincz presenta la lista dei governatori[246].

Meno chiara la documentazione sulla Mesia Superiore, pure raccolta nel 2007 nel volume di Miroslava Mirković: Moesia Superior: eine Provinz an der mittleren Donau. Per il periodo fino all’86 d.C., i governatori della Mesia sono studiati da L. Mrozewicz oltre che da B.E. Thomasson[247]. W. Eck e A. Pangerl hanno rivisto la lista dei legati della Mesia Superiore dal 100 al 132, partendo da C. Cilnius Proculus[248]. La lista è stata arricchita da C.C. Petolescu su “Pontica” del 2012, fino a Diocleziano. Da Nevsa, territorio di Marcianopolis, proviene l’iscrizione di T. Flavius Longinus Q. Marcius Turbo, legato di Mesia Inferiore nel 155: per fines civitat[is Mar]cianopolitano[rum re]gione Gelegetio[rum in propi]nquo phruri n(umero) [], dove il termine traslitterato dal greco phrurium indica il posto di guardia[249].

J. Źelazowski ha studiato l’attività giudiziaria, amministrativa, religiosa, edilizia documentata da iscrizioni onorare di 58 legati di Mesia Inferiore tra 86 e 275 d.C.[250]. I duces della Moesia secunda e della Scythia Minor tra III e VII secolo sono stati studiati da J. Wiewiorowski[251].

Nell’interpretazione di G. Alföldy, M. Cornelio Nigrino Curiatio Materno console sotto Domiziano dedica un tempio ad Oescus come leg(atus) Aug(usti) pr(o)pr(aetore) provinciae Moesie inferioris, dopo la divisione della Mesia. I dedicanti anonimi dell’86-89 sono membri di un collegio cultuale[252].

I. Piso presenta la lista dei governatori di Dacia, partendo da Traiano[253]. A.Barnea ha studiato la Prosopografia della Scizia minore a partire da Diocleziano, fino all’VIII secolo, anche alla luce delle nuove iscrizioni di Tomis[254].

 

9. La municipalizzazione.

Un tema particolarmente sviluppato è quello della municipalizzazione, che ha favorito il consolidarsi delle aristocrazie cittadine: in Rezia l’area appare in età imperiale abbastanza arretrata, povera, spopolata, poco romanizzata, con un impressionante sviluppo del latifondo imperiale; di conseguenza la municipalizzazione fu contenuta. In particolare nell’area retica (a Sud) non c’è traccia di municipi romani fino all’età dei Severi, ma solo di vici indigeni. L’area celtica della Vindelicia appare più urbanizzata, con gli oppida celtici di Brigantium (Bregenz), Cambodunum (Kempten) e Augusta Vindelicum (capitale provinciale della Rezia da età flavia)[255], che divennero municipi di cittadini romani, ma con qualche ritardo. Uno statuto municipale ottennero anche gli insediamenti civili collocati a ridosso degli accampamenti militari di Castra Regina (Ratisbona) e di Castra Batava (Passau). Un grande impulso ebbe la realizzazione di strade di collegamento lungo i valichi alpini, in direzione del Danubio e trasversalmente da Brigantium a Cambodunum ed a Castra Batava, per il controllo delle tribù retiche e vindelicie[256].

In Dalmazia la politica di municipalizzazione romana sembra iniziare con Cesare, cui si attribuisce la colonia di Narona: conosciamo le colonie di Iader, di Salona (però colonia Martia Augusta), di Epidauro (Ragusa-Cavtat). Approfondimenti si sono svolti sulla politica di municipalizzazione, come per Municipium Magnum (Balina Gravica) sotto i Flavi[257] o Lopsica (Senj in Croazia) già sotto i giulio-claudi[258]; ancora ai Flavi si attribuisce il municipio di Scardona. Da Krivoglavci presso Sarajevo abbiamo ora la documentazione (però in età Antonina) della concessione dello statuto municipale ad Aquae S(–)[259]. Per il municipium S(polistarum) sono stati fatti importanti passi avanti dopo l’edizione dell’iscrizione di Pljevlje presso Komini in Montenegro da parte di S. Loma e dopo l’intervento di Patrick Le Roux: Sextus Aur(elius) Lupianus Lupi filius princep(s municipii), onorato nella seconda metà del II secolo dai decuriones collegae et populares et peregrini incolae. Il testo pone il problema dello statuto ufficiale per cittadini locali populares e notabili decuriones collegae e testimonia il funzionamento delle istituzioni cittadine nella seconda metà II secolo. Per Loma si tratta invece di un cittadino romano di prima generazione princeps dei peregrini incolae[260], adtributi al municipio di Splonum (Komini), secondo quanto recetemente confermato da M. Mirković[261]. Più convincente la posizione di P. Le Roux per il quale Lupianus, princeps del municipio, si sarebbe adoperato presso i cittadini locali (populares) e i notabili (decuriones collegae) per assegnare agli stranieri residenti a Splonum (peregrii incolae) uno statuto ufficiale riconosciuto dalla comunità municipale[262].

Per la colonia di Salona un nuovo studio complessivo si deve a E. Marin edit., Longae Salonae, 2 voll., Split 2002, con studi onomastici, gentilizi, cognomi. Conosciamo nuovi IVviri di Salona, auguri e decurioni[263]. Molto dubbia appare l’edizione del testo dell’epigrafe di Teodosio II e Valentiniano III nella prima metà del V secolo, sulla porta “Andetria” (porta suburbia) e sulle mura di Salona edita da J. Jeličić-Radonić[264].

Altri inediti provengono da un sito per noi oggi particolarmente significativo, Skelani, Srebrenica, nella Repubblica Srbska di Bosnia Erzegovina: qui il Municipium Malve(n)sitatium fondato ben prima del 158 d.C. ci ha restituito alcuni clarissimi, equites, tribuni, centurioni, soldati della coorte I Delmatarum ed esponenti dell’aristocrazia cittadina, in particolare un II vir q(uin)[q(uennalis)][265].

Dal Municipium Magnum (Balina Glavica) G.F. Paci ha presentato un IIII vir iure dicundo e aedilis; la municipalizzazione sarebbe da colocarsi in età flavia per Glavaš, che ha studiato la statio dei beneficiarii[266].

Il capitolo della municipalizzazione del Norico si apre con particolare riguardo al tema delle autonomie municipali nei volumi The Autonomous Town of Noricum and Pannonia, con gli atti del colloquio di Brdo in Slovenia: si tratta di una sintesi sulle città del Norico: Celeia, Virunum, Teurnia, Aguntum[267], Iuvavum, Flavia Solva, Cetium, Ovilava e Lauriacum. P. Scherrer in particolare presenta uno studio approfondito sull’urbanizzazione della provincia, antroponimi e teonimi[268]. Tra i documenti principali emerge ora il Fragmentum Lauriacense rinvenuto a Lorch studiato da H. Grassl, che propone un parallelo tra i paragrafi frammentari della legge municipale di Lauriacum e documenti analoghi provenienti da Italia e Penisola Iberica, in particolare la lex Irnitana[269]. Recentemente è stato proposto un confronto del Fragentum Lauriacense con la tavola di Eraclea, con una proposta di restituzione del testo[270]. Proprio partendo dagli ultimi studi G. Winkler ha tracciato la storia di Lauriacum anche attraverso le iscrizioni[271].

E. Weber ha studiato ad Ovilava nel Norico la dedica effettuata a Diocleziano nel 285 dall’ordo col(oniae) Ovil(avensium) devotus numini maiestatisq(ue) eius[272]. Altri studi sono stati dedicati a Flavia Solva, a Celeia e al municipium Aelium Cetium, partendo anche dall’epitafio di Nussdorf ob der Traisen che ricorda un C. Ausonius Sergia Silvinus, dove Sergia è la tribù del municipio[273]. In Bassa Austria St. Leonhard am Forst, Winkler presenta la larga famiglia di M. Sextius Vettonianus aedilis municipii Aelii Cetii, morto a 70 anni; la famiglia, composta di immigrati, viene seguita per più generazioni, all’interno del municipio di Adriano[274].

Le autonomie municipali della Pannonia sono studiate nel II volume dei citati Atti del convegno di Brdo, con una sintesi sulle città pannoniche: Vol. I Savaria, Scarbantia, Noviodunum, Andautonia, Siscia, Poetovio, Salla; Vol. II Carnuntum, Vindobona, Mogetiana, Mursella, Municipium Iasorum (Aquae Balissae), civitas Iovia, Sirmium, Mursa, Cibalae, Gorsium, Aquincum, Brigetio, Bassianae, Sopianae[275]. Per Poetovio, Sarmizegetusa e altre città traianee vd. ora I. Piso e R. Varga, Trajan und seine Städte, Cluj-Napoca 2014. In particolare Z. Mráv ha studiato la politica di Settimio Severo e le città della Pannonia: fondazioni, cambi di statuto, costruzioni imperiali. Le iscrizioni ci consentono di osservare il passaggio del municipio di Aquincum fondato da Adriano[276], promosso da Settimio Severo a colonia nel 194: prima di questa data conosciamo P. Aelius Perpetuus decurio municipi Aquincensium e M. Fouiacius Verus Iunior decurio canabarum decurio municipii Aquincensium augur[277]. Più tardi un decurione della colonia Aquincensium ricostruisce una schola ad Aquincum. Conosciamo diversi sexviri, decuriones coloniae Aquincensium, aediles, flaminici.

A Törökbálint in Pannonia Inferiore, una dedica a Giunone è posta da M. Aur(elius) Epigonus dec(urio) col(oniae) Aq(uincensium) originario dell’oriente greco, come lo era gran parte dell’élite municipale di Aquincum alla metà III sec.[278]

Il municipium Spondent(ium ?) della Pannonia Inferiore (in una località collocata a Sud-Est della provincia, forse Ušće, presso Obrenovac) è menzionato in un’iscrizione di Bassianae (oggi presso Donji Petrovci in Serbia, studiata da S. Dušanić ed ora da A. Crnobrnja[279]; Bassianae fu municipio di Adriano e colonia di Caracalla: conosciamo un P. Aelius Ce(n)sorinus d(ecurio) col(oniae) Bas(sianensium) ex voto posuit, sicuramente appartenente ad una famiglia del municipio antonino[280]. Altre iscrizioni ricordano la c(olonia) M(ursensium)[281].

Il ruolo di Traiano nella urbanizzazione della Pannonia è evidente a Poetovio, dove Mráv studia la realizzazione del foro attorno al 106 Coloniae Ulpiae Traianae Poetovionensium[282]; conosciamo casi analoghi a Sarmizegetusa e Vindobona tra il 103 e il 106; in Numidia a Thamugadi.

Nel tempio di Giove [depu]lsor di Savaria viene realizzato un po[rticum cum aeto]na, [pro salute Savariensium], per iniziaiva di un de[c(urio)] c(oloniae) U(lpiae) T(raianae) Poet(oviensium).[283] Conosciamo il monumento di Carnuntum-Petronell studiato da W. Jobst e M. Kandler. Alla fondazione traianea tra il 106 e il 111 allude anche l’epigrafe su placca metallica ritrovata tra i principia e il praetorium dell’accampamento della legio XV Apollinaris di Carnuntum, riletta da Z. Mráv[284]. A Brigetio un’iscrizione conferma che Settimio Severo nella terza potestà tribunizia, dopo la partenza della legio I Adiutrix fonda nel 195 il municipio[285]. Tra i Severi, si ricorderà la rara dedica a Fulvia Plautilla, sponsa di Caracalla, effettuata all’inizio del 202 dalla res [pu]lica Ia[s(orum)], poi Aquae Balissae, oggi Daruvar in Croazia[286]. Un’analoga dedica effettuata dalla res publ(ica) Siscianorum proviene da Sisak[287].

Il vicus di Carnuntum fu promosso da Adriano Municipio Elio e poi colonia: G. Alföldy ha studiato le iscrizioni del tumulus della grande villa romana a 10 km dal lago Balaton, che ricordano tre diverse generazioni: emerge un cavaliere [decurio c]oloniae Cl(audiae) S(avariae) [omnib(us) honor(ibus)] funct(o) [in mun(icipio) Ael(io) Ca]rn(unto)[288]; conosciamo almeno un figlio che è stato decurione del municipio fondato da Adriano[289]. Carnuntum più tardi diviene colonia. Nell’età di Marco Aurelio la famiglia sembra estinguersi e nei primi anni dell’età dei Severi i nuovi proprietari hanno ulteriormente esteso la villa lasciando però intatto il tumulo[290].

A Savaria in Pannonia Superiore l’onomastica dei notabili indigeni dimostra secondo E. Szabó l’attribuzione dello ius Latii, ben prima della fondazione della colonia di Claudio[291].

Attraverso l’antroponomastica degli Azali, D. Grbić ritiene che la civitas Azaliorum sia stata costituita per volontà imperiale con il trasferimento di popolazione prevalentemente celtica o celto-pannonica, non illirica[292]. Il municipium adrianeo di Mogetiana oggi Tüskevár, nel territorio sottratto alla civitas Azaliorum,è localizzato sulla strada da Savaria ad Aquincum[293]: una funeraria municipii Mog(etianae) ricorda un quaestorius, decurio municipi. Possediamo nel foro anche la base di una statua di Filippo l’Arabo nella sua seconda potestà tribunizia (a. 245) dall’ordo Mog(ionensium)[294].

Per la Pannonia Superiore citeremo il manuale di M. Kronberger sugli spazi funerari e le sepolture delle canabae di Vindobona, con gli aspetti legati alla cronologia e all’evoluzione, sulla base di numerose iscrizioni lapidarie e sull’instrumentum[295]. La recente pubblicazione della tesi di H. Ubl sui monumenti funerari si estende al Norico e alle Pannonie, con attenzione all’armamento e alle uniformi dei soldati dell’esercito imperiale[296]. Significativa la rilettura dell’iscrizione metrica di Scarbantia, con un quadro complesso di relazioni familiari[297]. Numerose informazioni possediamo sui pagi rurali della Pannonia[298], così come sui vici con un proprio territorium e le civitates peregrine[299].

Il tema dell’urbanizzazione dell’Oltenia (nella Dacia sud-occidentale) è trattato da C.C. Petolescu con riferimento alla Colonia Malvensis a Cioroiu Nou; a Romula municipio dopo Adriano, colonia di Severo; ad Ampelum e Sucidava municipi di Severo[300]; D. Benea ha studiato Tibiscum e Dierna[301]. Per C.C. Petolescu la menzione a Celei di curial(es) territ(orii) Suc(idavensis) dimostrerebbe che Sucidava ha ricevuto lo statuto di municipio[302].

Per la Dacia è stata studiata l’urbanizzazione, la municipalizzazione, le colonie, le fortezze, le città e le regiones del patrimonio imperiale (metalla, praedia), i villaggi, i pagi, i vici, le canabae, sempre con un’interazione con il mondo militare in ambito rurale[303]; i vici militares nella Dacia romana sono stati illustrati da D. Benea, specie Tibiscum[304].

I nuovi frammenti del trofeo di Traiano dal forum vetus di Sarmizegetusa ricordano la titolatura della [colonia Ulpia Traiana Aug(usta) D]acica Sa[rmizegetusa], che dedica [condit]o[ri s]uo tra il 116 e il 117[305]. Gli scavi nel forum vetus fondato da Traiano[306], hanno riportato alla luce ben 106 iscrizioni, studiate nel citato volume curato da I. Piso, tra le quali quella che contiene l’espressione condita colonia [Ulpia Traiana Augusta] Dacica [Sarmizegetusa], per l’intervento del legato: per [D. Terenti]um Scaurianum: secondo I. Piso si tratterebbe di un monumento commemorativo analogo a quello, famosissimo, di Uchi Maius in Africa Proconsolare sotto Severo Alessandro[307]. Sorprende il numero delle dediche effettuate nell’età di Traiano; la successiva dedica ad Adriano consul III reimpiegata nel pavimento e la conduttura in piombo della Coloniae Dacicae Sarmigegetusae, con i IIviri della fine del regno di Traiano[308]. Infine il monumento a divinità ignota per la salvezza di Marco Aurelio tra il 172 e il 175[309]; nello stesso periodo (o nei primi anni di Commodo) sarebbe stata costruita l’aedes augustalibus a spese del flamen col(oniae) M. Proc(ilius) M.f. Pap(iria) Niceta[310]; sappiamo che lo stesso edificio fu allora decorato ope[re tect]orio et picturis item sc[alis sigi]llis et linteis; senza dimenticare i [can]delabra aerea duo[311]. Conosciamo numerosi monumenti studiati da Piso, come quello di Opellius Adiutor, decurio coloniae IIvir iuris dicundi praefectus collegii fabrum, che si data attorno al 150, dopo la costruzione del forum novum.

Dopo la morte di Lucio Vero si pone nel 172 la dedica a M. Aurelio da parte della colonia Ul(pia) Traian(a) Aug(usta) Dac(ica) [Sarmizegetusa] ancipiti periculo virtutib(us) restituta, con allusione alla invasione dei Marcomanni del 170 e alle virtù dell’imperatore, associato ad una divinità incerta[312]. Pro salute di Commodo possediamo numerose dediche poste dai patroni del coll(egium) fabr(um), dagli Aug(ustales) col(oniae), dai decurioni appartenenti all’ordine equestre[313].

A partire dalla più antica attestazione relativa ad una città (Mesembria) di quella che sarebbe diventata la Mesia di inizio I secolo a.C., in relazione alle guerre contro Mitridate[314], Mladenović ha studiato l’evergetismo e munificenza nelle città della provincia [315]. Dal Municipium Dardanorum in Kosovo (Mesia Superiore) proviene la dedica M. N(ovellio) M.f. Quirina Montan(o) un cavaliere procuratore di Commodo, effettuata da M. Novel(lius) Eros pri(n)ceps m(unicipii) D(ar)[d(anorum)], apparentemente originario di Scupi. M. Novellio Montano potrebbe essere il patrono del dedicante, forse procurator metallorum sotto Commodo; è noto che verso la fine del II secolo la civitas Dardanorum diviene municipio. Il titolo di princeps alluderebbe per P. Le Roux al primo dei decurioni del municipio, senza un rapporto con l’amministrazione delle miniere come immaginato da Dušanić[316]. Da Sočanica (Municipium Dardanorum in Mesia Superiore) proviene la dedica effettuata tra il 136 e il 137 di un tempio per ricordare l’eroe Antinoo, su disposizione di Adriano e L. Elio Cesare: Antinoo He[roi aedem ?], con l’intervento dei coloni arg[entariarum Dardanicarum] curante Thelesph[oro], un liberto imperiale[317].

A Viminacium un epitafio è dedicato a T. Baeb(io) Eytychi Aug(ustali) mun(icipii) Ael(i) Vim(inacii) e a sua moglie, anch’essa patrona del municipio, per iniziativa del liberto T. Baeb(ius) Abascantus[318].

I. Piso ha studiato i forenses di Brigetio, che sarebbero gli abitanti di un vicus distante due km dal campo legionario, arrivato alla condizione di municipio sotto Settimio Severo[319].

All’inizio del II secolo in Mesia Inferiore ad Oescus conosciamo un M. Iulius Felix decurio coloniae: nessuna altra città della provincia ha avuto la condizione di colonia prima del II secolo[320].

Ad Oescus (oggi Gigen) abbiamo in età severiana la testimonianza della organizzazione dei saltus cittadini: conosciamo un cavaliere romano flam(en) et IIviral(is) col(oniae) praef(ectus) salt(us), una funzione sicuramenrte municipale[321], poi patronus colleg(ii) fabror(um) coloniar(um) Oesc(ensium) et Apul(ensium) patronus col(oniae) Ulpiae Oescensium bonus civis et amator rei p(ublicae), onorato dall’ordo[322].

L’organizzazione dei villaggi della Dobrugia romana è studiata da A. Suceveanu, con attenzione all’organizzazione amministrativa, alle strutture sociali, al regime del suolo, alle attività economiche, alla vita religiosa dei vici attraverso le iscrizioni[323]. Le iscrizioni rinvenute durante gli scavi del periodo 1981-92 a Murighiol in Mesia Inferiore (Halmyris) sono state studiate nel 2003; tra esse segnalerei quella posta dai [c(ives) R(omani) c(onsistentes) vic]o class(icorum) nell’età di Commodo[324] e riprese da M. Zahariade e C.-G. Alexandrescu, nel catalogo Greek and Latin inscriptions from Halmyris. Inscriptions on stone, signa, and instrumenta found between 1981 and 2010, Oxford 2011[325]. Il fortino costantiniano di Mihai Bravu nel distretto di Tulcea in Romania ci ha restituito l’iscrizione del Vicus Bad(—) che sarà presentata da Antonio Ibba e Lucreţiu Mihăilescu Bîrliba a questo convegno. Da Silistra in Mesia Inferiore, una dedica Iovi Opt[i]mo Maximo ci consente di localizzare il vicus Gravidin(a) ad Ostrov presso il muunicipium Aurelium Durostorum[326].

Da Sacidava in Mesia Inferiore proviene la funeraria di un militare trace, Diozenus Rigozi (filius), con l’inedito titolo di subte(serarius) bur(gariorum); conosciamo invece i burgarii in Dobroudja a Tropaeum e Sucidava[327]; uno studio frontale sul Municipium Traianum Tropaeum fondato nel 109 d.C. come Sarmizegetusa è ora di E. Popescu[328]. I monumenti epigrafici del municipium Montanensium in Mesia Inferiore sono raccolti da V. Veljov e G. Aleksandrov[329].

I primi pontarchi ad Histria e Callatis, nel Ponto della metà del II secolo, sono studiati da A. Avram, M. Bărbulescu, M. Ionescu[330]. La pentapoli del koinon del Ponto, con la dubbia posizione di Mesembria assegnata in seguito alla Tracia, è studiata da M. Tačeva[331].

Da Abrittus (oggi Razgrad) in Mesia Inferiore abbiamo due dediche effettutate dai Vet(erani) et c(ives) R(omani) [co]nsistentes Abritto, una delle due sotto Elagabalo nel 222 d.C. [332]

 

10. Alcuni populi e nationes.

Moltissime novità sono state raccolte negli ultimi decenni sui confini tra populi differenti, ad esempio tra Isarci della Rezia e i Saevates del Norico, lungo la vallata dell’Eisack, che segnava la frontiera tra Norico e Rezia, in rapporto alla regio X, con la sicura localizzazione a Kollman di Sublavio[333].

Estremamente significativa è la nuova documentazione relativa alla Civitas Eraviscorum nella grande ansa del Danubio, che fa perno attorno a Budapest, l’antica Aquincum: E. Szabó rifiuta l’ipotesi che la civitas Eraviscoum sia stata attribuita al municipio di Aquincum. Il fatto che due decurioni siano notabili di un municipium Aelium Aquincensium e della civitas Eraviscoum non significa che la civitas fosse adtributa al municipium[334]. A proposito della frontiera tra Aquincum e la civitas Eraviscorum J. Fitz, studiando le iscrizioni del comitato di Fejér, distingue le località a Nord della via Aquileia-Gorsium-Aquincum (pienamente aggregate al municipio) e quelle a Sud (rimaste autonome, comunque entro la civitas). Dopo la sconfitta di Valeriano ad Edessa nel 260, in occasione dell’attacco dei Sarmati, molti monumenti di Gorsium e delle località travolte dai barbari furono trasportati a Intercisa, utilizzati per ricostruire le fortificazioni del limes. Sono 38 i monumenti epigrafici repertoriati nel territorio di Aquincum[335]. I limiti occidentali e meridionali della civitas Eraviscorum e del territorio di Aquincum arrivavano fino al lago Balaton (ad occidente) e Vajta (a mezzogiorno). La principale divinità eravisca a Gorsium era Iupiter, invocato pro salute degli imperatori et pro incolumitate civitatis Eraviscorum. J. Fitz ha studiato la dedica De[o T]eutano p[ro s]alute templ(ensium) effettuata da un tribuno della coorte III B(atavorum). Come è noto all’XI secolo risale lo smantellamento della fortificazione, trasferita a Székesfehérvár da Gorsium e non da Aquincum[336]. Allo stesso Dio sono dedicate le iscrizioni di Bölcske (Komitat Tolna), sulla riva destra del Danubio: sono stati ritrovati ben 39 altari votivi e 2 funerari, i più antichi della Pannonia Inferiore, alcuni da Aquincum, Campona, Vetus Salina, dedicati per la salvezza degli imperatori del II e del III secolo, oltre che come si è detto pro salute civitatis Eraviscorum. Tutti gli altari sono dedicati a I(upiter) O(ptimus) M(aximus) Teutanus (associato talora a Giunone Regina), collocati dai magistrati cittadini, hanno la data dell’11 giugno (festa di Mater Matuta), come per I.O.M. Karnuntinus a Carnuntum[337]; si tratta più probabilmente di una festa religiosa indigena oppure ricorre l’anniversario del giorno del citato miracolo della pioggia per M. Aurelio[338]. Per Piso l’11 giugno è data del primo sacrificio I.O.M. in Pannonia; la data è stata mantenuta anche dopo la divisione provinciale. Non sembra fondata di conseguenza l’ipotesi di P. Scherrer che ora collega la data dell’11 giugno (sulle dediche a Iupiter Optimus Maximus Teutanus e K(arnuntinus) ad Aquincum e Carnuntum) al reclutamento militare effettuato attraverso l’organizzazione dei collegia iuvenum[339].

Gli Anartii, una tribù imparentata con gli Eravischi, ricordati a Tusculum per esser stati sconfitti dal legato [M(arcus) Vinu]ciu[s P(ubli) f(ilius)] già nell’età di Augusto (Anarti[os sub potestatem Imp(eratoris) Caesaris A]ugusti [et p(opuli) R(omani) redegit)[340] sono documentati a Budapest (Aquincum), in uno dei primi esempi di assegnazione della civitas alla Pannonia del NE: la tribù era precedentemente collocata all’esterno delle frontiere dell’impero[341]. In epoca Flavia conosciamo una Iulia Utta Epponis f. Florina natione Anartia[342]. Un vicus della tribù degli Anar[tii] della pianura ungherese è tra i dedicanti di un altare ad Ercole a Pagus Herculius a Budaörs in Pannonia Inferiore[343].

A Baden (Aquae, in Pannonia Superiore), abbiamo un diploma di Antonino Pio relativo ad un ex gregale della flotta di Miseno Boius ex Pannon(ia), originario della tribù dei Boi, congedato il 26 ottobre 145[344].

Se passiamo al Barbaricum, da Dunàntul e dalle Regioni transdanubiane dell’Ungheria, più precisamente dal territorio degli Azali (tra il Danubio e il lago Balaton) proviene il diploma studiato da Lőrincz dell’ex pedite della cohors II Alpinorum Terius Dasentis filius Azalus. Evidentemente il veterano è tornato in patria[345]. Un marinaio, un ex gregale era Niger Siusi f. Azalus, del diploma di Arrabona, che si è spostato nel 161 dopo il congedo[346]. Si segnala la clausola a favore dei liberi decurionum et centurionum item caligatorum quos antequam in castra irent procreatos, dunque nati prima che il padre caligatus (soldato semplice) prendesse servizio.

L’espressione generale natione Pannonius o Pannonicus riferita non esattamente ad un popolo ma ad un’origo[347], dalla Pannonia ricorre una ventina di volte nell’impero per militari e civili, in particolare a Salona[348], Hardomilje in Bosnia[349], ma anche in Siria, in Cilicia, in Gallia, in Germania, a Ravenna e a Roma[350]. Analoga diffusione ha l’espressione natione Noricus a Salona[351], Aquincum[352], Mogontiacum [353], Roma[354], Caesarea di Mauretania[355]; più rari sono i documenti relativi a natione Dalmata o Dalmaticus, abitualmente marinai della flotta di Ravenna[356] ed a natione Raetus a Roma[357]; si veda anche natione Moesia inf(eriore) civitate Oesci di un epitafio romano[358]. Numerosi Salonitani hanno servito a Roma nelle coorti pretorie[359].

I Sarmati sono ancora all’epoca di Commodo considerati latrunculi e non hostes, tra Aquincum e Intercisa[360]. M.F. Petraccia ha studiato la presenza di latrones a Drobeta[361], da non confondere con gli stationarii assassini di Timacum Minus[362]; a Naissus V. Nedeljković rivede parzialmente l’edizione di un’iscrizione funeraria di un iuvenis qui (i)nnocuus vi[x(it) a(nnos) X]X dilectus: qui[i] miserand[us a ]pessimam gentem, quu[etus] dum restaret per[em]tus, forse ucciso dai latrones[363].

 

11. Gli immigrati.

Le immigrazioni di Italici e da altre province, in particolare dalla Siria, dalla Numidia e dalla Mauretania, dalla Penisola Iberica, sono state ampiamente studiate[364]. Le regioni di origine dei militari, la sistemazione dei veterani attraverso i tituli veteranorum delle province danubiane sono sintetizzati da K. Królczyk[365]. B. Fehér ha studiato i molti nomi siriaci in Pannonia Inferiore dopo le guerre marcomanniche a Ulcisia e Intercisa, segnalando la persistenza dell’onomastica siriaca e giudaico-siriaca[366]. Ma nel 2012 è uscito il volume sulle unità siriane sul Danubio di O. Ţentea, Ex Oriente ad Danubium. The Syrian units on the Danube frontier of the Roman Empire, Cluj-Napoca 2012, con alcuni problemi di traduzione.

In Mesia a Viminacium Weber ha affrontato il tema degli immigrati dall’Oriente: Eusebius filiu[s] Antianu civis Germaniceu<s> ex vico Abdarmisu, IV secolo, originario di Germanicia in Commagene, villaggio di Abdarmisus qui citato per la prima volta[367].

Gli immigrati richiamerei alcuni casi particolarmente significativi: a Višegrad in Bosnia, un personaggio domo Hadrumeto arrivato dall’Africa Proconsolare[368], a Poetovio in Pannonia Superiore ex region(e) Dolich(e) a vico Arpuartura nell’età di Valeriano e Gallieno[369], a Savaria un cives Surus ex regione Zeugma[370]; nel municipium di Troesmis sono documentate alcune famiglie di Ancyra[371].

L’immigrazione di Carpi in Pannonia nell’età di Dioleziano studiata da P. Kovács[372] ci è documentata dall’incredibile carriera di un personaggio, (Flavius) Maximinus, orignario del popolo dei Carpi trasferiti nella Valeria ma ammessi ai gradi più alti dell’impero, come documentano, oltre che il 28° libro delle Storie di Ammiano Marcellino, soprattutto i miliari stradali della Sardinia nell’età di Valentiniano I, Valente e Graziano, fino al 371 e al prestigiosissimo incarico di prefetto del pretorio per le Gallie, con l’improvvisa disgrazia e la condanna a morte nel 376 per volontà di Graziano. L’episodio testimonia in modo sorprendente la mobilità sociale e la possibilità per una famiglia proveniente dal Barbaricum occupato dai Carpi di innalzarsi nell’aristocrazia della provincia e nell’impero, pur mantenedo una cultura fondata su tradizioni ancestrali legate al mondo della magia[373].

Tra gli immigrati in Dacia si segnala il libro di Lucreţiu Mihăilescu-Bîrliba, Ex toto orbe Romano: Immigration into Roman Dacia. With Prosopographical Observations on the Population of Dacia, Peeters, Leuven-Paris-Walpole 2011[374]. Recentemente G. Cupcea ha stampato nel Regno Unito la sua tesi dottorale sulle carriere dei militari semplici nella Dacia romana (a. 2014).

In generale sorprende la varietà delle immigrazioni in Dacia, in particolare a livello di aristocrazie cittadine: nomi illirici dall’area dalmato pannonica[375]; altri immigrati dalla penisola italiana, dalla Tracia[376], dal Norico[377], dalla Gallia celtica (Mihăilescu-Bîrliba), dall’Asia Minore[378].

 

12. Opere pubbliche.

La viabilità stradale balcanica è stata rapidamente ricostruita da Raimondo Zucca e Barbara Sanna in rapporto alle tabernae ed ai praetoria, infrastrutture che costituivano un sistema al servizio del governo provinciale e dell’esercito, come in Mesia, già con la prima occupazione ma soprattutto in età tarda come testimoniano le fonti agiografiche ora rivisitate[379]. In sintesi si può rinviare al lavoro sul sistema stradale della Dacia di F. Fodorean, con la presentazione delle più recenti scoperte di nuovi miliari[380]. Il ponte di Drobeta (in Dacia Superiore, non Inferiore come supposto da D. Benea)[381] costruito da Traiano, fu abbandonato temporaneamente, poi restaurato da Adriano. La ricostruzione della strada tra Remesiana e Naissus in Mesia Superiore potrebbe esser collegata alla guerra persinana di Severo Alessandro[382].

Le iscrizioni ci conservano il ricordo della realizzazione di numerosissime opere pubbliche, basiliche, templi, edifici di spettacolo, in ambito cittadino o castrense. Solo un esempio: nell’età di Commodo nell’estate 185 la cohors I Aurelia Antonina milliaria Hemesenorum con il legato L. Cornelius Felix Plotianus è impegnata nella realizzazione delle porte del campo militare di Intercisa, in Pannonia Inferiore[383]; qui potrebbe essere localizzata una statio, di cui conosciamo 15 beneficiarii[384].

Le fortificazioni romane tra Belgrado (Singidunum) e Prahovo (ad Aquas) nella Mesia Superiore sono studiate nel volume di M. Mirković[385]. In Mesia Inferiore ad Halmyris è molto nota la costruzione della fortezza destinata a durare in eterno sotto Diocleziano e Massimiano: post debellatas hostium gentes profuturum in aeternum rei publicae constituerunt presidium: il tempo in rapporto allo spazio universale[386].

 

13. L’esercito: legioni, coorti, alae, flotta.

Molto complesso è il capitolo sull’esercito in area danubiana, che in questa sede può essere solo accennato, con riferimento ai castra legionari, ai campi ausiliari delle coorti e delle alae, alla flotta. In Rezia inizialmente operavano soprattutto unità ausiliarie[387], come presso le Aquae Phoebianae, Biriciana, Mediana, Vetoniana[388], poi a Windisch è documentata la legio XXI dal 45 al 69 d.C., sostituita poi dal 70 al 101 d.C. dalla Legio XI Claudia Pia Fidelis, di cui ci rimangono i bolli della guarnigione. Più incerta la presenza della legio III Italica ad Augusta Vindelicorum e non a Ratisbona sotto Commodo: la metropoli provinciale (per Tacito splendidissima Raetiae colonia) Augsburg in Baviera in precedenza nel I secolo aveva accolto nell’accampamento una vexillatio legionaria e un’ala di cavalleria[389]; sappiamo che ospitava il governatore e la stazione doganale della quadragesima Galliarum: Géza Alföldy presenta la dedica a Mercurio[390] nell’età di Commodo da parte di Appius Cl(audius) Lateranus co(n)s(ul) design(atus) leg(atus) Aug(usti) pr(o) pr(aetore) leg(ionis) III Ital(icae), che però non sarebbe il governatore della Rezia, ma solo il comandante legionario nel 188 d.C. durante l’expeditio Germanica tertia[391]. Terminata la missione, designato al consolato, dedica un altare ad Augsburg. Rimangono le perplessità di Rudolf Haensch, che non si spiega la ragione por la quale un comandante legionario abbia elevato il monumento ad Augsburg la capitale e non a Ratisbona dove si trovava la legione. Eppure gli altri governatori sono chiamati legatus Augusti propretore provinciae Raetiae.

I principali campi di ausiliari recentemente studiati sono quelli di Heidenheim (il campo dell’Ala II Flavia Miliaria) e di Gnotzheim per la III Coorte di Traci: si discute su Q. Gavius Fulvius Proculus, prefetto della coorte, cavaliere originario di Caiatia a N di Capua, come testimonia la dedica a Diana[392]. Il campo di Eining-Unterfeld (Abusina) in Baviera e il suo vicus hanno restituito recentemente diplomi[393] e preziose testimonianze della cohors III Britannorum equitata[394]. Le fortificazioni collocate a Nord del Danubio sarebbero state distrutte e abbandonate nel corso dell’anarchia militare del III secolo, e rioccupate da Diocleziano[395].

Nel Norico conosciamo legioni, reparti ausiliari, ufficiali, soldati e veterani. A Lorch documentata alla fine del II secolo la legio II Italica anche nella dedica di Faustinus cohortis I pilus posterior[396]. Ma la legione arriva ben oltre Valeriano, affiancata dalla legio I Noricorum creata da Diocleziano per difendere il Noricum Ripense: conosciamo le officine legionarie, figulinas i(u)vensianas leg(ionis) primae Nor(icorum)[397].

La caratteristica militare del territorio della Dalmazia (che con Augusto era controllato da ben sei legioni) andò sfumando nel tempo, tanto che a partire dall’età di Vespasiano la Dalmazia appare controllata ormai solo da reparti ausiliari ed in particolare da coorti di Dalmati, impiegati ampiamente anche nella flotta da guerra che aveva la base principale a Ravenna, come testimonia ad esempio il diploma del 5 aprile 71 d.C. dell’età di Vespasiano, con il nome di un tessera[rius] Tarsa Duzi f. [Bessus] e di suo figlio Macedo[398]: ciò spiega anche la rapida municipalizzazione in età flavia. Una rilettura di un epitafio del Museo di Split consente di ricostruire il nome di un T. Ti[turius] domo Fab[ia Brixia] spec(ulator) leg(ionis) X[I C(laudiae) p.f.] nel corso del I secolo[399]. La cohors VIII voluntariorum, di guarnigione a Tilurium, ora documentata a Salona[400], è nota da almeno 409 iscrizioni in Dalmazia: per I. Matijević si tratta dell’unica unità stazionata ininterrottamente in Dalmazia durante tutto il principato[401].

La legio X gemina Pia Fidelis è ugualmente ben documentata: recentemente I. Matijević ha studiato i beneficiarii consularis della legio X Gemina (a Salona in Dalmazia)[402]. J. Jeličic Radonić ha affrontato il tema delle promozioni degli equites singulares Augusti sotto Adriano sempre a Salona, seguendo la dettagliatissima carriera di T. Fl(avius) T.f. Pol(lia) castr(is) Lucilius, figlio di un peregrino, la cui origo è castr(is), un vexillarius che ha svolto una brillante carriera militare, arrivando al grado di centurione nella VIII coorte di vol(untarii), di stanza in Dalmazia; infine congedato nell’età di Adriano. Il testo è stato recentemente rettificato da P. Faure[403]. Un centurione primo pilo, centurione della IV Flavia creata da Vespasiano in Dalmazia, di stanza tra il 70 e il 85 a Burnum, poi in Mesia dalla fine I secolo.

Sull’epigrafia militare della Pannonia sono fondamentali i volumi di B. Lőrincz su molti aspetti relativi alle unità ausiliarie, storia, campi, spostamenti, monumenti posti dai militari, carriere ufficiali, centurioni, decurioni, catalogo dei documenti[404].

Ad Aquincum è documentata la Legione II Adiutrix, con effettivi provenienti anche da Amastris in Paflagonia o da Arelate in Narbonense a partire dall’età di Traiano: un’imponente documentazione è relativa a legati, praefecti legionis, centurioni, optiones[405], cornicularii[406], custodes armorum[407], stratores[408], aquiliferi, signiferi[409], vexillarii[410], capsarii[411], veterani, medici militari[412], candidati[413].

A Bölcske Z. Mráv studia il primipilo della legione II Adiutrix di Aquincum alla testa della ala I Thracum, forse a seguito della morte o improvvisa malattia del prefetto dell’ala arrivata da Campona[414].

A Bécsi in Pannonia Inferiore nel corso degli scavi è venuto alla luce l’epitafio di Fl(avius) Ursus biarcus ex numero equites Dalmatas degentium Cirpi, un soldato graduato dell’esercito di Costantino, tra i soldati accantonati a Cirpi, oggi Dunabogdány, nel Comitato di Pest[415].

A Visegrád – Lapence, entro la provincia Valeria, nell’età di Valentiniano, Valente e Graziano (371 d.C.) conosciamo un Foscianus p(rae)p(ositus) legionis prim[ae Mar]tiorum, agli ordini di un Equitius utriusque militiae magister per Illyricum incaricato da Valentiniano I di fortificare il Danubio[416].

Inoltre la cohors I Lusitanorum doveva essere accampata a Cornacum (oggi Sotin) in Pannonia Inferiore; conosciamo un veterano ex c(enturione) M. Aurel(ius) Serenus, domo Bass(ianis) [417].

Ben documentata negli ultimi anni è anche la legio XV Apollinaris a Vindobona e poi a Carnuntum[418].

Gli ultimi studi sui campi militari hanno dimostrato che l’accampamento di Vindobona ospitava la legio XIII Gemina, almeno a partire dal 68 all’epoca di Galba. Proprio per Vindobona possediamo lo studio di M. Mosser sulle origini dell’accampamento della legio XV Apollinaris, dove vengono raccolte tutte le iscrizioni provenienti dal muro sud-orientale del campo legionario[419]: possediamo gli epitafi più antichi (anche del I secolo) riutilizzati nella fortificazione del III, con tracce del precedente campo legionario in legno. Già sotto Traiano la legio XIV Gemina Martia Victrix era a Vindobona (sostituita dalla legio X Gemina Severiana), poi a Carnuntum: conosciamo alcuni beneficiarii. Particolarmente significativa la menzione dei navalia della legio XIIII Gemina presso il porto fluviale di Carnuntum, dove conosciamo nel II secolo d.C. un vet(eranus) ex magistr(o) navalior(um) leg(ionis) XIIII G(eminae), con tutta probabilità in origine un marinaio o comunque un ausiliario trasferito nella legione, come sembrerebbe testimoniato dall’utilizzo dell’espressione nation(e) Hispan(us) Tarraconensis[420].

Per Canuntum (Petronell) ci rimangono numerose stele funerarie dei militari della legio XV Apollinaris, con tribuni come L. Cossutius L. f. Sabatina Costa, originario d’Italia, nell’ epoca di Claudio[421]; milites, equites, missicii; un veteranus è arrivato all’età di 108 anni, L. Varius Secundus[422].

Oltre che nelle canabae di Carnuntum, la legione, assente tra Nerone e i primi anni di Vespasiano come testimoniano i bolli, è documentata a Scarbantia[423] e a Savaria: a Szombathely A. Szabó ha presentato il caso del veterano della legione XV Apollinaris Sex. Utti[e]dius C.f. Celer della tribù Claudia che ha partecipato all’installazione della colonia Claudia Savaria nel I secolo d.C.; tra i parenti forse una Valenti(na) Prov[i]nciae l(iberta)[424].

Altri sigilli in piombo ci ricodano i privilegi doganali dei prodotti destinati alla legio I Adiutrix ex Belg(ica), che lascia Magonza al più tardi nell’86 per il Danubio ed è a Brigetio ben prima del 97; non è accertata una presenza della legione a Carnuntum, forse è solo passata o ha spedito i suoi prodotti. Lo spostamento di legione sarebbe avvenuto dalla Belgica alla Pannonia Superiore prima della creazione delle province germaniche[425]. A Brigetio (oggi Komárom tra gli Azali della Pannonia) la legione fu comunque a lungo stanziata, come dimostrano l’instrumentum (Museo di Vienna) e numerosi epitafi del II e III secolo: un eques legionis I Adiutricis Piae Fidelis, un Iulius Nigellio (domo) Sep(timia) Flavia Sisc(ia) b(ene)f(iciarius) trib(uni) mil(itum) leg(ionis) I Ad(iutricis) Ant(oninianae)[426]; un tes(serarius) leg(ionis) I Ad(iutricis) P(iae) [F(idelis)] del sarcofago di età severiana posto dal fratello cu(stos) ar(morum) della stessa legione e un b(ene(ficiarus) leg(ati) leg(ionis) I Adi(utricis) alla metà del III secolo ancora a Komárov-Szőny (Brigetio)[427].

Le truppe ausiliarie della Pannonia sono state studiate da B. Lőrincz[428], a cui rimandiamo per brevità. Da Solva in Pannonia Superiore (Esztergom) conosciamo diverse attestazioni della cohors I Ulpia Pannoniorum equitata tra Traiano e il III secolo, accasermata sul monte Várhegy: ci rimangono i nomi di almeno nove tribuni ricordati non nei principia ma nel tempio di Giove per le dediche ex voto su altari recentemente studiate da P. Kovács e B. Lörincz, con significativi dati in relazione alle città di origine: tra essi P. Ael(ius) Aelia dom(o) Roma P.f. Mamianus trib(unus) coh(ortis) [I] Pan(noniorum) eq(uitatae) attorno al 210 d.C.; si noti la pseudo tribù Aelia[429]; inoltre un M. Fl(avius) M.f. Flavia Impetratus trib(unus) domo Saldas ex Mauret(ania) Caes(ariensi), di origine africana, dall’attuale Béjaïa; si noti la pseudo tribù Flavia[430]. Altri casi sono noti sotto Caracalla[431] o Gordiano[432], oppure Aureliano o Probo, come nel caso della dedica effettuata da M. A[fra]nius Hannibalian(us) t(ribunus) coh(ortis) I Ulp(iae) Pan(nonio rum) Vict(ricis) ter[433].

Un quadro sulle 12 iscrizioni provenienti dall’accampamento dei cavalieri ausiliari di Carnuntum e sui monumenti funerari del lapidarium di Petronell si deve a M. Kandler[434]. Le fonti archelogiche ed epigrafiche relative ai veterani e ai soldati di stanza nel I secolo d.C. lungo la Via dell’Ambra tra Poetovio e Canuntium in Pannonia Superiore sono ora studiate da Z. Mráv[435]. Alcuni campi militari di alae sono stati scavati recentemente: ad Odiavum o Azaum in Pannonia Superiore (oggi Almásfüzitő) un’iscrizione dedicata ad Antonino Pio fu collocata per la costruzione del campo in pietra tra il 150 e il 156 d.C. per iniziativa del legato C. Cl(audius) Maxi[mus], ad opera dell’[ala III] Aug(usta) Thr(acum) [sag(ittariorum)][436]. All’epoca di Diocleziano e Massimiano conosciamo nella stessa località un Vitalis tr[i]bun(us) p(rae)p(ositus) lanci[a(riorum)][437].

In Mesia a Viminacium è ben studiata la legio VII Claudia[438], di cui conosciamo i cana[barii] in età severiana[439], la legio XI Claudia Pia Fidelis, la legio V Macedonica.. Ci resta da dire della legio I Iovia Scytica accantonata nel forte del municipium Aurelium Antoninum Aug(ustum) Troesmism(ensium) sotto Licinio, poi sostituita sotto Costantino dalla legio II Herculiana a Noviodunum. Secondo Ştefan solo dopo Costantino sono spostate nei nuovi campi citati nella Notitia Dignitatum[440].

Dal campo legionario della legio VII Claudia di Viminacium proviene un nuovo frammento di CIL III 14597 con un elenco di nomi di legionari congedati nel 195 su due colonne. Alcune provenienze di soldati sono curiose: Cybira forse Remesiana o Ratiaria; Margum: nella colonna di destra le coorti VII e VIII; nella colonna di sinistra le coorti IX e X. Su 280 legionari congedati, conosciamo 244 nomi: 8 stratores, 5 cornicularii, 3 optiones, 2 imaginiferi, 3 equites, 13 decorati donis donati. Il numero dei soldati congedati appare elevato rispetto all’insieme dei legionari. La gran parte dei soldati arruolati nel 169 erano originari di Mesia Superiore[441].

A Scupi in Macedonia (Skoplje) L. Jovanova presenta un dec(urio) coh(ortis) II Aur(eliae) Dard(anorum) interfectus a Costobocos, attorno al 170 d.C.: un testo che testimonia un attacco dei Costoboci nello spazio danubiano e balcanico, prima che Scupi costruisse le sue fortificazioni volute da Marco Aurelio[442].

Segnalerei proprio a Kostolac-Viminacium in Serbia il diploma di Commodo con la XVIII potestà tribunizia, la ottava acclamazione e il settimo consolato, relativo a 5 alae e 10 coorti in Pannonia Inferiore sotto il governatore C. Pomponio Basso (Terenziano), in precedenza governatore di Licia e Pamfilia, datato da B. Pferdehirt all’11 agosto 193[443]. La data è ovviamente da rettificare così come per gli altri due diplomi studiati da Eck che fissa ovviamente il terminus del 31 dicembre 192 anche per il congedo dell’ex pedite cohortis I Montanorum equitatae originario di Bassiana (municipio poi colonia tra Sirmio e Taurunum). I consoli L. Iulius Messalla Rutilianus e C. Aemilius Severus Cantabrinus non sono datati; per Eck è possibile che il diploma sia stato emesso in ritardo.

F. Matei-Popescu ha studiato le truppe ausiliarie della Mesia, con attenzione alle provenienze nel corso dell’età imperiale degli ausiliari delle coorti e delle alae, al ruolo della flotta del Danubio[444]. Lo stesso autore si è occupato specificamente dell’esercito della Mesia Inferiore, le legioni V Macedonica a Troesmis (a Oescus dopo l’abbandono della Dacia e la nascita della Dacia ripensis, fine III-IV secolo), I Italica, XI Claudia a Oescus e Durostorum, 10 alae, 32 coorti, 4 numeri e la classis Flavia Moesica[445]: conosciamo avvenimenti militari, vexillationes, legati, tribuni, tribuni ausiliari, centurioni, signiferi veterani[446], discens mensor, cornicularii praefecti, immunes[447], imag(iniferi)[448], milites[449], salariari[450].

Tra i campi legionari, si segnala la presenza ad Oescus già sotto Augusto della legio XX Valeria Victrix prima di essere trasferita nel 4 d.C. in Illirico e Pannonia, sostituita dalla legio V Macedonica nel 44[451]; il villaggio abitato dalle famiglie dei legionari poi fu promosso Colonia Ulpia Oescensium, costruito da Augusto, ricostruito nel 71, occupato fino al 106 con canabae e vicus. La costruzione dell’accampamento di Porolissum non è più attribuita ad Antonino Pio ma ad Adriano[452].

Possediamo ora una storia delle ricerche archeologiche e epigrafiche nell’accampamento legionario di Novae (oggi Svištov) a partire dal 1700 fino ai giorni nostri, con numerosi articoli di T. Derda, P. Dyczek, J. Kolendo: il campo fu distrutto sotto Teodosio nel 392 (legio I Italica di Novae)[453]. Sono state recentemente pubblicate le are del valetudinarium, l’ospedale militare costruito in occasione della I campagna militare di Traiano contro i Daci con la legio I Italica, abbandonato verso il 230; il sacellum ha funzionato fino ad Aureliano[454]; sono attestate anche la legio I Minervia p.f. e la legio XI Claudia p.f. Possediamo una lista di ufficiali e sottuficiali della legio I Italica distaccata dal 68 all’età di Gallieno a Novae. Ancora a Novae nei principia del campo vengono ricordate le statue imperiali dedicate a Godiano III il 13 agosto 241[455] e quelle in vulto Dionisi tra il 428 e il 431, opera dei primipilares civili ex provincia Elisponto oppure ex pro[v(incia)] Insulanea: si tratta di statue di Teodosio II, della sua sposa Eudocia e di sua sorella Pulcheria erette secondo T. Sarnowski di fronte ad un personaggio di nome Dionysus, forse Flavius Dionysus, console del 429, poi comes et magister utriusque militiae per Orientem[456]; Z. Gočeva pensa ora più correttamente al dio Dioniso, sulla base di una  nuova dedica greca, più esplicita, della prima metà del IV secolo[457].

Per la Dacia, dobbiamo rinviare all’opera di C.C. Petolescu, Auxilia Daciae. Contribuţie la istoria militară a Daciei romane, Bucarest 2002, che calcola 15 alae, 46 cohortes, 16 numeri. Per Potaissa in particolare vd. ora il catalogo sulle iscrizioni del campo legionario curata da M. Bărbulescu, con un centinaio di iscrizioni relative all’accampamnento della legio V Macedonica a Turda.[458] A. Oniţiu ha recentemente fornito l’elenco dei militari caduti in Dacia sul campo di battaglia, di cui ci rimangono gli epitafi[459]. Tra le coorti della Dacia va espunta la cohors III Dacorum e sostituita con la cohors III Campestris, di stanza a Pomet presso Porolissum a partire dall’età dei Severi[460].  Tra le alae, ad Arcobadara in Dacia è stata ripresa la dedica a Filippo l’Arabo da parte dell’ala Fr[onto]nian[a Phi]lippia[na][461].

L’esercito danubiano partecipò a numerose expeditiones anche in terre lontane. Sotto Vespasiano, un personnagio che ha partecipato alla guerra civile in Italia L. Cassius Cla(udia) Maximus (centurio) legionis VI ferratae, pone al rientro le dediche postume dal castello inferiore di Celje con un nuovo frammento inedito studiato da M. Lovenjak: una base associa a Diana la diva Iulia la figlia di Tito[462]; una seconda è posta a Domitia Augusta, la sposa di Domiziano[463]. Agli stessi anni risalgono a Seggau le decorazioni militari per la conquista di Gerusalemme assegnate a T. Cassius Secundus[464]. Un diploma rinvenuto nella Dobroudja meridionale ricorda nel 156 d.C. i distaccamenti trasferiti dalla Mesia Inferiore (governata da T. Pomponius Vitrasius Pollio) in exp[editione Mauretaniae Tin]gitan(ae) nell’età di Antonino Pio[465]. Un personaggio di altissimo livello originario di Celeia onorato più volte è T. Varius Clemens, che ha guidato la spedizione in Mauretania Cesariense[466], ricordato a Celeia da amici della provincia africana, in relazione alla procuratela del 151, arrivato al livello di ab epistulis e infine entrato in senato; già nella Tabula Banasitana compare come membro del consilium principis nel 154 d.C.[467]. La sua carriera è riportata in vari diplomi degli stessi anni[468].

Ora ben conosciuto è il caso del [M.] Mulviu[s—] domo Iudaeus [ne]gotians, grossista o banchiere, con 5 altri familiari o liberti che secondo F. Beutler e A. Konecny hanno seguito dopo la I guerra ebraica la legio XV Apollinaris a Carnuntum[469]: si tratta di un’espressione che non indica un’identità religiosa o etnica, ma semplicemente un’origo, una provenienza geografica, dalla Giudea a Canuntum[470].

Negli studi in onore di Mihai Bărbulescu si ricostruiscono le campagne di Traiano in Dacia, che avrebbero coinvolto 30.000 effettivi per G. Cupcea e F. Marcu[471]. È stata studiata la partecipazione di truppe ausiliarie dalla Mesia alle guerre daciche. Conosciamo il reclutamento di Daci nell’esercito di Traiano[472] e la partecipazione di truppe della Dacia alla spedizione di Traiano contro i Parti: legio I Adiutrix, vexillatio della legio XIIII Gemina, tre alae, una coorte[473].

Un diploma del I marzo 152 rinvenuto a Wels, Ovilava nel Norico, ci informa su tre alae dell’esercito del Norico che hanno partecipato con singole vexillationes alle operazioni di Antonino Pio contro i Mauri[474].

Un praepositus vexillationis dell’esercito della Mesia sembra esser stato a capo del contingente che accompagnò Severo Alessandro dal Danubio contro i Persiani nel 233[475]; l’esercito della Dacia ha partecipato alle campagne di Gordiano III e di Valeriano in Oriente[476].

Da Preslav in Mesia C.C. Petolescu presenta un nuovo ampio commento dell’epigrafe che ricorda un tiro, arruolato nel 210 per il bellum Bosporanum, sano e salvo multis periculis in barbarico liberatus, forse con riferimento alle razzie di Goti sconfitti dagli eserciti romani assieme a Rescuporide III alla foce del Danubio[477].

L’aspetto più significativo è rappresentato dall’origo orientale di molti soldati. La testimonianza più antica (25 d.C.) da Hardomilje in Dalmazia è studiata da R. Dodig e riguarda un Valerius ve(teranus) leg(ionis) VII, domo Icon(io), oggi Konya in Turchia[478] o un veteranus domo Sinope dal Ponto[479]: nella legione VII tra le altre dieci iscrizioni di soldati fin qui note, ben 7 ricordano legionari dalle province orientali. Wilkes ha affrontato il tema delle origini e relazioni familiari dei veterani installati in Dalmazia in epoca giulio-claudia[480].

Se passiamo alle altre coorti ausiliarie, a Salona I. Matijević pubblica l’epitafio di C. Iulius Mara veter(anus) coh(ortis) II Cyrrestar(um), domo Berea, originario di Berea in Siria alla metà del I secolo[481], come il commilitone di Burnum[482]. La coorte reclutata da Augusto fu inviata durante la rivolta in Illirico.

Da Sotin (Cornacum) proviene il diploma del 6 dicembre 157 concesso all’ex [ped]ite Valerius Mar[c]i f. Fronto, Anaz(arbus), originario dalla Cilicia[483].

J. Beszédes presenta il reclutamento della legio X Gemina di stanza a Carnuntum alla metà del I secolo d.C., a proposito del dilectus citato da Tacito (Ann., 16, 13) in Gallia Narbonese; altri soldati sembrano arruolati nel 65 in Illiria, Africa e Asia[484].

In Mesia, a Storgosia (Pelovo), Severo raddoppia il numero degli equites singulares alloggiati nei castra priora e castra nova. Il beneficiario del diploma del 13 marzo 205 rinvenuto a Pelovo è l’eques singularis C. Valerius Dolentis fil. Valens originario di Serdica in Tracia[485]. Due anni dopo, il 20 ottobre 207, viene congedato un altro eques singularis M. Valerius M. fil. Apolli[naris] Antiochia ex Syria[486]. Ancora da località incerta della Mesia Inferiore (tra i fiumi Iskar e Ogosta) provengno due altri diplomi relativi ad ausiliari[487]; al 14 giugno 92 risale il diploma di Cataloi (dipartimento di Tulcea) dell’età di Domiziano, relativo ad un eques della cohors VII Gallorum, Macrionus Acresionis f. Apamen(us), con i figli Macer, Saturninus e Augusta[488].

A Novae oggi Svišhtov J. Kolendo ha pubblicato l’epitafio di un soldato di origine ispana da Clunia, ora studiato da S. Perea Yébenez, che legge: legio I (prima) I(talica) F. R., con una titolatura inconsueta nel corso della guerra civile successiva alla morte di Nerone[489] . Si tratta della stele del soldato originario di Clunia che ha servito in una coorte ausiliaria prima di essere attribuito alla legio I Italica. Segue l’elenco degli ausiliari di Clunia e sul trasferimento dagli auxilia in legione nella guerra civile 68-69.

 

14. Miniere e dogane.

In Dalmazia a partire dall’età augustea le miniere di oro e di ferro e le saline, controllate da procuratori imperiali, risultano in piena attività. La riscossione dell’imposta fondiaria (il tributum soli) era affidata al locale procurator fisci. L’imposta doganale era riscossa nell’ambito delle stazioni adriatiche del publicum portorii Illyrici, che comprendeva un distretto molto ampio, fino al Norico, alla Pannonia, alla Mesia ed alla Tracia. L’unitarietà del territorio balcanico emerge dai lavori di Claudio Zaccaria indirizzati a ricostruire il sistema doganale romano, il complesso sviluppo dei portoria (da Aquileia all’Illyricum) fondati su stationes, sui portitores, sui porti[490]. Cinque iscrizioni studiate da M. Hainzmann ci fanno conoscere lo schiavo Fortunatus, poi liberto, incaricato della riscossione dei diritti doganali alle frontiere del Norico come contrascriptor e vilicus per 15 anni sotto M. Aurelio: il personaggio appare alle dipendenze del conductor publici portorii, del conductor ferrariarum, del praefectus vehiculorum et conductor publici portorii, e di altri funzionari imperiali, a meno che non si tratti di persone diverse[491].

Da un punto di vista fiscale il Norico rientrava nel publicum portorii Illyrici, una circoscrizione doganale che terminava al confine con la Rezia, dove si iniziava a riscuotere la quadragesima Galliarum. Proprio Zaccaria ha di recente commentato la dedica a Mitra da Camporosso in Valcanale (Saifnitz im Kanaltal) effettuata ex voto da un Telesphorus C. Antoni Rufi servus, publici portorii vilicus; proprio a Camporosso si ipotizza una stazione del publicum portorii Illyrici, la Statio Bilachiniensis. Il patrono di Telesphorus, C. Antonius Rufus, conductor della circoscrizione doganale, poi procurator publici portorii Illyrici verso il 174 d.C.,  praefectus vehiculorum, è ben conosciuto[492]. La Statio Enensis (a Mühlthal am Inn) del publicum portorii Illyrici in Norico sulla riva destra dell’Inn è nota anche per la dedica alla metà del II secolo di un Mitreo, con iscrizioni collocate da schiavi vic(arii) di un conductor e di un vil(icus) imperiale[493].  Ad Aquincum in Pannonia Inferiore è stato ritrovato cinquanta anni fa un sigillo in bronzo che attesta il pagamento della tassa sulla liberazione degli schiavi, con l’indicazione della circoscrizione territoriale: P(ublicum) XX lib(ertatis) (per) Raet(iam) Nor(icum) Dalm(atiam) Pan(n)oni(as) II, Concord(iam) Aq(uileiam) Histr(iam) Lib(urniam) anno III[494].

Emerge un mondo di scambi e di commerci animato da tanti protagonisti; è documentata una notevole presenza di negotiatores, impegnati in vivaci scambi commerciali verso Aquileia da un lato e con i territori transdanubiani dall’altro. Tutto ciò determinò una profonda romanizzazione delle città del Norico, dove sono attestati immigrati dalla pensola italica[495], mentre le campagne ed in particolare le vallate dell’interno mantennero tradizioni locali ed una cultura ancestrale, che sopravvisse per tutta l’età imperiale e che ebbe specifiche manifestazioni nella sfera religiosa. L’interesse del territorio, oltre che militare, fu soprattutto economico, legato allo sviluppo dell’attività mineraria (ferro, piombo, salgemma) affidata ad un procuratore apposito, che controllava le società di conductores. Conosciamo a Tiffen in Carinzia un immunis e un frumentarius impiegati nell’amministrazione delle miniere tra Caracalla e Massimino il Trace, 211-235[496] ed uno schiavo del conductor ferrariarum Noricarum[497].

Alcune novità possediamo sulle miniere in Pannonia: a Bölcske T. Karinius Iuliacen[sis domo] Arelate ex provin[cia] Narbonensi b(ene)f(iciarius) co(n)s(ularis) leg. II Ad(iutricis) p(iae) f(idelis) il 23 maggio 191 dichiara orgogliosamente il suo cursus honorum, a cavallo tra funzioni amministrative e funzioni militari nel campo di Acimincum, che sembra iniziare con la responsabilità sugli argentaria Pannonica et Delmatica: sta[ti]ones habui arg(entariarum) Pan(nonicarum) et Del(maticarum) [498].

S. Dušanić presenta un altare dedicato a Giove trovato presso il ponte sul fiume Dravus, ad Osijek, dove si menziona la statio del procuratore delle miniere unite e non di due stationes distinte: si tratta di una dedica I.O.M. [p]ro salute C. Iul(ii) Agathopi c(onductoris) f(errariarum) Pannoniar(um) itemq(ue) provinciar(um) transmarinar(um), posta dall’ark(arius) Gamicus, intendendosi per province trasmarine quelle del Ponto e della Bitinia[499].

Dopo la pubblicazione del volume di S. Dušanić sull’esercito e le miniere in Mesia Superiore[500], sappiamo dell’importazione nella stessa provincia a Viminacium di pesi in piombo dal Ponto e dalla Bitinia nel 236 nell’età di Massimino il Trace, sotto il governatore L. Ranius Optatus[501]. Le legioni di Singidunum e Viminacium erano incaricate di proteggere i distretti minerari. A Scupi (Skopje in Macedonia) conosciamo un coactor argentarius agli inizi III sec.[502]; in un epitafio è citato un Ennius Silo proc(uraror) vilicus argentariarum Dardanicarum[503].

Compresa nel publicum portorii Illyrici, la Pannonia (come la Mesia e la Dalmazia e più tardi anche la Dacia) poteva contare su una serie di stazioni doganali che immettevano in Italia partendo dal Danubio. Il distretto doganale si estese poi in Dacia: da Porolissum proviene l’altare dedicato I.O.M. pro salute di M. Aurelio e Commodo et Genio p(ublici) p(ortorii) vectigal(is) Illyr(ici) procurante Pompeio Longo proc(uratore) Aug(usti) per opera di un vilicus, tra il 175 e il 177[504]; analogo il caso dei vilici di Ampelum studiato da I. Piso[505].

Da Ad Mediam, L. Mihăilescu-Bîrliba ha studiato la dedica effettuata il 10 dicembre 157 ad Ercole Augusto, da un Felix, schiavo di un Iulius Saturninus c(onductor) p(ublici) p(ortorii) t(ertiae) p(artis) ex priv(atis) stationis Tsiernen(sis)[506].

In Dacia le miniere aurifere del bacino di Alburnus Maior (Roşia Montană) sono ora meglio conosciute grazie alle sette iscrizioni pubblicate da R. Ardevan e C. Crāciun che ricordano tra Traiano e Caracalla i Sardiates di Dalmazia, riuniti in un collegium Sardiatarum[507]. Dobbiamo a P. Damian il recente bilancio sulle ricerche nelle gallerie[508], che per Livio Zerbini sembrano rimaste in piena attività ben oltre le guerre contro i Marcomanni, almeno fino a Gordiano III[509]. Come è noto, C. Timoc aveva ipotizzato significative ripercussioni delle guerre marcomanniche, sulla base dell’ara di Ampelum dedicata alla [V]ictoria Commodi[510]. Sulla vita religiosa dei minatori è utile sempre ad Alburnus Maior la dedica Apollini Piruneno, epiclesi del fuoco delle miniere Apollo che protegge le aurariae nel II sec.[511]; ci sono noti diversi procuratori e praepositi delle aurariae, come quelli residenti ad Ampelum nell’età di Commodo[512].

Abbiamo vari documeti relativi all’importazione di metalli in Dacia: a Sarmizegetusa gli scavi del 1994 nel forum vetus hanno restituito lingotti studiati da I. Piso, con la scritta Imp(eratoris) Tr(aiani) me(talla) Ulp(iana) e C(oloniae) Ulp(iae) D(acicae) S(armizegetusae)[513]. Si tratta di un’importazione dai metalla Ulpiana della Mesia Superiore, di proprietà di Traiano. Proprio in Mesia Superiore, a Sočanica (Municipium Dardanorum), conoscimo i coloni arg[entariarum Dardanicarum] curante Thelesph[oro], un liberto imperiale che tra il 136 e il 137 fa ricordare l’eroe Antinoo[514].

L’amministrazione delle saline in Dacia è studiata da D. Benea, con attenzione per il ruolo dell’esercito e l’organizzazione degli appaltatori, i conductores pascui et salinarum[515]; informazioni ulteriori possediamo ora su Ursio servus actor verna, che ci è noto per la statua posta in onore del conductor salinarum, impegnato a Micia nelle miniere di sale in Dacia[516].

 

15. La vita religiosa.

Nelle province danubiane appare davvero pervasivo il culto di Giove (associato a Giunone Regina, Minerva e altri dei), i suoi riti (l’epulum Iovis) e con le dediche Iovi Optimo Maximo[517], con vari attributi: Aeterno, Cohortali[518], Conservatori[519], Paterno[520], Propulsori[521], Depulsori[522], forse Bussumarius[523]. A Crkvina in Serbia occidentale è stata effettuata la recente scoperta di un altare dedicato il 4 settembre di un anno del III secolo I.O.M. Ful(guratori) oppure Ful(minali) oppure Ful(minatori); la data coincide con l’inizio dei Ludi Romani[524]. Nella Mesia Superiore a Ratiaria (= Arčar, Vidin) ricorrono dediche I.O.M. Fulgurali[525]. In Dacia R. Ardevan riesamina l’altare perduto segnalato alla metà del XVI secolo presso Sarmizegetusa, con la dedica I(ovi) O(ptimo) M(aximo) [F]u[lg]ur[a]tor[i], offerto il 6 giugno 237 da due decuriones coloniae Aequi, uno dei quali è flam(en) aedil(is)[526]. Nel Lapidarium Savariense è conservato il puteale con l’espressione F(ulgur) d(ivum) c(onditum) del II secolo, ritrovato presso l’agger delle mura meridionale di Savaria, connesso con il culto di Giove[527]. L’attributo Culminalis a Petronell ha fatto pensare ad un dedicante originario del Sud del Norico[528]. Da Varvaria (oggi Bribirska Glavica) in Dalmazia, ci rimane la dedica di inizio I secolo d.C. Iovi Tan(aro), con epiclesi celtica[529]. Un importante studio di I. Piso è dedicato al santuario di Pfaffenberg presso Carnuntum e al culto di I(upiter) O(ptimus) M(aximus) Karnuntinus; significativa la data della prima inaugurazione del primo capitolium in Pannonia, un 11 giugno, giorno che coincide con la festività di Giove Teutanus del colle di Gellért ad Aquincum. Sono affrontati i temi dello statuto delle canabae intra leugam, cioè a breve distanza dal campo legionario, del collegio dei magistri montis, addetti al culto imperiale e di Giove Karnuntinus; dei cives delle canabae hanno un’associazione con al vertice quattro magistri montis[530]. Le dediche arrivano all’età di Giulia Domna, con l’incerta titolatura di [mater A]ug(ustorum) e di mat[er] cast[rorum], con il nome di Plautilla Augusta eraso[531]. Il tempio II di Pfaffenberg per M. Kandler in realtà sarebbe dedicato non alla triade capitolina ma a Iupiter Dolichenus[532] . Ancora a Carnuntum in Pannonia Superiore, Giove è venerato di frequente con l’attributo di Heliopol(itanus) Aug(ustus)[533]. Più precisamente a Bad Deutsch-Altenburg, nella parte orientale delle canabae, è stato individuato il temenos di Iupiter Optimus Maximus Heliopolitanus, con l’ex voto di un centurione della legione XIII G(emina) M(artia) V(ictrix)[534].

Un dio particolarmente venerato è poi Sivanus Domesticus[535], Silvanus Custos, Silvanus Antecessor (in quanto precede le Silvanae), Silvanus Silvester, talora associarto a Magula o alle Silvanae come a Carnuntum e a Siscia[536]; proprio a Carnuntum in Pannonia Superior, il piccolo santuario del Tiergarten secondo H. Stiglitz ha restituito nove altari, sei iscritti con ex voto a Giove, inoltre Silvano Domestico sacrum, Deo invicto, Dibus et Deabus, [Qua]drub(i)s et Silvani[s][537]. Ad Aquincum la dedica Silvano Sancto Pant(h)e[o][538] o anche Teo Silvano Domestico[539]. Per una visione di sintesi sul culto di Silvano nelle province danubiane, possediamo ora il recente volume di M.L. Dészpa[540]. I. Piso ha ripreso la dedica I(ovi) Optimo) M/aximo) et Silvano ceterisque dieis deab(u)sq(ue) Conservator(ibus) effettuata nella colonia Aurelia Napoca da un procuratore finanziario[541].  In parallelo si svolge il culto per le Matronae.

L’oppidum celtico di Lentia nel Norico (Linz) fu invece la sede del culto della dea Epona, che ritroviamo raramente in Dacia, ora studiato da T. Lobüscher[542]. Vd. anche in Pannonia Inferiore ad Aquincum la dedica Epon[ae] sacrum o Epone Reginae[543]. Altre divinità celtiche, come Taranis e Vocretanus sono documentate nel Norico (ma anche in Pannonia)[544]; forse allo stesso ambito appartiene l’Ollodeuos di Virunum in Norico[545]. Ma sui culti gallo-romani in Rezia e in Norico abbiamo ora l’ampio censimento di A. Forster[546].

Da Tragurium in Dalmazia (oggi Trogir) proviene la rara dedica Salaciae Aug(ustae), l’arcaica dea delle acque, studiata da D. Demicheli; uno studio frontale sulla dea, che andrebbe avvicinata al dio Salaecus di Cartagena[547] e testimonierebbe un impegno diretto degli imperatori del III secolo per una rivitalizzazione dei culti più arcaici in Illirico, si deve a G. Alföldy [548].

Un altare fu eretto ad Ercole, eponimo del Pagus Herculius a Budaörs in Pannonia Inferiore, da parte degli abitanti di alcuni vici, uno dei quali quello degli Anar[tii] della pianura ungherese[549]; analoga una dedica Terr(a)e Matri per la salvezza dei Filippi tra il 247 e il 248[550]. Proprio a Budaörs Z. Mráv ha studiato la nuova dedica Herculi Aug(usto) da parte di IIvir coloniae Aquincensium [551], che conoscevamo per un’altra dedica a Terra Mater[552]. In Pannonia Superiore a Scarbantia una dedica Herculi Aug(usto) fu effettuata da un M. Sat(ellius) Eros, con un raro gentilizio che compare anche in un altare ancora inedito[553]. In Dacia a Gherla, è il legato provinciale dell’età di Commodo Marc(us) Veracilius Verus a effettuare una dedica Herculi sancto, per iniziativa di Tannon(ius) Maximus pr(a)ef(ectus) eq(uitum)[554]; ad ambiente militare rimanda la dedica Herculi di Gilău, effettuata dall’eq(ues) Apro[555]. Sempre in Dacia, ad Alba Iulia, a breve distanza dalle mura della Colonia Aurelia Apulensis fu consacrata all’inizio del III secolo l’ara Terrae matr(i) da un liberto Augustalis che aveva ottenuto gli ornamenta dec(urionalia) col(oniae Apul(ensis)[556]; lo stesso personaggio compare con una seconda ara nel santuario di Asclepio[557].

Il contatto con il culto imperiale è ampiamente documentato ad es. dalle dediche dis deabusq(ue) Genioque loci, come quella per la salvezza di Gallieno in[v]ictus per iniziativa del legato della Pannonia Inferiore M. Aur(elius) Valentinianus[558]. Á. Szabó e B. Lőrincz presentano la dedica effettuata ad Aquincum da un legato imperiale ad un dio Augusto ceterisque dis huisque loci[559].

Ad Aquincum esisteva un un tempio di Ercole, restaurato a fundamentis nel corso del 216, come risulta dalla dedica He[rculi Aug(usto)], invocato per la salvezza e l’incolumità di Caracalla (con il cognome di Severus) e Giulia Domna. E come è noto Ercole è il genius loci di Leptis Magna assieme a Liber Pater[560].

Non è possibile citare per esteso le altre divinità: Liber Pater[561], Libera, Venus, Nettuno, Ade, Persefone, Proserpina, Plutone[562], Giano Gemino, Mercurio con i suoi cultores[563], Fortuna Respiciens, Marte Gradivus e Ultor: ad Aquincum Mars ultor è associato al Genius Augusti[564]; i m(agistri) m(artiales) sono frequenti in Dalmazia, a Vid-Narona, secondo M. Mayer, assieme ai VIviri Aug(ustales)[565]. Si veda anche la dedica Marti Victoriae Fortunae Red(uci) posta dal legato della Pannonia Inferiore per la salvezza dei Filippi durante la spedizione del 247 contro i Carpi[566]. Le dediche a Marte di difficile interpretazione sono state discusse da M. Hainzmann, come quella di Seggauberg nel Norico (Flavia Solva) con i dativi: Marti Latobio Marmogio Sinati Toutati Mog[et]io, in un ex voto. Non si tratteberebbe propiamente di sei distinti tenonimi, ma vengono associati alcuni dei e i loro rari epiteti, con possibili diverse varianti[567]. Il culto del Marte celtico in Dacia è studiato in un articolo di R. Ciobanu[568]. Vd. anche l’unica dedica conosciuta in Dacia Marti Toutatico effettuata ex voto nel municipium Aurelium Apulense (colonia di Commodo, oggi Alba Iulia) da C. Valerius Hermes[569]. Infine un Mars Campester di origine celtica associato ad Epona è venerato in Mesia Superiore[570].

Il ruolo dei santuari di Apollo e Diana a Montana in Mesia Inferiore appare nella singolare dedica effettuata nel 161 d.C. dal legato della legione I Italica, con un riferimento all’insula vagans, l’isola sacra di Delos[571]. A Potaissa (oggi Turda) significativo il compleso monumento dedicato forse a Deo For[ti Phoebo Apollini Parthico] per la salvezza dell’imperatore e di un sacerdos III Daciarum: S. Nemeti ha avvicinato il dio a quell’ Azizos, il cui tempio proprio a Potaissa fu inaugurato attorno al 257: ancora una volta si sottolinea il contatto con il culto imperiale organizzato in un concilium provinciae che appare perfettamente vitale nella seconda metà del III secolo[572]. In Mesia Inferiore a Krivina (Iatrus) segnalerei l’ara con dedica Apollini Auluzelo effettuata da T. Salvius Chresimus ex imperi(o) p(osuit), con la raffigurazione di un cavaliere trace; l’epigrafe è a destra e sinistra della gamba del cavallo. Non sappiamo come intendere l’epiteto Apollo Aulezelus, davvero un unicum, da confrontare con Aulusademus, Aulosades, Aularchenus[573].

La dedica quattuor ventis et Bono Ev[e]ntus è studita in Mesia inferior da P. Lungarova[574], che ha descritto il variegato culto dei Genii in Bulgaria, con riferimento al Genius provinciae, ai Genii delle unità militari, ai Genii loci[575]. A Szombathely è stata rinvenuta la rara dedica Diis itin[erariis] meglio itine[ris] utriusque viae, nel senso di andata (itus) e ritorno (reditus)[576].

Nella regione danubiana sono frequenti le dediche Domino, connesse con il culto di una dea lunare e di un dio o eroe solare illirico vicino al cavaliere danubiano[577]. Il cavaliere trace con la lira compare spesso in Dacia: non si tratta di un culto indigeno, ma introdotto da coloni arrivati dalla riva destra del Danubio. di Oppermann, con omissioni, ora ripreso in questa sede da Enio Biondi di Besançon[578]. A Szombathely una dedica Ituno e[t] Itunae, ex voto di un Quartus e di una Fl(avia) Iulia[579]. A Parndorf nel Burgenland in Pannonia Superiore, sulla c.d. via dell’ambra, abbiamo la dedica Nutri[ci(bus)] finora attestate solo a Poetovio[580].

In quello che è il primo documento di Belenus in Slovenia, conosciamo questo dio onorato a Celeia (Spodnji Grad) nel Norico da L. Sentius Forensis di Aquileia[581]. Un dio locale potrebbe essere il Mibricus evocato dall’ala I Scu(b)ulorum in Stiria, a Wildbald Einöd[582]. Unica è la dedica alla dea greca Ananca per un voto effettuato dal padre per la salute del figlio Val(erius) Licinianus a Doclea in Montenegro[583].  Ercole Augusto è menzionato a Sankt Michael am Zollfeld, Herculi Aug., in una dedica effettuata da Gemellus Biraconi(s f.)[584].

A Tiffen nel distretto di Feldkirchen in Carinzia, alla fine dell’età severiana possiediamo la prima attestazione delle dee Senae, divinità collettive analoghe a divinità femminili della Britannia: la dedica Sena[bos] Aug(ustis) è stata effettuata nella prima metà del III secolo da C. [—] Firmi[nus] imm(unis) li[br(arius) leg(ionis)] II Ital(icae) [p(iae) f(idelis) Sev(erianae)] et Cl(audius) Se[cundus fr]um(entarius), impiegati nell’amministrazione delle miniere del Norico[585].

Il tempio di Fortuna nella colonia di Oescus in Mesia Inferiore (oggi Gigen) è stato scavato da T. Ivanov[586]. Da Topusko in Croazia proviene la dedica di un altare alla Fortun(a) Aug(usta), effettuata da Domitia Pusilla, forse liberta di un militare originario della Mesia Inferiore, imparentato con il centurione della legio XIV Gemina noto per aver innalzato un tempio alla stessa dea a Aquae Iasae[587].

A Glamnik, in Kosovo presentano la dedica Deae Dard(anicae), posta da un b(ene)f(iciarius) co(n)s(ularis) leg(ionis) IIII Fl[aviae] nel corso del III secolo[588]. Per la salvezza dei Severi sono collocate le are Dis deabusque Campestribus[589].

Se passiamo alla vita religiosa, nel Norico[590], arricchita dal recente studio di R. Wedenig sui graffiti su oggetti di culto che menzionano dediche alle divinità[591], la dea madre che personificava la provincia è rappresentata da Noreia, studiata da P. Scherrer[592]; importanti risultati provengono dagli scavi nel santuario di Iside Noreia ad Hohenstein in Carinzia e dagli scavi effettuati da H. Dolenz in territorio di Virunum in Norico, presso l’anfiteatro di St. Michael am Zollfeld, Maria Saal, nel riempimento costantiniano, che hanno messo in luce il santuario di Nemesi entro l’anfiteatro costruito da Adriano, restaurato da Commodo, rifatto dopo un incendio da Settimio Severo[593]. Ci rimane il ricordo dei lavori di restauro e le dediche pro salute dei Severi da parte di C. Mar(ius) Luc[ani]us Max[imianus IIvir] i(ure) d(icundo) muros amp[hiteatri] tectorio oper[e renovavit] et picturis [exornavit], con una rara erasione del nome di Caracalla[594]. Egli ha fatto rifare l’opus tectorium, il rivestimento in stucco dei muri dell’anfiteatro con pitture murali tra il 198 e il 199, lavori ripetuti verso il 230[595]. Conosciamo pure il padre Priscus, anch’egli un IIvir e la madre Cominia Q.f. Celsinio[596]. Il 15 marzo 237 C. Cassius Honoratus per la salvezza di Massimino il Trace e di suo figlio dedicano le opere effettuate: murum longitudinis p(edum) XXXX ruina conlapsum a solo restituit et podium amphit(h)eatri opere tectorio cum pictura muneris sui exornavit et portam novam fecit[597]. Sempre dal Nemeseum di Virunum provengono gli altari di fine II secolo Nemesi Augustae sacrum collocati da parte di un [Mar]tialis [ve]nator, cacciatore nell’ambito delle venationes[598]. Al secolo successivo si riferiscono le dediche Nemesi Reginae Augustae e agli dei Campestres, divinità protettrici degli equites singulares e dei cavalieri della prima ala di Traci[599]. Gli altari del santuario di Nemesi furono salvati, nascosti in età costantiniana, protetti e coperti di terra[600]. Possediamo ora una lista di I. Weber-Hiden delle dediche a Diana Nemesis Augusta a Carnuntum[601].

Ancora a Virunum, H. Dolenz ha pubblicato le iscrizioni del santuario di Ercole Augusto, che ricordano offerte anche alla dea Rosmerta[602]. Sulla riva destra della Sava presso Podkraj nel Norico, rimangono i resti del santuario delle divinità fluviali Savus e Adsalluta, che M. Šašel Kos ha collegato al culto di Magna Mater[603].

Da Bedaium in Baviera M. Hainzmann presenta undici altari votivi del dio Bedaios, talora associato alle Alounae, dee madri, nel corso del II-III secolo d.C, culti apparentemente introdotti nel Norico dai Romani[604]. Il dio Aesus è documentato nell’iscrizione votiva di Dellach in Carinzia su una statuetta di bronzo offerta a Aesus da Adginnos Vercombogi filius [605].

A Ratiaria in Mesia Superiore, una dedica Deae Placidae fu effettuata nel II secolo da un Ael(ius) Heculanus lapida(rius)[606].

A Sarmizegetusa in Dacia esisteva un tempio dedicato Dis Maiorib(us) Domno et Domnae, distrutto nell’età di Marco Aurelio, durante l’attacco di Sarmati[607].

A parte i numerosi culti salutari di Diana (pure invocata come dea degli inferi)[608], Asclepio, Hygia, Ninfe[609], se in questa sede ci concentriamo sui culti orientali, abbiamo numerose dediche Deo invicto Mithrae, come quella da Akmačići, regione di Zlatar in Serbia occidentale Invicto S(oli) M(itrhae) O(mnipotenti)[610]. Il culto di Mitra in Pannonia è stato studiato frontalmente da I. Tóth[611], che si sofferma sulle sue origini e specificità, sull’iconografia e sacerdoti mystes di Intercisa. Lo stesso autore ha presentato il Mitreo di Fertőrákos nel territrorio di Scarbantia (oggi Sopron)[612]. Il culto di Mitra in Mesia Inferiore è affrontato da V. Bottez, con riferimento ai mithraea e ai gradi d’iniziazione[613].

Iside in Dalmazia è studiata da L. Bricault, in RICIS [614], associata talora a Serapide Magnus[615]. A Scarbantia ci rimane una rarissima dedica ad Osiride che si accompagna al culto di Iside all’inizio del II secolo: è recente la pubblicazione effettuata da G. Gabrieli di un’epigrafe incisa su una lastra di calcare scoperta a Sopron nel corso degli scavi del 1996, [Os]iri Aug(usto) effettuata dall’[Isi]dis sacerd(os) [P. ?] Domatius Ingenu(u)s[616]: si tratta di un commerciante originario della Dalmazia con interessi a Cipro, che praticava il rarissimo culto di Osiride tra il I e il II secolo, con rapporti col mondo egiziano[617]. Possediamo un unico altro confronto nell’impero, a Colonia, in un testo dedicato Deo Osiri pubblicato nel 1987[618]. Rarissimo nelle province danubiane e nell’impero[619] è anche il culto della dea egizia Bubastis, come ancora a Sopron (Scarbantia)[620], testimoniato dalle epigrafi del santuario di Iside[621]. A Smiljanovac in Dalmazia un bambino di nove anni, Aur(elius) Satrius (sepolto assieme alla sorella di sei anni Aur(elia) Maxima), è rappresentato sull’acroterio di un coperchio di un sarcofago mentre riceve l’iniziazione isiaca[622]. M. Bărbulescu ha studiato complessivamente i culti egizi a Potaissa in Dacia, oggi Turda, attraverso i monumenti e le iscrizioni[623]. Dubbio è il caso della dedica al dio egizio Toth (Deo Totovitioni) effettuata da un soldato della legio IIII Fl(avia) catara(tarum) stationis Dianae in Mesia superiore, forse con l’evocazione di un dio della Tracia[624].

Tra le divinità orientali si segnala a Salona nella collezione Matijević, in Varia Salonitana di Marsic e Matijević la dedica di un tempio Matri deum Magnae: aedem cognatio fecit ex nummis conlatis solo suo[625]. La vita religiosa in Mesia Inferiore si è arricchita con la scoperta a Balčik (Dionysopolis) nel 2007 della dedica Matri deum da parte dell’imperatore Licinio, nel tempio della Meter Theon Pontia: quod ex donariis in templo eius repertum est simulacrum argenteum numini eius in libris septem et uncis octo fieri iussit et consecrari, con l’intervento del preside della Scizia il perfettissimo Aurelius Speratianus, che si occupò materialmente della realizzazione della nuova statua argentea, che doveva sostituire quella perduta a seguito di un’incursione[626]. Nella stessa provincia soprende la vitalità dei culti geto-daci riflessi dall’onomastica studiata da D. Dana[627].

I culti orientali in Dacia sono studiati da J.R. Carbó García, che presenta un catalogo di ben 322 iscrizioni, riferite a 52 diverse divinità, con una prevalenza di dediche mitraiche[628]. I culti orientali in Dardania nell’impero sono illustrati nell’ articolo di Z. Mirdita[629].

Di grande interesse storico è la dedica rinvenuta a Székesfehérvár in Ungheria e proveniente da Gorsium piuttosto che dal castellum di Intercisa in Pannonia Inferiore (odierna Dunaújváros) al [Deo So]li Elagab[alo sac]r(um) per la salvezza di Severo, Caracalla, Geta Cesare, da parte dei [mil]ites cohort(is) I [(milliariae) Antonin(ae)] Hemesenorum[630], che anticipa al 198-199 sotto il governo in Pannonia Inferiore del legato Tiberius Claudius Claudianus l’arrivo da Emesa del culto del Dio Sole Elagabalo, ben prima delle numerose attestazioni del culto ad Intercisa successive alla visita della famiglia imperiale nelle province pannoniche nel 202 (HA, Sept. XV-XVII): solo in quella data il tribuno Q. Mod(ius) Q. f(ilius) Quirina Ru<f>inus edificò proprio ad Intercisa il tempio Deo [So]li Aelagabalo[631]; più tardi possediamo la dedica del 23 agosto 214, dopo la vittoria germanica di Caracalla effettuata deo patrio Soli Elagabalo[632]. Solo sotto il principato di Antonino Eliogabalo i soldati della legio I Adiutrix pongono a Brigetio in Pannonia Inferiore la dedica Deo Soli Alagabalo Ammudati, con un epiteto davvero singolare[633]. Ad Aquincum abbiamo varie dediche Soli Deo, Soli Soccio, Soli Socio sacrum per la salvezza di Elagabalo[634]. A Sarmigezetusa è significativa la dedica [Deo So]li inv[icto Belo —]? Mal[a]gbel(i) Hie[robolo deis Palmyrenis? ] per la salvezza di Severo Alessandro e Mamea tra il 222 ed il 235[635]; allo stesso periodo potrebbe risalire l’elenco dei cult[ores dei Solis ? Ma]lagb[eli][636]. I. Piso ha studiato il Forum vetus di Sarmizegetusa, con l’epigrafe che ricorda il tempio dei [Solis Ierh]abolis posta da un tribuno, per ricordare il dio di Palmira.[637]. Occorre sottolineare la prossimità del tempio al foro nuovo, dove si sono svolti gli scavi del primo Campidoglio della provincia Dacia costruito alla metà del II secolo[638]. Il contatto tra la Dacia e Palmira passa ovviamente attraverso le truppe, come testimoniano anche alcune iscrizioni bilingue (palmireno-latino) di Tibiscum[639].

A Svištov (Novae) N. Markov ha richiamato l’attenzione su una dedica I.O.M. Dolicheno ubi ferrum nascitur, una formula abituale per indicare il dio commageno, invocato nell’età di Adriano dal siriano P. Aelius Benivolus dec(urio) alae Commagenorum[640]. La prima menzione dell’ala nel campo di Tulln sul Danubio in Norico risale al 104 e all’età di Traiano, anche se sulla pietra il reparto riceve sotto Caracalla l’epiteto di Antoniniana (Comagenis)[641]. A Karataš (Cataractarum Diana) ci rimane la dedica I(ovi) O(ptimo) M(aximo) Dolicheno per la salvezza di Caracalla e Giulia Domna posta da L. Marius Perpetuus (Aurelianus) c(onsularis), governatore della Mesia Superiore sotto Caracalla tra il 212 e il 213[642]. Nella stessa provincia a Viminacium, V.P. Petrović ha studiato la dedica I.O.M. D(olicheno) effettuata nella prima metà del III secolo da Aur(elius) Iulianus Iuliani (filius) sac(erdos) eiusdem dei ex pr(ovincia) Syr(ia) Coel(e) reg(ione) Cyrr(h)ens(i) vico Capersina[643]. Secondo M. Popescu, il culto di Giove Dolicheno (documentato in Dacia presso le miniere nell’età di Settimio Severo)[644], sarebbe rinato sotto Gordiano, come testimoniano le iscrizioni di Ampelum, Samum, Certiae, Porolissum[645]. C.C. Petolescu ha studiato in particolare il rapporto tra i sacerdoti di Iupiter Dolichenus e l’esercito di Dacia a Drobeta, Apulum, Ampelum, Porolissum[646]. Proprio a Porolissum I. Piso ha riesaminato le iscrizioni del tempio di Giove Dolicheno: I(ovi) O(ptimo) M(aximo) [D(olicheno)] pro salute et [incolu]mitate di Gordiano III et coh(ortis) III Camp(estris) da parte di un IIIIvir m(unicipii) S(eptimii) P(orolissensis), di un veterano e di un decurione del municipio vegesi[m]a[r(ius)], percettore dell’imposta del 5%, la vigesima hereditatium: [t]emp[l(um) cum] tabernis (a)ere suo feceru[nt][647].

In Mesia Inferiore, a Novačene (Pleven) è documentato il culto del Draco, più precisamente a Glycon di Abonuteichos, nel corso del III secolo[648].

Ancora a Salona in Croazia dalla chiesa S. Nicola proviene un testo apparentemente neutro, che ripropone la regola aurea comune a tutte le tradizioni religiose, il rispetto per la sepoltura e la garanzia di securitas per il defunto: chi voglia violare questa tomba abbia la vendetta degli dei, [sepultu]ram si qui[s de]asciare voluerit, habe[at ir]ata numina: chiunque venerino, romani, giudei o cristiani, rispettino i Mani, in un periodo che va collocato nella prima metà del IV secolo[649].

A Salona un sarcofago del diacono, Flavius Iulius zaconus e di sua moglie Aurelia Ianuaria, datato con anno consolare al 2 novembre 358, ricorda la Aeclesia Salon(itana), beneficiaria dei possibili proventi derivanti dai violatori della tomba: si quis post nostram pausationem hoc sarcofagum aprire voluerit inferit aeclesiae Salon(itanae) argenti libras quinquaginta[650].

Per il cristianesimo, a Veliki Krčimir in Mesia Superiore ci rimangono brani di citazioni bibliche ed evangeliche in una lunga versione latina, un salmo da Girolamo, dalla Lettera ai Filippesi, dal Vangelo Matteo; il documento è stato collegato da V. Nedeljković alla costruzione della vicina basilica[651].

 

16. Le articolazioni e le festività del culto imperiale.

Come si è osservato in tutte le province romane il culto imperiale sembra procedere in simbiosi con i culti locali: così ad esempio in Rezia, se a Lauingen (Baviera) il legato imperiale [- Statil(ius) Dio]nysius dedica il [sigillum d]ei Apollinis Granni in onore di Elagabalo, sicuramente in connessione con le precedenti politiche del divus Magnus Antoninus[652].

Il culto di Roma e di Augusto in Dalmazia, nei tre conventus di Scardona, Salona e Narona, già a partire dall’età di Tiberio è studiato da I. Jadrić-Kučan: il culto del Divus Iulius ha incluso il culto della Dea Roma e poi si è travasato nel culto imperiale, con testimonianze monumentali molto risalenti a Pola, Oneum, Aequum, municipium Bistuensium, Doclea[653].

Gli ultimi tempi hanno visto un approfondito studio del culto imperiale in Dalmazia nel suo sviluppo fino alla piena età severiana, come dimostrato nel recentissimo volume su L’Augusteum di Narona, con gli Atti del Convegno promosso da Cinzia Bearzot e da Andrea Giardina presso l’Istituto Italiano per la Storia Antica a Roma il 31 maggio 2013[654]. Il culto imperiale a Salona è stato studiato da J. Jeličić-Radonić[655]. È da rettificare l’edizione della dedica cosmocratica di Klis, in territorio di Salona a Giuliano [vic]tori ac [trium]fatori t[otius]q(ue) orbis [Augusto], datata da D. Demicheli agli anni 361-3[656]. Molti Seviri augustales compaiono nel catalogo di 40 iscrizioni di Narona oggi Vid pubblicato da I. Rodá.[657]

Ad Epidaurum in Croazia (oggi Cavtat) P. Aelius Osillianus ottiene la cittadinanza da Adriano ed è onorato con statua con un decreto dell’ordo dei decurioni, pagata dalla madre e dalla nonna, che nell’occasione offrono sportulae ai decurioni, Augustales e seviri con uno spettacolo di pugilato, pugilum spectaculo[658].

La vita religiosa in Pannonia è studiata nel volume di Á. Szabó, che elenca la documentazione relativa ai sacerdotes, artistes, augures, flamines, pontifices, con attenzione per il culto imperiale e le assemblee provinciali[659]; a Szombathely ad esempio una rilettura del basamento della statua di Traiano, ha consentito di dimostrare che la dedica fu effettuata nell’ambito del culto imperiale dai [pont(ifices) a]ugur(es) sacer[dot(es) f]l(amines ?) ex colonia [S]avaria[660]. Conosciamo auguri cittadini come a Mursa in Croazia[661]. Il culto della Dea Roma secondo Á. Szabó sarebbe stato introdotto in Pannonia Inferiore molto tardi, nell’età di Caracalla, ad opera del XV vir sacris faciundis L. Cassius Marcellinus[662]. H. Zabehlicky ha studiato i santuari privati nelle Pannonie specie a Carnuntum[663].

Z. Mráv studia l’uso in onore degli imperatori, i patroni e le divinità che innalzano statue di cui ci rimangono le basi inscritte[664]; frequente l’associazione del culto imperiale e del culto di Iupiter, come nella dedica di Budakalász in Pannonia Inferiore, studiata da Á. Szabó, d riferire a Caracalla e Geta nel 211-212 d.C.[665]

Il culto imperiale nella Pannonia Inferiore è legato alla sede dell’Ara Augusti ad Aquincum-Budapest e non a Gorsium: conosciamo sacerdotes, sacerdotales, attività. D. Fishwick presenta un nuovo commento per la dedica dell’età di Caracalla che ricorda un dec(urio) col(oniae) Aquin(ci) it(em) dec(urio) m(unicip)i [Sin]g(idun)i IIvir flam(en) sacerdos arae Aug(ust)i n(ostri) p(rovinciae) P(annoniae) Infer(ioris) nymp(haeum) pec(unia) sua fecit et aquam induxit[666].

A Savaria conosciamo molte feste e appuntamenti del culto imperiale, durante i quali avveniva un’ampia distribuzione di crustula[667]. Proprio a Szombathely è attestato forse durante il regno congiunto di Caracalla e Geta un dec(urio) [c(oloniae) C(laudiae) Sav(ariae) (?), contemporaneamente dec(urio? c(oloniae) S(eptimiae) Karn(unti) [IIvir equo p]ublic(o) [sacerdos ar]ae Aug(ustorum duorum), onorato a quanto pare con una statua equestre dal [conc(ilium) provinc]iae P(annoniae) s(uperioris): ne risulta che il sacerdozio provinciale era tenuto da cavalieri, con il titolo di sacerdos provinciae e poi di sacerdos arae Augusti dopo Settimio Severo[668].

La dedica di Aquincum Concordiae Augg. Feliciter, normalmente riferita a Marco Aurelio e Lucio Vero (161-169), va più probabilmente attribuita a Caracalla e Geta tra il 211 e il 2012[669].

Il culto imperiale nelle Mesie è stato studiato da D. Aparaschivei, con attenzione ai flamini municipali[670], come a Viminacium, Oescus, Troesmis (municipio di Marco Aurelio e Commodo); anche assieme a sacerdotes provinciae e flaminicae[671]. Vd. anche V. Bottez, che ha studiato il culto imperiale in Mesia Inferiore durante i primi tre secoli[672].

Il culto imperiale è documentato a Ratiaria dall’epitafio di C. Iulius Tib. [f.] Saturnin[us], IIviral(is) col(loniae) Ra[ti(ariae)], flamini prim[o] municip(i) Aelian(i) sotto Adriano, quindi flamine anche nel municipio di Viminacium[673].

Gli Augustales della Pannonia e della Dacia sono studiati da L. Mihăilescu-Bîrliba, con riferimento specifico allo stato giuridico, prevalentemente libertino[674]. In particolare in Dacia conosciamo 119 Augustales, tutti immigrati; solo una decina di bambini potrebbero essere nati in Dacia[675].

 

17. Conclusioni.

Consentitemi in chiusura di esprimere l’ammirazione per le tante imprese internazionali in corso, per gli scavi e le indagini dalle quali ci aspettiamo veramente nuova luce su un mondo che amiamo davvero, fin dai tempi lontani del IX congresso AIEGL di Sofia nel 1987, in una Bulgaria tanto diversa da quella di oggi.

Concludendo vorrei per un attimo tornare indietro a due secoli fa e richiamare la colorita vicenda delle 17 iscrizioni della Dacia perdute nel 1723, sommerse nel Tibisco in piena a Seghedino, l’attuale Szeged in Ungheria al confine con la Serbia, nell’età di Carlo VI: una vicenda che qualche anno fa è stata ricostruita per noi da Gian Paolo Marchi e da Alfredo Buonopane, partendo dagli scavi di Weissenburg in Transilvania e dall’attività del capitano Giuseppe Ariosti, utilizzando il Codice dedicato Carolo VI, restitutori Daciarum e restauratori Pannoniae. Attraverso Ludovico Antonio Muratori e Scipione Maffei sappiamo in dettaglio della “disgrazia della barca affondata” e del salvataggio delle altre 46 lapidi, conservate oggi a Vienna nella Prunksaal dell’Österreichische Nationalbibliothek. La drammatica vicenda del naufragio nel fiume in piena ci racconta moltissimo della fragilità dei monumenti antichi, del rischio continuo di perdite irreparabili, della responsabilità di tutti noi, dell’impegno che dobbiamo garantire per la salvaguardia del patrimonio[676].

 


[1] A. Mastino, Conclusioni, in Roma e le province del Danubio, Atti del I Convegno Internazionale, Ferrara-Cento, 15-17 ottobre 2009, L. Zerbini ed., Catanzaro 2010, pp. 489-495 (vd. anche pp. 11-18 e AE 2010, 1106).

[2] Culti e religiosità nelle province danubiane. Atti del II Convegno internazionale (Ferrara, 20-22 novembre 2013), L. Zerbini ed., Bologna 2015. Sul tema, vd. Religion in public and private sphere: Acta of the 4th International Colloquium “The Autonomous Towns of Noricum and Pannonia”, I, Lazar ed., Koper 2011.

[3] Die Römischen Provinzen. Begriff und Gründung (Colloquium Cluj-Napoca, 2. September-1.Oktober 2006), I. Piso ed., Cluj-Napoca 2008.

[4] Una prima sintesi in R. Ardevan, L. Zerbini, La Dacia romana, Rubbettino, Catanzaro 2007; vd. poi C.C. Petolescu, Dacia. Un mileniu de istorie, Bucarest 2010. Ma dovremmo citare molti altri; per tutti desidero ricordare il volume donatomi in un’occasione ufficiale da M. Munteanu, Provincia Dacia: istorie politică şi numismatică, Editura Mediamira, Cluj-Napoca 2010. Particolarmente significaivi gli scavi condotti da alcune Università italiane: lasciatemi citare l’accordo di collaborazione tra l’Istituto di ricerche Eco-Museali di Tulcea e l’Università di Sassari per la città romana di Ibida o Libida in Scizia Minore.

[5] Vd. I. Piso, in La naissance de la ville dans l’Antiquité, M. Reddé, L. Dubois, D. Briquel, H. Lavagne, F. Queyrel edd. (De l’archéologie à l’histoire), Paris 2003, pp. 285-298. Per l’area del basso Danubio: AE 2010, 1107 (D. Aparaschivei).

[6] Vd. R. Cîrjan, Statute citadine privilegiate în provinciile dunărene ale Imperiului Roman (sec. I-III) (Bibliotheca Ephemeris Napocensis, 7), Cluj-Napoca 2010.

[7] Un quadro generale del rapporto tra esercito e urbanizzazione nell’insieme delle province danubiane è stato presentato in occasione del colloquio svoltosi ad Alba Iulia tra l’8 e il 10 ottobre 1999: Army and Urban Development in the Danubian Provinces of the Roman Empire (Bibliotheca Musei Apulensis, 15), H. Ciugudean, V. Moga edd., Alba Iulia 2000.

[8] Ad esempio in Mesia Superiore, vd. AE 2011, 1101 (D. Mladenović). Vd. già E. Mancini, L’evergetismo municipale in Dacia, in Roma e le province del Danubio cit., pp. 331-342.

[9] AE 1987, 867. Vd. ora 2011, 844 e 1120 (J. Kolendo).

[10] Premessa, in Limes, a cura di Giancarlo Susini, Bologna 1994, pp. 5-6.

[11] AE 2008, 1115 (P. Kovács). Per il limes della Pannonia inferiore vd. ora il quadro complessivo fornito da N. Gudea, AE 2013, 1250.

[12] AE 2009, 968.

[13] The Roman and Late Roman City: the International Conference, Veliko Tărnovo 26-30 July 2000, L. Ruseva-Slokoska, V. Dinchev edd., Sofia 2002.

[14] Roma sul Danubio. Da Aquileia a Carnuntum lungo la via dell’ambra, M. Buora, W. Jobst edd., Udine Roma 2002.

[15] Zwischen Region und Reich. Das Gebiet der oberen Donau im Imperium Romanum, P. Herz, P. Schmidt, O. Stoll edd. (Region im Umbruch, 3), Berlin 2010.

[16] Kulturaustausch und Wirtschaftsbeziehungen in den Donauprovinzen des römischen Kaiserreiches, con gli Atti del Convegno di Varna e Tulcea del 2008.

[17] Sul dibattito in corso da un decennio, vd. F. Buscemi, Processi di contatto e interazione culturale nel mondo romano, per un riesame delle posizioni teoriche, in Ricerche e attività del corso internazionalizzato di archeologia, Catania, Varsavia, Konya 2009-2012, P. Militello – M. Camera edd. (Syndesmoi 2), Palermo 2012, pp. 141-151. Restano convincenti le posizioni di G.A. Cecconi, Romanizzazione, diversità culturale, politicamente corretto, “Mefra”, 118,1, 2006, pp. 81-94.

[18] AE 2005, 1137; 2011, 947.

[19] AE 2012, 1054.

[20] P.es. AE 2007, 1211 in Ucraina (A. Ivantchik, O. Pogorelets, R. Savvov); AE 2012, 1188 (Sándorfalva, comitato di Csongrád) (G. Lassányi).

[21] AE 2010, 1239, Andautonia in Pannonia Superiore (I. Knezović). Vd. anche AE 2010, 1141 (M. Šašel Kos) e AE 2008, 1080 (F. Marco Simón, I. Rodà De Llanza).

[22] AE 2012, 1122 (A. Rendić-Miočević).

[23] AE 2011, 1007.  Per le divinità fluviali in Rezia e nel Norico, vd. AE 2013, 1165 (A. Forster).

[24] AE 2009, 988 (C. Farka) = 2010, 1142 (G.E. Thüry) = 2012, 1076 (M. Hainzmann, P. De Bernardo Stempel). L’ultimo commento è di E. M. Ruprechtsberger, Archaeologische Forschungen (1983-2014) im Nordwesten der Provinz Noricum, Linz 2015. M. Hainzmann e P. De Bernardo Stempel pensano ad una divinità fluviale (Iuvavus) associata a Giove, che ricalca il nome della città (Iuvavum), nella seconda metà del II secolo: analogo appare l’attuale rapporto oggi tra il toponimo della città di Salzburg e il nome del fiume Salzach. Per la toponomastica in Dacia Porolissensis, con specifico riferimento ai fiumi, vd. AE 2013, 1276 (D.-A. Deac).

[25] AE 2009, 1002.

[26] Vd. G. Alföldy, Dall’Adriatico al Danubio, L’Illirico nell’età greca e romana, Atti del Convegno internazionale Cividale del Friuli 25-27 settembre 2003 (I convegni della Fondazione Niccolò Canussio, 3), G. Urso ed., Pisa 2004, pp. 207-220.

[27] AE 2002, 1250.

[28] L. Mrozewicz, Palaeography of Latin Inscriptions from Novae (Lower Moesia) (Coll. The Poznan Society for the Advancement of the Arts and Sciences, Section of History and Social Sciences, Publications of the Historical Committee, 67), Poznán 2010. Vd. AE 2009, 1199, partendo da ILGNovae di J. Kolendo del 1997 (AE 1999, 1338); 2010, 1408-10.

[29] Ad es. a Brigetio in AE 2004, 1126 (L. Borhy), in Rezia in AE 2005, 1144 (C. Flügel, T. Schmidt, ma già A.U. Stylow), nel Magdalensberg in Norico in AE 2005, 1161-62 (G. Piccottini, H. Grassl); a Linz (Lentia) ancora nel Norico in AE 2005, 1180 (E.M. Ruprechtsberger); AE 2008, 993 (R. Wedenig); a Iuvavum in AE 2007, 1083 (A. Krammer), a Rannersdorf in AE 2007, 1080 (B. Schrettle, S. Tsironi) e a Frauenberg in Stiria in AE 2008, 1013 (I. Kitz); a Schölgen in Alta Austria in AE 2005, 1181 (E. Herzog); vd. anche AE 2006, 1059-71 a Carnuntum; 2008, 1027, Lauriacum in Norico (H. Nowak); 2002, 1077-79 = 2011, 847 e 2002, 1077 = 2011, 848 in Rezia (M. Scholz); sempre in Rezia, a Pförring in Baviera: AE 2012, 855 (H. Wolff).

[30] AE 2008, 1184, Novae in Mesia Inferiore: si tratta del restauro effettuato da Marco Aurelio e Commodo di un tempio [ve]tustate conlabsu[m] per iniziativa del governatore e del legato legionario (E. Bunsch, L. Mrozewicz). Per altri esempi di tituli picti sull’instrumentum, vd. ad esempio AE 2007, 1082, Iuvavum in Norico (G.E. Thüry); 2008, 1077, Buckneudorf in Pannonia Superiore (H. Zabehlicky). Per Novae: AE 2002, 1245.

[31] Ad es. in AE 2006, 947 (M. Vomer Gojković, V. Perko).

[32] Ad es. quelle di Carnuntum: AE 2012, 1131 (I. Weber-Hiden, E. Weber); quelle di Scupi in Mesia Superiore: M. Šašel Kos, A Glimpse into Stonecutters’ Workshops in Scupi, Upper Moesia, in L’officina epigrafica romana in ricordo di Giancarlo Susini, a cura di A. Donati, G. Poma (Epigrafia e antichità, 30), Faenza 2012, pp. 507-524. Per le arae e i picci della Liburnia: AE 2010, 1150 e 1151 (A. Kurilić).

[33] Un caso davvero straordinario è quello studiato da P. Kovács, da Aquincum, dove conosciamo un Clodius Celsinus, che effettua una dedica Marti Gradivo in occasione del suo viaggio presso la legio VII Cl(audia) effettuato ad eradendum nomen saevissimae dominationis degli h(ostes) p(ublici), probilmente Filippo l’Arabo e suo figlio nel 249, AE 2008, 1145; e l’erasione doveva essere effettuata [de vexillis et can]tabris. Per l’erasione su 11 iscrizioni di Novae, vd. AE 2010, 1411 (L. Mrozewicz). Un’erasione del nome del senatore Cn. Cornelius Lentulus Augur è documentata tra il 9 e il 6 a.C. a Callatis in Mesia Inferiore, AE 2013, 1341 (A. Avram, M. Ionescu).

[34] Ad esempio ad Intercisa in Pannonia Inferiore, AE 2010, 1274, con inesattezze nella titolatua di Commodo e in quella di Caracalla (Z. Mráv).

[35] Ad es. in Dacia: H.W. Müller, I. Piso, N. Schwaighofer, M. Benea, Der Marmor im Römischen Dakien, Cluj-Napoca 2012.

[36] AE 2003, 1536 (T. Ivanov), per il territorio della Mesia Inferiore.

[37] AE 2005, 1198 (D. Gabler, A. Márton). Per le Mesie: AE 2005, 1309. Vd. anche il lavoro di M. Matuszewska sui mattoni di Novae in Mesia Inferiore (AE 2006, 1204). Per la ceramica sigillata di importazione, in particolare vasi arretini ed italici, vd. Shkodra in Dalmazia in AE 2007, 1091 (B. Lahi). Per le figlinae imperiali in Pannonia, AE 2007, 1134, 1146-47 (B. Lőrincz). Per Faviana nel Norico: AE 2008, 1024 (I. Hackhofer). Per Locus Felicis oggi Wallsee in Bassa Austria conosciamo un soldato della cohors I Aureli(a) Brit(tonum) magister [fi]gulinae Loco [Felice] Sabinianae, in AE 2008, 1026 (H. Ubl). I bolli sui mattori delle fortificazioni della Dacia Ripensis: AE 2009, 969 (N. Gudea). Naturalmente imponente è il capitolo relativo ai bolli legionari, come a Lauriacum nel Norico per la legio II Italica, AE 2009, 992 (H. Ubl); in Dalmazia per la legio VII Claudia Pia Fidelis dopo il 42 d.C., AE 2011, 888 (D. Tončinić); a Trimammium in Mesia Inferiore per la legio I Italica, AE 2010, 1414 (S. Torbatov); oppure a Novae in AE 2011, 1122 (M. Duch), 1123 (P. Dyczek), 1124 (J. Kolendo, T. Kowal).

Si può passare alle lucernae: ad es. AE 2006, 1055, Carnuntum (I. Žundálek, B. Žundálekova); 2007, 1157, dal campo legionario di Carnuntum (G. Musil, C. Gugl, R. M. Mosser); da Vindobona in Pannonia Superiore in AE 2007, 1160-61, dell’età di Nerone e di Galba (B. Lőrincz). Per la Dacia: AE 2006, 1120 (D. Benea); per la Mesia Superiore: AE 2006, 1183 (A.N. Crnobrnja); per la Mesia Inferiore: AE 2009, 1195 (L. Oţa). Per il Norico: AE 2007, 1081 (A. Puhm, S. Tiefengraber). E poi i vetri, ad es. AE 2007, 1066, Rezia (A. Rottloff); le anfore: ad es. AE 2007, 1075, Rezia (P. Gamper); 2000, 1154-68 (G. Piccottini) e 2008, 1009 nel Magdalensberg in Norico (H. Dolenz): [o]lei Histric[i flos]; 2011, 892, Lissos in Dalmazia (B. Lahi). I mortai: ad es. AE 2007, 1135 in Pannonia (R. Mladoniczi). Le gemme e i cammei: ad es. a Lauriacum nel Norico, in Pannonia AE 2001, 1626 (A. Kovács in CIGP), a Brigetio, AE 2007, 1150-51 e nel Museo di Carnuntum AE 2011, 1002 (G. Dembski), a Intercisa AE 2013, 1270 a-c (T. Gesztelyi); infine in Dacia AE 2002, 1220 (S. Nemeti); gli anelli: ad es. AE 2007, 1150-53, Brigetio in Pannonia Superiore (L. Borhy). Per gli anelli, ad es. quelli conservati al Museo Nazionale Ungherese, vd. AE 2011, 950 (Á Szabó). Solo il III volume dei TitAq curato da B. Fehér contiene mezzo migliaio di bolli da Aquincum, vd. AE 2011, 1020-58; vd. anche 2013, 1261.

[38] AE 2000, 1868 = 2013, 1168 (S.F. Pfahl), Vallatum in Rezia.

[39] Ad es. AE 2013, 1183, Ovilava in Norico (G.E. Thüry): veni cito amica pia. Alcuni anelli hanno dediche a divinità, come nel caso della dedica Sil(vano) sanc(to) v(otum) PVT di AE 2013, 1222, Scarbantia (Z. Mráv); analogo il caso di AE 1979, 478.

[40] AE 2013, 1174, a-.c (G. Piccottini), Magdalensberg, età di Tiberio.

[41] M. Hainzmann, R. Wedenig, Testimonia Epigraphica Norica (TENOR), Instrumentum domesticum Austriae Superioris, Indices, Graz 2002; vd. AE 2002, 1997 e 2007, 1073. Vd. ora il magnum opus sulle 1123 tesserae iscritte di piombo provenienti da Siscia (Sisak in Croatia) in Pannonia superiore: I. Radman-Livaja, Tesere iz Siska. Olovne tesere iz Siscije / Plombs de Siscia: Tekst / Texte e Katalog / Catalogue (Musei Arch. Zagrabiensis Catalogi et Monographiae 9/1 e 9/2), Zagreb 2014.

[42] AE 2013, 1207 (L. Lučić).

[43] Ad es. AE 2004, 1555-56, Augusta Vindelicum in Rezia (U.Ehmig, B. Liou, L. Long).

[44] AE 2004, 1206, Alburnus Maior (I. Piso).

[45] Ad es. AE 2005, 1188, Salona (N. Gauthier), 1196 (M.T. Boatwright), Pannonia; AE 2006, 964, Norico (E. Pochmarski); 2009, 1182 (C. Ciongradi), per 110 monumenti funerari inscritti di Alburnus Maior in Dacia. Per Novae in Mesia inferiore vd. AE 2011, 1121 (J. Kolendo).

[46] Ad es. in Rezia, in Norico, nella Pannonia Superiore (AE 2007, 1061), in Alta Austria (AE 2008, 996 (C. Hemmers, S. Traxler), in Dacia, a Sarmizegetusa, AE 2005, 1297 (M. Mărgineanu-Cârstoiou, V. Apostol, Ş. Balici, C. Meşter).

[47] Ad es. a Celeia in AE 2007, 1079 (J. Visočnik).

[48] Vd. oltre i miliari di Settimio Severo del 201 riutilizzati da Caracalla nel 214, AE 2004, 1085 (M. Lovenjak).

[49] Ad es. AE 2004, 1130 e 2005, 1227 e 2008, 1092; 2011, 842 e 1003, Carnuntum; 2012, 1082, Traismauer (Augustianis), secondo E. Weber; 2008, 1092, Carnuntum, secondo P. Scherrer.

[50] A. Ştefănescu: doppi epigrafici in Dacia (Alburnus Maior, Samum, Micia, Apulum); vd. però V. Rădeanu in AE 2006, 1105.

[51] Ad es. L. Zerbini, Scritture latine nella Dacia romana. Status quaestionis e proposte di ricerca, in L’officina epigrafica romana cit., pp. 525-531.

[52] Ad es. h(ic) i(ille ?) s(itus) e(st), in AE 2003, 1344, in Pannonia (P. Kruschwitz).

[53] AE 2005, 1276 (D. Benea, I. Hica).

[54] P. Cugusi, M. T. Sblendorio Cugusi edd., Studi sui carmi epigrafici: Carmina latina epigraphica Pannonica, Pàtron Bologna 2007 (adde H. Grassl, AE 2010, 1263-64); Carmina Latina Epigraphica Moesica, Carmina latina epigraphica Thraciae, Pàtron Bologna 2008; Carmina Latina Epigraphica non-bücheleriani di Dalmatia (CLEDalm), Edizione e commento, con osservazioni sui carmi bücheleriani della provincia (Epigrafia e antichità, 36), Fratelli Lega, Faenza 2015. Vd. anche diversi interventi su singoli testi, come per l’epigramma di Noviodunum in Mesia Inferiore P. Cugusi, in Res Publica Litterarum. Studies in the Classical Tradition, 23, 2000 (In memory of Scevola Mariotti), pp. 73-103; il poema di Ratisbona (Castra Regina in Rezia) studiato da W. Pfaffel, in AE 2005, 1148 = 2006, 961 (P. Cugusi, M.T. Sblendorio Cugusi); vd. ora AE 2007, 1070 (O. Raith). Infine il poema della via delle tombe di Carnuntum in Pannonia Superiore, rivisto da H. Grassl, che ritiene riguardi un defunto di origine italica, un lixa (valletto dell’esercito), con il rammarico espresso a suo nome dai fratelli per la morte lontana dalla patria, nei primi tempi dell’occupazione romana (AE 2008, 1099 = 2009, 1049):

O utinam Italiae potius mea fata dedissent

quam premeret cineres barbara terra meos.

[55] AE 2008, 1168 = 1993, 1345 (J. Velaza).

[56] AE 2004, 1266 (S. Conrad).

[57] AE 2009, 1201 (V. Nedeljković).

[58] AE 2001, 1732.

[59] M. Mirković, Les inscriptions du Djerdap et la politique romaine sur le Danube de Tibère à Trajan, in Roma e le province del Danubio cit., p. 175-195.

[60] Ad es. Funeraria Daco-Romana, M. Bărbulescu ed., Cluj-Napoca 2003.

[61] Ad es. in Pannonia Inferiore, AE 2004, 1159 (Vereb, Comitato di Fejér): cui vita parva, mors valde citata fuit, quem flentes doleunt miserique parentes, per la morte dei tre piccoli figli di Septimia Decorata.

[62] Particolarmentre acuta l’analisi di R. Selinger sul vocabolario erotico in Pannonia Superiore: l’aggettivo Fututor di un epitafio di Carnuntum non sarebbe un indizio di rapporti omossessuali tra il medico defunto L. Iulius Optatus e il dedicante L. Iulius Faustus: forse solo un cognome, AE 2006, 1058. Viceversa esplicito contenuto erotico hanno le iscrizioni di Solva (oggi Esztergom in Pannonia Superiore), dove ci restano numerosi graffiti con l’espressione dal contenuto erotico: Pidico qui tacunt, AE 2008, 1083 (B. Lőrincz); analoga espressione da Dunakeszi (Pannonia Inferiore), raccolta da Z. Mráv: [Q]ui ta[gunt ?] pidi[co ?], AE 2011, 1059, IV secolo. A Lentia nel Norico conosciamo un [do]minus fartor, un allevatore che ingrassava i volatili, in un’epigrafe dal contenuto erotico, AE 2004, 1092 (G.E. Thüry). Infine l’espressione Dizzo Ebctasiaque atamo del valetudinarium del campo militare di Novae in Mesia Inferiore andrebbe intesa come una dichiarazione d’amore di un trace (Dizzo) verso una donna con nome greco (Euctasia), dove atamo è da intendersi adamo (sono innamorato), AE 2011, 1125, T. Płóciennik, J. Żelazowski. Per il Norico, vd. la fibula di Wels (Ovilava) in AE 2013, 1184 (S[pe]s [a]more si m[e am]as), con un repertorio delle iscrizioni analoghe della Rezia e delle Pannonie (G.E.Thüry). In Dalmazia,vd. le rappresentazioni di un fallo in un’iscrizione funeraria, ad es. in AE 2013, 1194, a-c, Salona (N. Cambi, I. Matijević).

[63] Un’anticipazione è in W. Eck, La loi municipale de Troesmis, Données juridiques et politiques d’une inscription récemment découverte, « Revue historique de droit français et étranger », 91,2, 2013, pp. 199-213. Vd. ora Id., in Integration in Rome and in the Roman World. Proceedings of the Tenth Workshop of the International Network Impact of Empire (Lille, June 23-25, 2011), G. De Kleijn, S. Benois edd., Leyda, Boston 2014, pp. 75-88; vd. AE 2013, 1345.

[64] AE 2013, 1307, Apulum (S. Armani). Per nepos/neptia, vd. AE 2007, 1201 = 2008, 1167 = 2013, 1311, Alburnus Maior (N. Mathieu).

[65] Vd. Epigraphica II. Mensa rotunda epigraphie Daciae Pannonicaeque. Papers of the 4th Hungarian Epigraphic Roundtable, Sarmizegetusa 24-26 ottobre 2003 (Hungarian Polis Studies, 11), G. Németh e I. Piso edd., Debrecen 2004.

[66] AE 2005, 1199; 2007, 1137 e 1139.

[67] AE 2013, 1321,

[68] E. Beu-Dachin, The Latin Language in the Inscriptions of Roman Dacia. Editura Mega, Cluj-Napoca, Romania, 2014.

[69] Ad es. in Scizia Minore, AE 2005 (A. Barnea) oppure in area pontica, AE 2012, 1279 e 2013, 1329 (A. Avram); per una prosopografia al femmiile in Mesia Inferiore, AE 2013, 1330 (R.-G. Curcă).

[70] AE 2006, 945 (L. Mihăilescu-Bîrliba); 2013, 1162 (I. Weber-Hiden).

[71] AE 2008, 986.

[72] AE 2004, 1048 (L. Mihăilescu-Bîrliba).

[73] AE 2002, 1217.

[74] AE 2006, 1141 (F. Beutler).

[75] AE 2004, 1186 (A. Stănescu).

[76] Vd. ad es. per il Norico A. Kakoschke, Die Personennamen in der römischen Provinz Noricum, Hildesheim, Zurich, New York 2012 (Alfa-Omega, Reihe A, 262). Per l’onomastica greca in Dacia, vd. AE 2013, 1275 (M. Dragostin).

[77] Ad es. in Dacia, AE 2005, 1281 (D. Dana); 2007, 1183 (R. Varga); in Mesia Inferiore, AE 2006, 1197 (R.G. Curcă); S. Loma ritiene che in Mesia Superiore l’onomastica sia prevalentemente dalmato-pannonica: AE 2010, 1395. Per la trasmissione dei gentilizi in Rezia, nel Norico e nelle Pannonie: AE 2006, 944 (N.G. Brancato). I nomi preromani in Norico: A. Kakoschke, Die Personennamen in der römischen Provinz Noricum (Alpha-Omega, Reihe A, 262), Hildesheim, Zürich, New York 2012; vd. AE 2004, 1090 (J. Stern). Per la Rezia, vd. AE 2010, 1113 (A. Kakoschke). Per i nomi celtici: AE 2005, 1195 (W. Meid); integrazioni di G. Alföldy in AE 2002, 11745. Vd. anche AE 2004, 1120 (D. Stifter), AE 2012, 1192 (M. Dragostin). Per la Dalmazia sud-orientale e la Dardania, vd. AE 2007, 1060 (M. Mirković). Per il conventus Naronitanus in Dalmazia, vd. AE 2011, 920 (R. Comes). Per l’onomastica femminile in Liburnia, AE 2008, 1032 (A. Kurilić). Naturalmente sono state studiate singole città, come Celeia, AE 2010, 1140 (J. Visočnik). Mi piace citare in questa sede il rarissimo cognome Matera: Aur(elia) Matera di AE 2004, 1169 documentato a Várpalota in agro Poetovionensi, da avvicinare alla Ulp(ia) Matera di ILJug. 164 da Príjedor in Bosnia e alla Matera di Turris Libisonis in Sardegna (AE 2002, 632, F. Manconi; 2005, 689, A. Mastino; P. Ruggeri, in Isole e terraferma nel primo cristianesimo, XI Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana, Roma 2015, p. 529). I nomi geografici in Pannonia: P. Anreiter, Die vorrömischen Namen Pannoniens (Archaeolingua, Serie Minor, 16), Budapest 2001.

[78] Vd. AE 2011, 843 (B. Rossignol).

[79] Per le gemme magiche della Dacia, vd. AE 2002, 1220 (S. Nemeti); altri testi magici dalla Dacia e dalla Mesia Inferiore in AE 2013, 1277 (S. Nemeti); vd. anche AE 2013, 1260, Aquincum (B. Fehér).

[80] Ad es. in Pannonia: AE 2007, 1136 (P. Zsidi, G. Németh). Ad Aquincum conosciamo in età severiana un Marc(ius ?) Marcellus, med(icus), in una dedica di un ex voto ad Esculapio ed Hygia, AE 2008, 1123 (Á. Szabó); vd. anche AE 2009, 1169. Per i medici della Mesia Inferiore, vd. AE 2010, 1407 (D. Aparaschivei) e 2013, 1322 (D. Grbić, S. Drča): quest’ultima ricorda un medico della cohors I Dardanorum in una dedica Asclepio Hygia in età severiana (si noti la rara reincisione di titoli imperiali di Caracalla sul nome di Geta eraso).

[81] Ad es. AE 2009, 1169, Aquincum (A. Barta, G. Lassányi); ad Abusina in Rezia, AE 2011, 860 (B. Steidl); ad Apulum in Dacia, AE 2013, 1308 (G.V. Bounegru, G. Németh, S. Nemeti). È stata effettuata una revisione di una complessa defixio proveniente da Sisak in Pannonia Superiore, riferibile all’età di Traiano, dove si invoca il dio-fiume Savus, assiene a Muta Tagita, certamente la più nota Tacita Muta della tradizione laziale, con l’invito a ridurre al silenzio gli avversari odiati (AE 2008, 1080, F. Marco Simón, I. Rodà De Llanza).

[82] Ad es. AE 2008, 1181, per la popolazione femminile della Mesia Inferiore (V. Piftor).

[83] AE 2009, 1212 (O. Bounegru). Vd. ora F. Matei-Popescu, in Poleis în Marea Neagră. Relaţii interpontice şi producţii locale, Atti del colloquiio di Bucarest del 27-28 settembre 2012, F. Panait-Bîrzescu, I.. Bîrzescu, F. Matei-Popescu, A. Robu edd., Bucarest 2013, pp. 202-233.

[84] Ad esempio nel Norico, a Feldkirchen an der Saalach, AE 2006, 991 (G.E. Thüry): un tinctor.

[85] Ad es. sul Danubio, AE 2006, 946 (O. Bounegru); sul fiume Mureş in Dacia in AE 2006, 1121 (C. Timoc). Lietta De Salvo ha saputo ricostruire un mondo complesso, per la parte fluviale intorno ai nautae, ai naukleroi, agli utricularii dei porti fino al Mar Nero, con i loro culti, le loro concezioni religiose, le loro abilità tecniche, le loro barche, i loro contatti culturali con le popolazioni barbariche (Circolazione e commercio per via d’acqua nelle province danubiane, in Roma e le province del Danubio cit., pp. 79-94). I traffici commerciali potevano usufruire di alcune importanti vie d’acqua: il basso Danubio come via di comunicazione, la navigazione sui grandi fiumi dei Balcani, le navi, i corpora naviculariorum, gli armatori, i marinai, i trafficanti, il loro rapporto col potere nel libro di O. Bounegru (Trafiquants et navigateurs su le Bas Danube et dans le Pont Gauche à l’époque romaine, Wiesbaden 2006).

[86] Ad es. a Carnuntum nell’età dei Severi, AE 2006, 1057 (M. Kandler).

[87] AE 2009, 1032 = 2012, 1108 (M. Buovac). La legio XX era però presente dall’età di Augusto, AE 2010, 1228 (S. Bekavac).

[88] AE 2005, 1182 (Z. Buljević). S. Pastor studia 13 urne di gladiatori rinvenute a Nord dell’anfiteatro di Salona, una con il nome di Leo secu[tor] (AE 2011, 928-929).

[89] Il IIviro quinquennale del municipium Brigetionensium L. Veratius Iulianus realizza per l’anfiteatro il podium cum suis spectaculis p(edum) LXX leg(ioni) I Adi(utrici) p(iae) f(ideli) Sever(ianae). Dunque sotto Severo Alessandro uno dei duoviri del municipio fa costruire la parte dell’anfiteatro lunga 70 piedi (21 metri) con i posti prestigiosi riservati ai militari della legione. Conosciamo altri interventi che vanno collocati nell’epoca dei Severi: un vet(eranus) leg(ionis) I Ad(iutricis) è citato in un epitafio posto da un dec(urio) mun(icipii) Brig(etionensium), AE 2006, 1049 (L. Borhy).

[90] AE 2013, 1243 (F. Beutler).

[91] AE 2013, 1264 (L. Borhy).

[92] AE 2000, 1240; 2004, 1207.

[93] Molto animata la discussione su una iscrizione che secondo I. Tóth e T. Grüll sarebbe ebraica, dedicata Deo M[agno] Aeter[no], che potrebbe ricordare una [synago]ga col titolo di pr[oseucha], AE 2008, 1089-90; contra: D. Gáspár e L. Berger (vd. AE 2005, 12).

[94] Ad Aquincum in Pannonia Inferiore la popolazione di origine siriaca ed ebraica è studiata da T. Budai Balogh: i primi orientali sarebbero giunti con la legio II Adiutrix nel corso delle spedizioni partiche di Traiano e Lucio Vero, poi durante la guerra marcomannica di Marco Aurelio, inviati in Pannonia Inferiore (AE 2011, 1017).

[95] AE 2001, 1701 (N. Gudea).

[96] AE 2009, 970 (A.E. Felle).

[97] Ad es. a Novae in Mesia Inferiore, AE 2006 1203 (J. Kolendo).

[98] AE 2008, 1162 (A. Voloşciuc).

[99] G. Alföldy, in Römische Städte und Festungen an der Donau. Akten der regionalen Konferenz, Beograd, 16-19 Oktober 2003, M. Mirković éd., Belgrado 2005, pp. 23-38. Ma vd. una sintesi dell’intero volume in AE 2005, 1137.

[100] RGDA 30. W. Eck, Die Donau als Ziel römischer Politik: Augustus und die Eroberung des Balkan, in Roma e le province del Danubio cit., pp. 19-33; adde: M. Šašel Kos, Appian and Illyricum (Situla 43), Ljubljana 2005, con un dettagliato commentario della conquista di Illirico (Dalmatia, pp. 393-471), Raetia e Norico (pp. 473-488), Moesia (pp. 489-516).

 

[101] AE 2008, 984.

[102] AE 2011, 837.

[103] D. Gabler, La campagna progettata contro Maroboduo e le sue conseguenze, in Roma e le province danubiane cit., pp. 125-152.

[104] AE 2010, 1237. Vd. ora la importante sintesi di P. Kovács, A History of Pannonia during the Principate (Antiquitas Reihe 1, 65), Bonn 2014.

[105] AE 2000, 1182. Per la nascita della Pannonia solo sotto Vespasiano, vd. AE 2010, 1237 (M. Šašel Kos).

[106] AE 2008, 1010.

[107] AE 2000, 1152.

[108] AE 2000, 1153.

[109] Vd. AE 2013, 1159. Non tutta la serie è su “Tyche”: vd. ad es. Annona epigraphica Austriaca 1993-1998, in Akten des 7. Österreichischen Althistorikertages, H. Taeuber ed., Vienna 2001, pp. 49-127. Altri numeri sono su “Römisches Österreich”, ad es. 37-38, 2014-15, pp. 195-208 e 209-217.

[110] I miliari di Cetium in Norico sono in AE 1025 (R. Risy).

[111] AE 2005, 1138 (G. Winkler); AE 2006, 948 (E. Weber). Per il campo di Boiodurum in Baviera (oggi Passau), vd. AE 2013, 1170 (M. Boier). Sulle strade romane della Rezia e del Norico, vd. J. Stern, Römerräder in Rätien und Noricum. Unterwegs auf römischen Pfaden (RÖ, 25), Vienna 2002.

[112] 572 in AE 2012, 1083.

[113] E. Weber, I lavori di riedizione del CIL III (Pannonia) : problemi e risultati, in Roma e le province del Danubio cit., pp. 197-208, vd. AE 2010, 1236.

[114] Studia Epigraphica Pannonica (SEP), 3, P. Kovács, B. Fehér, Á. Szabó edd., Budapest 2011; Studia Epigraphica Pannonica (SEP), 4, In memoriam Barnabás Lőrincz, P. Kovács, B. Fehér edd., Budapest 2012; Studia Epigraphica Pannonica (SEP), 5, P. Kovács, B. Fehér edd., Budapest 2013. Vd. anche AE 2008, 1072; 2009, 1038; 2011, 948; 2013, 1200.

[115] AE 2007, 1127-28.

[116] AE 2007, 1128: P. Kovács, Corpus Inscriptionum Graecarum Pannonicarum CIGP, Editio III Aucta (Hungarian Polis Studies, 15), Debrecen Budapest 2007; per la seconda edizione del 2001, vd. AE 2001, 1626.

[117] AE 2008, 1077 (A. Lange, H. Taeuber).

[118] J. Martinović, Antički natpisi u Crnoj Gori. Corpus inscriptionum Latinarum et Graecarum Montenegri, Kotor 2011, con le osservazioni di AE 2011, 883. Vd. ulteriori sette iscrizioni greche (apparentemente arivate nella baia di Kotor, Boka Kotorska, Montenegro, durante la dominazione veneziana) in A. Łajtar, J.J. Martinović, « Palamedes », 76, 2012, pp. 81-107; AE 2012, 1084. Per la storia delle scoperte a Risinium, Butua, Catharum, Antibarium, Olcinium, vd. ancora J. Martinović (AE 2011, 890 e 2013, 1188).

[119] S. Anamali, H. Ceka, É. Deniaux, Corpus des inscriptions latines d’Albanie, Collection de l’École Française de Rome, 410, Roma 2009; U. Ehmig, R. Haensch, Die lateinischen Ischriften aus Albanien (LIA), Bonn 2012.

Il punto di partenza sono evidentemente Le iscrizioni latine di Albania di P.C. Sestieri, Roma 1943.

[120] Un elenco in questa sede è impossibile, vd. RMD, V: p.es. AE 2000, 1213 (Sirmium), 2001, 1725 = RMD, II, 106 (Novae); AE 2004, 1256 (R. Petrovszky per il diploma di Ruse datato al 13 marzo 105, relativo al congedo di un gregalis dell’Ala II Hispanorum et Aruacorum; allo stesso reparto è riferito il beneficiario del diploma frammentario del 138-140 d.C. di Carnuntum AE 2013, 1246, pubblicato da F. Beutler), AE 2004, 1259 (Abrittus con il diploma relativo all’armata del Norico, datato sotto Tito 8 settembre 79, relativo a un gregalis dell’ Ala I Thracum), 2009, 993-995, Stein nel Norico (H. Ubl); AE 2008, 1195 (da Slava Rusă, Ibida, diploma studiato da L. Mihăilescu-Bîrliba del 14 agosto 99, che ci informa sull’esercito della Mesia Inferiore sotto Traiano); 2008, 1116 = 2009, 1075, Putinci in Serbia; 2009, 1185 (Mesia). 2010, 1262, Carnuntum in Pannonia Superiore (F. Beutler); 2010, 1272, Siófok in Pannonia Inferiore (Z. Mráv, I. Vida; W. Eck, A. Pangerl).

[121] AE 2008, 1172.

[122] AE 2003, 1324.

[123] RMD IV, 303 = AE 2002, 1182 (nella edizione di Z. Visy). Altre pseudo-tribù: ad esempio Fl(avia) attribuita ad un veterano della legio II adiutrix in AE 2010, 1285, Aquincum in Pannonia Inferiore. Altri pretorianni congedati sono noti, come dal diploma di Sremska Mitrovica in Pannonia Inferiore, AE 2013, 1252 b, originario di Mursa, data 7 gennaio 245 (Z. Mráv, I. Vida); vd. i Salonitani di AE 2013, 1189 (D. Demicheli).

[124] AE 2000, 1214.

[125] AE 2001, 1606-21.

[126] AE 2010, 1168-1215; 2011, 924; 2012, 1095.

[127] AE 2006, 1007.

[128] Vd. già la sintesi di N. Gauthier al XIV Congresso internazionale di archeologia cristiana di Vienna, in AE 2006, 1006.

[129] AE 2011, 924. Le iscrizioni cristiane di Salona erano state già studiare da J. Janssens e J. Dukić, vd. AE 2008, 1039.

[130] AE 2010, 1189.

[131] AE 2005, 1194.

[132] AE 2008, 1073.

[133] AE 2001, 1298-1561b; AE 2002, 1175; AE 2003, 1132 (B. Lőrincz), 1133 (G. Alföldy).

[134] Tituli Aquincenses (TitAq). Volumen I. Tituli operum publicorum et honorari et sacri, P. Kovács, Á. Szabó edd., Budapest 2009; Volumen II, Tituli sepulcrales et alii Budapestini reperti, P. Kovács, Á. Szabó edd., Budapest 2010.

[135] AE 2011, 1020-58.

[136] AE 2006, 1024.

[137] Vd. già AE 2000, 1224-31.

[138] AE 2005, 1192-93.

[139] Budapest 2010. Vd. AE 2011, 1011. Il supplemento del Corpus Signorum Imperii Romani dedicato a Carnuntum nel 2012 a firma di G. Kremer presenta 772 monumenti utili per conoscere il rapporto tra esercito e vita religiosa, G. Kremet et alii, Götterdastellungen Kult- und Weihedenkmäler aus Carnuntum (Corpus Signorum Imperii Romani. Österreich. Carnuntum, Supplement 1), Vienna 2012. Vd. anche sui monumenti funerari del Norico: G. Kremer, Antike Grabbauten in Noricum. Katalog und Auswertung von Werkstücken als Beitrag zu Rekonstruktion und Typologie (Österreischisches Archäologisches Institut, Sonderschriften, 36), Vienna 2001. Per i 71 monumenti funerari di Lauriacum e Lentia ancora nel Norico, vd. AE 2009, 990 (S. Traxler).

[140] AE 2007, 1138; per il primo volume vd. AE 1997, 1233.

[141] AE 2007, 1129.

[142] B. Lőrincz, O. Harl, Führer zum romischen Lapidarium Bastion VI Komárno, Vienna 2002.

[143] AE 2006, 1043.

[144] AE 2004, 119.

[145] AE 2007, 1140.

[146] E. Tóth, Lapidarium Savariense. Savaria római feliratos kőemlékei (LapSav) (Savaria, 34,2), Szombathely 2011.

[147] AE 2006, 1054. Vd. anche 2013, 1239 (I. Weber-Hiden), un veterano originario di Verona.

[148] AE 2005, 1275.

[149] AE 2000, 1232.

[150] AE 2013, 1271; 2012, 1189. Vd. ad es. AE 2004, 1178.

[151] D. Bondoc, D.R. Dincă, Inscripţii şi piese sculpturale. Muzeul Romanaţiului Caracal, Craiova 2002.

[152] AE 2004, 1179 (D. Bondoc).

[153] AE 2004, 1208. Vd. Monumente din piatră de la Micia în colecţiile Muzeului Naţional de Istorie a Transilvaniei. In: M. Crînguş, S. Regep-Vlascici, A. Ştefănescu (eds.), Studia Historica et Archaeologica in honorern Magistrae Doina Benea, Timişoara 2004, 9-19.

[154] AE 2007, 1189.

[155] Le forum vetus de Sarmizegetusa, I,1, I. Piso ed. (Colonia Dacica Sarmizegetusa, 1), Bucarest 2006.

[156] AE 2009, 1205.

[157] AE 2011, 884.

[158] AE 2011, 885.

[159] AE 2009, 1040.

[160] AE 2011, 873 (S. Karl, G. Wrolli).

[161] AE 2004, 1182 (P. Forisek).

[162] AE 2003, 1293.

[163] Vd. ad esempio per la Bassa Austria e in particolare per Carnuntum AE 2008, 985, con gli Atti del convegno di Tulln an der Donau del 5-8 luglio 2004.

[164] AE 2006, 962.

[165] AE 2007, 1071.

[166] AE 2008, 995; 2009, 975.

[167] AE 2007, 1092-5.

[168] AE 2004, 22 e 1181.

[169] AE 2011, 22.

[170] AE 2010, 1104.

[171] AE 2004, 1180.

[172] AE 2007, 1181.

[173] AE 2010, 1356.

[174] AE 2011, 1061.

[175] From Polites to Magos, Studia György Németh sexagenario dedicata, Á. Szabó ed., Budapest-Debrecen 2016.

[176] Studia epigraphica in memoriam Géza Alföldy, W. Eck, B. Fehér, P. Kovács edd., Antiquitas 61, Bonn 2013.

[177] AE 2011, 1062.

[178] AE 2009, 1173.

[179] AE 2009, 1193.

[180] AE 2010, 1103; per il il secondo volume con 23 contributi dedicati ai soprannomi imperiali delle unità, ai diplomi militari, bolli e alla prosopografia vd. AE 2011, 839.

[181] AE 2010, 1118.

[182] AE 2008, 1031 (I. Jadrić).

[183] AE 2000, 1181.

[184] AE 2010, 1148. Per i governatori dell’Illirico Superiore tra il 42 e il 68 d.C., vd. AE 2011, 886.

[185] AE 2008, 1035 (M. Glavičić).

[186] AE 2011, 921.

[187] AE 2003, 1332.

[188] AE 2003, 1333, Ćalići (Brgud in Dalmazia).  Carattere differente ha il cippo dell’Isola di Brač in Dalmazia in AE 2013, 1197, con una delimitazione, deter(minavit) di un’area sacra ad Ercole (N. Cambi).

[189] AE 2006, 1004.

[190] AE 2005, 1155.

[191] S. Demougin, S. Lefebvre, “REA”, 104, 2002, pp. 185-209; AE 2007, 1072.

[192] AE 2011, 886.

[193] AE 2000, 1182.

[194] G. Piccottini, “Archaeologia Austriaca”, 84-85, 2000-01, pp. 373-385.

[195] AE 2004, 1082, C. Domergue, G. Piccottini (piombo da Cartagena).

[196] AE 2001, 1592 a, Celje.

[197] Vd. M. Šašel Kos, The early urbanization of Noricum and Pannonia, in Roma e le province del Danubio cit., pp. 209–230.

[198] AE 2008, 985 (J. Rageth). Vd. poi il miliario del 201 da Veldidena di Settimio Severo, Caracalla e Geta, con il nome del fratello minore eraso e quello del fratello maggiore parzialmente reinciso in rasura dopo il 212: [S]everus pius pate[r] (patriae): non fondate le perplessità di R. Frei-Stolba in AE 2002, 1085.

[199] Quattro tribù preromane della Rezia sono documentate anche sui diplomi militari: Runicates, Cattenates, Licates, Calucones, vd. AE 2004, 1053-54 (K. Dietz). Un Vindel(icus) in AE 2006, 960, Celeusum in Rezia (B. Steidl).

[200] CIL IX 3044.

[201] D. Faoro, Praefetctus, procurator, praeses. Genesi delle cariche presidiali equestri nell’Alto Impero Romano, Le Monnier, Firenze 2011, pp. 90 ss.; sui fasti provinciali della Rezia, vd. anche AE 2005, 1142 (B. Steidl) e 2007, 1065 e 2008, 988 (D. Faoro).

[202] AE 2007, 1131.

[203] AE 2004, 1242.

[204] IRTrip. 541.

[205] AE 2007 1224 (L. Fezzi).

[206] AE 1937, 232 e 158.

[207] AE 2006, 1105.

[208] AE 2006, 1106.

[209] AE 2006, 1107.

[210] AE 2005, 1163-64 (G. Piccottini), vd. ILLPRON 234-6.

[211] AE 2004, 1267.

[212] AE 2007, 1130.

[213] S. Perea Yébenez, La legione XII e il prodigio della pioggia sotto M. Aurelio, Madrid 2002. Vd. anche AE 2005, 1196; 2006, 1025; 2008, 1074 (P. Kovács);

[214] AE 2006, 1026 (Cibalae); 2009, 1039.  Per la realizzazione di acquedotti nell’età di Settimio Severo, vd. AE 2006, 1092 = 2013, 1253, Cibalae in Pannonia Inferiore (Z. Mráv): [extruxerunt bal]ne[um et] Cib[alensi]bu[s aquam per[duxerunt]; per inciso è improbabile che la titolatura di Caracalla non avesse l’indicazione della terza potestà tribunizia; analoga la dedica AE 2004, 1135 = 2013, 1254: [Ci]ba[lensibus aquam per]dux[eru]nt. Sulla politica di Settimio Severo nel medio Danubio, vd. Z. Mráv, in Studia epigraphica in memoriam Géza Alföldy, W. Eck, B. Fehér, P. Kovács edd., Bonn 2013 (Antiquitas. Reihe 1, Abhandlungen zur alten Geschichte, 61), pp. 205-240; AE 2013, 1160 e 1199 (per la politica edlizia di Severo in Pannonia ad Aquincum, Brigetio, Cibalae, in rapporto alle promozioni istituzionali).

[215] AE 2011, 961.

[216] AE 2008, 1126 (Á. Szabó).

[217] AE 2007, 1170 (Z. Mráv).

[218] AE 2004, 1141 = 2009, 1168 (O. Láng, Z. Mráv); 2010, 1276 (L. Chioffi). Vd. anche AE 2010, 1282, che ricorda un M. Aemilius Ter(etina) C<a>mpanus domo Viminaci(o), adiutor princi(pis) praetori(i) della legio II Adiutrix ad Aquincum.

[219] AE 2006, 1001.

[220] AE 2003, 1325 (F. Steffan).

[221] AE 2004, 1085 (M. Lovenjak).

[222] CIL XVII, 4, 155 a, vd. AE 2005, 1167.

[223] AE 2004, 1136.

[224] AE 2007, 1133.

[225] AE 2004, 1143 Budaörs, Aquincum (Z. Mráv, K. Ottományi); 2005, 1264, 2006, 1100 (H. Ubl).

[226] Z. Mráv, “Communicationes Archaeologicae Hungariae”, 20, 2000, pp. 67-97.

[227] J. Fitz, “Accademia d’Ungheria in Roma, Quaderni di documentazione”, 2, 1961, pp. 5-21. Vd. ora P. Kovács, “Acta Archaeologica Hungarica”, 63, 2012, pp. 383-394,

[228] AE 2007, 1131.

[229] AE 2010, 1288 = 2013, 1263 (M. Németh).

[230] G. Winkler, in AE 2002, 1113 (per IBaivariae Romanae 484).

[231] Roma e le province del Danubio cit., pp. 231-248.

[232] AE 2008, 1200 (F. Matei-Popescu).

[233] AE 2008, 1076. Per la lues, la peste del 182, vd. CIL III 5567 Mauerkirchen in Baviera (M.G. Schmidt). Vd. anche AE 2000, 3 (un falso per Hameter); AE 1994, 1334.

[234] AE 2008, 1018.

[235] RIU 6, 1301; AE 2002, 1186, vd. l’articolo di V. P. Petrović, in questo volume.

[236] AE 2003, 1455 Aquincum (A.R. Facsády). Treboniano Gallo adottò poi il figlio cadetto di Decio Ostiliano e lo nominò Cesare ante il 9 giugno (anche se nel nostro testo compare come Augusto). A Roma la notizia della morte arrivò tra il 9 e il 23 giugno. Il Senato innalzò Ostiliano ad Augusto, divinizzò Decio ed Erennio Etrusco, il 24 giugno compaiono certamente come divi. Dopo il 23 giugno Treboniano adottò Volusiano come Cesare. Dopo la morte per peste di Ostiliano Volusiano fu nominato Augusto e dispose la damnatio dei due Deci. La doppia erasione risale per Ostiliano a dopo la morte del 251; per Treboniano Gallo a dopo l’uccisione nell’agosto 253, vd. AE 2003, 1415.

[237] AE 2003, 1416, Museo di Szekszárd (Z. Mráv).

[238] Vd. H. Petrovitsch, Legio II Italica, Linz 2006.

[239] AE 2011, 1007.

[240] AE 2010, 1268 (P. Kovács).

[241] AE 2001, 1592 c.

[242] AE 2011, 948.

[243] Fontes Pannoniae Antiquae in aetate Constantini, P. Kovács ed., Budapest 2012 (in ungherese); 2013 (in tedesco).

[244] AE 2005, 1194.

[245] AE 2008, 1143 (Á. Szabó).

[246] AE 2008, 1073; vd. 2004, 1134, per i governatori della Pannonia Inferiore tra 106 e 213 (B. Lőrincz). Per il periodo 54-166 d.C., vd. AE 2004, 1118.

[247] AE 2007, 1212.

[248] AE 2008, 1174.

[249] D. Boïadjiev, Les relations ethno-linguistiques en Thrace et en Mésie pendant l’époque romaine, Sofia 2000, pp. 134 s. n. 63 ; AE 2000, 1268.

[250] AE 2009, 1194. Ulteriori legati in AE 2012 1259 (C.C. Petolescu).

[251] AE 2007, 1217; l’opera fa seguito ad un analogo lavoro dello stesso autore del 2001.

[252] AE 2004, 1238, Gigen, vd. IGBulg. 13.

[253] AE 2004, 1184. Vd. anche C.C. Petolescu, “Dacia”, 43-45, 1999-2001, pp. 231-233. Inoltre, per l’epigrafia della Dacia, in particolare per gli ufficiali equestri vd. I. Piso, Fasti provinciae Daciae II. Die ritterlichenn Amtsträger, Bonn 2013 (Antiquitas, I, 60), vd. AE 2013, 1273 (il primo volume: AE 1993, 1318).

[254] AE 2005, 1318.

[255] AE 2004, 1052.

[256] AE 2004, 1053 (K. Dietz).

[257] AE 2012, 1106 (I. Glavaš).

[258] AE 2012, 1109 (M. Glavićić).

[259] AE 2006, 1022 (V. Paškvalin).

[260] In AE 2002, 1115.

[261] M. Mirković, Municipium S(—). A Roman Town in the Central Balkans, Komini near Pljevlja, Montenegro (BAR, International Ser., 2357), Oxford 2012; Ead., Municipium S. Rimski grad u Kominima kod Pljevalja, Belgrado 2012.

[262] AE 2005, 1183.

[263] AE 2002, 1117.

[264] AE 2007, 1099.

[265] AE 2010, 1153-63 (S. Loma).

[266] AE 2010 1217 e 2012, 1106 (I. Glavaš).

[267] Le iscrizioni del Museo e del parco archeologico di Aguntum sono studiate da E. Walde, G. Grabherr, vd. AE 2008, 997-1000.

[268] The Autonomous Town of Noricum and Pannonia [Die autonomen Städte in Noricum und Pannonien], M. Šašel Kos, P. Scherrer edd. I (Situla, 40), Ljubljana 2002; II, (Situla 41-42), Ljubljana 2003-04. AE 2002, 1088; 2003, 1345; 2005, 1233-34.

[269] AE 1997, 1209 (R. Wedenig); 2003, 1322 (H. Grassl).

[270] AE 2003, 1323 (H. Grassl).

[271] AE 2006, 998.

[272] AE 2004, 1093.

[273] AE 2001, 1597.

[274] AE 2003, 1320.

[275] AE 2005, 1233-34.

[276] Il municipio è attestato ancora nell’ultimo anno di Commodo, R[omanus Hercules], vd. AE 2013, 1267, Budakalász (Á. Szabó), completamente da rettificare.

[277] AE 2003, 1445.

[278] RIU 6 1340 = AE 2002, 1204.

[279] AE 2011, 1012.

[280] AE 2005, 1240.

[281] AE 2010, 1270 (M. Bulat).

[282] AE 2000, 1190; 2011, 964.

[283] AE 2011, 964 (E. Tóth). A proposito di aetona, vd. anche la dedica effettuata da un sacerdote provinciale, un cavaliere, sempre a Savaria in AE 2011, 962 (E. Tóth): arcum aeto[namque marmore]am valvis et co[lumnis].

[284] AE 2007, 1158.  Vd. anche AE 2013, 1219, Scarbandia (Z. Mráv), un epitafio di Q. Lurius Q.f. Pup(inia) Maxumus vet(eranus) leg(ionis) XV, originario da Tergeste, morto prima del 43 d.C.

[285] RIU II, 502; vd. AE 2009, 1047 e 2013, 1199 (Z. Mráv).

[286] AE 2007, 1144 (Z. Mráv).

[287] AE 2008, 1079 (M. Buzov). Un Aug(ustalis) col(oniae) Sept(imiae) Sisci(ianorum) è in AE 2013, 1205 (P. Prohaszka).

[288] AE 2003, 1352.

[289] AE 2003, 1354 (G. Alföldy). Il numero totale delle arae funerarie non è noto: 7 Tiberi Claudii, 4 donne, una figlia di un Claudius.

[290] AE 2003, 1362.

[291] AE 2006, 1038. Per l’onomastica della Pannonia meridionale, vd. ora I. Radman-Livaja, in The Archaeology of Roman Southern Pannonia. The state of research and selected problems in the Croatian part of the Roman province of Pannonia, B. Migotti ed., Oxford 2012 (BAR International Series, 2393), pp. 137-158.

[292] AE 2013, 1204.

[293] AE 2003, 1349 (E. Tóth).

[294] AE 2003, 1375, Környe (Z. Mráv).

[295] M. Kronberger, Siedlungschronologische Forschungen zu dem canabae legionis von Vindobona. Die Gräberfelder (Monografien der Stadtarchäologie, 1), Vienna 2005.

[296] H. Hubl, Waffen und Uniformen des römischen Heeres der Prinzipatsepoche nach den Grabreliefs Noricums und Pannoniens, Vienna 2013 (Austria Antiqua, 3); AE 2013, 1161.

[297] AE 2004, 1125 (H. Belloc, P. Moreau).

[298] Vd. ad es. AE 2005, 1265.

[299] AE 2013, 1201 (P. Kovács)

[300] AE 2011, 1063.

[301] AE 2013, 1272.

[302] AE 2008, 1171; 2010, 1389.

[303] Ad es. in Pannonia e Mesia: AE 2004, 1049 (M. Kirković).

[304] AE 2003, 1462.

[305] AE 2003, 1515 (R. Étienne, I,. Piso, A. Diaconescu); vd. già IDR III, 2, 135.

[306] Tra il 111 e il 114 in AE 2006, 1139, dove A. Diaconescu esclude che l’epigrafe AE 1998, 1084 faccia riferimento alla data di fondazione della colonia; ma si vedano le osservazioni contrarie di I. Piso anche in AE 2007, 1203. Per Sarmizegetusa vd. il recente citato volume di I. Piso e R. Varga, Trajan und seine Städte.

[307] AE 2006, 1140; vd. AE 2006, 1688 = A. Ibba, in Uchi Maius 2, pp. 147 ss. nr. 44.

[308] AE 2006, 1142.

[309] AE 2006, 1144.

[310] AE 2006, 1152.

[311] AE 2006, 1154.

[312] AE 2003, 1516.

[313] AE 2003, 1517 ss.

[314] IGBulg. I 320.

[315] AE 2011, 1101.

[316] AE 2004, 1226 = ILJug. 2, 511, Sočanica.

[317] AE 2009, 1188 (M. Šašel Kos). Vd. il culto di Antonoo anche a Carnuntum, AE 1994, 1396.

[318] AE 2010, 1107 (F. Feraudi-Gruénais, D. Spasić-Đurić).

[319] AE 2010, 1255; nulla a che fare con Forum Hadriani in Germania Superiore, come supposto da A. Mócsy.

[320] AE 2005 1324.

[321] Incarico già documentato in ILBulg. 16.

[322] AE 2005, 1325 (R. Ivanov). Vd. AE 2008, 1182 (J. Bartels).

[323] A. Suceveanu, SCIVA, 52-53, 2001-02, pp. 157-172.

[324] A. Suceveanu, M. Zahariade, F. Topoleanu, G. Poenaru Bordea, Halmyris, 1. Monografie arheologică, Cluj 2003, pp. 115-126; AE 2003, 1550 ss.

[325] AE 2011, 1140.

[326] AE 2011, 1137 (G. Atanasov).

[327] AE 2011, 1138 (M. Bărbulescu, L. Buzoianu, T. Cliante).

[328] AE 2013, 1339.

[329] AE 2012, 1262.

[330] AE 2004, 1231, vd. IScM I, 2207 e III, 99-100.

[331] AE 2007, 1218.

[332] AE 2010, 1421 (G. Radoslavova, G. Dzanev).

[333] AE 2011, 838 (B. Steidl).

[334] E. Szabó, Epigraphica I, Studies on Epigraphy, G. Németh, P. Forsisek edd. (Hungarian Polis Studies, 6), Debrecen 2000, pp. 131-149 (a proposito di RIU 5, 1066), vd. AE 2000, 1222.

[335] AE 2002, 1176 (J. Fitz).

[336] AE 2001, 1692. Vd. la dedica a Intercisa in Pannonia Inferiore [Genio] templ(ensium) da parte di un soldato della III coorte di Batavi, sacerd(os) tem(pli) divi Marci effettuata il I maggio 211. AE 2009, 1087 (G. Alföldy).

[337] AE 2003, 1408-52 (J. Beszédes, Z. Mráv, E. Tóth); 2005, 1241 e 1251 (P. Kovács).

[338] AE 2003, 1408-52.

[339] AE 2013, 1163, con le osservazioni di I. P(iso).

[340] IIt. XIII,3, 91.

[341] AE 2004, 1153.

[342] AE 2005, 1250. Vd. anche 1265, Aquincum.

[343] AE 2005, 1265.

[344] AE 2008, 1111.

[345] AE 2002, 1148.

[346] AE 2001, 1640.

[347] Vd. A. Mastino, Natione Sardus, Unus color, una vox, una natio, “Archivio Storico Sardo”, L, 2015, pp. 141-181.

[348] AE 2012, 1086.

[349] ILJug. 3, 1924.

[350] Apamea di Siria: AE 2008, 1523; Anazarba in Cilicia AE 2006, 1553; Adana in Cilicia, AE 1991, 1555; Roma: CIL VI 2746, 2758, 2673, 3156-7, 3184, 3214, 3300, 3289, 37224; AE 1954, 79 e 81; 1983, 48; Ravenna: CIL XI 39; Nemausus, CIL XII 3020; Mogontiacum CIL XIII 7247.

[351] CIL III 8730 .

[352] TitAq-2, 682

[353] CIL XIII 11869.

[354] CIL VI 3295, 32805, 32814, 32822, 33036; AE 1948, 68; 1993, 165; 2011, 140; EDCS 12200400.

[355] CIL VIII 9391.

[356] Ravenna: CIL XI, 71; provincia incerta: AE 1988, 1138; Napoli: AE 1892, 140; Prusia ad Hypium in Ponto-Bitinia AE 1954, 231.

[357] CIL VI 3224, 32480, AE 1973, 52.

[358] CIL VI 13233.

[359] AE 2013, 1189 (D. Demicheli).

[360] AE 2008, 1115 (P. Kovács).

[361] AE 2007, 1205 (M.F. Petraccia).

[362] AE 2001, 1728 (M.F. Petraccia).

[363] AE 2008, 1179, vd. IMS IV, 39 e CLEMoes., 54.

[364] AE 2010, 1283, Aquincum, un centurione originario nel II secolo da Lucus Aug(usti), forse Lugo in Hispania Citerior più che Luc-en-Diois in Narbonense.

[365] K. Królczyk, Tituli veteranorum. Veteraneninschriften aus den Donauprovinzen des römisches Reiches (1.-3. Jh. n. Chr.) (Xenia Posnaniensia, Monografie, 6), Poznań 2005. AE 2005, 1140 e 2008, 967.

[366] AE 2009, 1074. Per Intercisa, N. Agócs ha studiato l’origine orientale di militari e civili, vd. AE 2013, 1268.

[367] AE 2000, 1262.

[368] AE 2005, 1218. Vd. anche le due dediche a Giove per la salvezza di Settimio Severo nel 197 che ricordano il prefetto dell’Ala I Thracum veterana M. Gongius Paternus Nestorianus domo Sufibus ex Africa, nato a Sufes in Proconsolare (AE 2003, 1432). Vd. la revisione di I. Piso di AE 2003, 1433 in 2013, 1256 (198-199).

[369] AE 2010, 1240 (M. Lubšina Tušek).

[370] AE 2011, 957.

[371] AE 2005, 1319.

[372] SEP, 3, 2011, pp. 31-38. Vd. anche FPA VI, pp. 164-191; AE 2011, 948.

[373] A. Mastino, T. Pinna, Negromanzia, divinazione, malefici nel passaggio tra paganesimo e cristianesimo in Sardegna: gli strani amici del preside Flavio Massimino, in Epigrafia romana in Sardegna. Atti del I Convegno di studio, Sant’Antioco, 14-15 luglio 2007 (Incontri insulari, I), a cura di F. Cenerini e P. Ruggeri, Carocci Roma 2008, pp. 41-83.

[374] Vd. già AE 2010, 1357, soprattutto sulle origini geografiche dei rappresentanti dell’élite municipale della Dacia.

[375] AE 2004, 1205 (R. Ardevan); 2008, 1154 (E. Dobruna-Salihu).

[376] AE 2008, 1155 (C. Onofrei).

[377] AE 2008, 1156 (C.H. Opreanu).

[378] AE 2008, 1164 (C. Onofrei), per Napoca.

[379] Vd. B. Sanna, R. Zucca, I praetoria del cursus publicus nelle province danubiane, in Roma e le province danubiane cit., pp. 95-111.

[380] AE 2002, 1221; 2006, 1126.

[381] AE 2012, 1247.

[382] AE 2013, 1323 (V. Petrović).

[383] AE 2008, 118-19 (Z. Mráv).

[384] AE 2013, 1269 (Z. Visy), diversamente J. Fitz.

[385] AE 2003, 1529, vd. M. Mirković, Römer an der mittleren Donau. Römische Strassen und Festungen von Singidunum bis Aquae, Belgrado 2003.

[386] AE 2010, 1426.

[387] Vd. i diplomi di età adrianea da Pfatter in Baviera AE 2005, 1149-1150 (B. Steidl) o quello da Straubing in AE 2005, 1153, Straubing (H. Wolff). Eppure la l(egio) III, la l(egio) X e la l(egio) XII (fulminata) sono menzionate alla fine dell’età repubblicana sui proiettili di fionda in piombo in Rezia (AE 2003, 1286 a-c; 2007, 1067-69; 2008, 987; 2009, 971 a-b (J. Rageth); 2011, 845 (J. Rageth, W. Zanier, S. Klein).

[388] AE 2003, 1290 (A. Kolb). Aquae Phoebianae e non Castra Phoebiana, vd. AE 2009, 973, Faimingen in Rezia (H.U. Nuber, G. Seitz).

[389] AE 2011, 849 (L. Bakker).

[390] Per il culto di Mercurio Caisonius in Rezia, importato dalla Germania Superiore, vd. AE 2009, 972 (G. Zahlhaas).  Con maggiore approfondimento, a proposito dei numerosi aspetti del culto del Mercurio gallo-romano, vd. anche AE 2013, 1165 (A. Forster).

[391] CIL III 5793, vd. G. Alföldy, in Humanitas. Beiträge zur antiken Kulturgeschichte. Festschrift für Gunther Gottlieb zum 65. Geburtstag, P. Parceló, V. Rosenberger edd., con la collaborazione di V. Dotterweich, Monaco di Baviera 2001, pp. 9-27; dubbi di AE 2001, 1560.

[392] AE 2001, 1567.

[393] P.es. H. Wolff, Ostbairische Grenzmarken, 43, 2001, pp. 9-12; AE 2001, 1568 (156-161 d.C.).

[394] AE 2012, 1062 a-b (S.F. Pfahl). Vd. Anche AE 2013, 1169 (K. Matijević), Caracalla e Geta il I dicembre 2011.

[395] AE 2007, 1064 (M. Reuter).

[396] AE 2006, 999 (H. Petrovitsch).

[397] AE 2000, 1150.

[398] AE 2007, 1232 (C.C. Petolescu, A.-T. Popescu). Per un diploma di Antonino Pio ottenuto tra il 145 e il 147 da un soldato di Mesia Inferiore, vd. AE 2007, 1233.

[399] AE 2006, 1009 (S. Ivčević).

[400] AE 2013, 1193 (I. Matijević).

[401] AE 2012, 1085.

[402] AE 2012, 1094.

[403] AE 2006, 1013 = 2010, 1167.

[404] B. Lőrincz , Die römischen Hilfstruppen in Pannonia während der Prinzipatszeit, I, Die Inschriften (Wiener Archäologische Studien, 3), Vienna 2001. Un ulteriore catalogo dello stesso autore riguarda l’instrumentum.

[405] AE 2013, 1258 (J. Beszédes).

[406] Ad es. AE 2013, 1206, Odra, presso Zagabria in Pannonia Superiore (A. Rendić-Miočević): ve[te](aranus) emeritus coh(ortis) I[I] Va[r(cianorum)].

[407] Ad es. un c(ustos) a(rmorum) leg(ionis) s(upra) s(criptae) nel II secolo, in AE 2016, 1294 ad Aquincum.

[408] Ad esempio AE 2004, 1167 per la Pannonia Inferiore.

[409] Alcuni soldarti erano originari dell’area, come il signifer domo Mur(sa) nell’età di Elagabalo AE 2008, 1139.

[410] Il titolo compare anche nele alae, ad esempio a Napoca in Dacia, AE 2013, 1293 (I. Piso, T. Tecar).

[411] AE 2000, 1217.

[412] AE 2012, 1260 (D. Aparaschivei, per la Mesia Inferiore).

[413] AE 2010, 1287.

[414] AE 2005, 2003, 1431 = 2005, 1242.

[415] AE 2010, 1299 b.

[416] AE 2000, 1223.

[417] AE 2009, 1078 (A. Rendić-Miočević).

[418] Ad es. AE 2002, 1168-72 (Vindobona); AE 2002, 1150-56; 1159-60; 1161 (Carnuntum), ecc. Vd. AE 2011, 949 (S. Ferjančić). Per l’origo dei suoi soldati, prevalentemente dalle Pannonie ma non solo, vd. AE 2013, 1202 (I. Acrudoae).

[419] M. Mosser, Die Steindenkmaeler der legio XV Apollinaris, Vienna 2003. M. Mosser et alii, Die römischen Kasernen in Legionslager Vindobona. Die Ausgrabungen am Judenplatz in Wien in den Jahren 1995-1998, (Monografien der Stadtarchäologie Wien, 5), Vienna 2010.

[420] AE 2010, 1261 = 2013, 1244 (E. Weber), vd. G. Alföldy in CIL II2, 14, 2, E 4.

[421] AE 2002, 1150.

[422] AE 2009, 1050.

[423] Per un veterano della legio IIII F(lavia) F(elix) originario di Vienna in Narbonense alla fine del I secolo d.C., vd. AE 2013, 1214 (Z. Mráv); la legione è ben documentata in Dacia, vd. AE 2013, 1274 (G. Cupcea).

[424] AE 2003, 1366.

[425] K. Dietz, in Zwischen Rom und dem Barbaricum. Festschrift für Titus Kolnik zum 70. Geburtstag (Archaeologica Slovaca, 5, Communicationes), K. Kuzmova, K. Pieta, J. Rajtar edd., Nitra 2002, pp. 79-83.

[426] AE 2008, 1086 (L. Borhy, E. Számadó).

[427] AE 2013, 1234 (P. Kovács- S. Petényi) e 1233 (P. Kovács).  Della stessa legione conosciamo sempre in Pannonia Superioree a Győr-Ménfőcsanak, una dedica a Giove effettuata da un b(ene)f(iciarius) co(n)s(ularis), AE 2013, 1235 (Á. Szabó).

[428] B. Lőrincz, Die römischen Hilfstruppen in Pannonien während der Prinzipatszeit, I, Die Inschriften, Vienna 2001; vd. Id., in AE 2005, 1200 (con numerose novità).

[429] AE 2011, 972 e 984, quest’ultima dell’età di Caracalla (P. Kovács, B. Lörincz).

[430] AE 2011, 977 e 986.

[431] AE 2011, 981.

[432] AE 2011, 989.

[433] AE 2011, 990.

[434] AE 2008, 1097.

[435] AE 2013, 1203.

[436] AE 2010, 1243 (P. Kovács, B. Lőrincz).

[437] AE 2010, 1246 (P. Kovács, B. Lőrincz).

[438] AE 2013, 1319, Viminacium (B. Milovanović).

[439] AE 2013, 1320 (Z. Mráv).

[440] A. Ştefan, in Romanité et cité chrétienne. Permanences et mutations, intégration et exclusion du Ier au VIe siècle. Mélanges en l’honneur d’Yvette Duval, Paris 2000, pp. 33-54.

[441] AE 2004, 1223 (M. Mirković).

[442] AE 2005, 1315.

[443] B. Pferdehirt, Römische Militärdiplome und Entlassungsurkunden in der Sammlung des Römisch-Germanischen Zentralmuseums, Mayence 2004, pp. 126-131; AE 2002, 1237 ; vd. 2003, 1534.

[444] F. Matei-Popescu, Il Mar Nero, 8, 2010-11, pp. 207-230, cfr. AE 2011, 1100.

[445] F. Matei-Popescu, The Roman Army in Moesia Inferior (CRMS, 7), Bucarest 2010, vd. AE 2010, 1404-05 (L. Mihăilescu-Bîrliba). Vd. già AE 2002, 1239 (F. Matei-Popescu). Vd. ora AE 2012, 1249 (N. Ferri).

[446] Ad es. AE 2013, 1301 da Turda in Dacia (I. Piso).

[447] AE 2002, 1240 (R. Ivanov).

[448] AE 2013, 1287, Gherla (I. Piso): ala II [P]annon[i]orum.

[449] AE 2013, 1306, Turda (I. Piso): mil(es) leg(ionis) V M(acednicae) Gor(dianae).

[450] AE 2012, 1239-40 (D. Benea) = 2013, 1310, Apulum in Dacia.

[451] Diversamente K. Strobel, Les legions de Rome sous le Haut-Empire, Y. Le Bohec ed., Lione 2000.

[452] AE 2013, 1279 (I. Piso).

[453] AE 2009, 1197. Vd. anche AE 2002, 1247 e 2008, 1189 (D. Dragoev). Sul reclutamento all’esterno della provincia: AE 2013, 1328 (L. Mihăilescu-Bîrliba). Sui primipilares di fine IV secolo d.C., vd. AE 2013, 1335 (A. Łajtar).

[454] AE 2009, 1199 (J. Recław, J. Źelazowski).

[455] AE 2013, 1336 a (T. Sarnowski).

[456] AE 2005, 1328-30 (T. Sarnowski).

[457] AE 2013, 1337 b.

[458] M. Bărbulescu, Inscriptions from the legionary camp at Potaissa, Bucarest 2014. Vd. già in rumeno in AE 2012, 1202-1236.

[459] AE 2013, 1278.

[460] AE 2013, 1280, vd. 2011, 1070 (I. Piso, contro N. Gudea); vd. ora 2013, 1291, una dedica a Iupiter Conservator da Napoca in Dacia (I.Piso).

[461] AE 2006, 1127 = 2013, 1284 (I. Piso). Vd. anche AE 2013, 1285.

[462] Vd. anche AE 2003, 1305 b (Iulia Cn. Filia Procilla).

[463] AE 2001, 1593 a-b.

[464] AE 2001, 1100.

[465] AE 2006, 1213 (C. Chiriac, L. Mihăilescu-Bîrliba, I. Matei).

[466] AE 2006, 1184, Viminacium.

[467] AE 2003, 1306-07.

[468] Ad es. AE 2001, 1568, Neustadt. Vd. anche il diploma di Viminacium che ricorderebbe a spedizione in Mauretania Cesariense di alcuni reparti della Mesia Inferiore, AE 2006, 1184 (P. Holder).

[469] AE 2009, 1051. Vd. 2013, 1240 (F. Beutler, G. Kremer), Carnuntum e F. Beutller, “Acta Carnuntina”, 5,2, 2015, p. 42: due defunti della gens Aemilia do(mo) Iud(a)ei, alla fine del I secolo d.C.

[470] D.R. Schwartz, Judeans and Jews. Four Faces of Dichotomy in Ancient Jewish History, Toronto 2014.

[471] AE 2006, 1109.

[472] AE 2006, 1112 (D. Dana, F. Matei-Popescu).

[473] AE 2008, 1153 (D. Benea).

[474] AE 2012, 1079 (H. Ubl). Vd. B. Pferdehirt, RGZM, 32 e 33; AE 1975, 951.

[475] AE 2008, 1200.

[476] D. Dana, S. Nemeti, “Acta Musei Napocensis”, 38, 2001, pp. 239-257.

[477] AE 1991, 1378. Vd. 2011, 1142.

[478] AE 2003, 1330.

[479] AE 2000, 1174.

[480] AE 2000, 1171.

[481] AE 2009, 1015.

[482] AE 2009, 1034.

[483] AE 2009, 1079 (M. Ilkić).

[484] AE 2006, 1056.

[485] AE 2003, 1543, con varie irregolarità nella titolatura imperiale di Severo, Caracalla e Geta.

[486] AE 2003, 1544.

[487] AE 2003, 1546-47.

[488] AE 2003, 1548 (C. C. Petolescu, A.-T. Popescu).

[489] S. Perea Yébenez, “Aquila legionis”, 2, 2002, pp. 93-99 (vd. AE 1999, 1333; 2001, 1735; 2002, 1246).

[490] Cl. Zaccaria, Dall’’Aquileiense portorium’ al ‘publicum portorii Illyrici’: revisione e aggiornamento della documentazione epigrafica, in Roma e le province del Danubio cit., pp. 53-78

[491] AE 2008, 994.

[492] AE 2013, 1257, Aquincum (I. Piso).

[493] AE 2008, 1020 e 1019 (B. Steidl).

[494] AE 2013, 1262 (H. Havas).

[495] Ad es. AE 2010, 1136 (G. Piccottini): P. Lepidius P.f. Priscus domo Vicetia.

[496] AE 2004, 1069.

[497] AE 2010, 1124 (G. Piccottini).

[498] AE 2003, 1426 (G. Alfödy, S. Dušanić).

[499] AE 2006, 1094.

[500] S. Dušanić, in Kaiser, Heer und Gesellschaft in der römischen Kaiserzeit. Gedenkschrift für Eric Birley, G. Alföldy, B. Dobson, W. Eck edd., Stuttgart 2000, pp. 343-363.

[501] AE 2005, 1314 (M. Mirković; R. Haensch, P. Weiss).

[502] AE 2002, 1238.

[503] AE 2006, 1189.

[504] AE 2005, 1289 (I. Piso).

[505] AE 2013, 1313: il servo imperiale sembra essere un procurator publici portorii e non un procurator aurariiarum.

[506] AE 2010, 1385.

[507] AE 2003, 1478.

[508] AE 2003, 1480.

[509] L. Zerbini, Le miniere d’oro della Dacia: appunti sulla loro cronologia, “Apulum”, 47, 1, 2010, pp. 241-247.

[510] AE 2007, 1182.

[511] AE 2003, 1502 (C. Crăciun, A. Sion).

[512] AE 2013, 1314-15 (I. Piso).

[513] AE 2005, 1300 a-b e c-d.

[514] AE 2009, 1188 (M. Šašel Kos). Vd. il culto di Antinoo anche a Carnuntum, AE 1994, 1396.

[515] CIL III 1549 = IDR III,1 145 (Tibiscum), Per Porolissum, vd. ora: AE 2008, 1157 (D. Benea) e 2013, 1281, età di Commodo (I. Piso).

[516] AE 2005, 1296. Il salariarius di Apulum in Dacia non ha nulla a che fare con le saline, ma si tratta di un militare congedato che riceve il salarium: AE 2012, 1239-40 (D. Benea) = 2013, 1310.

[517] AE 2001, 1604 (R. Zotović), Prijepolje e Plevlja in Serbia; AE 2013, 1235-36, Győr-Ménfőcsanak in Pannonia Superiore (Á. Szabó).

[518] Vd. ad es. AE 2009, 1007, Seljane in Serbia (S. Loma).

[519] Vd. ad es. AE 2013, 1291, Napoca (I. Piso).

[520] Vd. ad es. AE 2013, 1324, Timacum Minus in Mesia Superiore (S. Petrović, B. Ilijić).

[521] AE 2009, 1189, Mitrovica.

[522] AE 2004, 1067 (M. Hainzmann); anche in Dacia: AE 2003, 1467 (I. Nemeti, S. Nemeti). Ad un dio locale del Danubio attestato anche in Africa pensa ora A. Hilali, Hommes et dieux du Danube dans la légion IIIe Augusta. Le culte de Iupiter Depulsor, in Roma e le province Danubiane cit., pp. 461-468. Il dio è attestato anche a Savaria in Pannonia Superiore, vd. AE 2011, 963 e 964 (E. Tóth).

[523] AE 2013, 1249, Vindobona (M. Mosser): si tratterebbe di una divinità introdotta nel Norico e nella Pannonia dalla Gallia, ma vd. le perplessità di E. W(eber), che pensa ad un epitafio di un Bussumar(i)us di origine celtica.

[524] AE 2006, 1005 e 2009, 1010 (S. Ferjančić, O. Pelcer, M. Babić).

[525] AE 2008, 1166 (K. Karadimitrova). Vd. a Gorsium in Pannonia Inferiore la dedica [I.O.M. Fu]lgeral[i], AE 2009, 1089 (G. Alföldy).

[526] AE 2004, 1211.

[527] AE 2011, 953 (E. Tóth). Per analoghe dediche africane, M. Khanoussi, A. Mastino, Nouvelles découvertes archéologiques et épigraphiques à Uchi Maius (Henchir ed-Douâmis, Tunisie), “RAI”, 2000, pp. 1312 ss.

[528] Vd. anche AE 2012, 1142 (G. Kremer) e la dedica AE 2009, 1084 Rácalmás in Pannonia Inferiore: I.O.M. Cul(minali) et G[e]nio h(uius) loci (A. Buza, T. Keszi). Vd. ora le puntuali osservazzioni di M. Hainzmann, che non pensa ad una divinità del panteon celtico preromano (AE 2013, 1164).

[529] AE 2010, 1225 (M. Sinobad).

[530] I. Piso, Das Heiligtum des Jupiter Optimus Maximus auf dem Pfaffenberg/Carnuntum. I. Die Inschriften, W. Jobst ed., Vienna 2003. AE 2003, 1381-1400.

[531] AE 2003, 1389.

[532] AE 2004, 1131.

[533] AE 2003, 1401 (M. Kandler).

[534] AE 2005, 1233 (M. Kandler).

[535] Anche in Dacia, a Napoca: AE 2003, 1469 = 2013, 1292 (I. Piso).

[536] AE 2005, 1232 (M. Kandler e H. Zabehlicky); 2011, 999.

[537] AE 2008, 1100-05.

[538] AE 2011, 1019 (B. Fehér).

[539] AE 2009, 1129.

[540] M.L. Dészpa, Peripherie-Denken. Transformation und Adaptation des Gottes Silvanus in den Donauprovinzen (1.-4. Jahrhundert n. Chr.), Stuttgart 2012. Per i 160 documenti del culto di Silvano in Dalmazia, vd. AE 2012, 1087 (D. Džino). Vd. anche AE 2007, 1090 (A. Rendić-Miočević).

[541] AE 2013, 1289.

[542] AE 2001, 1703 (T. Lobüscher).

[543] AE 2008, 1141, vd. TitAq 993. AE 2009, 1110-11.

[544] AE 2004, 1051 (P. Scherrer).

[545] AE 2007, 1077 (M. Hainzmann, P. de Bernardo Stempel).

[546] AE 2013, 1165.

[547] AE 2010, 754.

[548] AE 2007, 1103; 2011, 1007 (per la posizione di G. Alföldy, vd. AE 2011, 840).

[549] AE 2005, 1265.

[550] AE 2005, 1265 (Z. Mráv).

[551] AE 2005, 1266.

[552] AE 1962, 26.

[553] AE 2009, 1045 = 2013, 1212 (Z. Mráv).

[554] AE 2013, 1286 (I. Piso).

[555] AE 2005, 1292 = 2013, 1298(I. Piso).

[556] AE 2004, 1201 (V. Moga, R. Ciobanu).

[557] IDR III, 5, 199.

[558] AE 2008, 1142 (Á. Szabó).

[559] AE 2008, 1135.

[560] AE 2008, 1146 (B. Lőrincz).

[561] Ad es. AE 2013, 1336 b, Novae in Mesia Inferiore ([Cons]ervator Augg(ustoum) et [Cae]ss(arum nn(ostrorum) dopo il 293 d.C.: dedica effettuata da un primipilarius [ex p]rov(incia Foenice (T. Sarnowski).

[562] AE 2009, 1128, Aquincum.

[563] AE 2009, 981 = CIL III 5196 (M. Kandler).

[564] AE 2007, 1171.

[565] AE 2004, 1096; 2010, 1164. .

[566] AE 2008, 1129 (Á. Szabó).

[567] AE 2006, 986 = 2011, 881.

[568] AE 2006, 1122.

[569] AE 2004, 1204 Drâmbar (R. Ciobanu).

[570] AE 2013, 1325, Timacum Minus (V. Petrović).

[571] AE 2012, 1262.

[572] AE 2007, 1194.

[573] AE 2003, 1538 (Z. Goćeva).

[574] AE 2005, 1320.

[575] AE 2006, 1200.

[576] AE 2000, 1191.

[577] Ad es. AE 2006, 1052, Quadrata, in Pannonia Superiore (E. Szőnyi, P. Tomka).

[578] AE 2000, 1238 (S. Nemeti); vd. anche AE 2006, 1123 (M. Oppermann).

[579] AE 2000, 1192.

[580] AE 2006, 1075.

[581] AE 2003, 1303.

[582] AE 2013, 1175-76 (J. Eitler, con il commento di F. Glaser).

[583] AE 2013, 1187 (M. Šašel Kos).

[584] AE 2010, 1132 (H. Dolenz).

[585] AE 2004, 1069 (H. Dolenz, P. de Bernardo Stempel).

[586] AE 2006, 1202.

[587] AE 2008, 1078 (B. Migotti).

[588] AE 2011, 1113 (E. Dobruna-Salihu).

[589] AE 2003, 1434 (B. Lőrincz).

[590] E. Hudeczek, Die Römersteinsammlung des Landesmuseums Joanneum, Graz 2004; S. Groh – H. Sedlmayer (Hrsg.), Forschungen im römischen Heiligtum am Burgstall bei St. Margarethen im Lavanttal (Noricum), Wien 2011.

[591] R. Wedenig, in Instrumenta inscripta III, Manufatti iscritti e vita dei santuari in età romana, G. Baratta, S.M. Marengo edd., Macerata 2012, pp. 289-307.

[592] AE 2007, 1074.

[593] H. Dolenz, in Virunum: Das römische Amphitheater. Die Grabungen 1998-2001, R. Jernej, C. Gugl edd., Klagenfurt 2004, pp. 269-322. Vd. anche AE 2006, 963 (M. Hainzmann). Un altro incendio sotto  Settimio Severo durante la legazione di P. Catius Sabinus in Norico è ricordato a Iuvavum in AE 2013, 1179 (Z. Mráv).

[594] AE 2001, 1587; 2002, 1094. Per l’erasione di Caracalla: AE 2004, 1070.

[595] AE 2004, 1071.

[596] ILLPRON 436.

[597] AE 2004, 1072.

[598] AE 2004, 1073-74.

[599] AE 2004, 1075-79.

[600] Per il culto di Nemesi nelle province balcanichee e danubiane, vd. AE 2011, 841 (S. Pastor).

[601] AE 2008, 1096.

[602] AE 2005, 1157-60.

[603] AE 2010, 1141.

[604] AE 2006, 992.

[605] AE 2002, 1090 = AE 19967, 1210.

[606] AE 2010, 1393.

[607] AE 2010, 1383 (M. Fiedler, C. Hoepken).

[608] Nel 292 sotto Diocleziano e Massimiano ad Aquincum una schola in ruin[a collapsa] fu reintegrata, come sede del collegium funeraticium che comprendeva anche tombe femminili a cura di Lic(inius) Gaudentius Papi[as] devoto di Diana originario della colonia apula di Lypiae (oggi Lecce): AE 2008, 1150 = 2009, 1165 (P. Kovács, M. Németh). Una nuova dedica da Rattenberg in Stiria (Norico) è in AE 2013, 1177 (E. Steigberger).  Per il culto di Diana e di Diana Nemorensis in Dalmazia e un riferimento all’altare sull’Aventino, vd. AE 2013, 1186 (K.A. Giunio).

[609] Vd. ad esempio AE 2013, 1208 e 1209 a, Aquae Iasae presso Poetovio in Pannonia Superiore (L. Lučić).

[610] AE 2012, 1111 (S. Loma). Una dedica D(eo) M(ithrae) è ora segnalata in Carinzia a St. Kathrein da R. Wedenig (AE 2013, 1173, P. Gleirscher).

[611] I. Tóth, Mithras Pannonicus (Specimina nova Universitatis Quinqueeclessiensis, prima pars, 17), Budapest-Pécs 2004.

[612] AE 2007, 1148.

[613] AE 2006, 1201.

[614] L. Bricault, Recueil des inscriptions concernant les cultes Isiaques (RICIS), Paris 2005.

[615] Dalla Dardania del Kosovo (regione di Peć) proviene la dedica Magno numini et conservatori Serapi per un ex voto; Serapide è attestato a Suvi Lukavac come conservator, a Dresnik con l’attributo invictus, AE 2011, 1115 (N. Ferri).

[616] AE 2006, 1041 (G. Gabrieli) = 2011, 970 (Z. Mráv, G. Gabrieli).

[617] RICIS 613/0602.

[618] RICIS 610/0112.

[619] Ma vd. la più antica attestazione in RICIS 519/0302 del 35 d.C., Turris Libisonis in Sardegna.

[620] RICIS 613/0601.

[621] AE 2008, 1082 (G. Gabrieli). Dal municipio flavio di Scarbantia conosciamo anche alcune dediche di statue di divinità dal Capitolium, AE 2013, 1210 (Á. Szabó); vd. anche 1211 per il [cha]lcid[icum]. Per la condizione di municipio flavio, vd. anche 1218 (A. Mráv).

[622] AE 2006, 1010 (S. Ivčević).

[623] AE 2006, 1137.

[624] AE 2003, 1531 = 2013, 1318, Karataš (D. Grbić).

[625] AE 2001, 1606.

[626] AE 2010, 2442.

[627] AE 2013, 1332.

[628] J.R. Carbó García, Los cultos orientales en la Dacia romana. Formas de difusión, integración y control social e ideológico (Colección Vitor, 265), Salamanca 2010.

[629] AE 2001, 1724.

[630] AE 2009, 1085. Vd. ora l’articolo di E. Badaracco, Il culto del Deus Sol Elagabalus presso il castellum di Intercisa:la devozione degli ausiliari della cohors Hemesenorum, in Culti e religiosità nelle province danubiane cit., pp. 235-245, con l’ipotesi di un “ponte” culturale con Calceus Herculis in Numidia.

[631] RIU V 1104. Vd. anche 1106, 1107, 1230.

[632] RIU V 1139. La coorte degli Hemeseni compare ad esempio con Commodo (AE 2010, 1274) e poi, nel 216 (AE 2010, 1273), con la titolatura di Caracalla gravemente lacunosa e alcune inesattezze di edizione anche nel nome del reparto.

[633] RIU II, 473.

[634] AE 2009, 1140-42.

[635] AE 2011, 1084 (I. Piso, O. Ţentea).

[636] AE 2011, 1085 (I. Piso, O. Ţentea).

[637] AE 2004, 1216; I. Piso, in Le forum vetus de Sarmizegetusa, I. Piso ed., 1, Bucureşti 2006.

[638] AE 2012, 1245. Un epulum Iovis è citato in IDR III,2 242.

[639] AE 2004, 1218 (T. Kaizer).

[640] AE 2008, 1187.

[641] AE 2003, 1318 (H. Ubl).

[642] AE 2003, 1532 (M. Mirković).

[643] AE 2005, 1313. Capersana è un villaggio citato da Ammiano (XVIII, 8,1).

[644] AE 2008, 1160.

[645] AE 2006, 1124.

[646] AE 2006, 1125. Vd. anche AE 2001, 1707, Porolissum; 2004, 1222, Drobeta (C.C. Petolescu); 2012, 1196-97 (I. Boda).

[647] AE 2001, 1707 (N. Gudea, D. Tamba).

[648] AE 2008, 1183 (V. Gerasimova).

[649] AE 2005, 1187 (F. Prévot).

[650] CIL III 2654 e 8652 = AE 2009, 1016 a-b (D. Demicheli).

[651] AE 2004, 1225.

[652] AE 2008, 989 (F. Speckhardt). Ad Aquincum in Pannoinia inferioree ci rimane una dedica Iovi Gran(no) Apollini, effettuata da un optio della legio II Adiutrix nel 190 d.C. (AE 2009, 1108).

[653] AE 2011, 889 e 2012, 1088.

[654] L’Augusteum di Narona, a cura di G. Zecchini, Atti della giornata di studi Roma 31 maggio 2013, “L’Erma” di Bretschneider, Centro ricerche e documentazione sull’antichità classica, Monografie 17, Roma 2015. In particolare l’articolo di M. Mayer i Olivé, La epigrafia y el Augusteum de Narona, pp. 19-41. Vd. già M. Mayer in AE 2004, 1097. Vd. ora P. Gros, E. Marin, M. Zink (eds.), Auguste, son époque et l’Augusteum de Narona (Actes du colloque organisé par l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres et l’Université catholique de Croatie (Zagreb)). De Boccard, Paris 2015.

[655] AE 2007, 1098.

[656] AE 2009, 1018 a.

[657] AE 2011, 919.

[658] AE 2009, 1011 (M. Glavičić).

[659] A. Szabó, Pannoniciani sacerdotes, Pécs 2006, vd. AE 2006, 1028.

[660] AE 2006, 1040.

[661] AE 2006, 1093 (Á. Szabó).

[662] AE 2006, 1088.

[663] AE 2008, 1075.

[664] Sul culto imperiale in Pannonia Inferiore, a Vinkovci, Cibalae: AE 2004, 1137 a-b (L. Leleković); a Sopron, AE 2009, 1046 = 2010, 1242 (Á. Szabó): una dedica [Divo] Commodo del 195 d.C., da rettificare.

[665] AE 2013, 1266, l’edizione va emedata.

[666] CIL III 10496, vd. ora AE 2000, 1220 (D. Fishwick); AE 2004, 1139.

[667] Ad es. AE 2004, 1137.

[668] AE 2001, 1696 e 2003, 1367 (Á. Szabó).

[669] AE 2010, 1277, vd. A. Mastino, L’erasione del nome di Geta dalle iscrizioni nel quadro della propaganda politica alla corte di Caracalla, “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, Univ. Cagliari”, II = XXXIX, 1978-79 (1981), pp. 47-81.

[670] AE 2006, 1181.

[671] AE 2007, 1213. Per Oescus in Mesia Inferiore, sede del concilio provinciale fino al termine delII secolo, AE 2007, 1220.

[672] AE 2009, 1196. Vd. già AE 2007, 1219.

[673] AE 2010, 1391 (K. Karadimitrova).

[674] AE 2007, 1059 (dove sono trattati anche i seviri delle Pannonie).

[675] AE 2008, 1159 (L. Mihailescu-Bîrliba).

[676] G.P. Marchi, Iscrizioni di Transilvania postillate da Scipione Maffei nel codice CCLXVII della Biblioteca Capitolare di Verona, in Roma e le province del Danubio, cit., pp. 343-348; A: Buonopane, Giuseppe Ariosti e le iscrizioni di Transilvania. Alcune considerazioni in margine al codice CCLXVII della Biblioteca Capitolare di Verona, ibid., pp. 349-373.