Giuseppe Contu: un barbaricino nel mondo arabo.

Giuseppe Contu: un barbaricino nel mondo arabo
Tra lingua araba e sarda a Sarule, convegno in onore del prof. Giuseppe Contu, ISSLA
14 maggio 2023

Cari amici,

Sarule ci è sembrato il luogo più giusto per ricordare Giuseppe Contu a tre anni dalla sua scomparsa avvenuta proprio qui il 7 gennaio 2020; qualche giorno dopo lo abbiamo ricordato nella chiesa di San Michele. A Sarule egli era nato il 12 ottobre 1947. Dopo il dolore per la perdita, oggi possiamo far riemergere mille episodi divertenti, ricordare uno studioso che ci ha aperto tante porte e che era capace di restare saldamente ancorato alla Sardegna interna guardando al Mediterraneo, al mondo arabo, dal Libano all’Egitto, dalla Tunisia al Marocco, partendo dal suo piccolo paese di origine, dai suoi boschi e dalla sua collina sacra.

Ho visto ricordato con affetto in alcune pagine delle sue pubblicazioni scientifiche questo paese – Sarule -.   Grazie a chi ha voluto quest’incontro, alla famiglia, agli amici, al Comune, all’ISSLA, all’Università, che hanno capito che anche da Sarule, soprattutto da Sarule, si può guardare ad un tempo  nuovo fondato sulla tolleranza e sul rispetto per gli altri, sul pluralismo e il valore delle diversità in un Mediterraneo dove il mare non sia più una frontiera, ma la piazza di un’interazione pacifica, per usare le parole di Edgar Morin, per il quale dobbiamo constatare che i futuri impensabili del nostro passato sono diventati ora futuri impensabili del nostro presente.

Mi ricordo un tempo lontano: quando la Provincia di Nuoro decise di depolverizzare tutte le strade, Sarule fu collegato oltre che con Ottana con una rapida bretella anche con la nuova SS 389 tra Nuoro e Lanusei verso l’Ogliastra, passando per il bivio di Mamoiada e per la galleria di Correboi.  I nostri autisti scoprivano le nuove scorciatoie. Sarule divenne uno snodo decisivo tra il Marghine e la costa orientale, negli anni in cui si parlava del Parco Nazionale del Gennargentu dopo il fallimento dell’industria a Ottana: più tardi ricordo i tanti viaggi per partecipare ai diversi convegni ogliastrini organizzati per definire l’identità storica della nuova provincia, come a Jerzu-Lanusei-Arzana-Tortolì, nel 1997. Per far prima, passavamo da Sarule e attraversavamo nel pomeriggio il paese completamente deserto; l’unico che passeggiava lungo la circonvallazione era Giuseppe Contu, che ci accoglieva senza preavviso, con sorpresa e simpatia, con il sorriso fatto di quella complicità che sempre ci riservava. E poi questo suo accento fortissimo in un nuorese stretto, il colpo di glottide, le aspirate, come quando ci raccontò del fatto che Antonella era rimasta inaspettatamente in dolce attesa di Francesca.  Ce lo diceva con orgoglio parlando con affetto di sa ‘emina, proprio come si dice nella Barbagia di Ollollai. Gonare era poi per lui il monte sacro, il segnacolo visibile da tutta la Barbagia, il luogo dove ben prima del santuario di NS di Gonare immaginava che vedette giudicali avessero controllato i confini tra Torres e Arborea e prima ancora soldati romani avevano osservato la strada per Sorabile Fonni a mille metri di altitudine. Del resto ci sono rimaste, sui fianchi della chiesa sul monte molte testimonianze materiali, in particolare monete romane, che piano piano sono riemerse dal terreno.  Ma Contu era uno studioso anche di tradizioni popolari, partendo da  Maimone e dalla mascara a gattu, con l’articolo di note orientalistiche sulle maschere del carnevale di Sarule.

Si era staccato dal paese per raggiungere Napoli dove si era laureato nel 1974in Lingue e civiltà orientali, poi era stato a lungo in Egitto. A Napoli presso l’Istituto Universitario orientale presto divenne Assegnista nella Facoltà di Scienze politiche (Discipline del vicino e medio oriente) fino al 1982; conobbe allora Sandra Parlato che insegnava Storia dei paesi islamici.  Ricercatore confermato a tempo pieno ancora a Scienze politiche dall’agosto 1980 al 1988, divenne professore Associato di diritto musulmano presso la Scuola di studi islamici della Facoltà di Scienze Politiche dell’Istituto Orientale di Napoli dal 1989; contemporaneamente incaricato e supplente di diritto musulmano a Scienze Politiche dal 1989 al 1990 e supplente di lingua e letteratura araba alla Facoltà di Magistero di Sassari, supplenza che mantenne per due anni.  Al termine di quasi vent’anni, si era così convinto di lasciare Napoli, trasferendosi definitivamente a Sassari il I novembre 1992, facendosi precedere dal suo capolavoro, la monografia Arabia preislamica uscita nei mesi precedenti. Qui da noi seguì la nascita della Facoltà di Lettere e Filosofia come prof. associato di Lingua e letteratura araba presso l’Istituto di Lingue dal novembre 1992 forte dell’esperienza maturata presso l’Istituto Universitario orientale di Napoli; allora il corso di arabo era diventato quadriennale prima a Lettere, più tardi dal 1996 anche a Lingue.  Qui riprese l’amicizia con Ignazio Delogu, iniziata nella commissione internazionale del PCI.

Su questa cattedra di Lingua e letteratura araba sostituiva il vescovo maronita Edmnd Y. Farhat  nato a Ain Kfaa in Libano a N di Damasco nel 1933, scomparso a Roma 2016, inizialmente  professore di diritto islamico a Magistero fin dal primo anno della Facoltà, il 1970, nominato dall’originario comitato tecnico composto da  Alberto Boscolo, il cristianista Antonio Quacquarelli e il romanista Pierangelo Catalano. Farhat era una personalità gigantesca, tra i primi studiosi dei manoscritti ebraici di Qumran che oggi si datano ad un secolo prima di Cristo. Farhat era un diplomatico di carriera, dal 1989 aveva lasciato la cattedra universitaria per supplenza nelle mani di Contu per diventare arcivescovo di Biblos, pro nunzio in Algeria e Tunisia, delegato apostolico in Libia, amico di Gheddafi, nunzio in Macedonia, Slovenia, Turchia, Turkmenistan, Austria. Ricordo il forte legame con Sandro Schipani nei suoi anni sassaresi, quando era maturato nel 1982 il progetto dei convegni de L’Africa Romana.

La partenza di Farhat e l’arrivo di Contu, professore confermato di Diritto Musulmanno dal 5 maggio 92 segnarono una svolta: superato nel 94 il Congedo straordinario per malattia come risulta dai documenti dell’Ufficio docenti e del nostro Archivio, tra il 93 e il 94 fu Supplente di storia dei paesi islamici presso la Facoltà di Lettere, quindi inquadrato nel settore L14 Lingua e letteratura araba dal 1995; dall’anno successivo si trasferì alla nuova Facoltà di Lingue e letterature straniere nata contemporaneamente a quella di Cagliari, coprendo per supplenza l’insegnamento di Filologia semitica nel 1998-99, di  Lingua araba dal 98 a Lingue, mantenendo la titolarità di Lingua e letteratura Araba a Magistero, a Lettere, poi a Lingue, anche a Cagliari tra il 98 e il 2000; ci aveva seguito nel 2013 nel Dipartimento di storia scienze dell’uomo e della formazione, istituito a seguito della riforma Gelmini. Tre anni dopo la pensione. Contu è stato soprattutto un iniziatore, un promotore, un facilitatore, pur di fronte a difficoltà incredibili degli studenti nella didattica e nella ricerca, che sono state via via superate anche grazie al Centro Linguistico di Ateneo e ai suoi lettori di madrelingua; oggi lo ricordiamo come studioso di storia contemporanea dei paesi arabi, di diritto e istituzioni musulmane, di lingua araba, di linguistica araba, sempre attento alla capacità di apprendimento degli studenti, organizzatore di cultura e di rapporti, promotore di incontri internazionali, capace di far arrivare colleghi dalle più autorevoli università egiziane. Molte sono le sue pubblicazioni dedicate in particolare alla Sardegna nelle fonti arabe, i rapporti tra l’isola e i Musulmani, partendo dal libro di M.M. Bazama, Arabi e Sardi nel Medioevo, Cagliari, 1988.

Aveva continuato i suoi viaggi in Egitto e nel Maghreb, le sue tante relazioni con studiosi arabi e con i suoi allievi sassaresi, Elias Naddaf e Ali Kalati, quest’ultimo autore di un’accusata rassegna sull’insegnamento della lingua araba in Sardegna per il secondo numero degli Annali di Lingue del 2005. Era entrato anche nel nostro mondo: nel dicembre 1994 aveva parlato a Cartagine all’XI convegno de L’Africa Romana su La scienza e le tecniche nelle province romane del Nord Africa e nel Mediterraneo: rappresentava la Facoltà e la cattedra di Lingua e letteratura araba, finendo per pubblicare poi negli atti curati dai suoi amici Mustapha Khanoussi, Paola Ruggeri e Cinzia Vismara un intervento in lingua araba nel quale sottolineava l’importanza di una stretta collaborazione tra ricercatori arabi ed europei in particolare tra Institut National du Patrimoine e Università, collaborazione che si augurava non restasse relegata nel campo ristretto delle ricerche scientifiche archeologiche sull’Africa Romana ma che potesse estendersi agli studi arabi e islamici e più in generale si allargasse allo studio della storia antica dei popoli del mare mediterraneo, come testimoniano altri suoi lavori nei quali partiva dagli Shardana e dai popoli del mare in Egitto, un tema recentemente rivalutato, con molta prudenza, da Gianni Ugas; oppure i Mauri della Sardegna, Idrisi e il carattere berberizzante dei Sardi, le civitates Barbariae del Nuorese, il misterioso insediamento di Sardanyyan nel Maghreb, temi in parte ancora oggi aperti e meritevoli di approfondimento.

Al successivo convegno de L’Africa Romana di Rabat, il 16° della serie, curato anche da Aomar Akerraz e Ahmed Siraj nel dicembre 2004, aveva presentato una relazione in lingua inglese su The Origin and Movement of the Berbers: Myth and Reality in Mediaeval Arabic Sources (comunicazione non svolta, che pure aveva suscitato il vivo interesse di Jean-Marie Lassère, p. 72). Intanto aveva preso a dirigere dal 2000 gli Annali della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Sassari, dove non mancano i suoi brevi e acuti interventi come quello del 2001 sugli Arabismi nel sardo, del 2003 su Sardinia in Arabic sources ripubblicati negli annali di Lettere di Palermo oppure quello del 2007 su Il sostegno italiano alla causa nazionale egiziana nel XIX secolo, comunque sempre in un orizzonte che comprendeva le due rive del Mediterraneo. Ancora nel 2010, nel 7° numero, Arabic Elements in Sardinia. Il convegno del 2006 su Il rapporto Isola/mondo, La Sardegna fra arcaismi e modernità (1718-1918) con gli atti curati da Giulia Pissarello e Fiamma Lussana, che hanno fatto emergere i rapporti “Arcaismi/modernità, Lingue locali/lingua nazionale, Immagini dall’Isola/immagini dell’Isola, Periferia/mondo, le quattro aree tematiche che hanno dato il titolo alle sessioni del Convegno. Storia, lingua e letteratura sono dunque state le chiavi interpretative per dar conto del difficile passaggio al moderno, dei suoi costi, ma anche delle sue prospettive. Dal confronto Isola-Mondo sono emersi caratteri, miti e riti della cultura regionale sarda che, anziché appiattirsi nella nebbia grigia e multiforme della società globale, si sono rivelati simboli forti e vitali di una tradizione culturale secolare e ricchissima, come aveva voluto sottolineare con lo spettacolo dei Tenores di Bitti”.

Al XV convegno di Tozeur (Ai confini dell’Impero: contatti, scambi, conflitti) del 2002 ci aveva aiutato nelle cerimonie per la Consegna di una medaglia d’oro per S.E. le Ministre de la Culture, de la Jeunesse et des Loisirs prof. Abdelbaki Hermassi e ho visto che in un suo articolo commentava molto emozionato le decisioni prese  dall’Unione degli storici arabi (Ittihad al-Mu’arrihin al-Arab) con l’intervento di Mohammed Beji Ben Mami, Direttore Generale dell’Institut National du Patrimoine di Tunisi e Vice presidente dell’Unione degli Storici Arabi, per la consegna della medaglia d’oro (onorificenza dello storico arabo Wisam al-Mu’arrih al-arabi).

Era molto attratto dal tema delle relazioni tra Africa e Sardegna quando in età vandala Carales divenne la capitale delle province transmarine del regno vandalo; e poi l’esarcato bizantino, l’occupazione di Cartagine, le responsabilità della Sardegna nel mondo bizantino e giudicale.  Più ancora l’atteggiamento democratico e anticoloniale che emerge a proposito della causa nazionale egiziana nel XIX secolo e il contributo dell’Italia garibaldina, mazziniana, repubblicana, socialista, comunista, anarchica per la fine del dominio turco e lo strapotere di inglesi e francesi dopo la realizzazione del canale di Suez (Annali 4). Insomma un democratico, pieno di sensibilità, di curiosità e di interessi.

Non posso elencare tutte le tesi di laurea discusse in quegli anni a Sassari:  Il possibile futuro del turismo in Sudan con Gavino Mariotti per Ibraim El Kher 2012; La diglossia nell’Egitto moderno, Manuela Madeddu, relatore Contu; Le serie televisive egiziane durante il mese di ramadan Tesi Valentina Piredduu, relatori Contu ed Elias Naddaf alla Facoltà di Lingue 2012; La calligrafia araba di Elena Serio Relatori Contu Naddaf 2014;Le donne che emigrano: difficoltà e integrazione di Emanuela Puggioni, Contu 2015

Ho visto ora che i suoi amici e colleghi del Dipartimento di storia, scienze dell’uomo e della formazione hanno voluto che l’insegnamento dell’arabo a Sassari non cessasse con lui.

Qualche tempo prima della sua scomparsa avevamo discusso a lungo con lui di Salvatore Cucca, il sorprendente poeta sardo-arabo, un intellettuale “caro a tutti i nuoresi per le sue avventure nordafricane che ne fecero poco meno che un nomade berbero”, studiato nel convegno nuorese del 1997 e poi più di recente da Dino Manca (Archivio Storico Sardo 2017) e in un’opera di Annico Pau su Sebastiano Satta: Francesco Cucca era nato a Nuoro nel 1882, servo pastore, garzone di cantina, minatore; all’inizio del Novecento il passaggio a Fonni da ziu Boelle, l’Iglesiente, il mondo nuovo della Tunisia al quale si avvicina “con curiosità e apertura, predisposizione empatica e forte intensità di spirito” (sono parole di Dino Manca).  Il Maghreb e l’Egitto in età coloniale, le Veglie beduine, le Galoppate nell’Islam, di cui Contu nel 1999 aveva studiato gli arabismi per La grotta della vipera, la lingua araba, quando “l’ignota stirpe selvaggia subito mi amò spalancandomi le porte del suo cuore”. E nonostante la distanza, il rapporto con Sebastiano Satta e Grazia Deledda. “Un giovane europeo di nome Làkdhar, giunto in Africa per ragioni di lavoro, decide, con dolore consapevole, di abbandonare la sua vecchia civiltà per diventare arabo. Rinunzia alle vesti e ai costumi occidentali, si spoglia completamente delle usanze del suo popolo e abbraccia in modo totale, moralmente e intellettualmente, anche nell’aspetto esteriore e fin nei minimi particolari, universo musulmano: nel modo di essere, di salutare, di intendere la vita e le cose” (p. 365).  Poi imprenditore in Tunisia, Algeria e Marocco, soprattutto poeta immerso in atmosfere incantate, impegnato a spezzare le catene del colonialismo, con nel cuore la Nuoro di Sebastiano Satta anche quando osserva un mondo lontanissimo e inizialmente incomprensibile quale quello berbero: “Mi ricorda quell’arabo grigiastro / randagio per le balze, nella sera, / voi, pastor di Barbagia, alla bufera, / dentro i manti d’orbace, col vincastro. E poi, riferendosi alla Sardegna: Come voi, re dei monti! Nel mattino, / Errante segue la sua greggia errante, /E sugli omeri porta i fiacchi agnelli…

Poesia che a me richiama tanti luoghi della Tunisia, dell’Algeria, del Marocco, ma anche la Libia di Melkiorre Melis. Eppure – osservava acutamente Brigaglia – Cucca era espressione di quella paesanità – non paesana di molti intellettuali nuoresi di questo periodo, intellettuali che pure sono immersi in un mondo di iscopiles dove vivono una turbolenta eppure aristocratica bohème. Del resto Cucca si fece arabo <<senza cessare, per questo, di essere sardo e senza questa duplice connotazione>> non è possibile comprenderne né la vita né l’opera. Sono parole di Giuseppe Marci.

Come per Cucca Nuoro, per Contu Sarule fu – assieme alla Sardegna – la prima protagonista del suo processo di formazione, partendo dai luoghi mai dimenticati, dalle tradizioni popolari, dalla lingua, dai boschi. Del resto per usare le parole di Pavese che gli erano care: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.

Attilio Mastino




Conclusioni al XXII Convegno de L’Africa Romana Sbeitla (Tunisia)

Conclusioni al XXII Convegno de L’Africa Romana
Sbeitla (Tunisia), 18 dicembre 2022

Cari amici,

la Tunisia profonda e Sbeitla, ci hanno accolto giovedì al tramonto, con gli edifici splendidi che raccontano culti lontanissimi da noi, illuminati a giorno: un mondo remoto e misterioso è riemerso all’improvviso con tutta la sua freschezza e la sua bellezza. Domani ci attende la visita alla fortezza di  Ammaedara-Haidra sotto la guida di François Baratte e di Cillium-Kasserine.

Nella cerimonia di apertura ieri siamo stati onorati dai saluti di Benvenuto di Samir Aounallah, dagli interventi di Ridha Rokbani, Gouveneur de Kasserine, di Mustapha Khanoussi per la Ministra des Affaires Culturelles, Faouzi Mahfoud, directeur général de l’INP, Paola Ruggeri dell’Università di Sassari che ha assunto il testimone per questa XXII edizione di un convegno iniziato nel 1984; e poi Frédéric Hurlet (Paris Nanterre), Sergio Ferdinandi, vice presidente ISMEO, la Associazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente, Luciano Colombo, prorettore alla ricerca dell’Università di Cagliari. Siamo stato poi allietati in apertura dalla musica tradizionale tunisina-algerina-sarda.

È stato fatto un grande onore a Féthi Béjoui, Mansour Ghaki, Mustapha Khanoussi, François Baratte, Louis Maurin e immeritatamente anche a me, come amico della Tunisia.  È un bellissimo riconoscimento. Si sono svolte in questi giorni le visite dei nostri studenti e dei nostri colleghi all’incredibile sito archeologico di Sufetula, con tanti amici che si sono mobilitati per accoglierci. Abbiamo apprezzato la generosità, l’amicizia, l’impegno organizzativo e scientifico di Samir Aounallah e dei nostri amici Tunisini.

Siamo stato accolti nelle belle sale dell’Hotel Resort Byzacène e dell’Hotel Sufetula.

Hanno partecipato ai nostri lavori quasi 200 studiosi, con 52 relazioni suddivise nelle diverse sessioni e alcune relazioni scritte (Miche Christol, Marc Mayer). Sono stati presentati otto poster e cinque volumi.

Sono pervenuti numerosi messaggi di adesione, da colleghi forzatamente assenti, dai colleghi malati, da molti studiosi che avrebbero voluto essere con noi: il tutto rivela una sorprendente attenzione per un’iniziativa nata quasi 40 anni fa.

Ringrazio i presidenti di Sessione, Cinzia Vismnara, Michèl Cotelloni Trannoy; Antonio Ibba, Sabine Lefebrvre; Pier Giorgio Spanu e Ali Drine; Elena Caliri e François Baratte; Antonio Corda e Mansour Ghaki; infine Jesper Carlsen. Le belle conclusioni di Claude Briand-Ponsart.

Tanti colleghi, tanti maestri  si sono confrontati fra loro in questi tre giorni, giovani che annunciano una generazione desiderosa i prendere il testimone, di proseguire su una strada incontri e di confronti tra le due rive del Mediterraneo.

Questo convegno ha potuto godere della presenza di alcuni insegnanti grazie all’iniziativa formativa Sofia.

Hanno organizzato queste giornate il Centro di Studi Interdisciplinari sulle Province Romane dell’Università degli Studi di Sassari (rappresentato dalla direttrice Paola Ruggeri), d’intesa con il Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione (rappresentato da  Pier Giorgio Spanu e Raimondo Zucca), con il Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali (rappresentato da Antonio Ibba), con il Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni Culturali dell’Università di Cagliari (rappresentato da Antonio Corda accompagnato dal Prorettore alla ricerca Luciano Colombo), con l’Agence de Mise en Valeur du Patrimoine et de Promotion Culturelle, con l’Institut National du Patrimoine de Tunisie (rappresentato dal Direttore Faouzi Mahafoud e da tanti colleghi), e con la Scuola Archeologica Italiana di Cartagine (rappresentata dal Presidente Attilio Mastino)  e l’Université de Paris-Nanterre (rappresentata da Frédèric Hurlet, che non dimentica i tempi luminosi di Ausonius), l’Association Historique et Archéologique de Carthage (rappresentata da Samir Aounallah dell’INP), con il patrocinio del Ministère des affaires culturelles de la Tunisie (rappresentato da Mustapha Khanoussi) e dell’Association Internationale d’Épigraphie Grecque et Latine (con tanti soci presenti e il saluto della Presidente Silvia Orlandi), dell’ISMEO (rappresentato dal vice Presidente Sergio Ferdinandi che ha portato il saluto del Presidente Adriano Rossi), con il contributo della Fondazione di Sardegna, sul tema  «L’Africa antica dall’età repubblicana ai Giulio-Claudii», con una sessione speciale sulle nuove scoperte epigrafiche. Voglio ringraziare di cuore per l’impegno personale, la passione, il lavoro svolto i tre nostri amici, Samir Aounallah, Frédéric Hurlet, Paola Ruggeri del Comitato scientifico ristretto.  Gli studenti, una ventina delle Università di Cagliari e di Sassari, coordinati e guidati da Alberto Gavini ed Ernesto Insinna.  Tutti si sono uniti ai veterani che ci accompagnano dai primi nostri incontri, Cinzia Vismara, Raimondo Zucca, Pier Giorgio Spanu, Mustapha Khanoussi.

Voglio citare però una persona speciale, che avrà un futuro: il nostro amico Haytem Abidi, sempre presente dietro le quinte, capace di risolvere  problemi insolubili.

Ben 13 paesi erano presenti ai nostri incontri, la Tunisia, l’Algeria, il Marocco, come di consueto; e poi la Francia, la Danimarca, l’Olanda, la Spagna, il Portogallo, l’Italia, la Germania, Malta, mi hanno detto di non dimenticare anche il Belgio e l’Argentina, un paese che domani affronterà una prova sportiva che seguiremo in diretta con la assemblea SAIC.

I temi del nostro incontro di sono concentrati attorno alle figure di Cesare e di Augusto, partendo dall’età repubblicana fino ai Giulio-Claudii, sempre osservando la nascita e lo sviluppo della romanizzazione, l’impianto delle nuove strutture di potere:  allora la geografia nella storia, la mappa geografica di Agrippa fino all’isola Canaria verso occidente e a Cirene ad oriente, che compare nel poster di Simona Antolini e di Silvia Maria Marengo.

Sono stati presentati i risultati di sintesi di lunghe ricerche sul terreno, di grandi imprese  internazionali. Giuristi, storici, archeologi, epigrafisti si sono confrontati al di là degli steccati disciplinari. Del resto Popper nel 1956 scriveva che «la mia disciplina non esiste, perché le discipline non esistono in generale. Non ci sono discipline, né rami del sapere o, piuttosto, di indagine. Ci sono solo problemi e l’esigenza di risolverli».. Anzi noi abbiamo mescolato le nostre storie, i nostri metodi, le nostre tradizioni.

Se c’è un aspetto che ha caratterizzato i nostri lavori in senso davvero nuovo rispetto alla tradizione è lo scenario quasi esclusivamente africano dei nostri studi, con puntate verso la Sicilia, la Sardegna, la Corsica. E poi i carmina, l’instrumentum, le defixiones con un’impressionante quantità di nuovi dati, le nuove scoperte, i nuovi governatori, le famiglie senatorie come i Domitii Aenobarbi, l’ordine equestre, le élites, gli imperatori fino a Nerone,  i re e le regine, le principesse africane, Publio Sizio Nocerino e la sua grande famiglia allargata, gli aspetti istituzionali, giuridici, l’agrimensura, le grandi proprietà, la distribuzione delle terre, il rapporto tra coloni e stipendiartii, le dediche religiose come ad Ain Moccola a Thugga, Frugifer e Serapide a Thabbora, la viabilità, i traffici, i mercanti, i cippi di confine, l’armamento degli eserciti da Annibale in poi, con metodi nuovi, con inquadramento storico, interpretazioni rinnovate, con l’attenzione per la geografia nella storia, le monete, i commerci, i dona licita e quelli inlicita. Da Sufetula ci siamo spinti fino in Mauretania, a Banasa, Volubilis, Caesarea, Cartennae; i Libykà di Giuba II, con uno sguardo sull’arte, i capitelli, l’artigianato locale.

E ora il futuro: per riprendere anch’io le belle parole del cantante poeta Pierangelo Bertoli vogliamo vivere a muso duro e  tenere un piede nel passato, ma lo sguardo dritto e aperto nel futuro.

Questo Convegno ha dimostrato la vitalità dei nostri studi, le attese che si sono sviluppate negli anni, il numero crescente di giovani specialisti che si sono lasciati coinvolgere.

Vi ricordo che i testi vanno raccolti entro il 30 marzo con il limite di 10 pagine, per il volume finanziato dalla Fondazione di Sardegna, che sarà firmato da Samir Aounallah, Frédéric Hurlet, Paola Ruggeri. Il prossimo convegno si svolgerà in un paese della riva sud del Mediterraneo, secondo le indicazioni del Comitato Scientifico.

Se c’è una cosa che vorrei dire alla fine è che emersa in questi giorni la vitalità dei nostri studi, la voglia di confronto, i nuovi linguaggi, la qualità dei nuovi ingressi, tutto testimoniato dalle discussioni e da un dibattito che è stato quanto mai animato e profondo. Una speranza non solo per i nostri studi e per gli studi classici, ma anche più vastamente per il nostro domani, il domani dei nostri figli, il futuro che intravvediamo, con le luci e le ombre che conosciamo. Ci siamo preparati bene: inaugurando la Biblioteca Sabatino Moscati a Cartagine sulla collina di Didone mercoledì scorso ho ricordato le belle frasi di Marguerite Yourcenar, <<Fonder des bibliothèques, c’était encore construire des greniers publics, amasser des réserves contre un hiver de l’esprit qu’à certains signes, malgré moi, je vois venir>>.

Le primavere arabe si sono trasformate in terribili inverni: vorrei oggi che gli amici della Tunisia, della Algeria e del Marocco lavorino concretamente per costruire un futuro diverso per tutti. Proprio in quell’occasione quattro giorni fa abbiamo firmato l’accordo tra la Scuola Archeologica Italiana di Cartagine e l’ISMEO, l’Associazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente rappresentata da Sergio Ferdinando, su delega di Adriano Rossi, con l’obiettivo di sostenere il dialogo interculturale e le collaborazioni transfrontaliere, in un quado più strutturato e con più risorse. L’assemblea della Scuola archeologica italiana di Cartagine ha dimostrato l’interesse, le attese, le domande che ci vengono proposte.

Buon rientro alle vostre case, grazie per l’impegno e l’amicizia davvero straordinaria.




Geografia, Geopolitica, Storia antica: Principi, prospettive, cooperazioni per la pace inevitabile.

Geografia, Geopolitica, Storia antica: Principi, prospettive, cooperazioni per la pace inevitabile
Istituto di studi e programmi per il Mediterraneo
Convegno Alghero 3 dicembre 2022

Intervenire in chiusura di questa due giorni su Principi, prospettive, cooperazioni per la pace invevitabile nel nome di Giorgio La Pira (Pozzallo 1904 – Firenze 1977) mi dà l’opportunità di rivolgere uno sguardo più distante ed imparziale, osservando le diverse posizioni assunte dai relatori su temi di bruciante attualità.

Ho riletto in queste settimane molte opere di La Pira e i commenti di Bruna Bocchini Camaiani, ricorando nel 1954 l’intervento a Ginevra alla sede della Croce Rossa (per altri aspetti citato da Franco Nuvoli) sul valore delle città di fronte alle armi nucleari: <<non hanno il diritto gli Stati di distruggere le città>>: tema che confligge con le immagini dei telegiornali di questi mesi. Dieci anni dopo quell’intervento di La Pira, nel 1963 Giovanni XXIII pubblicava l’enciclica Pacem in terris, indirizzata a tutti gli uomini di buona volontà, subito fatta tradurre in russo. Pietro Paolo Onida a sua volta ha richiamato il ruolo del diritto, un’ars, una scientia che non può essere l’espressione della forza del più forte, ma che detta regole anche per i momenti più drammatici del suo manifestarsi; allora possiamo disttinguere: hostes hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus; ceteri latrones aut predones sunt (D. 50,16,118)>> (Sandro Schipani). E Vanni Lobrano ieri è partito da una riflessione sulla martoriata Ucraina.

Il quadro nel quale ci muoviamo oggi è ancora una volta mediterraneo, partendo dai paralleli e dai meridiani: abbiamo rcordato nei giorni scorsi a ll’Accademia dei Lincei a Roma la figura di Sabatino Moscati, al quale dobbiamo la blioteca di 6000 volumi che il 14 diembre inaugureremo sulla collina di Didone a Cartagine come Scuola archeologica italiana di Catagine e Institut National du Patrimoine. Nel suo ultimo libro, pubblicato postumo nel 2001, Sabatino Moscati affrontava I fondamenti della storia mediterranea come civiltà del mare e precisava che tutti avvertiamo <<l’inadeguatezza di una vera e propria storia mediterranea, proprio nel momento in cui il compiuto apporto di nuove conoscenze mostra la parzialità delle trattazioni esistenti. Anzi, si può dire che non esista finora quella vera e propria storia mediterranea in cui i singoli apporti debbono confrontarsi e integrarsi. Quando tale storia potrà essere scritta, è difficile dire: anche perché la fornazione degli studiosi (…) per aree culturali, non conosce ancora l’impiego integrale e di prima mano di un materiale così vasto, disperso, difforme. E tuttavia, la storia a dimensione mediterranea mi sembra la grande frontiera dell’avvenire, il necessario superamento di steccati anomali se non fuorvianti per la comprensione dell’unico denominatore valido e completo del mondo antico>>. Se vi è un protagonista ieri come oggi, esso è il mare. <<quel mare degli antichi che costituisce l’orizzonte, la condizione, il limite della loro avventura>>, fatta di pace ma anche di guerre, partendo dalla prima battaglia navale della storia combattuta nel mare sardo nel VI secolo a.C.

Nell’antichità per i Greci, il concetto di Pace non si limitava alla semplice cessazione o interruzione di una guerra esterna ma coinvolgeva i rapporti fra i cittadini all’interno della pòlis e fra gli abitanti di una comunità e il governo, abbracciando valori che trascendevano la sfera politica per arrivare a quella morale. Sin dall’età arcaica Eiréne, dono degli dei ed essa stessa divinità, era associata a Eunomìa (buon governo) e Dìke (giustizia); la sua presenza portava ordine e benessere, gioia e prosperità; nella scultura la dea tiene in braccio un bimbo, identificato come Plùtos (la ricchezza), che le accarezza teneramente il volto, un quadro familiare che materializza quelle che erano le speranze degli Ateniesi nel primo scorcio del IV secolo a.C.: la Pace quale fondamento della ricchezza, in particolare del commercio. In questo solco, liberata dagli orpelli mitologici della tradizione, matura la tesi di Aristotele che nella Politica fa della realizzazione della pace il fine ultimo della polis perfetta e conseguentemente fonda su questo obiettivo l’educazione del cittadino. Sempre ai Greci si deve il concetto di Pace Universale, quella che gli studiosi identificano come koinè eiréne, una pace almeno nelle intenzioni eterna e multilaterale, che coinvolge non solo i contraenti immediati ma, a prescindere dalla partecipazione della guerra, tutte quelle comunità che in un dato territorio partecipano a vario titolo ad un medesimo koinòn; essa si fondava sui principi condivisi dell’eleutherìa e della autonomìa (la libertà interna ed esterna) e rappresentava una sorta di dichiarazione sui diritti validi per tutte le città al di là dei singoli interessi, imposta e garantita da un organismo supremo con la forza delle armi.

Nel mondo romano il concetto di pax investiva originariamente la sfera sacrale della Roma arcaica e rappresentava l’atto di riconciliazione fra gli uomini e le divinità, fondamentale per la felice riuscita di qualsiasi impresa umana; successivamente pax indicò la riconciliazione fra gli uomini, sancita da un foedus. In questo contesto, la pax non pare aver assunto quelle caratteristiche civili tipiche dell’eiréne greca né tanto meno l’idea della pax sembra aver riscosso tale popolarità da suscitare in età repubblicana un culto specifico fra i cives-soldati, pure inclini a prestare attenzione ad alcuni concetti astratti (per esempio concordia, fides, honos, pietas, victoria, spesso associati alle qualità di un condottiero) ma curiosamente dimentichi di pax e quindi dell’epiteto pacator: unica rappresentazione sembrerebbe quella su un denario del 128 a.C. dove una divinità, Pax alla guida di una biga, stringe in mano un ramo d’ulivo e lo scettro. Ci toviamo di fronte ad una Pax che ha assunto le fattezze della vittoria trionfante sul nemico, dunque molto distante dall’Eiréne greca: una Pace conquistatrice, nata da una guerra vittoriosa condotta sotto l’egida di Roma. D’altronde la tradizione ricordava che la porta del tempio di Giano (Porta Ianualis) era stata chiusa prima di Augusto solo una o due volte a significare la fine di un permanente stato di belligeranza.

Una svolta fu rappresentata dalla consacrazione nel 9 a.C. dell’Ara Pacis nel Campo Marzio, voluta da Augusto per ribadire il tema della fine delle guerre. Pur non utilizzando apertamente il termine pacator, l’imperatore inizialmente si collega alle vittorie che avevano vendicato l’uccisione di Cesare;  accanto ad una Pax trionfante dopo le guerre civili, Augusto cominciò ben presto a pubblicizzare una “pace civile”, una nuova età dell’oro contrassegnata dalla provvidenziale presenza del princeps che aveva ripristinato la pax deorum infranta dalle lotte interne, che garantiva la libertas, la Salus publica e la Concordia civium La Pax di Augusto è eterna ed ecumenica, terra marique parta, non limitata alla sola Roma. Essenziali ci sembrano gli aspetti spaziali del potere, precocissimi ed introdotti già nel titolo stesso della Regina inscriptionum, le Res gestae divi Augusti, quibus orbem terra[rum] imperio populi Rom(ani) subiecit, tema completamente obliterato nel titolo greco leggibile ad Ankara. Il testo latino esprime l’ammirazione per il modello di un impero universale visto in positivo, come quello di Alessandro Magno. Augusto esalta le guerre combattute toto in orbe terrarum, in greco [κατὰ γῆν] καὶ κατὰ θάλασσαν, sempre riferendosi all’impero romano: più in dettaglio il primo imperatore constata di esser riuscito a far penetrare l’esercito ben al di là dell’Egitto tolemaico fino alla Nubia (Napata) e al Sudan (Meroe);  e, sulla riva sud-orientale del Mar Rosso fino allo Yemen e al Golfo di Aden:  veramente fino alla fine del mondo. Del resto il modello ideale propagandistico non viene abbandonato dai successori, neppure da Costantino nella seconda Roma e, fino ai nostri giorni permane un disegno imperiale che in qualche modo ancora sopravvive. Momenti essenziali sono Caracalla Pacator orbis e le monete dello sfortunato Valeriano, con la rappresentazione di Giove assiso in trono, con in mano lo scettro ed una patera, mentre ai suoi piedi è visibile l’aquila: un programma politico travolto con la cattura di Valeriano, che vediamo inginocchiato davanti a  Shapour I dei Sassanidi a Persepoli, schiantatosi nel confronto con un altro impero.   Riverberi della concezione di un imperatore “facitore di pace” si trovano ancora in Costantino liberator urbis e fundator pacis: in Lydia egli è [τὸν γῆς καὶ θαλάσ]σης καὶ παντὸς τοῦ τῶν ἀνθρώπων γένους δεσπότην. La Pax era ancora una volta conseguenza del charisma dell’imperatore resititutor rei publicae che aveva liberato Roma e l’impero dai tiranni, un concetto ripetutamente sottolineato nei panegirici e nelle iscrizioni come sull’arco di Costantino, che doveva celebrare il ritorno della libertas, accompagnata dalla Pax religiosa coi cristiani. Nelle monete Pax e la Res publica offrono una corona all’imperatore, giusta ricompensa per quanto Costantino, significativamente in abiti civili, aveva compiuto nei loro riguardi: la legenda Pax Aeterna Aug(usti) N(ostri) sottolineava l’inizio di una nuova era all’insegna della securitas e della felicitas. Col cristianesimo si perde il titolo di pacator orbis, dell’imperatore che estendeva su tutta l’ecumene il potere di Roma e stabiliva una pace eterna ed incontrastata: egli non era più sentito come Pacator giacché, come sottolinea Agostino, l’azione umana è assolutamente inadeguata al raggiungimento della pace perfetta, vanamente ambita dagli uomini ma concessa solo da Dio (Pax Christiana). Come nell’impero pagano, la pax rimane  indissolubilmente legata all’imperium ma la sua saldezza risiede nella dirittura morale ed istituzionale della Chiesa. Esiste poi un altro aspetto, quello della durata nel tempo del potere imperiale, che è naturalmente connesso con lo spazio, ancora una volta già con Augusto che conosce l’assimilazione a Dioniso e ad Eracle, nel quadro dell‘aeternitas, la durata infinita nel tempo della Fortuna, una virtù che avvicina il principe a Giove; in questo senso si spiegano le dediche Paci aeternae come a Roma dopo la fine del mondo giulio claudio.  Gli imperatori sono semper Augusti, perpetui, fundatores pacis oppure fundatores securitatis aeternae; Antonino Pio è omnium saec[ulorum] sacratissimus princeps. Di nuovo con Costantino  si amplia enormemente il riferimento all’aeternitas, la durata nel tempo che si aggiunge all’estensione nello spazio del potere imperiale : così ad Uchi Maius in modo quasi euforico è perpetuus semper Augustus, in un’iscrizione dedicata [d]omino triumphi, libertatis et nostro, restitutori invictis laboribus suis privatorum et publicae salutis; oppure a Roma dopo il secondo trionfo in Campidoglio ai piedi di Giove: restitutor humani generis propagatori imperii dicionisq(ue) Romanae, fundator etiam securitatis aeternae.

In questo momento di guerra in Europa come potremmo non pensare ai luoghi che amiamo, al Mare d’Azov, al lago Meotide ? sulle rive del Mar Nero, il Πόντος Εὔξεινος il mare ospitale percorso dagli Argonauti, il primo punto di incontro tra Greci e Cimmeri o Sciti o Rossolani e altri popoli o civiltà: un’area nevralgica (come non ricordare la guerra di Troia ?) alla quale si rivolgevano gli imperatori pacatores orbis. Il popolo misterioso degli Iperborei, il mito degli Argonauti e di Prometeo, e ancora Orfeo e Dioniso: miti che sviluppano davvero «la nozione del misterioso levante nella conoscenza del continente europeo verso le diverse rive mediterranee», considerato come territorio limitaneo, al di fuori della ‘civiltà’ classica. Oggi assistiamo a quello che nelle “visioni del Tragico” è stato definito il ritorno di Dioniso in luoghi che mantengono una fondamentale importanza per l’Asia con interessi strategici della regione sempre più rilevanti. A Phanagoria sul lato orientale della penisola di Taman oggi nella Federazione Russa nel 7 a.C. la βασίλισσα Δύν[αμις φιλορώ]μαιος si rivolge ad Augusto salvatore e benefattore, chiamandolo τὸν <π>άσης γῆς καὶ [πάσης] θαλάσσης ἄ[ρχ]οντα. Gli ultimi scavi – pubblicati recentemente dall’Accademia Russa delle Scienze – hanno consentito di precisare il ruolo di questa regina nella promozione del culto di Augusto associato ad Apollo. Sullo sfondo il Bosforo Cimmerio, il Caucaso, la conquista romana, l’occupazione da parte di Pompeo Magno del Ponto, gli accordi di Augusto signore del cielo, della terra, del cosmo con la Regina Δύναμις anticipano la translatio imperii da Roma a Costantinopoli e da Costantinopoli a Mosca “terza Roma”, ma insieme testimoniano una dimensione geografica che è anche culturale, l’aggregazione del Ponto Eusino al Mare Nostro. Sul piano strettamente geografico, possiamo utilizzare come significativo marcatore territoriale le iscrizioni, che testimoniano in alcune province ma anche in alcuni regni o in territori collocati ai confini rapporti inattesi ed una presenza che va ben al di là dei fines, del mondo conosciuto: penso al Corpus Inscriptionum Regni Bosporani, Moskau 1965, con i nomi di località che ormai ci sono noti, Cherson alla foce del fiume Dnepr sul litorale del Mar Nero a occidente della Crimea, l’antica Chersonesus Taurica (82 testi), Phanagoria nel Krasnodar Krai, in Russia (un testo greco, quello del re Tiberio Giulio Sauromàtes figlio di Rascuporide filocesare e filoromano) e Panticapeo oggi Kertsch sulla penisola di Taman (8 testi, tra i quali la dedica posta dalla colonia Iulia Felix Sinope per il re del Bosforo sotto Traiano. E poi soprattutto Sebastopoli in Crimea, con le sue 135 testimonianze epigrafiche, le sue dediche IOM Conservatori e Dolicheno, a Mercurio, a Ercole, a Vulcano, Sabazio, Nemesi conservatrix, Mitra, i suoi diplomi come nel 157 quello del marinaio di Olbìa oggi Parutyne, le iscrizioni imperatorie come per i Severi o per i vicennalia di Costante nel 343 a Panticapaeum, quelle militari dell’esercito Mesico inferiore, con questa mobilità che è tipica degli eserciti in marcia, le legioni, le coorti, le vexillationes anche della flotta di Ravenna, i marinai della classis flavia moesiaca. Oppure a Cherson la bilingue della vexillatio Chersonessitana in un decreto militare.  Queste sono le naturali premesse per il rarissimo titolo di κοσμοκράτορες portato sul Mar Nero a Mangalia da Diocleziano e dai tetrarchi alla fine del III secolo.

Come per gli scrittori augustei, anche per gli autori di età flavia e antonina era ormai indissolubile il legame fra Pax e imperium; progressivamente si prese coscienza dei vantaggi di una pace mondiale, ottenuta grazie all’auctoritas, alla fides, al consilium del princeps: nell’ Εἰς βασιλέα si ribadiscono i vantaggi di un libero e sicuro scambio commerciale  nell’impero; nell’encomio Εἰς Ῥώμην Elio Aristide loda il perfetto accordo fra imperatore e senato, evidenzia il consenso che il dominio romano riscuote fra i provinciali, sottolinea la sicurezza raggiunta nell’impero grazie al valore dei soldati, al numero degli eserciti in campo, alla saldezza delle difese sui confini, in sostanza fa riferimento a quella Tranquillitas Augusti, evocata già da Plinio il Giovane in una lettera a Traiano. Si tratta di un ideale per così dire “trasversale”, che coinvolge anche i primi scrittori cristiani: nel 177 Atenagora si augura che l’impero diventi culturalmente ecumenico, sottomettendo tutte le popolazioni externae; Tertulliano ricorda che i cristiani pregano per gli imperatori augurando lunga vita e orbem quietum.

Per citare un documento storico noto, agli anni di Vespasiano risale il celebre epitafio tiburtino di Ti(berius) Plautius Silvanus Aelianus, compagno di Claudio in Britannia, che ricorda il trasferimento di oltre 100.000 profughi transdanuviani giunti in Mesia ad praestanda tributa, dopo le prime vittorie sui Daci: l’irruzione romana nel Barbaricum scitico oltre il Dineper (il Borustene), e la raccolta di enormi quantità di grano; premessa per l’attribuzione degli ornamenta triumphalia e per l’iterazione del consolato nel 74.  Plauzio Silvano sarebbe stato onorato con le parole dell’amico Vespasiano al momento della morte: Scytharum quoque rege a Chersonensi quae est ultra Borustenen, obsidione summoto, primus ex ea provincia magno tritici modo annonam p(opuli) R(omani) adlevavit.

Sono i luoghi nei quali nei nostri giorni si combatte ancora una guerra sanguinosa, piena di crudeltà e di violenza, con riflessi immediati sull’esportazione del grano nei paesi in via di sviluppo, con uccisioni di soldati e di civili ed enormi masse di prigionieri. Nell’antichità le conseguenze delle guerre di conquista come dopo le campagne di Cesare in Gallia sono lo spopolamento, la depressione demografica, la riorganizzazione amministrativa (giuridica e dei confini tra città e popoli), l’acculturazione coatta dei principes locali, per arrivare allo sfruttamento delle risorse, alle profonde trasformazioni culturali, alla permeabilità di alcune frontiere, per non bloccare le vie di transumanza.

Sono stato a lungo incerto se affrontare il nostro tema esclusivamente dal punto di vista che ci è più abituale, quello degli antichi, oppure dal punto di vista dei moderni, per tentare di proiettarci sulle continuità fino ai nostri giorni, per ricordare il valore del patrimonio e della cultura classica, ma anche per non dimenticare il presente con le sue incognite, le sue tensioni, le sue incomprensioni, le sue ingiustizie, le sue violenze. Fino a spiegare alcuni fenomeni della comunicazione rapida e di sintesi anche sui social di oggi, che se consentono di migliorare le interconnessioni tra gli stati, fanno intravvedere i mille nuovi modi impiegati per giustificare i crimini di guerra, per definire bussole strategiche spesso impazzite, che pretendono di fornire orientamenti cruciali per i prossimi decenni.

Noi viviamo un tempo di trasformazioni, di rischi, di conflitto tra culture, tra popoli, tra paesi, anche per la nostra incapacità di comprendere gli altri, di sviluppare una pacifica vita in comune, di mettere da parte egoismi e interessi, di rifiutare integralismi e intolleranze, senza ingenuità perché i buoni propositi non bastano più di fronte alle forze in campo e all’ombra del conflitto nucleare. Il male è il nazionalismo dei nostri tempi, che ignora il pluralismo e il valore delle diversità in un Mediterraneo dove il mare non sia più una frontiera, ma la piazza di un’interazione pacifica, per usare le parole di Edgar Morin, per il quale dobbiamo constatare che i futuri impensabili del nostro passato sono diventati ora futuri impensabili del nostro presente (Alfredo Cacopardo). Ai nostri giorni, ci ha sorpreso l’accanimento e la barbarie di tante guerre in corso, che hanno provocato centinaia di migliaia di vittime, con terribili danni inferiti al patrimonio culturale che rappresenta una risorsa, <<ha un valore intrinseco, è una componente essenziale per lo sviluppo umano e svolge un ruolo fondamentale nel favorire la resilienza e la rigenerazione delle economie e delle nostre società… è la base per rilanciare la prosperità, la coesione sociale e il benessere delle persone e delle comunità>>. I Ministri della cultura del G20 nei mesi scorsi riuniti a Roma hanno chiesto la protezione del patrimonio culturale, la difesa di beni culturali insostituibili. Oggi si violano i diritti umani e culturali dei popoli e delle comunità, colpendo la diversità culturale e privando le persone e le comunità locali di preziose fonti di significato, identità, conoscenza, resilienza e benefici economici, costringendo intere città al buio e al freddo, sembra di tornare a quel Léon Werth, sfuggito ai nazisti, amico fraterno di Antoine de Saint-Exupéry, costretto a nascondersi nel Giura francese mentre il baobab dell’invasore tedesco avanzava ovunque, mentre gli artigli delle tigri lo graffiavano sanguinosamente: l’amico è evocato con parole davvero commosse, è ormai una persona grande che è stata un bambino, che abita in Francia, ha fame, ha freddo e ha molto bisogno di essere consolata. Del resto – forse scrivendo da Alghero: <<Se combatto ancora, combatterò un po’ per te. Ho bisogno di te per credere meglio nell’avvento di quel sorriso. Ho bisogno di aiutarti a vivere. Ti vedo così debole, così minacciato, che trascini i tuoi cinquant’anni sul marciapiede davanti a qualche povera salumeria, ore e ore, per sopravvivere un giorno di più tremando di freddo, nel precario riparo di un cappotto logoro. Tu così francese, ti sento due volte in pericolo di morte, perché francese e perché ebreo. Sento tutto il valore di una comunità che non autorizza più diverbi. Siamo tutti di Francia come di un albero, e io servirò la tua verità come tu avresti servito la mia>>.

Mi sono chiesto tante volte se gli avvenimenti militari dell’oggi cambino la percezione stessa del mondo antico; soprattutto se riducano oppure amplino la documentazione che ci è pervenuta, a partire dalla caduta del muro di Berlino nel 1989, in relazione al tema del limes, il rapporto tra Romania e Barbaricum, una periferia che si fece centro secondo la visione di Marco Valenti per Archeologia Barbarica: sarà sufficiente dire che il tema del declino e della caduta dell’impero rispetto al sistema mondo è ora discusso a favore di nuovi equilibri negli ecosistemi mediterranei, che le relazioni al di qua e al di là di quella barriera come fin qui è stata considerato il limes sono state continue ed intense, che molte testimonianze epigrafiche latine sono censite nel Barbaricum, almeno un migliaio, prevalentemente commerciali. E poi i confini tra province, tra città, tra agri della pertica coloniale e demanio imperiale. All’inizio del V secolo d.C. Arcadio Augusto avrebbe precisato partendo dalla seconda Roma: <<Abbiamo posto termini a Constantinopoli per lo più con segnali e simboli. In un fossato li abbiamo costruiti con calce e sabbia, e abbiamo posto carboni sotto. Nelle stesse province d’oltremare abbiamo posto anche termini di pietra, e sugli stessi termini abbiamo scritto i nomi dei fondi, in modo che si possa indagare le loro dimensioni>>, dunque sia nel mondo latino che nel mondo greco. Cinque secoli prima era stato fissato il confine della Tracia fino a Varna – Odessus: F(ines) terr(ae) Thrac(iae), poi definiti in rapporto con le terre di Odessa sul Mar Nero nell’età di Commodo. Che fossero necessari praesidia ob tutelam provin(ciae) Thraciae e l’intervento del legato imperiale per realizzare burgos et praesidia già nel 155 è sicuro grazie all’iscrizione di Serdica dove Antonino Pio nel 152 dispone praesidia et burgos.

Se usciamo dall’impero, dobbiamo innanzi tutto mettere in evidenza come siano numerosi i cimeli di età classica (per noi le iscrizioni): possiamo partire dall’instrumentum inscritto disperso nel mondo, ad esempio fino alla lontanissima Mathura in India centrale, per non parlare delle monete. L’epigrafia documenta in aree molto distanti l’arrivo della cultura greca e romana: mi limiterei a citare alcune iscrizioni dell’Azerbaigian come la dedica a Domiziano da parte di un centurione della legione XII Fulminata a Qobustan Qorogu sulla riva occidentale del Mar Caspio. Oppure il caso molto discusso delle iscrizioni rupestri greche e latine delle grotte di Kara Kamer in Uszbekistan sulla via della seta oltre il Caspio studiate da Yulia Ustinova dell’Università Ben Gurion, che addirittura pensava ad un Mitraeum della legio XV Apollinaris. L’Epigrafia – e non solo – finisce talvolta per sconfinare sul mito romanzato, a causa dell’impegno irrazionale indirizzato a cercare quel che si desidera trovare, ad es. testi latini nell’Asia centrale, come ha giustamente osservato David Baund, seguendo le istruzioni sulla necessità di rilanciare l’antica “via della seta” cinese: sono gli indirizzi tracciati dal Presidente Xi Jinping.  Del resto immaginiamo in futuro riflessioni più puntuali sulla pluralità delle identità locali, senza dimenticare Amin Maalouf e Les identités meurtrières, se davvero <<l’identità etnica è situazionale, costruita, negoziata e sempre fluida ma, come i rapporti di potere e la diseguaglianza sociale lasciano indubbie tracce materiali>> (Marco Valenti): sullo sfondo il tema dei processi di transizione in società complesse, articolate, più o meno avanzate.

Nel dopo Gheddafi – dopo i bombardamenti voluti dalla Francia –  in Libia abbiamo constatato  un’instabilità gravissima, una pesante crisi militare, che ha avuto immediati riflessi sul patrimonio archeologico, sui musei, sui siti antichi, per non parlare delle infrastrutture, dei porti e degli aeroporti; la seconda guerra civile combattuta a partire dal 2014 fino al processo di pace avviato due anni fa ha causato danni considerevoli all’economia libica; l’attività dell’ISIS prima a Derna poi a Sirte, la debolezza del Governo di unità nazionale, l’assedio di Tripoli hanno rappresentato il quadro generale di una situazione di forte instabilità che ha provocato l’abbandono e il saccheggio di alcuni territori. Sull’ultimo numero della rivista “Libya antiqua” abbiamo pubblicato l’iscrizione musiva di Tarhuna, fortemente danneggiata dal passaggio dei mezzi militari. La scena rappresentata sul mosaico sembra quella – notissima ai pittori greci– ambientata nell’isola di Sciro, alla corte del re dei Dòlopi Licomede, con Achille in vesti femminili, virginis habitum occultatum. Deidamia gli offre il figlio Neottolemo-Pirro, che forse lo seguirà a Troia. Nella stessa area, controllata fino a pochi anni fa dal gen. Khalīfa Belqāsim Ḥaftar, vediamo come il passaggio dei cingolati abbia danneggiato gravemente una struttura fortificata tardoantica, un gasr, impostato su una fattoria aperta di età precedente: il tutto oggetto di scavi clandestini.

Credo sia arrivato il tempo di distinguere tra colonialismo e sincero desiderio di conoscenza: abbiamo più volte riflettuto sulle fatiche e sui risultati delle ricerche epigrafiche condotte da tanti pionieri in zone di guerra. È soprattutto grazie a tutti loro, che il nostro sguardo ha potuto spaziare con uno straordinario ampliamento territoriale e geografico, nelle tre parti dell’ecumene romana, l’Africa, l’Europa e all’Asia, con un allargamento di orizzonti e di prospettive che permette di superare la visione ristretta del Mar Mediterraneo, prevalentemente basata su un asse Nord-Sud, e di ricordare quello che fu il bilinguismo ufficiale dell’impero dei Romani. Sono parole di Azedine Beschaouch. Già per Umberto Cardia, l’Africa è diventata una parte essenziale del più ampio bacino mediterraneo, un’area costiera non isolata ma che è in relazione con tutta la profondità del continente, trovando nel Mediterraneo lo spazio di contatto, di cooperazione e se si vuole di integrazione sovranazionale, in relazione con l’Europa e l’Asia. Abbiamo studiato per il convegno de L’Africa Romana a Djerba (il XIII della serie) il tema dei pionieri dell’archeologia, quando pensavamo fosse giunto veramente il tempo di guardare a distanza il problema della nascita dell’archeologia e di studiare la storia delle scoperte nel Maghreb, evidenziando errori, forzature e strumentalizzazioni del passato coloniale ma anche recuperando le figure di quei grandi maestri, europei ed arabi, pionieri che hanno lasciato testimonianze sincere di curiosità, di passioni, di interessi, che andavano inserite nel clima storico che essi hanno vissuto, spesso in periodi di guerre sanguinose, senza nulla dimenticare di un passato che comunque continua ad avere un suo significato per ciascuno di noi. Il tema investe aspetti politici importanti e chiama in causa innanzi tutto i rapporti tra Europa e paesi arabi.  L’impatto delle guerre mondiali e degli scontri locali sulla ricerca storica, giuridica, epigrafica è molto noto.

Théodore Reinach confezionava dal 1888 il Bulletin épigraphique a villa Kerylos à Beaulieu vcino a Monaco: da questo luogo incantevole sarebbe stata prelevata a forza nel 1942 dalla Gestapo Simone Veil, la futura presidente del Parlamento Europeo, finita ad Auschwitz. L’ho incontrata qualche anno fa, prima della sua morte, all’Ambasciata di Francia: mi ha sempre colpito il contrasto, che emerge nella sua autobiografia, tra la descrizione di un’infanzia gioiosa, tenera e felice nella villa di Beaulieu, l’elegante casa-museo, piena di calore da un lato; poi il racconto delle sofferenze della guerra nei territori occupati nel Midi dalle truppe italiane, l’arrivo della Gestapo a Nizza dopo l’armistizio, la discesa agli inferi con la deportazione fino al campo di Auschwitz. Negli stessi giorni arrivava e un mese dopo moriva nel campo di stermino l’epigrafista Mario Segre: era il 24 maggio 1944. Per Simone Veil dopo la liberazione, nel maggio dell’anno successivo, il desiderio di rinascere e di ricostruire, di trovare una famiglia, il numero tatuato sul braccio per tutta la vita.

Dunque la politica coloniale delle potenze europee: non mi nascondo il fatto che gravi abusi sono stati compiuti dalla politica coloniale fascista, definita da Benito Mussolini e dai Savoia, attuata in Cirenaica, in Tripolitania e nel Fezzan da Italo Balbo: la grande statua equestre di Mussolini davanti al castello rosso, il museo di Tripoli, ricorda che “tornammo là dove già fummo”, con la retorica dei benefici elargiti da Roma, ripensando alla Carta di Agrippa nella Porticus Vipsania e ora alla Via dei Fori imperiali. All’interno del museo archeologico di Tripoli, nella prima sala, Gheddafi volle la sua prima Volkswagen, ora danneggiata dopo quella che si chiama impropriamente la primavera araba, in realtà un terribile inverno.

Senza dimenticare gli antifascisti impegnati tra gli archeologi, come quel Doro Levi, direttore della Scuola archeologica Italiana di Atene e Soprintendente a Cagliari (Trieste 1898-Roma 1991). Temi che interpellano tutti noi, che richiamano l’impegno che dobbiamo garantire oggi di volgerci con rispetto ed equilibrio verso il passato e verso la salvaguardia del patrimonio. Ho voluto leggere molti lavori sulla relazione tra i crimini di guerra e la distruzione dei beni culturali: la schizofrenia della guerra, le devastazioni che hanno colpito il patrimonio durante il lunghissimo secolo breve, fino alla caduta dell’Unione Sovietica e al crollo del muro di Berlino. Dobbiamo richiamare le terribili devastazioni da parte dell’ISIS in Medio Oriente. Palmira, Ninive, Mosul, Aleppo. L’UNESCO ha affrontato il problema delle nuove sfide con lavori dedicati alla previsione del rischio, alla risposta civile di fronte ai crimini contro il patrimonio, al genocidio culturale, alla protezione del Cultural Heritage, ai conflitti, con un primo tassello che deve necessariamente richiamare la Convenzione per la protezione di beni culturali in caso di conflitto armato stipulata a L’Aja nel 1954 che prevede come le Parti Contraenti si impegnano ad assicurare l’immunità dei beni culturali sotto protezione speciale astenendosi, a decorrere dall’iscrizione nel Registro internazionale, da ogni atto di ostilità. Recentemente Silvia Chiodi ha scritto nel volume sui Beni Culturali e i conflitti armati (Le sfide e i progetti tra guerra, terrorismo, genocidi, criminalità organizzata) che <<Il patrimonio culturale è di tutti, un raro caso in cui ogni essere umano dovrebbe essere consapevole che omnia sunt communia. A tutti appartengono il patrimonio italiano, quello cambogiano e quello siriano>>. Lasciamo da parte in questa sede la vicenda notissima dell’attentato al Museo Nazionale del Bardo di Tunisi del 18 aprile 2015: le ferite sono ancora sanguinanti e il Museo è di nuovo chiuso. Ma <<la Tunisie restera debout>>.  Tra le regioni che più hanno sofferto c’è sicuramente il Libano, che soprattutto durante la guerra civile, ha subito saccheggi e spoliazioni; più in generale, tutto il Vicino Oriente, gli scavi clandestini e l’alimentazione del mercato antiquario con cimeli di dubbia provenienza rappresentano una piaga diffusa. Ma come dimenticare Betlemme, il muro, le tracce della sparatoria nel chiostro della chiesa francescana, la sofferenza dei palestinesi ?

Devastazioni abbiamo osservato in Iraq ad Hatra, a Mossul nel Museo, dal 2003. Ancora in Iraq il saccheggio e la devastazione del museo di Baghdad durante l’operazione Antica Babilonia e la seconda guerra americana del Golfo. La storia e la ricchezza culturale della Siria, Palmira, Dura Europos e Aleppo, rivelata al mondo anche grazie all’impegno di centinaia di archeologi, ricercatori e viaggiatori, rischia ora di scomparire: nonostante il conflitto armato e i pesanti danni, la comunità civile e gli esperti locali hanno provato a salvare lo straordinario patrimonio archeologico siriano e continuano quotidianamente a farlo nelle aree a rischio di saccheggio. Ci sono associazioni che tentano di promuovere la cultura per contribuire alla tutela dei siti di interesse archeologico; formare personale qualificato per la tutela dei beni culturali; avviare collaborazioni intrernazionali.  Proprio uno dei siti UNESCO in Siria, Palmira, ha subito nel 2015 un affronto terrificante per mano dell’ISIS il teatro romano adiacente al tempio di Bel, fatto esplodere con la dinamite nel 2015 con altri templi, le tombe a torre, l’arco onorario. Vogliamo ricordare Palmira per il suo massimo archeologo ed epigrafista, Khaled al A’sad, decapitato il 18 agosto 2015 dopo un mese di terribili sofferenze. All’epigrafia latina è dedicato l’importante articolo di Kaled As’ad sulla “Revue des études anciennes” del 2002,, con 31 iscrizioni trilingui, in latino, greco, palmireno. L’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria ha ricordato come l’uccisione di Khaled al-As’ad sia stata un’esecuzione pubblica, alla quale hanno assistito decine di persone. Poi i miliziani del DAESH hanno spostato il corpo dell’anziano archeologo, appendendolo a una colonna dell’antica capitale imperiale, perché non aveva voluto rivelare il luogo dove erano stati nascosti reperti romani del sito. Ci rimane nel cuore la sorte del nostro amico archeologo siriano nei primi giorni della “primavera araba”, dopo un mese di torture, magari per inseguire microscopici obiettivi di parte, tra speculazione, traffici illeciti, bieco affarismo. Il progetto dell’Isis nei confronti del patrimonio archeologico era chiaro: l’iconoclastia non è un fatto nuovo nella storia e non è sostenuta da alcuna motivazione sincera. Non c’è più oriente o occidente, romani o arabi, cristiani o musulmani, se ad esempio in Libia abbiamo potuto contare oltre cento siti islamici distrutti dal Daesh nello scontro tra sciiti e sunniti; ne abbiamo tratto un appello all’Unesco e all’Alecso. L’anno successivo l’orchestra del Teatro Marinskij di San Pietroburgo diretta da Valerj Gergiev ha tenuto un emozionante e indimenticabile concerto nel teatro devastato.

È passata molta acqua sotto i ponti e si è arrivati al riconoscimento dei beni collocati nel patrimonio dei beni mondiali immateriali, nella prospettiva dell’agenda 2030 e dello sviluppo sostenibile. Temi che in questa sede possiamo solo sfiorare, anche perché la guerra rischia ancora di cancellare l’uomo dalla storia, per usare le parole di Papa Francesco: scrivo nei giorni delle rinnovate preoccupazioni per i Musei di Leopoli o di Odessa, mentre osserviamo i cittadini portare in salvo le opere d’arte esposte ai bombardamenti, con un’interminabile guerra che non riesce a trovare le sue giustificazioni e allunga sempre più le sue ombre. Lev Dodin, il grande regista teatrale russo, direttore del Malyj Teatr, su Liberation ha scritto che <<La missione dell’arte e della cultura è sempre stata ed è ancora, soprattutto dopo tutti gli orrori del XX secolo, quella di insegnare agli uomini a prendere le disgrazie degli altri come proprie, a capire che non c’è una sola idea, anche la più grande e la più bella, che valga una vita umana. Possiamo già dire oggi: ancora una volta, la cultura e l’arte hanno fallito la loro missione>>.  Il 21 agosto scorso in un attentato a Mosca, sotto gli occhi del padre, è stata uccisa Darya Dugina,  la figlia dell’idelogo di Putin Alexandr Dugin.  Sull’altro versante il direttore del Kherson Music and Drama Theatre di Kherson Yuriy Kerpatenko è stato ucciso dai militari russi il 14 ottobre per non aver concesso un concerto agli occupanti. Per non citare il filologo ucraino Olexander Kisliyk, il primo caduto, nel marzo scorso.

Se solo i belligeranti in questi mesi arrivati fino alla centrale atomica di Zaporizhzhia potessero rinsavire, la lettera Z dipinta sui carri armati che evoca Za pobedu potrebbe trasformarsi nella vittoria di tutti, non in senso militare ma per la diplomazia internazionale, la ragione e l’umanità. Ma ancora non si arriva al cessate il fuoco. Eppure ci sarebbero tante ragioni per un  Mediterraneo, che comprenda anche la Russia.

Il Presidente Mattarella   alla Comunità di Sant’Egidio il 21 ottobre ha affermato: «La sciagurata guerra mossa dalla Federazione Russa contro l’Ucraina rappresenta una sfida diretta ai valori della pace, mette ogni giorno in grave pericolo il popolo ucraino, colpisce anche il popolo russo, genera drammatiche conseguenze per il mondo intero. Quell’aggressione stravolge le regole, i principi e i valori della vita internazionale». E la martoriata Ucraina di Papa Francesco, che pure aveva denunciato  l’abbaiare della NATO alle porte della Russia. Le camere di tortura: gli ucraini vittime di una «aggressione inaccettabile, ripugnante, insensata, barbara, sacrilega», il 17 ottobre scorso. Nessuna motivazione politica ideologica anche alta può giustificare l’uccisione di civili: <<Chiedo in nome di Dio che si metta fine alla follia crudele della guerra. La sua persistenza tra noi è il vero fallimento della politica. Il commercio internazionale di armi>>. Venga estirpata dal pianeta l’arma atomica: <<L’esistenza delle armi nucleari e atomiche mette a rischio la sopravvivenza della vita umana sulla terra. Non esiste occasione in cui una guerra si possa considerare giusta. Non c’è mai posto per la barbarie bellica. La guerra è anche una risposta inefficace: non risolve mai i problemi che intende superare>>. Il Pontefice indica la via della soluzione: <<servono dialogo, negoziati, ascolto, abilità e creatività diplomatica, e una politica lungimirante capace di costruire un sistema di convivenza che non sia basato sul potere delle armi o sulla dissuasione>>.

Lasciatemi tornare ad Alghero alla fine di questo intervento: accanto alla Casa del Fascio in Piazza San Marco a Fertilia sorge un monumento moderno di Mario Nieddu, pensando a Ferrara, ai profughi istriani, di Fiume e Dalmazia, a quelli della Libia, con scolpite le semplici parole di Gino Strada: SE AMI LA PACE, COSTRUISCI LA PACE.

Attilio Mastino




Parole in opera di Alberto Merler

Parole in opera di Alberto Merler
Sassari, 30 novembre 2022
Presentazione

Per la seconda volta in pochi mesi Aberto Merler cerca di capire e farci capire la strada attraverso la quale riuscire a scavalcare il dolore e la solitudine, dopo il lutto e il confinamento, oltrepassando una voragine che avremmo pensato insuperabile, con la voglia di ristabilire relazioni, di riaffermare valori positivi, di rispondere con generosità alle prove davvero difficili e crudeli alle quali è stato sottoposto per lunghi anni. Ma sbaglieremmo se pensassimo che i due volumetti Oltre la solitudine, Proseguire nel cammino dell’esistenza, e Non basta per essere maestro ed altre parole, Edizioni Ave, Roma 2021 sono volumi ingenuamente positivi, capaci di sciogliere prodigiosamente i tanti nodi dell’esistenza e di ri-orientare il destino: alla base, anche se non è mai citato, c’è il libro di Giobbe nella lucida e dolente interpretazione di Totti Mannuzzu (Il dolore e il desiderio): insieme una confessione, una protesta per lo scandalo del dolore umano, una speranza.

E soprattutto c’è il De magistro col quale Agostino di Ippona si sforza di chiarire il metodo dell’insegnamento e il rapporto tra il docente e gli allievi: del resto torna il tema – modernissimo – del rapporto tra segni e significati, verso una nuova frontiera tracciata oggi dalla filosofia dei linguaggi, con un approccio diverso rispetto all’universo dei segni che utilizziamo quando entriamo in relazione con altri uomini e con le cose. Per vedere davvero non bastano i suoni, i segni, neppure i fatti: noi non possiamo parlare delle cose, ma delle immagini impresse e affidate alla memoria, perché noi portiamo quelle immagini nella profondità della nostra memoria, come documenti di cose percepite precedentemente. Ma sono documenti davvero solo per ciascuno di noi.

Non c’è in queste pagine la pretesa di continuare ad insegnare agli altri, come Alberto ha fatto per tutta la vita; c’è più modestamente il desiderio di far riemergere i valori, di cogliere impressioni, di tramettere sensazioni, di riproporre una musica lontana che appena si ode, di ricostruire attraverso il suono un ambiente amato, di far rivivere le persone più care. C’è una parola straordinaria che ritorna più volte in queste pagine, il profumo, che è capace di far superare le distanze nello spazio e nel tempo, di riportarci istantaneamente a cogliere i lineamenti, di stimolare la memoria, di riportarci ad esperienze vissute, di collocarci in una relazione con gli altri che il mondo rischia di perdere irrevocabilmente.

Alberto non utilizza in queste pagine di scritti liberi il metodo filologico che ha impiegato mille volte nelle sue tante ricerche scientifiche, capaci di dire parole nuove nel campo della sua disciplina, la sociologia, con una produttività che gli abbiamo invidiato; del resto le discipline non esistono, esistono i problemi (Popper) e ora li si deve affrontare e risolvere con semplicità, con pazienza, con l’accettazione delle prove.  Al centro c’è ancora un mondo di relazioni e di reti, c’è soprattutto il rapporto con gli alumni, siano essi i figli, i nipoti, gli studenti, gli allievi che ha amato e che dice di amare ancora davvero.

Il discorso viene affrontato in modo originale fuori dai luoghi comuni e apparentemente senza il condizionamento di note, di rimandi dotti, di precisazioni, di confronti; eppure questi sono due libri molto colti, testimoniano letture originali, raccontano un cammino di maturazione e di contaminazione fondato sull’ascolto, sul dialogo, su un percorso che non ha urgenze ma conosce solo la delicatezza, l’accoglienza, la passione, la capacità di stupirsi, il coraggio, la lealtà, perfino l’umiltà e il silenzio. Allora  il valore della scrittura e della parola ascoltata e pronunciata, soprattutto della poesia.  Conoscevamo tutti Alberto come un democratico pieno di sentimenti, di curiosità, di interessi, capace di aprirsi agli altri, insieme rigoroso e severo, incapace di concepire l’odio, la vendetta, l’ingiuria, l’invidia, il razzismo;  oggi lo scopriamo profondamente ferito ma  più saggio, più aperto verso gli altri, più ricco di esperienze, forse ancora non completamente guarito  ma pieno di affetti.

Ho visto Alberto muoversi con sensibilità nel campo dell’associazionismo, del volontariato, con una profonda simpatia per la sofferenza degli altri, per gli ultimi e gli emarginati, perseguendo i valori di un impegno civile  nel sociale e nelle comunità, come a proposito della cura per i malati terminali; non è mai stato, come pure tanti di noi, un egocentrico con il baricentro piegato sul proprio ombelico, portando con sé le mille esperienze accumulate in tante parti del mondo, in tanti luoghi, da San Paolo del Brasile  al Trentino, da Pechino alla Sardegna.

<<Vi sono circostanze, calamità naturali come il terremoto o eventi drammatici come la pandemia – ha detto ieri a Pescara il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella – , che inducono a ritrovare le ragioni della reciproca solidarietà, e che inducono anche a rivolgersi a elementi e agli aspetti più importanti della convivenza. La cultura è uno di questi>>.

La porta è dunque spalancata, non solo aperta, <<per riappropriarsi dell’esprimere il sentire, del dire e di essere ascoltati>> nel campo della cura amorevole, della gentilezza, dell’attesa, della modestia, del coraggio, del discernimento, della riservatezza, con desiderio di esplorare e di scoprire.  Una bella lezione per tutti.

Attilio Mastino




La romanizzazione della Sardegna (A bonas o a malas) di Pietrino Soddu, Edes 2022

La Nuova Sardegna 16 novembre 2022

Pietrino Soddu continua la sua riflessione non convenzionale sulla storia della Sardegna, leggendo ora la lunga fase romana con gli occhi emozionati e commossi di un esordiente, quasi uno studente che scopre un mondo nuovo e inatteso: aveva presentato questo suo progetto cinque anni fa a Manlio Brigaglia ed a me in un bar di Viale Umberto a Sassari, con il desiderio di coinvolgerci, per arrivare in profondità, conoscere meglio i documenti, raccogliere informazioni,  collegare alla storia la geografia dell’isola che gli è più abituale, partendo dai monti che chiudono la prima Vallata del Tirso occupata dagli Iliensi per andare alla ricerca delle continuità, delle trasformazioni, delle radici dell’identità della Sardegna di oggi.

Il punto di osservazione sono ovviamente le sorgenti salutifere delle Aquae Lesitanae e la città di Lesa e poi Benetutti con Sa Costera (ancora nell’Ottocento punto terminale dell’abigeato) e poi la Barbagia, luoghi che conservano le fasi più arcaiche della lingua latina, ma anche territori che l’autore considera suoi ed ai quali continua ad appartenere fino in fondo. La scena è animata – in prosa  ed in poesia – dagli interventi di tanti personaggi diversi, capaci di render conto della varietà delle interpretazioni e dei molti riflessi sulla storia lunga dell’isola.

A parte la sorpresa per l’impegno davvero significativo, debbo dire che ho apprezzato la freschezza, lo sforzo interpretativo, la voglia di verificare le posizioni di Emilio Lussu, Giovanni Lilliu, Manlio Brigaglia, Giulio Angioni, Ettore Pais, Piero Meloni, fino all’ultima generazione di storici, sempre cogliendo il progresso dell’interpretazione con lo scopo di guardare all’avvenire della Sardegna, alla sua resurrezione dopo la lunga fase coloniale, per capire il contributo della cultura latina, le eredità, ma lasciando alle spalle ideologie e luoghi comuni.

Già Robert J. Rowland considerava troppo semplicistico il concetto di “isolamento” per la Sardegna interna, abitata da popolazioni locali ribelli ai Romani e resistenti grazie all’insularità ed all’asprezza del rilevo geografico della Barbagia, tema che dovrebbe essere verificato da un punto di vista territoriale e valutato nelle diverse epoche storiche. Questo cliché sarebbe per gran parte determinato dall’unilateralità della documentazione ed in particolare dal fatto che la letteratura antica si è occupata della Sardegna quasi esclusivamente in occasione della sanguinosa conquista e delle diverse ribellioni. La ricostruzione storica non può partire da formule, ma deve tener conto della complessità delle situazioni: le influenze esterne incrociate sulla Sardegna non possono essere definite sbrigativamente come “interferenze” su una cultura di sostrato solida ed immutabile. Quella sarda fu una società tradizionale e fortemente conservatrice, certo, ma costantemente trasformata e rinnovata dall’esterno. Gli indici di romanizzazione della provincia, se attestano attardamenti e resistenze e se testimoniano una vasta povertà rurale in alcune aree, confermano però che i Romani non furono soltanto degli esploratori e dei rapaci sfruttatori delle risorse locali, ma contribuirono a trasformare l’intera società sarda, garantendo lunghi periodi di prosperità. L’esperienza romana fu dunque più vasta e più profonda di quanto non sia stato fin qui supposto: in questo senso la Sardegna, periferica da un punto di vista culturale ma collocata geograficamente al centro dell’impero, fu in età romana il grande ponte attraverso il quale passarono innovazioni e rivoluzioni culturali originatesi nelle diverse rive del Mediterraneo: esplorare il confine tra romanizzazione e continuità culturale è compito che lo storico deve ancora affrontare, al di là della facile tentazione di impossibili soluzioni unitarie.

Le origini contano e l’a. ritiene ora che attraverso il porto di Olbia e (addirittura) la Gallura dei Corsi la cultura romana sia penetrata profondamente in Sardegna: superata la fase delle rivolte, da Ampsicora in poi, superata la “depressione demografica” causata dalle grandi spedizioni militari come quella di Sempronio Gracco, di Cecilio Metello, Aurelio Oreste, già con Cicerone si pone il tema della consapevolezza dell’esistenza di una “nazione sarda” che aspetta un suo riconoscimento : secondo Pietrino Soddu un’ipotesi sorprendente potrebbe esser quella che segrete carte di Cesare trovate da Marco Antonio dopo le Idi di Marzo potessero conservare tanti progetti, con le idee definite nella lunga visita a Caralis e nel soggiorno in Sardegna: il dittatore si sarebbe proposto di abolire la provincia romana, responsabile di tanti massacri con i suoi legionari e i suoi proconsoli, per immaginare una fase nuova, di sviluppo civile, voluto dai populares per i loro sostenitori sardi, divenuti cittadini romani, soggetti di diritti, capaci di riconquistare nella pace l’antica libertà. Naturalmente nessun rapporto col fatto che Soddu sia stato uno degli ultimi Presidenti della Provincia di Sassari. Qui il tempo si sarebbe misurato in un altro modo e avrebbe finito per diventare uno spazio dove potevano vivere sia i vincitori che i vinti, gli oppressi e gli oppressori, i sani ei malati, i poveri e i ricchi. È forse una visione velleitaria, ma lo sguardo dovrà in futuro certamente estendersi al secolo d’oro dell’età romana, quello degli Antonini, per spingersi forse fino ai nostri giorni.

Del resto noi possiamo affermare che l’identità della Sardegna di oggi è fortemente influenzata dalle eredità romane, espressione di una storia lunga che in qualche modo condiziona anche la società contemporanea: la lingua sarda innanzitutto, la toponomastica, ma anche i percorsi della viabilità, il paesaggio trasformato dall’uomo, le bonifiche delle aree palustri, alcune forme dell’insediamento, le vocazioni stesse del territorio, le colture agricole, l’allevamento con le sue specifiche competenze e le sue tradizioni millenarie, ma anche le attività minerarie, la pesca, la raccolta del corallo, per non parlare di alcune tradizioni popolari che si collocano in una linea di continuità con il passato: un nuovo equilibrio e un nuovo rispetto per il contributo dato da Roma in Sardegna nell’età imperiale.  Contro il luogo comune che fa dei Romani dei rapaci sfruttatori delle risorse della Sardegna, emerge l’idea di un progresso e di una novità che in qualche caso è arrivata fino a noi.

Attilio Mastino




Ottobre in poesia: Giuanne Fiore, Sas primas abbas di Soter editrice. Festival internazionale di poesia della Sardegna

Ottobre in poesia: Giuanne Fiore,  Sas primas abbas di Soter editrice
Festival internazionale di poesia della Sardegna
Ittiri, 23 ottobre 2022

Conosco il poeta Giuanne Fiore da decenni, perché ho avuto modo di seguirlo tra i protagonisti del  Premio città di Ozieri già con Nicola Tanda e più di recente, sfogliando gli archivi di Via Ugo La Malfa o come membro della Giuria del Premio Antoni Sanna: nel 2020 Giuanne Fiore ottenne il I premio con In su montiju meu, col voto di molti oggi presenti (Anna Cristina Serra, Clara Farina, Salvatore Tola, io stesso e non solo).  Ma i riconoscimenti ottenuti sono stati moltissimi anche fuori dalla Sardegna.

Poche settimane fa mi ha regalato le sue più  belle raccolte di poesie:

Tempos, Sos Sonettos, Domus de Janas e Soter  2012 con 50 anni di sonetti

Bisos e chertos, Soter editrice,  I volume,  Poesie con presentazione di Nicola Tanda e Paolo Pillonca e II volume glossario sardo-italiano 2004

Terra mia istanotte mi ses cara, con Salvatore Ligios, 1999 Soter, Poesias e Fotografias introduzione di Paolo Pillonca )

Opere che hanno al centro la contemplazione della natura e l’incontro con gli altri, con un garbo che ha una sua dignità, un suo stile, una sua dimensione positiva, che rivela la forte capacità di cogliere emozioni, sentimenti, aspetti indimenticabili di un’esperienza, una speranza.

Voglio ricordare la sua originale presenza in S’Ischiglia la rivista di poesia letteratura ed arte sarda fondata nel 1949 da Angelo Dettori.

Tornando indietro con la memoria mi sono restate impresse tante poesie dolci e amare che raccontano una vita ricca di sentimenti, di relazioni, di pensieri profondi, dalle origini contadine agli studi all’estero, dalle responsabilità sindacali nel settore agricolo e bracciantile della CGIL alla militanza in tanti premi letterari che hanno consacrato Fiori forse come il nostro poeta più profondo.

Ma oggi vorrei raccontare Giuanne Fiore come uno straordinario romanziere, partendo da Sas primas abbas di Soter editrice, 2017, un libro voluto da Paolo Pillonca, che aveva colto realmente la profondità delle esperienze compiute in campagna, l’emigrazione, l’amore per la cultura, l’arte, la poesia, una poesia che si trova in tutte le pagine del romanzo, con la descrizione dei campi, dei fiori, degli alberi, degli animali (Birde est sa tanca): lo sguardo si allarga alla varia umanità che popola un paese uscito prodigiosamente irrigidito da un passato lontano, pieno di ingiustizie e di paure, eppure ormai maturo e pronto a imboccare una strada di progresso, Per quanto la cultura popolare, i proverbi, la lingua continuino ad avere un peso determinante nella vita di tutti, dal Convento francescano fino alla casa più umile.

Il titolo richiama ovviamente la poesia Abbas premiata ad Ozieri nel 1988, con il canto a favore dei disererati e degli indifesi, in odio al potere, in difesa dei diritti, per aiutare tutti a scrollarsi di dosso le pastoie dell’inganno,

perché a manu in giua (sulla criniera) currimus su mundu

subra puddedras de undas amigas,

per schiudere assieme le rose rosse del domani.

Come dimenticare la poesia Torra ! di Ottorino Mastino, mio padre ?  Torra, ca su puddeddru tou appo inseddadu cun bàttiles doràdos e sonaggios de prata. Torra, ca ti dépene faghe festa montes e baddes in fiore.

Perché queste sono storie raccontate con amore come nella scrittura tradizionale sarda, senza risentimenti, con serenità, tanto diverse da quelle – disperate – immaginate da Gavino Ledda. Eppure gli autori sono quasi coetanei, Fiori è nato nel 1935, Ledda nel 1938 a Siligo. In Padre Padrone, campione della letteratura del ricordo, Gavino Ledda, immagina un paese, Siligo, come abitato da disperati, lo spazio di tante tragedie quotidiane, il luogo del freddo implacabile e del caldo torrido: il paese letterario conosce insieme la lotta per la sopravvivenza, la tragedia del vivere quotidiano, la sofferenza di una società che sembra immobile e fuori dalla storia, afflitta dal gelo e dalla pioggia, dalle cavallette e dalle malattie.

Qui invece si osserva innanzi tutto il registro alto del linguaggio, un linguaggio ricco, pieno di sfumature, capace di abbracciare realtà complesse, eppure talora arcaico, difficile, ricercato, non abituale nella lingua parlata: confesso di aver consultato centinaia e centinaia di volte il Glossario finale e le note che  testimoniano come l’autore non abbia rinunciato ad esprimere pienamente le sue emozioni, a scavare dentro di sé, per ritrovare sa limba imparada dae minore, attaccau de mama a sa suttana (Ignazio Camarda). Sempre con una struttura poetica come testimoniano i termini s’isterrida oppure s’intrada nella bella presentazione del volume oppure sa torrada. Soprattutto il tono calmo e sereno, il gusto per il colore, l’attenzione per la descrizione dei dettagli, per quanto mi riguarda di più lo sguardo pieno di simpatia, di compassione, di affetto per le cose e per le persone. Questa è la forza dell’arte e in su giogu tra finghidura e realidade si cumprit su mistériu ispantosu de sa creassione artistica e de sa peraula chi si faghet poesia, e questo vale non solo per i grandi letterati ma anche per chi si accosta ad un nuovo genere letterario, il romanzo, cun umilidade e timore.

Fiori vuole scavalcare la difficoltà, talora l’abisso linguistico, per stabilire un contatto di empatia e di intesa con il lettore di oggi, raccontando la storia recente di un paese letterario che finiamo per amare, con un senso di compatimento e di pietà persino per i più malvagi, il bandito Malatransa (Martine Fulianu)  arrivato ad uccidere la sua amata Farora Lidone,  tradito da quello che si rivela essere il padre naturale biologico, il ricco e infelice don Antiogu. Inizialmente avevo pensato ad una ripresa, in piccolo, delle tante storie del Giorno del Giudizio della Nuoro di Salvatore Satta, un nido di corvi con una stratigrafia incredibilmente complessa, ma quest’opera di Fiori non si può ridurre alla ripresa di un modello, perché il modello è la vita vera di un protagonista positivo, Doddore Coricaldu, con la sua sposa Peppicca Sainette e il maestro Pitzente Solianu coi suoi puddighinos della scuola e della cooperativa, destinati a scuotere il paese dal sonno dell’ingiustizia e dell’egoismo, ma pronti ad affrontare oriolos e gelosie.

Un paese letterario, Bonifaghe, che assomiglia molto ad Ittiri nel secondo dopoguerra ma anche a tanti altri paesi della Sardegna, con queste differenze sociali che dividono i donnos e proprietarios mannos de terrinos e palattos come donn’Antiogu Trobeas,  dai babbais istudiados e segnores de naschida incappellados, come il sindaco avvocateddu Simone Puntzudu, il medico Pedru Tenaju. Tutti capaci di influenzare il comportamento del maresciallo dei carabinieri Mandras e dei suoi uomini, che rispettano i più forti e sono ingiusti con i deboli.  E ancora pastores e massajos, gli artisti ossia sos mastros biddaresos. Infine la maggior parte della popolazione, ancora più in basso popolani,  sos filigresos, su trigu sottalinu, il grano rachitico, le classi subalterne, sos teraccos, con una parola greca e bizantina.  La nascita della cooperativa S’Avréschida, un percorso seguito con passione e con entusiasmo dall’a., che racconta cose già viste di persona o di cui è stato in parte protagonista vero.

Innanzi tutto i luoghi amati, nel paese di Bonifaghe, Carrela ‘eretta, Carrela ‘e su putu,  sa Carrela ‘e sas mendulas rifugio dei rossi che chiedono di poter utilizzare la terra abbandonata, i vasti latifondi recintati da pochi avventurieri dopo l’editto delle chiudende, lasciati vuoti solo per la caccia. Sembra di leggere la lex Hadriana de rudibus agris di età romana, nei luoghi dove abbiamo scavato poche settimane fa in Tunisia, mentre leggevo queste pagine sulla Sardegna arcaica con gli occhi colpiti dalla povertà di un paese tunisino come il nostro Ain Tounga, assieme ai nostri studenti, alcuni originari proprio di Ittiri, desiderosi di spiegarmi e di capire con me.

E poi il paese descritto  nelle sue campagne:  Montijeddu (come non pensare alla poesia Su Montiju meu premiata nel 2020 ad Ozieri ?), Su Padru Mannu, Sa Pedra Longa, Sa Punta ‘e s’elighe, Binza Noa, Chessedu, Funtana ‘etza, Santa Ittoria, Monte pianu, Sa figu bianca, sa rocca pertunta, Sos roccalzos de s’ae. E poi i luoghi della contesa giudiziaria e prefettizia, Runaghe mutzu e Badde aliderru, alcuni immaginari se non li ho trovati tra i toponimi attuali di Ittiri, usati dall’autore certo per oscurare storie d’amore e di morte come quelle raccolte in queste pagine.

Eppure mi ha colpito molto la mano leggera usata dal poeta per raccontare anche le tragedie, la morte di Farora con l’attittidu della madre, l’uccisione di un cavallo o di un bue ,la cattura di Doddore ad opera dei carabinieri solerti coi potenti, la lunga ingiusta detenzione, che però non cambia il suo entusiasmo, il rispetto di cui gode, l’amicizia.  Nel racconto ci sono pause per scavalcare momenti troppo dolorosi, anzi potrei dire che i diversi temi e i diversi episodi finiscono per non essere ricuciti tra loro, con un risultato – quello del dolore inespresso e del silenzio – che è senz’altro apprezzabile.

E poi la crudeltà inutile, gli incendi, la siccità lunga: c’è in fondo la consapevolezza che la terra restituisce sempre con abbondanza il lavoro degli uomini, il seme che è stato sparso tra i solchi percorsi dall’aratro. Se vogliamo c’è davvero un parallelo tra la lavorazione della terra a novembre e la gravidanza inattesa della sposa presa da Doddore quasi con la passione incontrollabile di un amore e di un rispetto profondi;   Peppicca arriva a partorire nell’estate, compiendo un ciclo che è identico a quello della natura. Il matrimonio celebrato per Pasqua da padre Matteu in chiesa, segna positivamente l’inizio di una vita felice, che unisce le famiglie e il paese.  Del resto questo è un paese solare, un paese complesso e positivo, un paese nel quale in realtà ci sono tante cose da amare, che si ricordano con la dolcezza di chi è stato accolto senza riserve e che ancora ritorna per ritrovare il clima di accoglienza, l’amicizia, l’affetto profondo di chi l’ha conosciuto davvero. C’è in queste pagine il piacere dello stare insieme e dell’incontrarsi, per combattere la solitudine ed il silenzio, c’è il rapporto con la campagna e l’amore per i gli animali; c’è più ancora il senso di una comunità forte della quale si continua a far parte anche quando fisicamente si è lontani. Io personalmente ne ho ricavato ulteriori ragioni per apprezzare Giuanne Fiore per le sue qualità e per le sue sensibilità davvero inattese. Una bella storia originale e sorprendente, da leggere e meditare.




Bolontana, Badd’e Salighes

Bolontana, Badd’e salighes

10 settembre 2022, ore 10,30

Cari amici,

solo l’ostinazione di Mario Bussa mi conduce di nuovo qui a Badd’e salighes. Ho i saluti del gen. Luciano Carta, premio Navicella 2022. Il 26 luglio 2020, due anni fa,  eravamo qui per discutere sullo straordinario diario di Donna Vera Mameli Piercy Nel Mezzo della vita, curato da Giorgina Mameli Giustiniani.

L’anno scorso, il 20 giugno 2021 abbiamo presentato il volume di Luciano Carta Dal Galles alla Sardegna, Benjamin Piercy e le ferrovie con le pagine di Patrizia Onnis dedicate ai beni culturali e ambientali del territorio di Bolotana, dall’inquadramento geologico fino alla vetta di Punta Palai a 1200 metri, alla flora alle grandi opere megalitiche, i circoli rituali di Ortachis, le domus de janas, i circa 50 protonuraghi e  nuraghi, i pozzi sacri, le tombe di giganti, la fortezza punica di Pabùde, le tanti insediamenti romani, i bizantini con i monaci Armeni, l’età giudicale verso il castello di Burgos, la chiesa di san Bachisio, fino ad arrivare a Padru Mannu e a questo castello incantato in quella foresta di lecci, roverelle, sughere che tanto avevano colpito il viaggiatore inglese e i suoi discendenti.

In precedenza avevamo presentato il volume curato da Diego Satta Tra il Galles e la Sardegna, con la storia della famiglia Piercy. Perché, quello che in Sardegna chiamavano Beniamino, il capostipite di una famiglia numerossima, inizialmmente 9 figli, tre maschi e sei femmine, aveva una passione per i treni che aveva poi saputo trasmettere quasi per contagio a tutti i suoi parenti: per usare le parole del diario di donna Vera <<il nonno nacque a Trefeglwys nel Montgomerishire nel 1827 – sarebbe morto nel 1888- , appena in tempo per contrarre la “febbre della ferrovia”. E’ strano quanti uomini del suo tempo siano nati con quell’attrazione per il mondo del vapore, senza nessun interesse ai cavalli quando, a quel tempo, cavalcare era una necessità>>.

Infine oggi dopo un anno torniamo – forse finalmente usciti dalla pandemia – a Badd’e Salighes a parlare dei temi che ci sono cari e presentare il volume di Lorenzo Del Piano sulla Compagnia Reale delle ferrovie sarde e di Sara Maria Demelas su Badde e salighes e i Piercy, edito dall’Associazione Culturale Benjamin Piercy Bolotana nata il 29 ottobre 2019, con la presentazione del Presidente.

Lasciatemi allora ricordare – come ha già fatto Mario Bussa – che un anno fa era tra noi la prof. Susi Trova, ancora in servizio come professoressa di Storia contemporanea e di Storia del Risorgimento nell’Università di Sassari: Susi era rimasta incantata dai luoghi, dalle persone, dalle curiosità e dalle passioni degli amici dell’Associazione Piercy. Aveva trascorso con noi quello che considerava uno dei giorni più belli della sua vita, curiosando a NS di Sauccu, forse l’antica Berre, interrogando gli operai inviati dal comune di Bortigali a ripulire dalle foglie le piccole piazzette che si aprono tra gli alberi e le strane capanne circolari che pian piano diventano villette, i muristenes, la chiesa, i campi di fronte, un tempo seminati a grano.

Scherzammo sul conflitto latente tra Bortigali e Bolotana, sulla competizione nella devozione alla Vergine del salice, sulla strana articolazione dei confini comunali sul costone del M. Palai verso i mille metri del monte Santu Padre, nel Marghine, in direzione del Goceano. Un luogo di incontri antichi, basta pensare agli Iliensi di Molaria, e di incontri moderni, di boschi e di acque sorgive. Allora Ignazio Camarda ci aveva spiegato la vicenda del giardino botanico montano voluto dalla famiglia inglese, era seguito il nostro incontro qui in questo prato, il rapporto amichevole con le persone,  a due passi da noi il bosco, Ortachis, il parco di Pabùle, Frida, Padru Mannu, che all’arrivo avevamo visitato rapidamente: quasi una quinta cinematografica di un film con l’antico caseificio, la vetreria, le abitazioni dei contadini, le stalle, l’ovile, la direzione, lo spaccio, la scuola, nella chiesa del Sacro cuore la tomba dal giovane Piercy, morto in sidecar a Scala di Gioca. Padru Mannu si trovava in passato sulla strada Reale, verso il punto culminante della Campeda attraversata dalla Karalibus Turrem dal quale provengono tanti miliari romani pubblicati da Theodor Mommen. Qui era stata fatta passare la ferrovia – i maligni dicono per comodità dei Piercy.

Con me la Trova aveva manifestato in mille modi la sua amicizia, trovando documenti, scavando negli archivi su temi che sapeva a me cari, regalandomi tante cose inedite e per noi due preziose: le cento città d’Italia di inizio Novecento, Bosa, Oristano, Sassari, Iglesias in due esemplari. Le bellissime stampe relative alla stazione sanitaria dell’Asinara del 1915-16. Frammenti di lettere di corrispondenti di Theodor Mommsen, altre indicazioni di carte inedite conservate in archivi difficilmente accessibili, che sapeva scovare. La nascita delle ferrovie in Sardegna, tema sul quale aveva iniziato a lavorare.

Credo che in quei giorni Susi abbia preso la decisione di donare la sua biblioteca all’Associazione: era seguito l’intervento chirurgico al cuore, il 18 novembre 2021.

Prima di partire per Torino mi aveva chiamato più volte per sentirmi, per raccontare e per progettare un futuro che desiderava davvero. Non allarmata ma consapevole serenamente delle difficoltà dell’operazione cui sarebbe stata sottoposta. Rimane un po’ il rimpianto per non averla dissuasa, per non averle parlato di più, per non averle detto la mia gratitudine. E ora il senso della perdita di una persona tanto cara e la fine di un rapporto che si reggeva più sugli sguardi che sulle parole.

Oggi la decisione della sua famiglia di rispettare la sua volontà e siamo qui anche grazie al lavoro svolto da tanti altri amici e parenti, prima tra tutti la carissima Maria Grazia Cadoni, che è qui con noi stamane e che si era incaricata di selezione dei volumi da portare nella casa nel bosco.

Proprio della ferrovia parliamo oggi partendo dalle pagine di Lorenzo Del Piano, che Maria Speranza ci ha consentito di riproporre attingendo all’articolo di Studi Sardi del 1968: un lungo lavoro di ricerca che si colloca oltre 50 anni fa all’inizio delle ricerche scientifiche su questo tema, che hanno conosciuto uno sviluppo davvero rimarchevole dei temi negli ultimi tempi.  Lorenzo Del Piano, scomparso a Cagliari nel 2009, ha insegnato anche lui Storia del Risorgimento e Storia contemporanea dedicandosi a progetti di ricerca come la crisi politica e sociale tra il Settecento e l’Ottocento, il primo dopoguerra e il fascismo, la Sardegna autonomistica e le politiche della rinascita, con contributi fondamentali alla storiografia sarda, a partire dal volume sulla Sardegna nell’Ottocento e dall’opera che studia il rapporto tra questione sarda e questione meridionale, direi quistione pensando a Gramsci. Io personalmente lo ricordo passeggiare per pomeriggi in interi sul lungo corridoio al III piano della Facoltà di Lettere su Pazza d’armi a Cagliari, davanti alla Biblioteca dov’era il mio ufficio, fischiettando uno strano motivetto che è rimasto caro a me e al suo allievo Franco Atzeni, poi direttore del Dipartimento di storia.

In questo articolo – davvero precoce, pieno di dati raccolti in biblioteca e negli archivi –  si parte dalla proposta del marchese Ignazio Aymerich del 1860 raccolta dal governatore di Cagliari Mathieu  e dalla legge del 4 gennaio 1863 che faceva propri  i suggerimenti del mazziniano italo-londinese Gaetano Semenza e del ministro delle finanze Sella, dei LLPP De Pretis e dell’Agricoltura Pepoli.  Ha scritto recentemente Antonio Saletta che <<l’intraprendenza di Gaetano Semenza si manifesta nel 1862, quando riesce a coinvolgere esponenti della City londinese nell’impresa di costruire linee ferroviarie in Sardegna, con la costituzione della società “Compagnia Regia delle Strade Ferrate in Sardegna” formata a Londra il 2 giugno 1863. L’interesse dei finanzieri inglesi è rivolto alla possibilità di ottenere dei terreni – inizialmente 300 mila poi 200 mila ettari ex ademprivili derivati dal feudalesimo mummificato dagli spagnoli in Sardegna – su cui coltivare quel cotone che la guerra di secessione americana aveva sottratto all’Europa, oltre a poter collocare i prodotti ferroviari (binari, locomotive, vagoni) di cui l’Inghilterra è la maggiore produttrice>>. Il progetto prevedeva la nascita in 17 anni dell’intera rete stradale sarda ed in 6 anni di una strada ferrata Cagliari-Sassari-Portotorres e diramazioni per Decimomannu e Ozieri , Terranova-Olbia-Golfo Aranci.

Le date sono importanti, perché l’unità d’Italia era stata ottenuta appena due anni prima il 17 marzo 1861, mentre la fine dello Stato Pontificio è solo del 1870.

Sorprende la centralità della questione sarda e della questione delle ferrovie negli anni che hanno preceduto e immediatamente seguito l’unità d’Italia, in un paese sconvolto dalla povertà : e ciò soprattutto se confrontiamo questa impresa straordinaria, che nonostante i fallimenti e il malcontento, addirittura gli scioperi e le rivolte degli operai continentali, fu conclusa entro il 1880, da una parte; e  le lungaggini delle Ferrovie dello stato nell’ammodernamento delle ferrovie di oggi : certo che se i parlamentari sardi dei nostri tempi si fossero davvero impegnati – penso ai due presidenti della repubblica – per un collegamento veloce tra i tre porti della Sardegna, l’isola avrebbe potuto avere un insediamento diffuso e meno squilibrato, una crescita economica più significativa, un recupero di molti svantaggi legati all’insularità, tema presente fino al 2001 in costituzione ed ora fortunosamente reintrodotta, speriamo con vantaggio di tutti.

Già il Barone Manno parlava del debito dell’Italia unita verso la Sardegna e accennò alle ferrovie come “un raggio promettitore di miglior avvenire” che sarebbe stato politicamente inopportuno spegnere, per il dovere dello Stato di abbreviare le distanze fra tutti i punti del territorio nazionale anche grazie al porto di Terranova.

Il poeta Paolo Mossa nel 1863 cantava a Cagliari con toni manzoniani:

Si mutano in campi le lande deserte

Di mille abitanti le rupi coperte

Son tolti alla terra gli ascosi tesor

Al cupo silenzio di nostre colline

Sottentra il fragore di mille fucine.

L’anno successivo veniva approvato il regolamento per lo scorporo e l’assegnazione ai concessionari dei 200 mila ettari, molti – le cussorgie –  fin là destinati alla pastorizia nomade, ma anche quelli che senza legittimo titolo erano goduti e posseduti da privati.

Come sappiamo l’obiettivo della costruzione di una linea ferroviaria da Cagliari ai due porti del nord dell’Isola, Terranova Pausania e Porto Torres, si rivelò nell’Ottocento subito difficile a causa di problemi finanziari e politici, la rivolta delle popolazioni espropriate dei terreni sottoposti da secoli ad usi civici comunitari. Molte allora furono le inadempienze e le ambiguità del Governo italiano che provocarono  malumori tra i finanzieri inglesi e gli altri soci, compreso il marchese Gustavo di Cavour: essi nel 1872, abbandonano l’impresa, costringendo il Semenza a coinvolgere la Banca Italo-Germanica che impiegò i soldi della Compagnia in affari poco sicuri. Gaetano Semenza vide andare in fumo i propri soldi e perse il contratto di costruttore.
L’imprenditore, che in Sardegna perse enormi capitali, fu costretto a liquidare il suo patrimonio. Nel suo libro “Memorie sulle Ferrovie sarde”, scrive di aver perso una fortuna compromettendo anche la salute. Nel frattempo la Compagnia ritornò in mano alla City londinese che concluse, il I luglio 1880, nella sua estensione completa, la linea ferroviaria. Per arrivare all’obiettivo furono affrontati molti scogli, primo tra tutti il tracciato tra Oristano e Ozieri per la Valle del Tirso, l’esclusione di Nuoro, la scelta di Chilivani, i collegamenti tra Decimomannu e Iglesias, tra Sassari e Porto Torres. Vediamo particolarmente attivi alcuni presidenti delle società operaie di mutuo soccorso e parlamentari come Giorgio Asproni.

Del Piano ricostruisce nel dettaglio solo i primi cinque anni,  le ragioni degli scioperi, il rimpatrio di tanti operai,  i tumulti del 1865, l’intervento dei carabinieri, il variare delle paghe davvero da fame, con salari giornalieri liquidati con difficoltà dalla Società, gli alloggi inadeguati, i comizi di protesta con i giornali che sostenevano la Compagnia reale delle ferrovie (La Gazzetta popolare) oppure come  Il Corriere di Sardegna che denunciavano prepotenze dei costruttori e ingiustizie, mentre si procedeva lentamente ad avanzare da Cagliari verso Oristano o sull’altra linea verso Siliqua.  Caduta quasi completamente la possibilità di utilizzare le terre ademprivili, lo stato riconobbe alla Compagnia reale un compenso da 9000 a 15 mila lire a  km.

Protagonista dell’impresa fu dall’inizio Benjamin Piercy, azionista, ma anche progettista e responsabile della Compagnia reale – controllore controllato, con la sua base a Macomer e a Padru Mannu. Ne parla nel suo ultimo libro anche il nostro amico Edward Burman visiting dell’Università di Liverpool, che ci ha lasciato alcune delle pagine più straordinarie sulla storia di questa tenuta:   <<un altro inatteso pezzo di storia prettamente sarda è reso manifesto dall’edificio noto come Villa Piercy vicino a Bolotana nella foresta di Badde’e Salighes 30 chilometri a ovest di Nuoro>>.  L’avventurosa vita di Benjamin Piercy tra Londra, la Francia, l’India, la Sardegna, per l’impresa della nascita delle ferrovie per iniziativa di un gruppo di inglesi italofili, la modifica del percorso con la riduzione dei tunnel sulle montagne da 20 a 3 km e il conseguente risparmio finanziario, partendo dalla nascita a Londra il 2 giugno 1863 della Compagnia Reale delle Ferrovie Sarde per opera di William Webb Wenn, con latto notarile firmato presso il notaio John Wenn e figli, col coinvolgimento del Marchese di Cavour, fratello maggiore del Conte Camillo; il Conte Alberto La Marmora; lo stesso Benjamin Piercy e altri inglesi compreso il deputato Thomas Barnes, presidente della Compagnia delle ferrovie del Lancashire e dello Yorkshire e Henri Riversdale Grenfell deputato e governatore della banca d’Inghilterra.  Tutto ciò dà oggi la dimensione dell’impresa Siamo a tre anni di distanza dalla Spedizione dei mille e a due anni da quel 17 marzo 1861 quando fu ufficializzata la nascita del Regno d’Italia. Questioni che si legano con l’esilio a Londra di Giuseppe Mazzini, scomparso nel 1872,  con l’amicizia di Piercy con Gaetano Semenza a Londra tra il 1851e il 1866, vero protagonista della vicenda, deputato del Regno d’Italia tra il 1865 e il 1874 tra Firenze e Roma capitale.

Già nel 1864, approvato il progetto, Piercy è ingegnere capo con l’impresa Smith Knight and Co. di Londra; egli mette inizialmente la sua base a Cagliari ma poi trova naturale spostarsi a Macomer dove si incrociava la ferrovia per Ozieri e Sassari con il progetto dei due tronchi a scartamento ridotto per Bosa e per Nuoro. A Macomer presso la stazione costruisce la sua casa. Burman è colpito dalla vastità delle due uniche stanze a pianoterra destinate a uffici e poi da quelle, del primo piamo dove fu offerto – scrive la nipote – un banchetto con 200 ospiti; stanze più numerose, per la famiglia al secondo piano, 9 figli, personale di servizio, ecc.    Sarebbe piuttosto un blocco monotono se non fosse per la struttura centrale a torre che contiene un’imponente scalinata.  Quello di Badd’e salighes – scrive Burman – fu invece inizialmente un casino da caccia a mille metri di altitudine  entro una tenuta di 3700 ettari di foreste, trasformato dal secondo figlio Henry Egereton Piercy in un elegante edificio simile a un castello su una piazza in un vicino villaggio che ora è quasi deserto; ma forse egli pensava anche al caseificio di Padru Mannu, a questo incredibile borgo abbandonato sulla strada romana, speriamo presto riconociuto un luogo del cuore del FAI.

Piercy fu come sappiamo amico di Giuseppe Garibaldi, che lo convinse a coinvolgere il figlio Ricciotti nell’impresa ferroviaria in Assam nell’India  nord orientale. Il suo ritiro sa Marchwiel Hall presso Werexham  e la sua morte a Londra nel 1888 arrivano dopo la conclusione dell’indagine del deputato Robert Tennant  (autore dell’inchiesta sulle risorse minerarie, le cui conclusioni sonio confluite nel libro La Sardegna e le sue risorse 1885). Il cognato Charles Davies fratello della moglie Sarah sposata nel 1857, sarebbe scomparso a Cagliari nel 1891. Burman segue i discendenti a Porto Pino, Chia, Sant’Antioco. L’attività del terzogenito Benjamin Herbert a Badd’e salighes, l’allevamento dei cavalli, la prima produzione di latte sterilizzato in Italia. Infine Donna Vera scomparsa nel 1979 e Giorgina Mameli-Piercy Giustiniani, nata nel 1942.

Una storia che ritorna nella seconda parte di questo volume e nelle pagine scritte da Sara Maria Demurtas  per Architettura del paesaggio, l’insegnamento tenuto da Mauro Gargiulo nell’Università di Sassari: la tesi sintetizza e studia analiticamente l’intera vicenda delle ferrovie dello Stato e delle ferrovie a scartamento ridotto.  Con gli alti e i bassi nel rapporto tra Bolotana e la Reale Compagnia delle ferrovie, in particolare con il Piercy, denunciato dall’allevatore Billia Uda, i riconoscimenti concessi al comm. Benjamin Piercy, cittadino onorario di Bolotana nel 1882, e dopo la morte persino da Macomer nel 1897.

Nella motivazione della delibera di Bolotana si legge che il consiglio comunale il 2 maggio 1882 << in segno di riconoscenza per gli ingenti miglioramenti fatti nei vari territorio di questo comune, impiegando centinaia di operai in annate di miseria e di mancanza di lavoro, nominava il Commendatore Beniamino Piercy, nativo di Wales (Inghilterra), cittadino di Bolotana. Non sardo è oggi il primo proprietario di fondi rustici in Sardegna; ha vasti predi a Macomer e a Chilivani; sono sue le foreste di Bolotana e Laconi; ed ha gran parte di proprietà nella foresta di Oriddu nel circondario di Iglesias. A nessun sardo egli è secondo nel voler l’isola progredita; non distrugge le piante, le coltiva; e la foresta di Bolotana è un tenimento stupendo e là a Padrumannu ci sono le vacche di razza sceltissima e si coltivano i foraggi e si raccoglie il fieno e si fa del burro eccellente…>>.

Qualche anno dopo La Nuova Sardegna del 26 dicembre 1908 avrebbe scritto: <<Badde Salighes è figlio di un madornale errore commesso dalle imprevidenti amministrazioni che addivennero alla divisione della montagna e di quell’altro ancora che commisero i comunisti ignoranti nel vendere le loro ricchezze al Piercy, per un prezzo immensamente inferiore a quello che il medesimo seppe trarre da un taglio a sterzo delle piante del bosco acquistato. Ma Beniamino Piercy, uomo di larghe vedute e d’intelligenza straordinaria, seppe allontanare da se la possibile conseguenza della delusione di un popolo, studiandosi di renderlo amico, e vi riuscì facilmente, trasformando gli incolti terreni in deliziosi giardini, ricchi di freschi zampilli, promuovendo lo sviluppo agricolo e armentizio, dando mano alla costruzione di molti e comodi edifici atti a raccogliere i suoi dipendenti, di stalle per glu animali e per la civettuola villa padronale, dando così lavoro a migliaia di operai di Bolotana, guardagnandosi la generale riconoscenza>>.

Il lavoro di Sara Maria Demontis si concentra soprattutto su Badd’e Salighes, la localizzazione geografico-climatica del territorio., la villa, la cronologia delle modifiche intervenute nel tempo, gli orti botanici, il giardino botanico montano di Badd’e Salighes, le specie botaniche presenti in quest’area; poi Padru Mannu, l’azienda agricola di migliaia di ettari in comune di Bolotana, Lei, Silanus, Macomer, Bortigali, la produzione e la vendita del latte a Cagliari, il formaggio.

C’è nei documenti raccolti anche una traccia delle false carte d’Arborea ottocentesche a proposito della corsa ad ostacoli a cavallo steeple-chase, con le parole dal diario di fine Ottocento del cavallerizzo Benjamin Herbert Piercy : <<E’ divertente pensare che ho il record per aver vinto il premio steeple-chase disputato in Sardegna, a parte naturalmente Iolao (nipote di Eracle e mitico eroe dell’epos in Sardegna) che corse un match abusivo sulla strada con il Sardus Pater.>>

Una vicenda totalmente inventata e non è ricordata da nessuna delle fonti classiche, anche perché Iolao è il dio greco che secondo un mito del VI secolo a.C.  avrebbe dato il nome agli Iolei, così come Troia, Ilio è la città che avrebbe dato il nome ai troiani Iliensi di una leggenda latina riferita all’inizio del II secolo a.C. dopo il Bellum Sardum di Ampsicora  (p. 142): il che mi aveva fatto dubitare per un attimo ell’autenticità dell’iscrizione degli Ilienses incisa sull’architrave del nuraghe Aidu Entos a Mulargia.

Come oggi sappiamo si tratta di una gara ippica disputata su un percorso ad ostacoli. La gara nacque in Irlanda e si è poi diffusa nel Regno Unito, in Canada, negli Stati Uniti d’America, in Australia e in Francia. Il nome deriva dalle prime gare in cui l’orientamento della corsa aveva come riferimento il campanile (in lingua inglese steeple) di una chiesa, mi immagino il campaniletto della chiesa del Sacro Cuore di Padru Mannu, saltando recinzioni e fossati e, in generale, attraversando i numerosi ostacoli che si presentano in campagna.

Il capitolo 4 è dedicato ai discendenti di Benjamin Piercy dopo il 1883, Henry Egerton Piercy, vissuto tra il 1866  e il 1929, quando scompare in un incidente aereo, amante del mare, risiedeva nella Villa Piercy-Corridori a Porto Pino.

Benjamin Herbert, penultimogenito, nato nel 1871, costretto a rientrare in Inghilerra alla scoppio della seconda guerra mondiale, morto nel 1941. Fu lui a ottenere nel 1903 il riconoscimento da parte del prefetto di Sassari di Badd’e salighes come borgata autonoma, ma la ribellione della popolazione di Bolotana portò due anni dopo alla revoca del decreto prefettizio che avvantaggiava enormemente la famiglia inglese.

Poi Vera Norina Piercy Mameli, vissuta fino alla fine degli anni 60

Giorgina Mameli Giustiniani 1934- Veneto.

Infine la bella appendice documentaria dall’archivio storico di Macomer, con manifesti, atti di vendita, documenti di vario tipo, diari.

L’Archivio di Stato di Nuoro conserva i documenti sulla vendita di Padru Mannu e Badd’e Salighes nel 1934 con la insolita preoccupazione del Prefetto di Cagliari e del Questore di Nuoro sul pagamento – mai perfezionato – con 800 mila sterline inglesi, che si aggiungevano a 700 mila lire italiane.

Infine le pagine di alcuni diari e un dattiloscritto inglese di Benjamin Herbert con molti luoghi comuni sui sardi venales di Cicerone (erroneamente di Livio), alius alio nequior, Epistolae ad familiares, VII, 24, 2, sardi schiavi da vendere, uno peggiore dell’altro.

E poi in ricordo un una lontana lettura, il settecentesco Eugene Aram 1704-1759,  morto in carcere impiccato, con una rappresentazione tragica della arretratezza della Sardegna, ripresa dal romanzo The Dream of Eugene Aram, su una strada che sarebbe stata percorsa da George Orwell:

<<e parlava allora di uomini neri, e omicidi nelle caverne, e gente sola fuori dall’invisibile, e si nascose in tombe improvvise>>, che ricorda Sos omines anticos de Ortakis di una poesia di Ignazio Camarda.

Sorprendenti luoghi comuni applicati alla Sardegna dal giovane Piercy che non hanno impedito alla famiglia di amare l’isola e di contribuire a costruire il suo futuro.

Infine, come dimenticare la povera Zonchedda del romanzo Istevene di Stefano Bitti ? Era l’ultima figlia di Pauledda e di Bachis Mulas, l’uomo che a Badd’e salighes sussurrava ai cavalli, fuggito con un’attempata signora inglese.   La figlia da ragazza aveva conosciuto il bovaro Dandalu in occasione della festa di San Giorgio martire nella piazzetta del mercato, aveva vissuto qualche tempo di felicità, ma poi lo sposo era caduto nella guerra in Spagna tra le montagne della Sierra Nevada.  Morendo Dandalu l’aveva condannata ad una povertà senza limiti nel tugurio di sa Pinnedda, oltretutto sottoposta ai lazzi crudeli dei vicini quando con le capre affrontava la forra di Tremene ‘e Untana.  Durante una tempesta di neve, a Bitti, la povera Zonchedda perde il caprone nella sua casa di sa Pinnedda sotto Ispruile e poi muore lei stessa. Una vicenda terribile che ci fa toccare, con le parole di un romanziere che abbiamo amato, l’abisso della tragedia della Sardegna di un tempo lontano.




Attilio Mastino, Geografia, Geopolitica, Epigrafia, Conference de l’AIEGL, Bordeaux 31 agosto 2022

Attilio Mastino, Geografia, Geopolitica, Epigrafia,

Conference de l’AIEGL, Bordeaux 31 agosto 2022

L’épigraphie au XXIe siècle, XVI Congressus internationalis Epigraphiae Graecae et Latinae,

Cari amici,

(Film https://youtu.be/l8l_8caQ2w0). La strategia militare per liberare l’Europa dopo i fascismi che avevano alimentato il mito imperiale di Roma mi sembra possa esser sintetizzata nelle vicende dello sbarco americano in Marocco raccontate in un film del 1970 in un puro stile holliwoodano, premiato con tanti Oscar, il Generale di Acciaio: vi si vede un improbabile Generale Patton interpretato da George C. Scott mentre sproloquia alla fine del 1942 sulla guerra, a Volubilis davanti all’arco eretto dal procuratore M. Aurelio Sebasteno dedicato per celebrare la singularis indulgentia [erga] universos et [nova] supra omnes [retro] principes di Caracalla nella sua XX e ultima potestà tribunicia.  Rimontata da Louis Chatelain e André Piganiol nei restauri del 1935, la duplice iscrizione ricorda l’imperatore come Germanicus Maximus, vincitore dei Germani.

Ma sarebbe pretendere troppo immaginare che il regista abbia pensato ad un collegamento tra la campagna contro Hitler ed i tedeschi e la vittoria germanica di 1800 anni prima. Sappiamo che la task force corazzata guidata dal gen. Patton si preparava ad intervenire a Kasserine in Tunisia dopo il disastro di americani e inglesi di fronte a tedeschi e italiani: ai confini di un Mediterraneo ancora tutto da riconquistare, diciamo la parola, da liberare dai totalitarismi e dalle patologiche aspirazioni coloniali di Mussolini e di Hitler, il generale è descritto nel film in modo caricaturale e un poco offesivo: avrebbe inciampato sulla crudeltà delle donne arabe al momento della distruzione di Cartagine, una storia tutta deformata ed inesatta, che però rende bene – al di là delle esigenze narrative – le contraddizioni della guerra, contraddizioni testimoniate drammaticamente dalle bianche lapidi dei cimiteri militari che tanto spesso abbiamo visitato come quello inglese di Medjez el Bab sulla Medjerda, a due passi da Thignica.

Possiamo seguire per un attimo gli alleati percorrere la Sicilia quando si moliplicarono i danni al patrimonio monumentale in particolare a Palermo con ferite che ancora rimangono; oppure  le iscrizioni incise per ricordare il restauro dopo la guerra, p.es. a San Francesco d’Assisi. E poi risalire lo stivale in Italia fino alla linea Gustav nel fronte del Garigliano: il Presidente dell’Associazione Linea Gustav, Fronte Garigliano ci ha segnalato l’iscrizione sulla base di statua dell’ambulacro del teatro romano di Minturno in una foto del 15 marzo 1944 con le truppe britanniche, bloccate dai tedeschi: un soldato che si prepara per la battaglia. La base dedicata dai Minturnenses ricorda la sposa di Gordiano III Furia Sabinia Tranquillina Aug(usta) sanctissim(a) coniux.

Cari amici,

è un grande onore per me chiudere questa assemblea dell’ AIEGL, in occasione del XVI Congressus internationalis Epigraphiae Graecae et Latinae, ripensando ad Amsterdam 84 anni fa, a quel terribile 31 agosto 1938, un mese prima delle leggi razziali fasciste adottate in Italia; e ricordare poi la nascita dell’AIEGL tornando per un momento a Monaco di Baviera nel 1972, 50 anni fa: cinque anni dopo la nostra Associazione arrivava alla sua costituzione formale a Constantza in Dobrugia sul Mar Nero nel 1977, l’antica Tomi, in occasione del VII Congresso presieduto da Georgi Mihailov, Hans-Georg  Pflaum, Marcel Le Glay: un incontro fortunato tra specialisti, a cavallo tra epigrafia greca ed epigrafia latina, secondo una formula coraggiosa che superava arcaiche resistenze ma che anticipava una convergenza di mondi tanto differenti, per volontà di studiosi che già sentivano nell’aria i tempi nuovi, il superamento di una fase storica. Erano seguiti Atene nel 1982, Sofia nel 1987, due anni prima della caduta del muro di Berlino, Nimes nel 1992, Roma nel 1997, Barcellona nel 2002, Oxford nel 2007, al Pergamon-museum di Berlino dieci anni fa 2012 sull’isola dei musei (Museumsinsel) in una città che conserva i segni dei proiettili, le tracce sanguinose della guerra europea come nel colonnato dell’Altes Museum, anche nel rapporto ancora ben percepiblie tra presenze e assenze nel tessuto urbano, nell’equilibrio urbanistico non definitivo e risarcito tra pieni e vuoti. Ci siamo lasciati a Vienna cinque anni fa 2017 in una città incredibilmente moderna. I nostri incontri sono sempre stati momenti straordinari di crescita, di comprensione, di collaborazione internazionale, perché gli studiosi sono sempre l’avanguardia di quei vasti fermenti culturali che segnano il mondo che viviamo. Così sarà anche quest’anno a Bordeaux con tanti amici, con tanti progetti, con lo sguardo rivolto verso i luoghi che amiamo, sulle rive del Mar Nero, il  Πόντος Εὔξεινος il mare ospitale percorso dagli Argonauti, il primo punto di incontro tra Greci e Cimmeri o Sciti o Rossolani e altri popoli o civiltà: un’area nevralgica (come non pensare alla guerra di Troia ?)  alla quale si rivolgevano gli imperatori pacatores orbis. Il popolo misterioso degli Iperborei, il mito degli Argonauti e di Prometeo, e ancora Orfeo e Dioniso: miti che sviluppano davvero «la nozione del misterioso levante nella conoscenza del continente europeo verso le diverse rive mediterranee», considerato come territorio limitaneo, al di fuori della ‘civiltà’ classica.  Oggi assistiamo a quello che nelle visioni del Tragico è stato definito il ritorno di Dioniso in luoghi che mantengono una fondamentale impotanza per l’Asia con interessi economici e strategici della regione sempre più rilevanti.

Sono stato a lungo incerto se affrontare il tema che mi è stato affidato, Geografia, geopolitica, epigrafia, esclusivamente dal punto di vista che ci è più abituale, quello degli antichi, oppure dal punto di vista dei moderni, per tentare di proiettarci – con qualche incoscienza – sulle continuità che le scritture antiche documentano in tanti casi fino ai nostri giorni, per ricordare il valore del patrimonio e della cultura classica, ma anche per non dimenticare il presente con le sue incognite, le sue tensioni, le sue incomprensioni, le sue ingiustizie, le sue violenze. Fino a spiegare alcuni fenomeni della comunicazione rapida e di sintesi anche sui social di oggi, che se consentono di migliorare le interconnessioni tra gli stati, fanno intravvedere i mille nuovi modi impiegati per giustificare i crimini di guerra, per definire bussole strategiche spesso impazzite, che pretendono di fornire orientamenti cruciali per i prossimi decenni.

Noi viviamo un tempo di trafornazioni, di rischi, di conflitto tra culture, tra popoli, tra paesi, anche per la nostra incapacità di comprendere gli altri, di sviluppare una pacifica vita in comune, di mettere da parte egoismi e interessi, di rifiutare integralismi e intolleranze, senza ingenuità perché i buoni propositi non bastano più di fronte alle forze in campo. Sarebbe ingenuo enfatizzare in positivo il mondo antico, quello greco e quello romano, che metteva insieme elementi contrapposti, l’imperialismo, la colonizzazione, la “romanizzazione”. Eppure troppe volte la storia greca, la storia romana, la storia del Mediterraneo nell’antichità vengono rappresentate come una successione ininterrotta di guerre; né è possibile fermarsi sulla soglia di un tema gigantesco, la guerra, che ha continui riflessi sull’epigrafia greca e latina, con riferimento ad avvenimenti militari, guerre, spedizioni, come i tanti bella, le guerre di conquista che compaiono su centinaia di iscrizioni, il bellum Germanicum, il bellum Thracicum, il bellum Britannicum, il bellum Iudaicum, il bellum Dacicum, solo per fare qualche esempio di età imperiale; le tante expeditiones citate ancor più di frequente sulle iscrizioni, come quella Britannica, Germanica, Asiana, Parthica.  Le iscrizioni menzionano spesso avvenimenti militari: Jehan Desanges nei suoi ultimi giorni ha discusso con me il Bellum Numidum di Thignica o i Fraxinenses furentes di Tubursicu Numidarum. Per citare un documento storico, agli anni di Vespasiano risale il celebre epitafio tiburtino di Ti(berius) Plautius Silvanus Aelianus, compagno di Claudio in Britannia, che ricorda il trasferimento di oltre 100.000 profughi transdanuviani giunti in Mesia ad praestanda tributa, dopo le prime vittorie sui Daci: l’irruzione romana nel Barbaricum scitico oltre il Dineper, non il Dniester, il Borustene, e la raccolta di enormi quantità di grano; premessa per l’attribuzione  degli ornamenta triumphalia e per l’iterazione del consolato nel 74: pochi anni dopo Plauzio Silvano sarebbe stato onorato con le parole dell’amico Vespasiano al momento della morte: regibus Bastarnarum et Rhoxolanorum filios Dacorum fratrum captos aut hostibus ereptos remisit, ab aliquis eorum obsides accepit per quem pacem provinciae et confirmavit et protulit. Scytharum quoque rege a Chersonensi quae est ultra Borustenen, obsidione summoto, primus ex ea provincia magno tritici modo annonam p(opuli) R(omani) adlevavit. Sono i luoghi nei quali nei nostri giorni si combatte ancora una guerra sanguinosa, piena di crudeltà e di violenza. Nell’antichità le conseguenze immediate delle guerre di conquista come dopo le campagne di Cesare in Gallia sono lo spopolamento, la depressione demografica, la riorganizzazione amministrativa (giuridica e dei confini tra città e tribù), l’acculturazione coatta dei principes locali, per passare poi al conseguente sfruttamento delle risorse, agli assestamenti culturali, alla permeabilità di alcune frontiere, ad es. per non bloccare le vie di transumanza. In parallelo coi danni fatti in passato dall’archeologia coloniale e con l’oggi, con i mille danneggiamenti contemporanei al patrimonio archeologico, frutto di speculazione e disattenzione: un patrimonio decapitato.

Solo pochi anni prima di Vespasiano, nella guerra civile scoppiata alla morte di Nerone, di Galba e di Otone, l’incendio dell’antico tempio capitolino e del tabularium publicum sul Campidoglio era stato davvero catastrofico, un crimine per i contemporanei: secondo Tacito id facinus post conditam urbem luctuosissimum foedissimumque rei publicae populi Romani. La parte bassa dell’archivio capitolino dové salvarsi: Vespasiano, nel 73 simbolicamente iniziò di persona la restituzione del tempio di Giove e degli altri edifici pubblici sul colle e si preoccupò di ricostituire il fondo di oltre tremila tavole di bronzo, che erano andate distrutte in occasione dell’incendio del 19 dicembre 69. In proposito è essenziale l’informazione fornita da Svetonio: ipse restitutionem Capitolii adgressus ruderibus purgandis manus primus admovit ac suo collo quaedam extulit; aerearumque tabularum tria milia, quae simul conflagraverant, restituenda suscepit, undique investigatis exemplaribus: instrumentum imperii pulcherrimum ac vetustissimum, quo continebatur paene ab exordio urbis senatus consulta, plebi scita de societate et foedere ac privilegio cuicumque concessis. Dunque almeno tremila tavole di bronzo erano state danneggiate o distrutte dall’incendio e non erano più leggibili; non sappiamo quante altre viceversa si fossero salvate. È sicuro poi che tra le tabulae aeneae quae simul conflagraverant, andate perdute in occasione dell’incendio ci fossero anche delle mappe catastali, almeno quelle di età repubblicana: se è vero che Svetonio non lo precisa, limitandosi a parlare di senatoconsulti e di plebisciti (in particolare di plebiscita de privilegio cuicumque concesso), proprio dall’anno 73 d.C. Vespasiano e Tito, censori, promossero una vasta operazione di revisione catastale in Italia e nelle province, liberando gli agri populi Romani occupati illegalmente dai privati ed effettuando un complessivo accertamento fondiario, finalizzato ad un più accurato sistema tributario e ad una più consapevole assegnazione delle terre pubbliche. Le iscrizioni ci conservano tracce di quanto avvenne sul terreno negli agri adsignati; moltissimi documenti bronzei furono raccolti a scopo fiscale soprattutto nel Sanctuarium Caesaris sul Palatino e nei tabularia.

Per entrare in un ambito ancor più specifico, voglio citare gli interventi di Adriano per reprimere sanguinosamente il tumultus Iudaicus in Cirenaica, per porre fine agli atrocissima bella, alla magna seditio o alla στάσις, definita Ίουδαικὸς τάρακος con M. Aurelio in occasione della ricostruzione del tempio di Zeus a Cirene. Conosciamo gli investimenti finanziari per il restauro degli edifici pubblici, l’esilio nelle isole più lontane degli ebrei, la deportazione di popolazione, talora obbligata, come per gli ebrei di Berenice e Cirene, protagonisti della rivolta a partire dagli ultimi anni di Traiano che provocò gravissimi danni, ai quali Adriano avrebbe posto rimedio: balineum / cum porticibus et sphaeristeris / ceterisque adiacentibus quae / tumultu Iudaico diruta et exusta / erant civitati Cyrenensium restitui / iussit. I Beronicenses di Bengasi furono allora condannati ad metalla e deportati in Sardegna come incolae peregrini nel municipio di Sulci, esclusi come in un ghetto dalla universae tribus dell’ordiamento municipale come in altre geografie della diaspora ebraica.  In generale osserviamo le migrazioni, le difficili integrazioni culturali, il lento adattameno alle istituzioni locali.  Né ignoriamo la violenza che spesso accompagnava il cambiamento di protagonisti e le mille forme di abolitio nominis e di damnatio memoriae, come l’erasione dei nomi di Commodo oppure di Geta e  di tanti altri imperatori considerati indegni, la parziale reincisione, segni di scontri interni che hanno provocato massacri, uccisioni e morti, nascosti propagandisticamente sotto la Concordia, espressione in realtà di una profonda insanabile Discordia: possiamo seguire le tracce di una comunicazione strumentalizzata e  distorta della memoria, in area urbana o rurale. Come dimenticare Plutarco a proposito del commento scritto cursivamente sul tempio della Concordia fatto costruire a Roma dal console Opimio dopo la morte di Gaio Gracco ? Ci rimane il testo di un commento epigrafico anonimo, ripreso da Plutaro: <<Ciò che indignò il popolo più ancora di tutto il resto fu la costruzione, da parte di Opimio, di un tempio alla Concodia: sembrava infatti che egli s’inorgoglisse, traesse vanto e, per così dire, celebrasse il trionfo per tante uccisioni di cittadini. Perciò alcuni scrissero di notte questo verso sotto l’iscrizione dedicatoria del tempio: “La Discordia ha edificato questo tempio alla Concordia”>> (ἕργον ἀπονοίας ναὸν ὁμονοίας ποιεῖ).

Allora dobbiamo riconoscere come la cultura classica abbia saputo guardare se stessa anche con ironia e criticamente, forse in qualche occasione ignorando i fanatismi religiosi, senza conoscere fino in fondo il male di quello che è il nazionalismo dei nostri tempi; e come essa oggi ci fornisca gli strumenti per un tempo nuovo fondato sulla tolleranza (che pure è mancata frequentemente nel mondo antico) e sul rispetto per gli altri, sul pluralismo e il valore delle diversità in un Mediterraneo dove il mare non sia più una frontiera, ma la piazza di un’interazione pacifica, per usare le parole di Edgar Morin, per il quale dobbiamo constatare che i futuri impensabili del nostro passato sono diventati ora futuri impensabili del nostro presente (Alfredo Cacopardo). Il tema che è emerso negli ultimi decenni è quello dell’interpretazione da dare alla fase tardo antica: tante scuole si sono alternate definendo il tema della caduta e della fine dell’impero romano, superando il teorema illuministico delle invasioni barbariche, alla luce delle nuove posizioni degli studiosi che preferiscono parlare di relazioni di lunga durata: così H. Wolfram sull’etnogenesi e W. Pohl sulle popolazioni germaniche; del resto vediamo che negli ultimi tempi viene abbandonato il cliché di un mondo assassinato dai barbari o dai cristiani, anzi si parla di un momento di democratizzazione tardo-antica che sarebbe stata favorita dalla Chiesa, che ha contribuito a migliorare la realtà sociale di un Mediterraneo tanto complesso: siamo convinti che occorre cambiare la percezione del mondo antico e i modelli interpretativi stessi della civiltà classica, spesso inadeguati, con la <<coscienza di una lontananza, di un distacco, che però ci interroga continuamente sul nostro presente>>. È la posizione che ci ha riproposto di recente Guido Clemente nella bella riedizione della Notitia Dignitatum appena pubblicata da Edipuglia, quello che nel lontano ‘68 è stato il mio primo libro di studente a Cagliari. Ancora oggi la cultura classica continua ad essere una componente fondamentale della cultura europea ma non solo. Dobbiamo riaffermare la necessità di leggere i testi nella loro lingua originale, perché la lingua non è tanto esercizio logico ma strumento di comprensione storica dei testi. Per l’impero romano, abbiamo la possibilità di cogliere delle costanti nelle linee di governo, nel dominio del territorio agrario, nella religione, nella comunicazione, nella cultura letteraria e artistica, nell’economia, della storia politica, istituzionale, amministrativa dall’Atlantico fino al Mar Nero con tradizioni, continuità, scambi: la complessità è un valore, il pluralismo un dato di fatto ormai acquisito. La possibilità di servirci in modo sempre più profondo della tecnologia digitale applicata dà oggi anche all’epigrafia la capacità di adottare punti di vista nuovi per leggere e penetrare il mondo antico con una maggiore conoscenza dei documenti, ad esempio raccogliendo proposte per integrare le lacune attraverso l’intelligenza artificiale, le banche dati informatiche, le nuove tecnologie digitali applicate ai beni culturali, la fotogrammetria, la computer vision, il trattamento delle immagini, la modellizzazione in 3D dei reperti tramite il Laser Scanner, il rilevamento dei siti archeologici, la collocazione dei reperti sul territorio tramite GPS, geo-referenziazione dei monumenti, sistemi informativi capaci di creare relazioni e di incrociale i dati, una nuova prospettiva anche per la presentazione museale dei testi. Penso al recente Arqueología y Téchne Métodos formales, nuevos enfoques, editado por José Remesal Rodríguez e Jordi Pérez González. Così avviene per l’archeologia, la numismatica, la papirologia, i tanti media che ci arrivano dal mondo antico, che si affiancano alla critica letteraria.  Più di quanto non ci rendiamo conto cambiano i nostri metodi di studio giorno per giorno, assistiamo positivamente ad una forma di democratizzazione della cultura contemporanea, ad un radicamento che attraverso le scritture antiche ci mette direttamente in comunicazione col passato nelle più diverse latitudini, superando ormai la tentazione di costruire a posteriori categorie interpretative fondate su ideologie moderne che comunque spesso hanno pesantemente deformato i documenti. Anzi si è raggiunta la consapevolezza che esistono variabili geografiche e cronologiche nel momento in cui culture diverse entrano in contatto, sempre evitando di perdere la concretezza e di piegare il dato scientifico a schemi ideologici, riconoscendo la complessità e facendone una leva per leggere la realtà, al di là di facili periodizzazioni di comodo: la grande dimensione dell’impero, l’articolazione territoriale, i processi biologici, la presenza di aree marginali hanno avuto influenza sui linguaggi artistici, sulle scuole artigianali, sulle varianti linguistiche, attririttura sulla percezione del tempo che non dappertutto si misura allo stesso modo, nel rapporto tra otium e negotium. Il rapporto con altri imperi, come con Valeriano a Persepoli.

Noi epigrafisti siamo insieme storici e geografi: se è vero che l’inquietudine sul proprio mestiere deve sempre accompagnare gli storici che non vogliono travisare quella realtà che è oggetto dei loro studi, se è vero che gli storici spesso si sono prestati a interpretazioni ideologiche che appaiono inadeguate e finiscono irrimediabilmente per invecchiare, gli epigrafisti possono avere uno sguardo più neutrale, con il vantaggio di raccogliere senza intermediazioni le opinioni, le emozioni, perfino le strumentalizzazioni che il mondo antico non ignorava, senza con questo ammettere a priori la neutralità di tutte le ricerche in corso; scavi, indagini in depositi, archivi, collezioni private, biblioteche, attentissime verifiche linguistiche, filologiche ed epigrafiche, fondate su un metodo che condividiamo tutti, quello dell’autopsia dei documenti spesso dispersi, della ricerca dei testi collocati in collezioni diverse o come le iscrizioni rupestri incatenate ad un territorio, ad un paesaggio e ad un ambiente, che ci consentono di cogliere in un modo sorprendentemente immediato quasi il clima, l’orizzonte culturale, il paesaggio, l’ambiente geografico dell’antichità, con una rafforzata capacità evocativa, perché anche la geografia è collocata nella storia, perché esiste un rapporto delle epigrafi con i luoghi, i territori, le genti. Si tratta di costruire assi di sovrapposizione e momenti di confronto. Le indagini storiche svolte con il gusto per l’esplorazione, per i viaggi, per l’esame autoptico dei monumenti e per le ricostruzioni topografiche. Per usare le parole di Marc Mayer lo sforzo dev’essere quello di concepire l’orizzonte epigrafico con una sensibilità nuova per l’aspetto topografico, che va oltre il singolo complesso monumentale per integrarsi in un paesaggio naturale. Del resto la molteplicità delle situazioni non può essere ricompresa in una formula: ci sono iscrizioni perdute, frammentarie, danneggiate dagli uomini dei nostri tempi o dei tempi passati, erase, opistografe, non più leggibili anche se in origine incise su materiale durevole destinato a durare per sempre, sul quale tante volte abbiamo teorizzato; non ci nascondiamo che esistono variabili indipendenti che obbligano a valutare la testimonianza delle epigrafi non solo incompleta, ma talora casuale, influenzata da molteplici fattori, da danneggiamenti come in Algeria nonostante la nomina del recente Conseil Consultatif du Patrimoine, scavi clandestini, conflitti, perfino dal caso. Eppure riaffermiamo la responsabilità dei singoli studiosi nello stabilire il testo, nel colmare le lacune, nel proporre confronti, con una maggiore o minore capacità di collegare spunti, idee, prospettive di ricerca, con un metodo che ha ormai caratteristiche di piena scientificità e che rende sempre più l’epigrafia una disciplina incardinata anche nell’ambito delle scienze sperimentali, per quanto radicata nelle scienze umanistiche, dunque avamposto delle humanities, al di là di ogni intellettualismo. I nostri colleghi sono specialisti sempre più determinati ad indagare il mondo antico con un approccio originale e non convenzionale, con la capacità di entrare in sintonia con realtà tanto complesse, col desiderio di applicare la critica testuale a documenti talora frammentari, ma che hanno il vantaggio di collegarci al passato senza filtri, con tante prospettive inattese, formulando mille domande alle quali non sempre è possibile dare delle risposte certe; con la passione per ricostruire le linee dell’acculturazione e della formazione dell’opinione pubblica: una disciplina la nostra che si allarga alla storia degli studi, all’indagine sociale, all’antropologia, alla demografia, alle relazioni con l’archeologia e con la storia dell’arte, con la papirologia e con la numismatica. Del resto più di mezzo secolo fa Karl Popper scriveva negli anni 50 che <<non ci sono discipline, né rami del sapere; o piuttosto, di indagine. Ci sono solo problemi e l’esigenza di risolverli>>.

Credo che gli epigrafisti abbiamo un orizzonte comune, quello di risolvere mille problemi di interpretazione di testi lacunosi, estrapolati da un contesto, con molti sottintesi. Mi ha sorpreso come trent’anni fa, celebrando i cinquant’anni di Epigraphica, Giancarlo Susini avesse ben chiaro il ruolo innovativo dell’epigrafia tra le discipline classiche, nei tempi nuovi che già si profilavano all’orizzonte, quelli dei social, dei messaggi rapidi e concisi, delle immagini: <<l’epigrafia come scienza dell’acculturazione, di interprete dei processi anche periferici tra scrittura e lettura, di storia dei momenti civili dello sviluppo culturale>>. E, guardando al futuro: <<Come si esprimeranno “epigraficamente” gli uomini del futuro ? Forse, mi vien fatto di supporre, esisteranno meno lapidi gloriose, invece più messaggio baluginanti (in connessioni diverse con il linguaggio delle immagini, quindi in sintonia con gli schermi). Forse scriveranno di meno nelle epigrafi (cioè in pubblico e con intenzioni durevoli) le strutture statuali; scriveranno di più gli uomini associati nelle fedi, nelle clientele, nelle imprese. Forse saranno sempre più i protagonisti del potere a gestire il sapere pubblico>>. Quasi una profezia se consideriamo il ruolo dei social oggi per formulare denunce incisive, giudizi stringati, informazioni fulminanti, con uno sforzo di sintesi, basato su abbreviature e convenzioni comuni che vengono da esperienze ben più profonde.

In generale il patrimonio culturale rappresenta una risorsa, <<ha un valore intrinseco, è una componente essenziale per lo sviluppo umano e svolge un ruolo fondamentale nel favorire la resilienza e la rigenerazione delle economie e delle nostre società… è la base per rilanciare la prosperità, la coesione sociale e il benessere delle persone e delle comunità>>. I Ministri della cultura del G20 nei mesi scorsi riuniti a Roma hanno chiesto <<la protezione del patrimonio culturale, la condanna del traffico illecito dei BBCC, riconoscendo che tutte le minacce alle risorse culturali, compresi il saccheggio e il traffico illecito di beni culturali… la distruzione o l’uso improprio del patrimonio culturale … lo sviluppo urbano e regionale incontrollato, il degrado ambientale, … possono portare alla perdita di beni culturali insostituibili. Questo sconvolge le pratiche socio-culturali, violando i diritti umani e culturali dei popoli e delle comunità, colpendo la diversità culturale e privando le persone e le comunità locali di preziose fonti di significato, identità, conoscenza, resilienza e benefici economici. Di conseguenza occorre riconoscere la cultura e la creatività come parte integrante di agende politiche più ampie, come la coesione sociale, l’occupazione, l’innovazione, la salute e il benessere, l’ambiente, lo sviluppo locale sostenibile e i diritti umani. Convinti che la cooperazione e il dialogo siano vitali nella lotta contro l’estremismo violento, i Ministri dei 20 paesi hanno espresso la più forte condanna della distruzione deliberata del patrimonio culturale tangibile e intangibile, ovunque essa avvenga, poiché colpisce irreversibilmente le identità delle comunità, danneggia i diritti umani, cancellando le eredità del passato e danneggiando la coesione sociale. È necessario sostenere le iniziative intraprese per proteggere il patrimonio culturale in pericolo e ripristinare il patrimonio culturale distrutto o danneggiato. Nonostante l’impegno dell’UNESCO assistiamo al crescente saccheggio, al traffico illecito di beni culturali, alle minacce alla proprietà intellettuale, anche attraverso piattaforme digitali e sociali, ad altri crimini organizzati commessi a livello globale contro il patrimonio culturale e le istituzioni culturali. I Ministri hanno chiesto alla comunità internazionale di adottare misure forti ed efficaci, riconoscendo che il traffico illecito di beni culturali e le minacce alla proprietà intellettuale sono gravi crimini internazionali che sono collegati al riciclaggio di denaro, alla corruzione, all’evasione fiscale e al finanziamento del terrorismo, e che inoltre incidono fortemente sull’identità culturale di tutti i paesi; hanno raccomandato la creazione di unità di polizia specializzate e banche dati di oggetti culturali rubati, aggiornate e interconnesse con INTERPOL, così come le organizzazioni doganali dedicate, per sostenere meglio le indagini transnazionali e il perseguimento dei reati di proprietà culturale e intellettuale>>.

Sul piano strettamente geografico, l’epigrafia può essere anche un marcatore territoriale significativo: essa testimonia in alcune province ma anche in alcuni regni o in territori collocati ai confini rapporti inattesi ed una presenza che va ben al di là dei fines, del mondo conosciuto: penso al Corpus Inscriptionum Regni Bosporani, Moskau 1965, con i nomi di località che ormai ci sono noti, Cherson alla foce del fiume Dnepr sul litorale del Mar Nero a occidente della Crimea, l’antica Chersonesus Taurica (82 testi), Phanagoria presso Sennoy nel Krasnodar Krai, in Russia (un testo greco, quello del βα[σιλεὺς μέγας Τιβέριος Ἰο]/[ύλιος Σα]υρομάτης υἱὸς βασ[ιλέως Ῥησκουπόριδος φι]/[λόκαισαρ] καὶ φιλορώμαιος εὐσ[εβής ἀρχιερεὺς τῶν Σεβ]/[αστῶν διὰ β]ίου καὶ εὐεργέτης [τῆς πατρίδος καὶ κτίστη]) e Panticapeo oggi Kertsch sulla penisola di Taman (8 testi, tra i quali la dedica posta dalla colonia Iulia Felix Sinope per il Rex Ti. Iul. Sauromatem tra il 92 e il 124. E poi soprattutto  Sebastopoli (Sewastopol, nella Crimea Sud Occidentale), con le sue 135 testimonianze epigrafiche, le sue dediche IOM Conservatori e Dolicheno, a Mercurio, a Ercole, a Vulcano, Sabazio, Nemesi conservatrix, Mitra, i suoi diplomi come nel 157 al marinaio di Olbìa oggi Parutyne, le iscrizioni imperatorie come per i Severi o per i vicennalia di Costante nel 343 a Panticapaeum, quelle militari come quelle dei legionari dell’XI Claudia, della I Italica, della V macedonica, dopo Diocleziano della II Erculea dell’esercito Mesico inferiore, con questa mobilità che è tipica degli eserciti in marcia, le coorti Cilicum, Bracaraugustanorum, Lucensium, Thracum, Cypriae, Hispanorum, le vexillationes anche della flotta di Ravenna, i marinai della classis flavia moesiaca. Oppure a Cherson la bilingue della vexillatio Chersonessitana in un decreto militare.

Mi sono chiesto tante volte se gli avvenimenti militari dell’oggi cambino la percezione stessa del mondo antico; soprattutto se riducano oppure amplino la documentazione che ci è pervenuta.  È possibile che la caduta del muro di Berlino abbia inciso in qualche modo sulla recente moltiplicazione del numero dei diplomi militari romani che fino al supplemento di CIL XVI curato da H. Nesselhauf tra il 1936 e il 1955 non erano più di 169; il numero si era già notevolmente allargato nel 1978 con la pubblicazione del I volume di Margaret M. Roxan, poi nel 1985, 1994, 2003 con Paul Holder, infine nel 2006. Oggi l’Epigraphik-Datenbank Clauss / Slaby conta (il 20 marzo 2022) su 532 mila iscrizioni,  ben 1246 diplomi, metà dei quali, 670 di provincia incerta e da località incerta; si segnala l’alto numero di diplomi provenienti dalle province renane e danubiane, ben 422: tra essi i 116 dalle Pannonie, gli 81 dalle Mesie, i 77 dalla Rezia, i 28 dalle Germanie, i 68 dalla Dacia, fino al Regno del Bosforo (2);  solo 4 dalla Siria, 7 dal Barbaricum. Tra questi vorrei citare almeno i diplomi provenienti dalle Regioni transdanubiane dell’Ungheria: più precisamente dal territorio degli Azali (tra il Danubio e il lago Balaton a N del Caspio) proviene il diploma studiato da Lőrincz dell’ex pedite della cohors II Alpinorum Tertius Dasentis filius Azalus. Evidentemente il veterano è tornato in patria, Dunantul. Un marinaio, un ex gregale era Niger Siusi f. Azalus, del diploma di Arrabona, che si è spostato in area transdanubiana nel 161 dopo il congedo. Si può anche citare il supplemento al RIU, quello dedicato da P. Kovács a oltre duecento iscrizioni ungheresi, Tituli Romani in Hungaria reperti, 49 dei quali trovate nel Barbaricum Sarmaticum, con 47 inediti: il recente lavoro di Ionut Acrudoae ha dimostrato l’arruolamento di molti milites-nautae non provinciali, esterni alla Pannonia.

Si segnala la clausola a favore dei liberi decurionum et centurionum item caligatorum quos antequam in castra irent procreatos, dunque nati prima che il padre caligatus (soldato semplice) prendesse servizio: la si trova in due diplomi da località sconosciuta per un marinaio e per un ausiliario (AE 2013, 1216), ma anche a Carnuntum e Volubilis sempre alla metà del II secolo.

I diplomi sono i marcatori territoriali più significativi, se arrivano già con Traiano fino all’Irlanda, affiancandosi spesso come è naturale all’instrumentum, ai prodotti di importazione, alle monete ben al di là dei confini dell’impero. Dati che abbiamo incrociato con l’Epigraphic Database Heidelberg e con i molti altri repetori che oggi ci consentono di sovrapporre la geografia antica e la geografia moderna: in EDR Roma i diplomi sono 36. Voglio commentare brevemente almeno la situazione delle province danubiane, presentta al Convegno di Vienna Ad ripam fluminis Danuvi: un importante numero di nuovi diplomi conosciuti dal 2000 al 2015 (oltre 50 rispetto ai 31 conosciuti in precedenza) ci provengono dalle Mesie, tempestivamente pubblicati in modo davvero apprezzabile su “Chiron” da P. Weiss, W. Eck, A. Pangerl: di essi 26 sono riferiti alla Mesia Superiore, 25 alla Mesia Inferiore. Un significativo aggiornamento dei RMD con precisazioni e rettifiche sulla consistenza dell’esercito del Norico è stato effettuato dopo le scoperte di Lauriacum, Porgstall an der Erlauf in Bassa Austria. Nello stesso periodo sono venuti alla luce dodici nuovi diplomi relativi all’esercito della Pannonia, 5 alae e 13 coorti. Ci sono molti casi che andrebbero richiamati, come quello di Cornacum che ricorda due consoli fin qui sconosciuti: Euphrata et Romano coss., un 7 settembre tra il 192 ed il 206, diploma concesso all’ex gregale (un marinaio della flotta) Priscinus Prisci f. Priscus ex Pan. Inf. Iatumentianis e ai figli. Egli era originario di un villaggio sconosciuto della Pannonia Inferiore, Iatumentianae.

Dovremmo allora discutere sulla singolarità di queste nuove conoscenze, così squilibrate sul piano geografico: ne ho discusso con Yann Le Bohec e possiamo concordare che la caduta del muro di Berlino e la fine della DDR è stato forse uno dei fattori che hanno pesato, aprendo un mondo nuovo; certo la scomparsa dell’URSS ha ridotto i controlli e ha fatto emergere e reso redditizia l’attività dei clandestini per esempio in alcuni paesi, come in Bulgaria; in alcuni paesi sono stati aperti ora molti scavi non ufficiali. La moltiplicazione delle scoperte si spiega con un evidente allentamento del controllo pubblico sul patrimonio: allora le selvagge attività di tombaroli e di scavatori clandestini accanto all’uso del metal detector, al moltiplicarsi degli scavi clandestinti, all’allargarsi del mercato antiquario, appare evidente che la società post-comunista ha dato impulso alle ricerche archeologiche, talora senza che si fosse affermato un quadro di norme rigorose e severe: e ciò al solo scopo di produrre ricchezza. Con ciò non voglio affatto sostenere che le maglie dei controlli anche in Italia o in Francia non siano state spesso troppo larghe e violate.

L’uso del metal detector spiegherebbe anche in parte, per esempio, la scoperta in Betica di alcune leggi municipali, numerose e dettagliate rispetto al migliaio di leges epigrafiche conosciute: siamo rimasti impressionati al Convegno AIEGL di Barcellona del 2002, quando abbiamo visitato la mostra Scripta manent, sui grandi bronzi iberici, tra i quali la lex Irnitana, studiata a partire dal 1984 e la lex Ursonensis dal 1951.

Ma il tema in realtà è quello degli orizzonti nuovi, delle intuizioni e delle piste interpretative che si propongono attraverso i BIG DATA, le nuove banche dati come per le anfore dal database del CEIPAC oppure quell’Atlas patrimonii Caesaris arricchito da atlanti storici che testimonia una disomogenea distribuzione delle proprietà imperiali, in Africa come in Asia spesso più consistenti nelle aree rurali, presso le miniere e le cave ma anche nelle aree abbandonate, comunque a distanza dai principali contesti urbani dove esistevano meno difficoltà ad alienare i beni pervenuti al fiscus, come ha recentemente osservato a Milano Alberto Dalla Rosa. Il problema che abbiamo di fronte oggi è quello della rappresentatività dei dati : pensiamo ad esempio ai circa 800 termini conosciuti (ben 226 in Siria, 51 tra Mesia e Tracia, una ventina nelle province asiatiche, 50 nelle province africane, 46 nelle province iberiche, 17 nelle province galliche) oppure dagli oltre 8000 miliari stradali, che arrivano a quasi 200 in Sardegna ed a tre soli in Sicilia, nessuna attestazione in Corsica; in totale in EDR Roma in Italia 603 cippi miliari, anche se ne mancano ancoa molti da inserire; per non dire dei 1600 miliari delle province africane, dei 1500 miliari delle province iberiche, degli 800 miliari delle province germaniche e galliche, dei 500 miliari delle province danubiane. Sono state tentate le più diverse spiegazioni, ma l’impressione è quella di una eterogeneità e di una diversità di base fondata certo sulla presenza di tradizioni locali, sulla dislocazione dei reparti militari, sulla profondità della penetrazione e dello sfruttamento agricolo, sui commerci, sulla presenza di cave lungo i percorsi, viceversa in Sicilia sull’abbondanza di legname; non è escluso che possa aver pesato il fattore cronologico, l’epoca più precoce della realizzazione di strade militari; eppure non possiamo toglierci dalla testa l’idea che la storia successiva del territorio a causa di fattori naturali o artificiali, lo spopolamento, il paludismo, l’abbandono delle terre da una parte, il mercato antiquario o la speculazione edilizia in tempi moderni dall’altra abbiano pesato nel tempo per modificare profondamente la quantità di reperti che ci sono pervenuti e di conseguenza la percezione stessa che noi abbiamo oggi del mondo antico. E ciò avviene anche quando gli studiosi allargano l’indagine alle fonti geografiche, all’Itinerario Antoniano, ad altri Itinerari terrestri, gli scavi archeologici, la localizzazione dei ponti e delle infrastrutture stradali. Le questioni si moltiplicano quando si passa alla documentazione sacra, alla localizzazione dei grandi santuari regionali, al mondo della magia, alle defixiones: perché le 810 defixiones sono distribuite in modo così singolare ? 174 in Britannia, 116 in Africa Proconsolare, 65 dalle Germanie, 69 dalle province galliche, 45 dalle province iberiche ? In EDR Roma 142 defixiones in Italia, anche se l’attività è tuttora in corso; Celia Sánchez Natalías nella Sylloge della sua  comprehensive collection appena pubblicata nei BAR calcola per l’Occidente Europeo 535 defixiones, ben 255 per la sola Britannia. Ci sono evidentemente elementi profondissimi che spesso ci sfuggono del tutto e che non erano chiari neppure agli antichi. Restano sullo sfondo molti punti interrogativi, molte questioni aperte, molte incertezze che non abbiamo l’ambizione di superare in questa sede.

Se restiamo dentro l’impero, possiamo verificare in generale una romanizzazione non omogenea e discontinua nel territorio che riflette livelli di alfabetizzazione diversi e attesta profonde differenze culturali, a seconda della distanza dalle coste, dell’altitudine, dell’orografia, della presenza di altri codici linguistici, accanto al latino e al greco. L’epigrafia fu un fatto prevalentemente urbano, anche in relazione ad una migliore conoscenza nelle città della lingua latina e greca, rispetto alle aree marginali portatrici di culture locali: un peso ebbero anche la presenza di immigrati italici nelle città portuali, l’attività di una vera e propria burocrazia impegnata nell’amministrazione provinciale e cittadina, il soggiorno di personaggi incaricati dello sfruttamento del suolo e del sottosuolo, specie nelle zone minerarie, la dislocazione dei reparti militari, la stessa distribuzione sul territorio delle officine epigrafiche, anche la disponibilità pratica di scuole. La “densità epigrafica” di un territorio è in rapporto con la diversa distribuzione delle iscrizioni, con particolare riguardo per le zone isolate, interne e montagnose, dove era in genere insediata una popolazione locale talora ostile agli immigrati italici, a quel che pare non sempre interessata a superare i limiti di un millenario analfabetismo, ovviamente con la variabile diacronica. In Sardegna significativo appare il dato che riguarda il numero di iscrizioni in relazione alla distanza dal mare, soprattutto se si tiene presente che attualmente i comuni sardi sono distribuiti in modo omogeneo in una fascia che dista tra 0 e 60 km. dal mare. Circa il 70% delle epigrafi proviene da un territorio collocato in una fascia che dista in linea d’aria un massimo di 5 km. dalla costa  (956 su 1329); l’instrumentum per l’86% (539 su 627) si concentra entro la stessa fascia; in relazione all’ altitudine è noto che i 377 comuni sardi sono attualmente distribuiti in modo omogeneo tra 0 e 600 m. sul livello del mare; viceversa, il 68% delle iscrizioni latine proviene da località comprese fra 0 e 50 metri sul livello del mare (956 su 1329), anche se poi le attestazioni su fasce di altezza più elevate (fino a 100 m) si distribuiscono più gradualmente rispetto al dato della distanza dal mare, forse a dimostrazione di una parziale occupazione dei siti collinari, vicini alla costa: si deve concludere che è l’area pianeggiante costiera ad aver conservato la gran parte delle iscrizioni latine e dell’ instrumentum, mentre la Barbaria interna ospita prevalentemente documenti emanati dal potere centrale, sentenze del governatore, cippi di confine collocati per contenere il nomadismo delle tribù indigene, miliari stradali, epitaffi di ausiliari presso i diversi accampamenti, diplomi militari rilasciati ai soldati che, è lecito supporre, sono tornati ai luoghi di nascita terminato il servizio di ferma, infine anche dediche ufficiali effettuate dai magistrati provinciali o da procuratori imperiali. Per il resto dalle zone interne e marginali della Sardegna provengono alcune decine di iscrizioni funerarie, che si caratterizzano per un aspetto rozzo nel supporto prodotto di un artigianato locale, nell’incisione e nella forma delle lettere, nell’iconografia funeraria, nel formulario, nei contenuti, esito di una vera e propria “scuola” artistica locale: osserviamo il costante utilizzo della pietra locale (graniti, trachiti, anche basalti; mai marmi); l’incisione delle lettere poco marcata, un ductus approssimativo e rozzo, un’onomastica spesso con caratteristiche di spiccata non romanità, i contenuti non tutti sicuramente comprensibili.

La diffusione della lingua latina appare tavolta in concorrenza con altri codici linguistici, quelli indigeni innanzi tutto, ma anche quello punico, quello greco come la trilingue di San Nicolò Gerrei  riemersa in questi ultimi mesi nelle nuove sale dei Musei Reali di Torino (CIL X 7856, IG XIV 608, CIS I 143) ; in oriente quello nabateo ad esempio o quello greco-palmireno o le trilingui greco-latino-palmirene del Museo di Palmira studiate di recente dall’Union Académique Internationale per i Fontes Historiae viae Sericae a cura di Samuel N.C. Leu, in parte emendato ora da Stefano Magnani ad es. per la nota bilingue del 146 d.C. con il richiamo da parte del demos di alcuni documenti come le epistulae imperiali del divo Adriano e del θειότατος Α[ὐ]τοκράτωρ Ἀντωνεινος per Publicio Marcello.

Le iscrizioni hanno seguito le nazioni europee, con gli stati dai confini spesso arbitrari: consentitemi un’incursione nel mare magnum delle lettere di Theodor Mommsen, per ricordare la recente uscita del carteggio Ettore Pais – Theodor Mommsen curato da Antonio Cernecca e Gianluca Schigno e la posizione Theodor Mommsen (ostile all’italianità di Trieste come ha già notato Gino Bandelli), che nel 1882 avrebbe voluto limitare il viaggio epigrafico in alta Italia di Ettore Pais ai confini italiani del tempo, escludendo così i territori di Aquileia, Trieste e dell’Istria, posti sotto il controllo austriaco. Sull’altro versante analogo è il caso delle Alpes Maritimae.  Lascerei da parte in questo momento la lunga fase coloniale piena di strumentalizzazioni come a Cartagine che in qualche modo è continuata nel tempo, come con l’enfasi sui privilegi dell’arcivescovo di Cartagine, primo in tutta l’Africa; temi che possiamo richiamare attraverso la riscoperta delle rovine archeologiche, delle iscrizioni, dei monumenti avvenuta nell’Ottocento al seguito degli eserciti coloniali. con l’obiettivo romantico di ripercorrere le strade di una civiltà perduta, di ritrovare le radici dell’anima europea del Nord Africa o dell’Oriente travolto dagli Arabi, come testimonia in Algeria la statua moderna di Constantino oppure a Kenchela a venerazione per la statua della regina berbera Kahina. Del resto ancora ai nostri giorni l’attualità è presente nell’attribuzione a questo o quel paese alcune località antiche: conosciamo bene le incertezze nei confini tra le Inscriptiones Italiae e le ILJug., per non parlare della Bosnia, ma si tratta di un discorso davvero più generale.

Dovevano essere parlate, almeno nelle zone periferiche, in aree interne e montagnose, lingue locali che hanno avuto una qualche influenza anche sull’evoluzione del latino volgare, che ivi assunse caratteristiche particolari. Più precisamente alcuni tratti del vocalismo e del consonantismo latino volgare, una serie di particolarità morfologiche e sintattiche e soprattutto le singolari corrispondenze nel lessico, forse per l’influenza del sostrato, hanno consentito di accertare che erano numerose e significative le affinità della lingua parlata in province diverse.

Dunque la Geografia nel suo rapporto con la Storia, come ad es. a proposito della proposta di collocazione del Pagus Veneriensis in rapporto a Sicca Veneria: il tema dei confini sarà trattato in una sessione di questo XVI Congressus internationalis Epigraphiae Graecae et Latinae ed è stato oggetto di moltissimi studi, come quelli sulle barriere culturali, il rapporto coi diversi, tra Romanitas e Barbaritas, nel confronto con le exterae gentes, le nationes, i populi. Elementi che riemergono nella cartografia medioevale, con mille eredità nella definizioni dei confini catastali, tra regni medioevali, tra diocesi, tra città, tra province, tra regioni, che investono la lenta agonia delle grandi proprietà dell’età romana, sempre con la preoccupazione di evitare contestazioni, di anticipare la possibilità che le delimitazioni, i cippi oppure i termini, possano essere abbattuti o spostati, come quando gli agrimensori nella loro attività di terminare si spostano sul territorio e descrivono in stile narrativo un fiume, un monumento preistorico, un mausoleo, una roccia, delle pietre inscritte. Conosciamo l’attività degli agrimensori militari, gli “arpenteurs”, come il mens(or) lib(rator) M. Troianius M.f. Marcellus originario di Lucus Aug(usti) in Narbonese della decima corte pretoria, inteso da G. Chouquer e F. Favory come “mensureur et niveleur”: morto giovane, dopo 5 anni di servizio, sapeva calcolare le distanze attraverso un decempeda, una bastone usato per misurare l’accastamento lungo 10 piedi come quella che compare nel monumento di T. Statilius Aper. Conosciamo altri mensores agrari civili come a Cartagine il servo imperiale Didymus, che Lassère considera addetto al servizio del proconsole e non della colonia, con le implicazioni sottintese sul rapporto tra agri adsignati, proprietà imperiali, latifondi non sottoposti a centuriazione, coi rispettivi vectigalia. Libertini ha recentemente osservato che la parola pertica, oltre che la misura di lunghezza, indicava anche il bastone usato per misurare le parcelle catastali, ma pure l’insieme delle terre oggetto di una limitatio e la mappa di una limitatio, sinonimo  di forma.

Pierre Salama ci ha insegnato che <<la civilisation de Rome a pu etre qualifiée de routière>>, Jean-Marie Lassère ha messo in evidenza il marchio dell’autorità imperiale sul paesaggio trasformato dall’uomo nel tempo, tanto che possiamo affermare che quella romana fu davvero una <<civilisation cadastrale>>, che già secondo R. Chevallier ha avuto un’influenza sulle persone, ha forgiato le mentalità civiche, partendo dall’intreccio della geografia con la religione, perché rimane sul fondo una ritualità indispensabile per garantire il favore divino. E ciò fin dai tempi lontani del pomerio romuleo dell’urbs, progressivamente ampliato in parallelo con i fines dell’orbis. E pomerium, ci ricorda Gell 13 14 1: est locus intra agrum effatum per totius urbis circuitum pone muros regionibus certeis determinatus, qui facit finem urbani auspicii”; Varr ling Lat 5 143: qui (sc. Orbis, urbis principium), quod erat post murum, postmoerium dictum eo usque auspicia urbana finiuntur.

Vorrei ricordare l’espressione dei cippi del Monte Testaccio o della Via Flaminia posti da Claudio nella sua IX potestà tribunicia, nel 49 d.C., là dove finiva la città: auctis populi Romani finibus, pomerium ampliavit terminavitque, dove viene istituita una relazione immediata tra l’operazione di augere i fines e quella di ampliare e terminare il pomerium. Allo stesso modo Vespasiano e Tito ce lo ricordano in sempre al Testaccio: auctis p(opuli) R(omani) finibus pomerium ampliaverunt terminaveruntq(ue). Proprio Vespasiano nella lex de imperio ricordava il potere dell’imperatore uti ei fines pomerii proferre promovere, come era stato lecito a Claudio. Del resto esiste un collegamento tra lo spazio dell’orbis e quello dell’urbs, che quasi lo sintetizza; Costantino a Napoli è liberator urbis terrarum (CIL X 6932); Costanzo II è Restitutor urbis Romae adque orb[is] et extinctor pestiferae tyrannidis di Magnenzio. Ma l’imperium sine fine nel tempo e nello spazio promesso da Giove ai Romani (His [Romanis] ego [Iuppiter] nec metas rerum nec tempora pono: imperium sine fine dedi», Verg., Aen. I 279), non avrà confini, se non indefiniti nello spazio. Cecilia Ricci ha studiato in passato nel volume Orbis in urbe i fenomeni migratori nella Roma imperiale, dandoci l’idea di una capitale cosmopolita o all’opposto di un mondo sintetizzato nell’urbe, ἡ κυρία τοῦ κόσμου Ῥώμη a Puteoli, ricca di relazioni, spesso capace di accogliere l’altro, di preservare identità plurali, attraverso gli spazi, i luoghi di abitazione, di esercizio delle professioni, dell’organizzazione sociale, la lingua, l’onomastica, le pratiche cultuali. Ne è rimasta testimonianza nelle Formae urbis antiquae, le mappe marmoree di Roma tra la repubblica e Settimio Severo, di cui al volume di E. Rodríguez-Almeida del 2002,  con l’enfasi imperiale mussoliniana che si allarga all’orbis, al mare nostrum, un’espressione che continuerà ad essere odiosa anche in futuro <<per il suo senso proprietario>>  – secondo Franco Cassano – se non la declineremo al plurale e contemporaneamente in varie lingue. Il bellissimo templum Pacis accoglie con Severo la nuova forma urbis: il complesso aveva ospitato i cimeli della guerra ebraica arrivati da Gerusalemme come il candelabro a sette braccia in una sorta di evocatio fallita del dio degli ebrei; sull’arco di Tito è rappresentata la scena della pompa trionfale coi fercula accompagnati dai relativi tituli sorretti da lunghe pertiche, con un evidente intento didascalico, come negli spettacoli anfiteatrali.

Se il punto di osservazione viene rovesciato dall’urbs all’ orbis Romanus o addirittura al mondo intero all’orbis terrarum o all’οίκουμένη e al κόσμος si pongono problemi ancora più complessi e difficili, che considerano guerre e conflitti ma anche le continuità, le rotture, i contatti, che consentivano di superare nazionalismi e identità locali, di procedere ad un’integrazione, fino ad arrivare a quella che oggi chiamiamo la globalizzazione, disturbando il libro postumo di Marshall Mac Luhan, “the global village”. In questo quadro alcuni percorsi ci possono davvero guidare: il tema dell’epigrafia latina del Barbaricum è solo una delle piste per definire le strade attraverso le quali ormai possiamo accogliere un ripensamento non banale ad es. sulla fine dell’impero romano, superando il teorema illuministico delle invasioni barbariche.

Essenziali ci sembrano gli aspetti spaziali del potere, precocissimi ed introdotti già nel titolo stesso della Regina inscriptionum, le RGDA, quibus orbem terra[rum] imperio populi Rom(ani) subiecit, tema completamente obliterato nel titolo greco leggibile ad Ancyra, espressione quello latino di una evidente retorica propagandistica. Ma già il titolo esprime l’ammirazione per un impero universale visto in positivo, come quello di Alessandro Magno che coincide con il mondo conosciuto, un modello che riemerge di tempo in tempo. Sempre nelle RGDA vd. il cap. 3, dove Augusto esalta le guerre combattute toto in orbe terrarum, in greco [κατὰ γῆν] καὶ κατὰ θάλασσαν sempre riferendosi all’impero romano: più in dettaglio il primo imperatore si vanta al cap. 26: com[plu]ra oppida capta in Aethiopiam usque ad oppi/dum Nabata perventu[m] est cui proxima est Meroe in Arabiam usque / in fines Sabaeorum pro[ces]sit exercitus ad oppidum Mariba. Veramente fino alla fine del mondo. Del resto il modello ideale propagandistico non viene abbandonato dai successori, neppure da Costantino nella seconda Roma e, dobbiamo constatare con qualche emozione, fino ai nostri giorni permane un disegno imperiale che in qualche modo ancora sopravvive a Mosca “terza Roma”.

Esiste poi un altro aspetto, quello della durata nel tempo del potere imperiale, che è naturalmente connesso con lo spazio, ancora una volta già con Augusto che conosce l’assimilazione a Dioniso e ad Eracle, nel quadro dell‘aeternitas, la durata infinita nel tempo della Fortuna, una virtù. che avvicina il principe a Giove.

In questo momento di guerra in Europa come potremmo non pensare al Mare d’Azov, al lago Meotide ? Ed a Phanagoria sul lato orientale del Bosforo Cimmerio nella penisola di Taman oggi nella Federazione Russa: qui nel 7 a.C. la βασίλισσα Δύν[αμις φιλορώ]μαιος si rivolge ad Augusto Αὐτοκράτορα Καίσαρα θεοῦ υἱὸν Σεβαστὸν, chiamandolo τὸν <π>άσης γῆς καὶ [πάσης] θαλάσσης ἄ[ρχ]οντα, in quanto τὸν ἑαυτῆς σωτ[ῆρα καὶ εὐ]εργέτη[ν]. Gli ultimi scavi – pubblicati recentemente da Askold I. Ivantchik di Ausonius e da Sergey R. Tokhtas’ev dell’Accademia Russa delle Scienze hanno consentito di precisare il ruolo di questa regina nella promozione del culto di Augusto associato ad Apollo. Sullo sfondo il Bosforo Cimmerio, il Caucaso, la conquista romana, l’occupazione da parte di Pompeo Magno del Ponto, gli accordi di Augusto signore del cielo, della terra, del cosmo con la Regina Δύναμις φιλορώμαιος, anticipano la translatio imperii da Roma a Costantinopoli e da Costantinopoli a Mosca “terza Roma”, ma insieme testimoniano una dimensione geografica che è anche culturale dell’aggregazione del Ponto Eusino al Mare Nostro.

E a Myra in Licia Agusto negli anni precedenti alla morte di Agrippa (18-12 a.Cr.) è invocato come ὁ εὐεργέτης καὶ σωτῆρ τοῦ σύμπαντος κόσμου (Θεὸς Σεβαστός, αὑτοκάτωρ γῆς καὶ θαλάσσης ; Agrippa compare eccezionalmente con i titoli di εὐεργήτης καὶ σωτῆρ τοῦ  ἔθνους). Il titolo, se pure non ufficiale, riemerge un secolo dopo per Adriano: Ὀλ̣υμπίωι, σω[τῆρι τοῦ] σ̣ύμπαντος κόσμου κα̣ὶ̣ [τῆς] π̣ατρίδ[ος, τῆς] π̣όλε[ως] Φα̣σηλιτῶν, Phaselis di Lycia nel 131 d.C.

Queste sono le naturali premesse per il rarissimo titolo di κοσμοκράτορες portato nella stessa regione da Diocleziano e dai tetrarchi alla fine del III secolo nella dedica effettuata [ὑ]πὲρ ὑγεία[ς κα]ὶ νεί[κης τῶν κ]υρίων κοζμοκρατ[όρων {κοσμοκρατόρων} ἀνικ]ήτων da parte del δήμ[ος Καλ[λ]ατιανῶν, a Kallatis (Mangalia sul Mar Nero in Dobrugia) in Scizia minore. Del resto, in oriente  κοσμοκράτορες era stato già assegnato a Marco Aurelio e a Lucio Vero nel 164-166, a Ruwwafa, nell’Arabia pre-islamica (a E di Sharm El Sheik) nell’iscrizione studiata da J.T. Milik e G.WQ. Bowersock, collocata ὑπὲρ αἰονίου διαμονῆς κρατήσεως τῶν ϑειτάτων κοσμοκρατόρων (con la traduzione in nabateo, resa da Milik: <<Pour le salut des maîtres du monde entier>>, M. Aurelio e L. Vero Armeniaci). La regione direttamente collegata al Mar Rosso era abitata dai Thamudeni del popolo dei Nabatei, entrata con Vespasiano nella provincia d’Arabia. Si conosce bene lo sforzo di Traiano di estendere l’impero, secondo le linee studiate recentemente da Michael Alexander Speidel, Armenia et Mesopotamia in potestatem populi Romani redactae. L’attributo cosmoratico è assegnato anche a Caracalla φιλοσάραπις l’11 marzo 216 ad Alessandria d’Egitto, τὸν κοσμοκράτορα Μ(ᾶρχον) Αὐρ(ήλιον) Σεουῆρον Ἀντωνῖνον Germanico Massimo, τὸν φιλοσάραπιν , accompagnato da Giulia Domna: è un testo che mette in rapporto il principe col culto di Serapide. In una epigrafe opistografe urbana il titolo di κοσμοκράτωρ portato in origine da Zeus Serapide Elios, forse dopo la morte di Caracalla nel 217 è stato attribuito a Mitra: εἷς Ζεὺς Σάραπις Ἥλιος κοσμοκράτωρ ἀνείκητος. Infine Gordiano III tra il 238-244 a Portus, Ostia, in un’iscrizione dedicata al proprio benefattore dai cittatini di Gaza in Palestina  τὸν θεοφιλέστατον κοσμοκράτορα: ἡ τῶν Γαζαίων ἱερὰ καὶ ἄσυλος καὶ αὐτόνομος, πιστὴ <καὶ> εὐσεβὴς, λαμπρὰ καὶ μεγάλη, ἐξ ἐνκ<ε>λ<ε>ύσεως τοῦ πατρίου θεοῦ.

Un momento particolare è quello di Costantino: a Philadelfia in Lydia (oggi Alaşehir) dopo il 323 d.C., [τὸν γῆς καὶ θαλάσ]σης καὶ παντὸς τοῦ τῶν ἀνθρώπων γένους δεσπότην.  Il concetto va precisandosi con gli imperatori successivi e si sviluppa appunto nel IV secolo, quando si amplia enormemente il riferimento all’aeternitas, la durata nel tempo che si aggiunge all’estensione nello spazio del potere imperiale : così ad Uchi Maius in modo quasi euforico (anche se paradossalmente a pochi decenni dall’evacuazione della Dacia) Costantino è perpetuus semper Augustus, in un’iscrizione dedicata [d]omino triumphi, libertatis et nostro, restitutori invictis laboribus suis privatorum et publicae salutis; a Thamugadi semper et ubique victor; oppure a Roma dopo il secondo trionfo in Campidoglio: restitutor humani generis propagatori imperii dicionisq(ue) Romanae, fundator etiam securitatis aeternae. Ma già Massenzio si era fregiato dei titoli di invictus ac perpetuus semper Augustus (Reggio Calabria).  A titolo esemplificativo:  omnia maximus victor ac triumfator semper et ubique victor (Hierapolis, Valentiniano); a[uc]toritate praeci[pua] Romani status ac libertatis propagator semper et ubique victor (Graziano, Antiochia di Pisidia); Onorio e Teodosio II: semper et ubique vincentes (Calama).

Per lasciare i riferimenti alla durata nel tempo del potere imperiale e tornare allo spazio, le iscrizioni marchiavano il paesaggio nelle necropoli, nelle città, nelle strade con i miliari, sul territorio, soprattutto nella pertica delle colonie, attraverso i termini, i cippi conficcati al suolo, che sono direttamente collegati agli auspicia, per collocare nello spazio popoli, praedia, vici, colonie, province, perfino l’impero nelle sue incerte periferie, con lo sforzo di ancorare a monti, gole, laghetti, paludi, pantani, stagni, fiumi, ruscelli, guadi, grotte, fontane, alberi, valli, rocce, colline, terreni agricoli, orti, vigne, oliveti, frutteti, terre incolte; luoghi abitati da uomini, capre, maiali, torelli, pecore, cavalli, ecc. Conosciamo l’accatastamento, come in Numidia al Castellum Fabatianum, con le assegnazioni ai coloni effettuate dal consiglio dei decurioni nell’età di Augusto, agros ex d(ecreto) d(ecurionum) coloneis adsignatos.

La parola pertica è espressamente utilizzata per indicare l’ager adsignatus di alcune colonie triumvirali, come a Thugga dove conosciamo un defensor immunitatis perticae Carthaginiensis, il che ci apre una finestra sul complicatissimo mondo del tributum soli e sui vantaggi fiscali della città di Cartagine, che pesavano sugli stipendiarii insediati a vario titolo nel territorio, con l’esplicita testimonianza di Uchi Maius. Le perticae delle colonie di Turris Libisonis e Tharros – da intendere invece  come copie catastali del tabularium – sono espressamente citate in Sardegna in un’epigrafe perduta, conosciuta al Mommsen attraverso la documentazione cinquecentesca di archivio, che testimonia l’attenzione e la cura per l’archiviazione delle mappe e dei documenti catastali. Un notevole approfondimento hanno avuto in Nord Africa le ricadute locali, in particolare nella pertica della colonia augustea di Cartagine, della lex Hadriana de rudibus agris, che documenta il rapporto tra procuratori, coloni, homini rustici, spesso afflitti dagli abusi dei conductores e dai comportamenti violenti dei soldati, come nel saltus Burunitanum a Bou Salem nei primi anni di Commodo, nel 182.

Pertica indica anche lo strumento di 10 piedi per la misurazione delle parcelle catastali e anche la carta catastale coi limiti della centuriazione chiusi dalle arae collocate ad es. da Gaio Gracco, che sul terreno conosciamo attraverso i cippi di delimitazione, i termini posti dai governatori provinciali oppure dai praefecti iure dicundo sostituti dei IIviri della colonia, in un processo di perpetua revisione e aggiornamento che comportava conflitti tra le parti e incertezze sui diritti individuali. La scoperta nel 1949 di uno dei catasti di Orange rimanda alla triplice centuriazione della colonia Firma Iulia Secundanorum Arausio, con orientamento rispetto ai punti cardinali che è variato nel corso dei secoli in rapporto al Rodano; secondo l’interpretazione di Michel Christol, possiamo parlare di un intervento di Augusto e poi di Vespasiano nel 77 d.C. per indicare su una carta catastale la dimensione delle singole centurie. Ma naturalmente si trattava di un modo un po’ naïf di ricostruire la realtà concreta sul terreno, di codificarla in astratto, anche senza manipolazioni volute, anche perché nelle operazioni catastali ancora nei nostri tempi esiste un divario ammesso dai cartografi, tra rappresentazione e distanze reali, con tutti i limiti ben messi in luce da Pascal Arnaud. Dai nuovi frammenti del catasto risulta chiaro che comunque alla città di Arausio vengono lasciate delle terre sulle quali è dovuto il pagamento di un vectigal: fu il proconsole a disporre che venisse indicata su una carta catastale la dimensione delle singole centurie, al fine di definire il vectigal: [formam agrorum prop]oni [iussit, adnotat]o in sin[gulis centuriis] annuo vectigali. E in questo caso l’operazione avvenne agente curam L. V[alerio Um]midio Basso, proconsole e non per iniziativa dei magistrati della colonia come nei casi citati in precedenza. Quello del proconsole fu un ruolo di arbitro oppure il magistrato agiva sulla base delle esigenze della cassa provinciale ? Dubitiamo che i vectigalia andassero direttamente a vantaggio della provincia e non alla cassa della colonia. Al contrario, Lorenzo Gagliardi ha recentemente ipotizzato che i funzionari della colonia avessero solo l’incarico della riscossione dei tributi, che però andavano poi trasferiti dalla città al governatore provinciale, a favore dell’aerarium. Tutti temi che forse si articolavano in Italia – penso al catasto di Verona – in modo diverso rispetto alle province, come testimonia la più recente lettura dei gromatici, ad es. quella su Atella; del resto differenze significative esistevano tra provincia e provincia. Carolina Cortés Bàrcena ha esteso la riflessione alle estreme province occidentali, tra I secolo a.C. e I secolo d.C., sostenendo che la sovrapposizione delle nuove demarcazioni spaziali imposte dall’amministrazione romana sull’organizzazione territoriale più antica modificò non solo il paesaggio antico ma anche il rapporto che le popolazioni locali avevano avuto con il territorio e con lo spazio. José Cardim Ribeiro ha affrontato lo specifico dell’epigrafia più occidentale, là dove la terra finisce e il mare comincia (aqui… onde a terra se acaba e o mar começa), sul Mons Sacer-Promontorium Magnum, Σελήνης ὄρος nel territorio del Municipium Civium Romanorum Felicitas Iulia Olisipo a N della foce del Tago, il Cabo da Roca a Sintra in Portogallo, il punto più occidentale dell’Europa, con la celebre dedica Soli et Oceano posta nell’età di Antonino Pio da C. Iulius C.f. Quir. Celsus, un cavaliere con uno splendido cursus honorum. Dalla stessa località altre are sono dedicate Soli aeterno, Soli occiduo, Soli invicto, Oceano patri, Lunae, e, in greco, Ηλίῳ Μήνῃ, al sole e alla luna.

Guardando il nostro tema a distanza, oggi sappiamo che pertica è un termine che indica cose diverse, a parte l’unità di misura e lo stumento di misura di dieci piedi: non solo l’insieme delle terre oggetto di una limitatio ma anche la mappa di una limitatio (cioè la forma): dunque possiamo parlare di forma coloniae, ma così  come di forma provinciae come in Dalmazia nell’età di Tiberio, richiamata nel III secolo secundum formam Dolabellianam; e pure nell’età di Adriano ancora in Dalmazia il legato opera a Corinium [s]ecundum formam Dolabellianam. Ma l’editto di terminatio del legato P. Cornelius Dolabella è richiamato nella stessa località iussu A(uli) Duceni Gemini leg(ati) Augusti pr(o) p[r(aetore)] nell’età di Nerone tra il 63 e il 68, per i confini inter Neditas et Corinienses, più tardi definito come finis derectus mensuris actis.

Per restare agli aspetti strettamente geografici, i confini provinciali sono citati già da Augusto nelle RGDA 26: omnium prov[inciarum populi Romani] quibus finitimae fuerunt / gentes quae non p[arerent imperio nos]tro fines auxi (τοὺς ὃρουϛ ἐπεύξ[ησ]ασα). E più oltre, 30: imperio populi Romani s[ubie]ci protulique fines Illyrici ad ripam fluminis / Danu(v)i citr[a] quod [D]a[cor]u[m tr]ansgressus exercitus meis ausp[iciis vict]us profliga/tusque [es]t. I termini, i cippi che indicano sul terreno questi confini provinciali, fin qui conosciuti sono una quarantina: ma dobbiamo partire dal discorso tenuto da Claudio in Senato nel 48 d.C., che noi abbiamo in Tacito XI 23-24 e nella Tabula Claudiana Lugdunensis dove si indica il territorio collocato ultra fines provinciae Narbonensis. Del resto le delimitazioni tra province, come quella tra Africa vetus e Africa Nova, continuavano ad avere significato un secolo dopo la nascita dell’Africa Proconsolare e l’unione delle due vecchie province voluta da Augusto: dagli ultimi studi di Ali Chérif e Riadh Smari sappiamo che il confine ancora in età vespasianea negli anni 73-74 passava tra Tichilla (Testour) e Thignica (Aïn Tounga) forse seguendo in parte il corso dell’oued Siliana e che dunque Uchi Maius, Thignica, Thugga erano certamente a occidente della Fossa Regia. Si conoscono oggi una dozzina di cippi terminali vespasianei riguardanti i fines provinciae novae et veter(is) decreti qua Fossa Regia fuit; molti inediti sono stati presentati recentemente sulla Byrsa di Cartagine nella sede della Biblioteca Moscati, alla vigilia dell’incontro sull’”arpentage” de Didon.

Per il resto dell’impero possiamo citare a titolo di esempio i miliari sulla [via] a colonia Salonitana ad f]in[es] provinciae Illyrici in Dalmazia in un miliario di Tiberio del 16-17 d.C., con l’intervento dei vexillarii delle legioni VII e XI. Ancora in Africa sui miliari compaiono più volte le strade che collegavano la capitale con la frontiera provinciale, come la via a Karthagine usque ad fines Numidiae provinciae longa incuria corruptam adque dilap[sa], che conosciamo negli ultimi anni di Massimino il Trace in una decina di esempi, nelle località più diverse, in alcuni casi attraversando la vecchia Fossa Regia.  Conosciamo del resto in varie aree i confini di tutto l’impero, come quelli definiti da Settimio Severo nella sua terza potestà tribunicia e dal procuratore C. Giulio Pacatiano tra l’estrema provincia orientale dell’Osroene e il regno di Abgar. Celebri sono i termini della Britannia posti da Adriano per il vallo, come a Jarrow presso Edimburgo, che datiamo tra il 122 e il 126.

Nel I secolo d.C. fu fissato il confine della Tracia, ad esempio ad Hadarca, Nikolaevka in Moesia inferior; oppure a Varna – Odessus nel 45-100 d.C.: F(ines) terr(ae) Thrac(iae), definiti in rapporto con le terre di Odessa sul Mar Nero nell’età di Commodo. Che fossero necessari praesidia ob tutelam provin(ciae) Thraciae e l’intervento del legato imperiale per realizzare burgos et praesidia già nel 155 sotto Antonino Pio è sicuro grazie ad AE 2017, 1264 Panchevo in Tracia, che ricorda i fines col(oniae) Fl(aviae Deult(ensium). A Serdica e per fines [civitatis Tra]ianensium Antonino Pio nel 152 dispone praesidia et burgos ob tutelam provinci(ae) Thraciae: più precisamente a Serdica 4 praesidia, 12 burgi, 109 phruri. Curante C(aio) Gallonio Frontone Q(uinto) Marcio Turbone leg(ato) Aug(usti) pr(o) pr(aetore).

Le iscrizioni ci fanno conoscere i limiti tra città, come a Mustis, dove Azedine Beschaouch ritiene che l’arco onorario fosse “arc-frontière” che definiva a occidente proprio il territorio della colonia di Cartagine; qui del resto conosciamo da numerosi testi i termini della definitio finium nell’età di Antonino Pio tra il 138 e il 161 per il territorio di Mustis, determinatio facta publica Mustitanorum. Oppure le delimitazioni all’interno delle province, come le variazioni della condizione giuridica dei terreni sottratti ai Musulami dopo la guerra di Tacfarinas nel 24 d.C. e in parte restituiti ai pastori nell’età di Traiano dal legato L. Munatio Gallo, semplicemente spostando di nuovo i termini o meglio le metae. Per i Musulamii conosciamo addirittura un terminus di tre distinti territori, che si incontravano in un trifinium collocato nel 116 dal legato L. Acilius Strabo Clodius Nummus, i Musulami, gli abitanti di Ammaedara e il latifondo imperiale: Giulio Frontino del resto precisava: De positione terminorum controversia est inter duos pluresve vicinos: inter duos, an rigore sit ceterorum sive ratione; si inter plures, trifinium faciant an quadrifinium. Del resto i Musulami confinavano con la colonia di cittadini romani di Madauros presso il terminus posto dal legato L. Minucius Natalis e con un terreno di pertinenza di una privata, Valeria Atticilla; la pietra confinaria fu collocata dallo stesso legato di Traiano; oppure in Bosnia  inter Sapuates  e[t La]matinos. Solo a titolo esemplificativo possiamo citare i Suburbures nei confini definiti ex auctoritate di Traiano nello Chott El Beida in Numida con il legato T. Sanius Barbarus : fines adsignti gen[ti] Suburburum. Oppure ex indulgentia di Adriano, per i fines adsignati genti Numidarum ad Equizetum dal procuratore della Mauretania Cesariense C. Petronius Celer nel 137. Lo stesso procuratore nello stesso anno e sempre in Mauretania ricorda che Adriano aveva autorizzato a collocare i termini i[n]ter Regienses et saltum Cu[–]. Ad Igilgili in Algeria (Mauretania Cesariense) conosciamo l’intervento imperiale del 128, con un’amputazione delle terre lasciate agli Zimizes con vantaggio della città di Igilgili, coi termini collocati ut sciant Zimizes non plus in usum se haber(e). Come non pensare alle riflessioni di Lidio Gasperini sul confine tra il municipio romano di Olbia e i Balari del Logudoro in Sardegna nella prima età giulio-claudia ? Balari // Finem / poni iussit / praef(ectus) pr[ov(inciae)] / pas(sus) DLIIII.  In Cilicia Campestris a Mopsuestia a 40 km dalla foce del fiume Pyramus alla fine del I secolo sappiamo dell’attività del legato Asprenas impegnato a collocare nello spazio, terminare, i fines inter Mopseotas et Aegenses, dunque tra il territorio delle città contigue, Mopsuestia e Aegaeae.  In Germania superior si può pensare ai Teutoni citati nel terminus di  Miltenberg. Per quanto l’autorità si sforzasse di stabilizzare i confini, abbiamo però la certezza di continui aggiustamenti a seguito di usurpazioni, occupazioni illegali, sentenze, comunque situazioni nuove che cambiavano profondamente la geografia.

Non è possibile trattare in quest’occasione il tema del limes dell’impero rispetto al Barbaricum, una periferia che si fece centro secondo la visione di Marco Valenti per Archeologia Barbarica: sarà sufficiente dire che il tema del declino e della caduta dell’impero rispetto al sistema mondo è ora discusso a favore di nuovi equilibri negli ecosistemi mediterranei, che le relazioni al di qua e al di là di quella barriera come fin qui è stata considerato il limes sono state continue ed intense, che molte testimonianze epigrafiche latine sono censite nel Barbaricum, almeno un migliaio in Clauss Slaby, prevalentemente commerciali.  Ciò non significa che la cura per indicare i punti più estremi dell’impero sia venuta meno nel corso dei secoli: all’inizio del V secolo d.C. Arcadio Augusto avrebbe precisato partendo dalla seconda Roma: <<Abbiamo posto termini a Constantinopoli per lo più con segnali e simboli. In un fossato li abbiamo costruiti con calce e sabbia, e abbiamo posto carboni sotto. Nelle stesse province d’oltremare abbiamo posto anche termini di pietra, e sugli stessi termini abbiamo scritto i nomi dei fondi, in modo che si possa indagare le loro dimensioni come gli autori stabilirono nel libro XII, usando i tipi di lettere che valgono in tutto il mondo>>, dunque sia nel mondo latino che nel mondo greco.

Se usciamo dall’impero, dobbiamo innanzi tutto mettere in evidenza come siano numerosi i cimeli di età classica, per noi le iscrizioni, trasferiti in lontanissimi Musei ben al di fuori del mondo antico (penso al MASP, il Museo d’Arte di San Paolo in Brasile) o acquisiti in collezioni pubbliche e private; se parliamo invece di ritrovamenti veri e propri, possiamo partire dall’instrumentum inscritto disperso nel mondo, ad esempio fino alla lontanissima Mathura in India centrale. L’epigrafia documenta in aree molto distanti l’arrivo della cultura greca e romana: mi limiterei a citare alcune iscrizioni dell’Azerbaigian come la dedica a Domiziano da parte di un centurione della legione XII Fulminata a Qobustan Qorogu sulla riva occidentale del Mar Caspio. Oppure il caso molto discusso delle iscrizioni rupestri greche e latine delle grotte di Kara Kamer in Uszbekistan sulla via della seta oltre il Caspio recentemente studiate da Yulia Ustinova dell’Università Ben Gurion, che addirittura pensava ad un Mitraeum della legio XV Apollinaris. L’Epigrafia – e non solo – finisce talvolta per sconfinare sul mito romanzato, a causa dell’anxiety, dell’impegno irrazionale indirizzato a cercare quel che si desidera trovare, ad es. testi latini nell’Asia centrale, come ha giustamente osservato David Baund, seguendo le istruzioni sulla necessità di rilanciare l’antica “via della seta” cinese, secondo gli indirizzi tracciati dal Presidente Xi Jinping.  Corridoi di penetrazione nell’impero sono noti anche in Britannia sotto il controllo degli Asturi e dei Mauri, Germania e in Africa come nella gola di El Kantara – Calceus Herculis in Algeria sotto Settimio Severo con le sue 65 scrizioni, alcune dedicate dal numerus dei Palmireni Severiani al dio Malagbel, il dio in viaggio dall’oriente,  che compare anche a Castellum Dimmidi, con le sue 78 iscrizioni che testimoniano la vitalità di una fortezza che controllava la via carovaniera che superava il Fossatum Africae, una frontiera che si affacciava sul Sahara ma che non era chiusa ma permeabile, come testimonia una ricca documentazione doganale recentemente studiata anche in rapporto ad altre situazioni geografiche; migliaia di immigrati furono filtrati verso i mercati di schiavi urbani. In Numidia sappiamo che Gordiano III nel suo quinto anno tribunizio [summa ae]quitata{e} s[ua] provi[nciae et gentium fines direx]it per T(itum) Iulium Antioc[um leg(atum) Aug(usti) pr(o) pr(aetore)], a Dusen.  Conosciamo del resto i fines, gli spazi consacrati, di città, templi come nel tempio di Augusto di Narbo Martius nella lex flamonii perpetui.   E poi i territori contestati tra popolazioni locali e immigrati, come i fines ben disegnati sulle mappe catastali conservate nel tabularium provinciae, abusivamente mantenuti dai Galillenses autoctoni e invece assegnati da secoli ai Patulcenses della Campania nella sentenza del proconsole L. Elvio Agrippa registrata su bronzo nella Tavola di Esterzili in Sardegna nell’età di Otone.

Di recente è stata presentata la candidatura all’Unesco del limes in Dacia e sul Danubio orientale, in Romania a Cetatea Beroe – Ostrov ad es., oppure a Dinogetia – Garvan in Dobrugia, in Bulgaria a Durostorum-Silistra oppure a Dimum-Belene, in Serbia a Cuppae-Golubac oppure a Diana-Davidoovic) e in Croazia, a Pogan o a Dragojlov Brijeng: il tropaeum Traiani di Adamclissi nella Scizia minore rappresenta plasticamente la politica imperiale di Traiano nel 109 d.C.  Un caso esemplare di scambi culturali al di qua e al di là del limes è rappresentato dal trasferimento voluto da Diocleziano dei Carpi provenienti dal Barbaricum in Pannonia: portandoci a qualche decennio di distanza, Ammiano Marcellino (Storie, XXVIII 1,7) ci parla di un personaggio appartenente a questo popolo, capace di interpretare il volo e il canto degli uccelli, gli augurales alites e gli oscines, gli uccelli profetici, proprio grazie a queste competenze ornitomantiche tradizionali aveva predetto al figlio Maximinus un futuro di grandi successi, ma alla fine una morte per mano del boia. Conosciamo bene questo Maximinus, di recentissima romanizzazione, nato a Sopianae una città della Valeria (oggi Pécs in Ungheria) che sotto Valentiniano e Valente governò col titolo di praeses la Corsica e la Sardegna, per poi arrivare nel 371 alla prefettura del pretorio delle Gallie. Flavio Massimino ci è noto per i miliari delle principali strade della Sardegna cardine del sistema delle terre coltivate, tra gli ultimi che ci sono pervenuti. Qui aveva incontrato un mago sardo, che poi egli aveva ucciso con la frode, molto esperto nell’evocare anime malefiche di trapassati e nel richiedere presagi agli spiriti; tematiche che ricorrono nelle numerose defixiones dell’isola. Finché costui restò in vita, Massimino, temendo di essere tradito, si mostrò mite e condiscendente con lui. Colpisce il collegamento tra fonti diverse e la conferma delle fonti epigrafiche, che ci fanno conoscere il gentilizio del preside, Flavius, con la nostra fonte storico-letteraria, che ci illumina su aspetti che hanno interessato di recente antropologi e studiosi di storia delle religioni. Si può ammettere forse un lungo e contraddittorio ribaltamento dell’”ordine mondo” nel periodo tardo antico, un veloce cambiamento di protagonisti nel corso dei secoli, una complessità che si arricchisce ma non dimentica, con continuità e nuove funzionalità, come a Volubilis nel 655 d.C. in occasione del 616° anno della provincia Tingitana per l’epitafio di Iulia Rogativa de Altava. Oppure a Pomaria in Cesariense (Tlemcen) per l’epitafio di Val(erius) Emeritus nel 633 d.C., per il 597° anno della provincia. Del resto immaginiamo in futuro riflessioni più puntuali sulla pluralità delle identità senza dimenticare Amin Maalouf e Les identités meurtrières, se davvero <<l’identità etnica è situazionale, costruita, negoziata e sempre fluida ma, come i rapporti di potere e la diseguaglianza sociale lasciano indubbie tracce materiali, lo stesso accade in riferimento ad essa>> (Marco Valenti): sullo sfondo il tema dell’egemonia in Gramsci, teorico della complessità dei processi di transizione, e dei processi di transizione in società complesse, articolate, più o meno avanzate; con eredità e trasformazioni certo, anche se mi rifiuto di adottare nella lingua italiana la categoria schematica, sbrigativa e addirittura erronea di meticciato.

L’importanza fondamentale per qualunque attività economica o giudiziaria dei fines municipii è richiamata nella lex Irnitana (El Saucejo / Irni) a proposito delle attività dei IIviri, dei decurioni, dei tutorii di pupilli e pupille, dello svolgimento dei dibattimenti qum in eo municipio intrave fines ei{i}us municipi(i) erit causa cognita, con 10 gg. di dilazione; perché sia i municipes sia gli incolae possono agire in giudizio a condizione di collocare la causa entro il municipio: [Qu]i eiu[s] municipi(i) municipes incolaeve erunt q(ua) d(e) r(e) ii inter se suo alte/[r]iusve nomen(e) qui municeps incolave sit privatim intra fines eius / [mu]nicipi agere petere persequi volent.  Indicazioni precise ci rimangono sulla ricognizione dei diritti sugli agri, dfiniti nei loro esatti confini: fines agros vectigalia eius municipio; sugli accordi economici che sono validi se pacti erunt dum intra fines eius municipi(i). Temi che tornano nel S.C. de Cn. Pisone Patre del 20, El Saucejo / Irni, a patre divo Aug(usto) Cn(aeo) Pisoni patri donatus erat reddi cum / is idcirco <d=P>ari eum sibi desiderasset quod quarum fines hos saltus contin/gerent frequenter de iniuri(i)s Cn(aei) Pisonis patris libertorumq(ue) et servorum / eius questae essent. E già la Lex Ursonensis, Osuna, nell’età di Cesare (44 a.C.) ordinava: ne quis intra fines oppidi colon(iae)ve qua aratro / circumductum erit hominem mortuom inferto. Si qu<a=I>s vias fossas cloacas IIvir aedil(is)ve publice / facere inmittere commutare aedificare mu/nire intra eos fines qui colon(iae) Iul(iae) erunt volet / quot eius sine iniuria privatorum fiet it is face/re liceto. Quae viae publicae itinerave publica sunt fuerunt / intra eos fines qui colon(iae) dati erunt quicumq(ue) / limites quaeque viae quaeque itinera per eos a/gros sunt erunt fueruntve eae viae eique limites / eaque itinera publica sunto. natus erit qui in ea colon(ia) / intrave eius colon(iae) fines domicilium praedi/umve habebit. Qui limites decumanique intra fines c(oloniae) G(enetivae) deducti facti/que erunt quaecumq(ue) fossae limitales in eo agro erunt.

Come abbiamo detto le iscrizioni menzionano spesso avvenimenti militari: l’iscrizione inedita di età severiana che porta al di là del limes, a el Bayath e cita una delle tante incursioni dei Bavari verso la costa mauritana, è stata riportata in luce non nel corso di un vero e proprio scavo ma di uno sterro, come quelli verificatisi in tante località del Mediterraneo, che hanno profondamente modificato lo stato dei luoghi, attraverso scavi intensivi e restauri radicali; i casi potrebbero moltiplicarsi e spesso in rapporto a guerre sanguinose come in Libia, dove abbiamo constatato nel dopo Gheddafi un’instabilità gravissima, una pesante crisi militare, che ha avuto immediati riflessi sul patrimonio archeologico, sui musei, sui siti antichi, per non parlare delle infrastrutture, dei porti e degli aeroporti.  Il bilancio tracciato da Pau Bennett e Graeme Barker (Protecting Libya’s Archaeological Heritage) fino alla morte del Col. Muhammar Gheddafi avvenuta il 21 ottobre 2011, è oggi del tutto superato, anche se è vero che il Dipartimento delle antichità della Libia da anni ha avuto a disposizione solo pochissimi mezzi, forse in rapporto con i sentimenti ambivalenti della Libia postcoloniale verso il passato; la seconda guerra civile combattuta a partire dal 2014 fino al processo di pace avviato un anno fa ha causato danni considerevoli all’economia libica e ha visto il crollo della produzione del petrolio; l’attività dell’ISIS prima a Derna poi a Sirte, la debolezza del Governo di unità nazionale, l’assedio di Tripoli hanno rappresentato il quadro generale di una situazione di forte instabilità che ha provocato l’abbandono e il saccheggio di alcuni territori. Sull’ultimo numero della rivista “Libya antiqua” abbiamo pubblicato l’iscrizione musiva di Henchir Banis – Tarhuna, fortemente danneggiata dal passaggio dei mezzi militari. La scena rappresentata sul mosaico sembra quella – notissima ai pittori greci– ambientata nell’isola di Sciro, alla corte del re dei Dòlopi Licomede, con Achille in vesti femminili, virginis habitum occultatum. Deidamia gli offre il figlio Neottolemo-Pirro, che forse lo seguirà a Troia.

Nella stessa area, controllata fino a pochi anni fa dal gen. Khalīfa Belqāsim Ḥaftar, vediamo come il passaggio dei cingolati abbia danneggiato gravemente una struttura fortificata tardoantica, un gasr, impostato su una fattoria aperta di età precedente: il tutto nel corso del 2020 è stato oggetto di scavi clandestini. Resta gran parte della soglia e degli stipiti della porta d’accesso al gasr di epoca tarda, completamente interrato; sulla destra nel riuso tardo è stata collocata una stele iscritta, mentre sul lato opposto è stata reimpiegata una soglia.  Le pareti che fiancheggiano l’ingresso sono ancora relativamente ben conservate, ma la struttura ha subito un vero e proprio saccheggio negli ultimi anni, a causa della ‘caccia al tesoro’ da parte dei clandestini, con un grave danno per le strutture. La stele è un esempio scultoreo inciso dalla mano di un artigiano punico, Masof, certamente un esponente di un’officina locale: può essere descritto come una stele allungata con tabula epigraphica ansata in alto e al di sotto, al centro, una rosula a rilievo, ben lavorata, con otto petali. Essa presenta una tabella al cui interno è parzialmente inserito il testo recante il nome del defunto, un cittadino romano, onorato dai due figli; assente la dedica D(is) M(anibus) sui triangoli laterali. Dal punto di vista della tecnica esecutiva, è chiaro che l’opera è stata realizzata in due tempi: tabula epigraphica e decorazione floreale in una prima fase; in una seconda fase incisione dell’iscrizione e aggiunta dei nomi dei figli e dell’artifex, tutti molto interessanti, che si adattano al testo disponibile: Monume/ntum C(ai) Vale/ri Romani, qui (et) / Amas Valath qu/od fec(erunt) fili(i) eius / Fronto et Acavas (.) / Artifex Masof.

Abbiamo più volte riflettuto sulle fatiche e sui risultati delle ricerche epigrafiche condotte da tanti pionieri in zone di guerra: è soprattutto grazie a tutti loro, che il nostro sguardo ha potuto spaziare con uno straordinario ampliamento territoriale e geografico, nelle tre parti dell’ecumene romana, l’Africa, l’Europa e all’Asia, con un allargamento di orizzonti e di prospettive che permette di superare la visione ristretta del Mar Mediterraneo, prevalentemente basata su un asse Nord-Sud, e di ricordare quello che fu il bilinguismo ufficiale dell’impero dei Romani. Sono parole di Azedine Beschaouch. L’Africa ad esempio è diventata una parte essenziale del più ampio bacino mediterraneo, un’area costiera non isolata ma che è in relazione con tutta la profondità del continente, trovando nel Mediterraneo lo spazio di contatto, di cooperazione e se si vuole di integrazione sovranazionale. Abbiamo studiato per il convegno de L’Africa Romana a Djerba (il XIII della serie) il tema dei pionieri dell’archeologia, quando pensavamo fosse giunto veramente il tempo di guardare a distanza il problema della nascita dell’archeologia e di studiare la storia delle scoperte archeologiche nel Maghreb, evidenziando errori, forzature e strumentalizzazioni del passato coloniale ma anche recuperando le figure di quei grandi maestri, europei ed arabi, pionieri che hanno lasciato testimonianze sincere di curiosità, di passioni, di interessi, che andavano inserite nel clima storico che essi hanno vissuto, spesso in periodi di guerre sanguinose, senza nulla dimenticare di un passato che comunque continua ad avere un suo significato per ciascuno di noi: il tema investe aspetti politici importanti e chiama in causa innanzi tutto i rapporti tra Europa e paesi arabi. Non possiamo non affrontare il tema delle difficoltà incontrare in passato dagli epigrafisti nel loro impegno di ricerca in alcune aree del Mediterraneo sconvolte dai conflitti armati. Avrei dunque molti esempi da fare, molte cose da precisare, molte piste da seguire: mi limiterò a ricordare le parole di Theodor Mommsen per ricordare (pochi anni dopo la morte) il giovane allievo Heinrich Gustav Klemens Wilmanns, editore di CIL VIII, nato nel Brandeburgo nel 1845 (Jüterbogk), professore a Strasburgo nel 1872, ingiustamente sospettato più volte dai russi di essere una spia: nei quattro anni successivi, percorse in lungo e in largo tra grandi pericoli e difficoltà diplomatiche la Tunisia e l’Algeria, affrontando gli orrori dell’inverno africano e le difficoltà e i mille pericoli dei due viaggi ostacolati da una natura allora ancora selvaggia, con una forte presenza militare francese, pochi anni dopo quella “inqualificabile aggressione gallica” conclusa inaspettatamente con la vittoria prussiana del feldmaresciallo von Moltke a Sedan e la fine del secondo impero con la deposizione di Napoleone III (C. Bardt): regnum Tunetanum peragravit, deinde provincias Africanas iam Gallicanas. Collectos titulos typis excudere coepit: in laboribus superandis periculisque obeundis animi plus solito fortis et constantis. Ammalatosi dopo il secondo viaggio, non riuscì a concludere il primo tomo di CIL VIII: oggi si notano le prime 4000 schede con le espressioni in prima persona contuli, descripsi, seguite poi da quelle a partire da Verecunda in poi dal nr. 4187 al nr. 8341/42 che portano l’espressione contulit Willmanns; il giovane in realtà era riuscito a raccogliere fino a Djemila oltre 11000 schede. A poco più di 30 anni d’età, durante il primo viaggio, egli sembrava aver aumentato la sua forza fisica, ma il secondo viaggio lo aveva davvero consumato. Quando apparve a Berlino nell’estate del 1877 era un uomo distrutto; saevo morbo correptus quamquam ne inter dolores quidem a labore destitit et ad extremum fere plagulis emendandis invigilavit, morì a Baden Baden il 6 marzo 1878 opere imperfecto. Vitam vixit ut brevem et laboriosam, ita plenam et utilem, civis egregius, magister gnavus, amicis et discipulis carus. Multi Wilmannsium fleverunt immature litteris et necessariis ereptum magnamque cum eo neque unius nominis spem sepelivimus. Conclude il Mommsen nel 1881 davvero commosso: infelicis iuvenis tristem hereditatem ego senex adii curavique, ne cum ipso labores eius perirent. Forse si era pentito di qualcuna di quelle cattiverie che aveva scritto al De Rossi parlando di Charles Tissot, a proposito delle iscrizioni del Nord Africa, studiate da «tutti que’ Francesi che corrono per l’Algeria», che con «tutte le ciarle francesi» non possono reggere il confronto con i giovani promettenti studiosi tedeschi (n. 85).

L’impatto delle guerre mondiali sulla ricerca epigrafica è molto noto: basta osservare il semplice grafico del numero delle iscrizioni greche e latine pubblicate su L’année épigraphique negli anni tra il 1911 e il 1920 e tra il 1940 e il 1946 per constatare il crollo delle pubblicazioni e la riduzione degli scavi, delle ricerche storiche, delle scoperte anche hors de l’empire, a causa dei danni provocati al territorio: una tradizione si è interrotta, fino a spegnere quasi quella passione per le antichità che aveva animato tanti studiosi in periodo di pace; e insieme la crudeltà della guerra, la scomparsa di tanti specialisti, le competizioni anche nelle colonie tra imprese scientifiche differenti. Lo stesso vale per il Supplementum Epigraphicum Graecum fondato nei Paesi Bassi da Jacobus Johannes Ewoud Hondius a Leiden, nel 1923, arrivato all’XI volume nel 1939; qui la pausa fu piuttosto lunga, dal 1940 al 1955, quanto A.G. Woodhead subentrò come editore e pubblicò i volumi dal XII in poi. SEG è arrivato ora al suo 65° volume, curato per Brill da Angelos Khaniotis a Princeton con una redazione internazionale. Ma sappiamo tutti del CIL. Lasciatemi dire infine della rivista Epigraphica, arrivata ora all’84 volume, che non si interruppe durante la guerra sotto la direzione di Aristide Calderini, perse nel numero doppio 1943-44 il riferimento all’Era Facsista e ebbe alcuni fascicoli numerati doppi, prima della direzione di Giancarlo Susini. Maggiore continuità ha avuto dal 1888 il Bulletin épigraphique che Théodore Reinach confezionava a villa Kerylos à Beaulieu tra Monaco e Nizza: da questo luogo incantevole sarebbe stata prelevata nel 1942 dalla Gestapo Simone Veil, la futura presidente del Parlamento Europeo, finita ad Auschwitz. L’ho incontrata qualche anno fa, prima della sua morte all’Ambasciata di Francia: mi ha sempre colpito il contrasto, che emerge nella sua autobiografia, tra la descrizione di un’infanzia gioiosa, tenera e felice nella villa Kerylos a Beaulieu tra Monaco e Nizza, l’elegante casa-museo del grande epigrafista e archeologo Théodore Reinach, il calore della casa di famiglia da un lato;  poi il racconto delle sofferenze della guerra nei territori occupati nel Midi dalle truppe italiane, l’arrivo della Gestapo a Nizza dopo l’armistizio, la discesa agli inferi con la deportazione fino al campo di Auschwitz dove il dottor Mengele era incaricato dell’accoglienza, le umiliazioni, ma anche i piccoli gesti di solidarietà degli stessi carnefici. L’epigrafe sprezzante in ferro « Arbeit macht frei ». E poi gli Ebrei di Praga.  Dopo la liberazione, nel maggio 1945, il desiderio di rinascere e di ricostruire, di trovare una famiglia. Come sappiamo il BE fu diretto dal 1938 da Jeanne e Louis Robert ed ora da Denis Rousset.

Dunque la politica coloniale delle potenze europee: non mi nascondo il fatto che i più gravi abusi sono stati compiuti dalla politica coloniale fascista, definita da Benito Mussolini e dai Savoia, attuata in Cirenaica, in Tripolitania e nel Fezzan da Italo Balbo, al quale si deve la costruzione dell’Altare dei Fileni nell’importuosa Grande Sirte, per riproporre il tema delle arae collocate alle estreme periferie del territorio di una colonia o di una provincia come le Arae Philenorum tra la Cirenaica greca e la Tripolitania fenicio-punica e romana nell’ambito della Libia artificiosamente unificata col Fezzan. E poi la grande statua equestre di Mussolini davanti al castello rosso, il museo di Tripoli, perché “tornammo là dove già fummo”, con la retorica dei benefici elargiti da Roma, ripensando alla Carta di Agrippa nella Porticus Vipsania e ora alla Via dei Fori imperiali. Del resto la colonizzazione giustificava la propria esistenza con una antistorica continuità. Temi che interpellano tutti noi, che richiamano l’impegno che dobbiamo garantire oggi di volgerci con rispetto ed equilibrio verso il passato e verso la salvaguardia del patrimonio.  Senza dimenticare gli antifascisti impegnati tra gli archeologi, come quel Doro Levi, direttore della Scuola archeologica Italiana di Atene (Trieste 1898-Roma 1991) e la moglie greca Anna Cosadino (1895-1981).  In questi ultimi anni ho letto molti lavori sulla relazione tra i crimini di guerra e la distruzione dei beni culturali: la schizofrenia della guerra, le devastazioni che hanno colpito il patrimonio durante il lunghissimo secolo breve, se adottiamo lo schema di Eric Hobsbawn fino alla caduta dell’Unione Sovietica e al crollo del muro di Berlino, il 9 novembre 1989.

Nè dirò certo che rimpiangiamo i tempi in cui (2010) Berlusconi restituiva a Gheddafi la Venere di Cirene o dove quest’ultimo collocava dentro il castello di Tripoli, dove doveva passare l’autostrada Tunisi Bengasi pagata dall’italiana ENI: nella prima sala del Museo la prima Volkswagen, ora danneggiata dopo quella che si chiama impropriamente la primavera araba, in realtà un terribile inverno. Il dittatore si era ispirato alla vicenda dell’auto del monaco buddista che si diede fuoco a Saigon all’inizio delle guerra americana. È la premessa per la lenta fine di un regime odioso.    Andrea Bruni, Valentina Capradossi, Martina Di Carlo hanno richiamato le << terribili devastazioni da parte dell’ISIS in Medio Oriente. Palmira, Ninive, Mosul, Aleppo sono solo alcune delle città e dei siti archeologici divenuti tristemente noti a livello internazionale proprio per le irrimediabili perdite subite dal loro immenso patrimonio storico-artistico. L’UNESCO ha affrontato con decisione il problema delle nuove sfide nei quaderni del J. Paul Getty Trust dedicati alla previsione del rischio, alla risposta civile di fronte ai crimini contro il patrimonio, al genocidio culturale, alla protezione del Cultural Heritage, ai conflitti, con un primo tassello che deve necessariamente richiamare la Convenzione per la protezione di beni culturali in caso di conflitto armato stipulata a L’Aja nel 1954 con il successivo protocollo che prevede come le Parti Contraenti si impegnano ad assicurare l’immunità dei beni culturali sotto protezione speciale astenendosi, a decorrere dall’iscrizione nel Registro internazionale, da ogni atto di ostilità al loro riguardo. Recentemente Silvia Chiodi ha scritto nel volume sui Beni Culturali e i conflitti armati (Le sfide e i progetti tra guerra, terrorismo, genocidi, criminalità organizzata) per l’Unesco che <<Il patrimonio culturale è di tutti, un raro caso in cui ogni essere umano dovrebbe essere consapevole che omnia sunt communia. A tutti appartengono il patrimonio italiano, quello cambogiano e quello siriano>> (Atti del Convegno “Beni culturali e conflitti armati, catastrofi naturali e disastri ambientali. Le sfide e i progetti tra guerra, terrorismo, genocidi, criminalità organizzata” tenutosi a Roma, presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche, il 15 novembre 2013 a cura di Silvia Chiodi e Giancarlo Fedeli). E le iscrizioni latine e greche e non solo sono inseme il nostro archivio, la nostra memoria, il nostro futuro. Dobbiamo impegnarci tutti di più per prevenire e risolvere i conflitti che minano le nostre stesse “identità plurali”.  Lasciamo da parte in questa sede la vicenda notissima dell’attentato al Museo Nazionale del Bardo di Tunisi del 18 aprile 2015: le ferite sono ancora sanguinanti e il Museo è di nuovo chiuso. Ma la Tunisie restera debout.

Tra le regioni che più hanno sofferto c’è sicuramente il Libano, che soprattutto durante la guerra civile, ha subito saccheggi e spoliazioni;  più in generale, tutto il Vicino Oriente, gli scavi clandestini e l’alimentazione del mercato antiquario con cimeli di dubbia provenienza rappresentano una piaga diffusa. I reperti e le iscrizioni più note e rilevanti, oltre che nei Musei del Libano (soprattutto nel Museo Nazionale di Beirut, ma anche nel Museo della American University a Beirut, ad esempio), si ritrovano conservate in numerosi musei, tra i più importanti dei quali il Louvre, il British e quello di Istanbul, fino a Figeac ed al Musée Champollion. Nel Libano meridionale operano ora i caschi Blu Onu assieme ai nostri studenti.

Devastazioni abbiamo osservato in Iraq ad Hatra, a Mossul nel Museo, nel 2003. In Siria la distruzione di  Aleppo in Siria. Ancora in Iraq il saccheggio e la devastazione del museo di Baghdad durante l’operazione Antica Babilonia e la II guerra del Golfo. La storia e la ricchezza culturale della Siria, Palmira, Dura Europos e Aleppo, rivelata al mondo ‒ dalla seconda metà dell’Ottocento fino all’inizio della guerra nel 2011 ‒ anche grazie all’impegno di centinaia di archeologi, ricercatori e viaggiatori, rischia ora di scomparire: nonostante il conflitto armato e i pesanti danni, la comunità civile e gli esperti locali hanno provato a salvare lo straordinario patrimonio archeologico siriano e continuano quotidianamente a farlo, specie nelle zone non più controllate dallo Stato Islamico, comunque a rischio di saccheggio e scavi clandestini, come per esempio l’area del bacino superiore dell’Eufrate in cui si trovano siti importanti per la Siria, come Tell Mumbaqa e Tell Shiyukh Tahtani. Ci sono associazioni che tentano di promuovere una cultura tra i settori della comunità civile per contribuire tutti alla tutela dei siti di interesse archeologico; formare personale qualificato per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali; e avviare collaborazioni con i paesi e le città della regione e con tutti i Paesi del mondo. L’associazione ATPA, in collaborazione con gli esperti di ICCM ‒ International Committee for the Conservation of Mosaics -, si sono impegnati in una campagna di recupero di un mosaico bizantino rivenuto nel sito di Tell Shiyukh Tahtani (nei pressi di Kobane) e subito portato in una zona sicura.

Proprio uno dei siti UNESCO in Siria, Palmira, ha subito nel 2015 un affronto terrificante per mano dell’ISIS/DAESH rivelato dalle immagini del satellite spia Ofex 16 israeliano: il teatro romano adiacente al tempio di Bel, fatto esplodere con la dinamite nel 2015 con altri templi, le tombe a torre, l’arco onorario, molti altri monumenti. Dal tempio di Bel in particolare provenivano numerose iscrizioni, come quelle dei due altari dedicati in aramaico-palmireno nel 132 (altri in nabateo, in greco o in latino). Ma vogliamo ricordare Palmira per il suo massimo archeologo ed epigrafista, Khaled al A’sad, decapitato il 18 agosto 2015 dopo un mese di terribili sofferenze: salutiamo con affetto un nostro eroe, un archeologo, il direttore del Museo di Palmira, che era anche un epgrafista. All’epigrafia latina è dedicato l’importante articolo di Kaled al As’ad e Cristiane Delplace sulla Revue des études anciennes  104, 2002 pp. 363-400 (Inscriptions latines de Palmyre), ripreso per l’AE 2002, con 31 iscrizioni trilingui, in latino, greco, palmireno in genere riferite all’aristocrazia cittadina, imperiali, militari e funerarie: tra le trilingui quella di Haeranes Bonne Rabbeli f. Palmyrenus phyles Mithenòn datata al 363° anno dell’era seleucide, cioè al 52 d.C. Secondo l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria, l’uccisione di Khaled al-As’ad – direttore per 40 anni del Museo – è stata un’esecuzione pubblica, in una piazza di Palmira, alla quale hanno assistito decine di persone. Poi i miliziani dell’ISIS hanno spostato il corpo dell’anziano archeologo, appendendolo a una colonna romana dell’antica città siriana, perché non aveva voluto rivelare il luogo dove erano stati nascosti reperti romani del sito prima dell’occupazione dello Stato islamico, avvenuta nel maggio precedente. A caldo, subito dopo il fatto, avevo scritto: <<ci rimane nel cuore la sorte del nostro amico l’archeologo siriano di Palmira Khaled al-As’ad ucciso barbaramente dal Daesh nei primi giorni della “primavera araba”, dopo un mese di torture, magari per inseguire microscopici obiettivi di parte, tra speculazione, traffici illeciti, bieco affarismo. Il progetto dell’Isis nei confronti del patrimonio archeologico è ormai chiaro: l’iconoclastia non è un fatto nuovo nella storia e non è sostenuta da alcuna motivazione sincera. Non c’è più oriente o occidente, romani o arabi, cristiani o musulmani, se ad esempio in Libia abbiamo potuto contare oltre cento siti islamici distrutti dal Daesh nello scontro tra sciiti e sunniti>>: con gli amici di Libya antiqua avevamo presentato un elenco alle autorità internazionali con l’appello inviato all’Unesco e al Centro Arabo per il patrimonio mondiale.

L’anno successivo l’orchestra del Teatro Marinskij di San Pietroburgo diretta da Valerj Gergiev ha tenuto un emozionante e indimenticabile concerto.

La via della seta raggiungeva proprio Palmira e l’Unione Accademica Internazionale pubblica nelle Fontes viae Sericae le iscrizioni latine, greche, palmirene. Del resto la Cina guarda  al Mediterraneo:  io stesso ho partecipato all’incontro di Pekino all’ Istituto Italiano di Cultura (Ambasciatore Ettore Francesco Sequi) sulle scoperte romane lungo la via della seta. Con noi l’on.le L.H. del Parlamento cinese, archeologo, delega alla cultura Wang W., Capo dell’Accademia Sinica, Gaetano Ranieri, Raimondo Zucca, l’addetto culturale scientifico italiano Plinio Innocenzi. A Pechino cinque anni fa ci ha sorpreso all’ingresso della  Beiwai  Chinese University of Foreign Studies l’iscrizione in caratteri cinesi e in latino ripresa in epoca maoista da Cic. De officiis, MENTE DISCERE APERTA, COMMUNI SERVIRE UTILITATI.  A dimostrazione mi pare di come il medium epigrafico si adatti a diverse culture e a tutte le prospettive politiche.

È passata molta acqua sotto i ponti e si è arrivati al riconoscimento dei beni collocati nel patrimonio dei beni mondiali immateriali, nella prospettiva dell’agenda 2030 e dello sviluppo sostenibile. Temi che in questa sede possiamo solo sfiorare, anche perché la guerra rischia ancora di cancellare l’uomo dalla storia, per usare le parole di Papa Francesco: scrivo nei giorni delle rinnovate preoccupazioni per i Musei di Leopoli o di Odessa, mentre osserviamo i cittadini portare in salvo le opere d’arte esposte ai bombardamenti, con un’interminabile guerra che non riesce a trovare le sue giustificazioni e allunga sempre più le sue ombre. C’è chi ha scritto che <<La missione dell’arte e della cultura è sempre stata ed è ancora, soprattutto dopo tutti gli orrori del XX secolo, quella di insegnare agli uomini a prendere le disgrazie degli altri come proprie, a capire che non c’è una sola idea, anche la più grande e la più bella, che valga una vita umana. Possiamo già dire oggi: ancora una volta, la cultura e l’arte hanno fallito la loro missione>> (Lev Dodin, il grande regista teatrale russo, direttore del Malyj Teatr, su Liberation). Se solo i belligeranti in questi giorni arrivati fino alla centrale atomica di Zaporizhzhia potessero rinsavire, la lettera Z dipinta sui carri armati che evoca Za pobedu potrebbe trasformarsi nella vittoria non in senso militare ma per la diplomazia internazionale, la ragione e l’umanità. Lasciatemi allora ricordare Frédéric Leclerc-Imhoff, morto a  Sieverodonetsk, a fine maggio con Bordeaux nel cuore.




Attilio Mastino, Geography, Geopolitics, Epigraphy, Conference de l’AIEGL, Bordeaux 31 August 2022

Attilio Mastino, Geography, Geopolitics, Epigraphy,

Conference de l’AIEGL, Bordeaux 31 August 2022

L’épigraphie au XXIe siècle, XVI Congressus internationalis Epigraphiae Graecae et Latinae,

Dear friends

(Film https://youtu.be/l8l_8caQ2w0) The military strategy to liberate Europe after the different forms of fascism that contributed to the myth of Imperial Rome, I believe is encapsulated in the events of the American landing in Morocco, the story of which was told in Patton. This film narrated the story in pure Hollywood style and was awarded many Oscars.

It featured an improbable General Patton played by George C. Scott as he rambles on about the war at the end of 1942. He is in Volubilis, standing before the arch built by the procurator M. Aurelius Sebastenus to celebrate the singularis indulgentia [erga] universos et [nova] supra omnes [retro] principes of Caracalla in his 20th and last Potestas tribunicia.

Reconstructed by Louis Chatelain and André Piganiol in the restoration work of 1935, the double inscription commemorates the Emperor as Germanicus Maximus, the victor over the Germanic peoples. It would be expecting too much to imagine that the director could have thought of the campaign against Hitler and the Germans and the victorious Alamannic war 1800 years earlier.

The task force of armoured vehicles guided by General Patton was preparing to engage in Kasserine in Tunisia, after the disastrous clashes of the American and British forces against the Germans and Italians: all this took place on the borders of the Mediterranean Sea that was to be retaken, or better, liberated from the totalitarian rulers and the pathological colonial aspirations of Mussolini and Hitler. Patton is portrayed in the film in a way that approaches that of a caricature, and perhaps even somewhat offensive: he had come across the cruelty of the Arab women during the destruction of Carthage, a story which is skewed and inexact.

However, it renders well, beyond the requirements of the storyline, the contradiction of war, contradictions testified to in a dramatic manner by the white crosses in military cemeteries that we have often visited, such as that of the British at Medjez el Bab on the Medjerda, just down the road from Thignica. We can follow for a moment the Allies as they proceed through Sicily, where the damage to monumental heritage increased, in particular in Palermo, with wounds that are still open; or the inscriptions made to mark the restoration work after the war, e.g. at San Francesco d’Assisi. We may then move up the Italian mainland as far as the Gustav Line before the Garigliano front: the President of the Association of the Gustav Line has reported an inscription at the base of the statue of the ambulacrum of the Roman theatre in Minturno in a photo dated 15th March 1944 with the British troops, blocked by the Germans: a soldier preparing for battle. The base dedicated by the Minturnenses commemorates the wife of Gordian III Furia Sabinia Tranquillina Aug(usta) sanctissim(a) coniux.

Dear friends,

It is a great honour for me to close this assembly of AIEGL, on the occasion of the XVI Congressus internationalis Epigraphiae Graecae et Latinae, thinking of Amsterdam 84 years ago, in that terrible 31st August 1938, a month before the fascist racial laws were adopted in Italy; and also remembering the birth of AIEGL returning for a moment to Munich in 1972, 50 years ago: five years after our Association acquired a formal constitution in 1977 in Constanța in Dobruja on the Black Sea, the ancient Tomis, on the occasion of the VII Congress presided over by Georgi Mihailov, Hans-Georg Pflaum and Marcel Le Glay. This was an extremely successful meeting of specialists, featuring both Greek and Latin epigraphy, following a courageous formula that overcame old resistance, while anticipating the convergence of worlds that are so different. This all took place thanks to scholars who felt the winds of change, who realised a historical phase was about to be overcome. This meeting was followed by Athens in 1982, Sofia in 1987, two years before the fall of the Berlin wall, Nimes in 1992, Rome in 1997, Barcelona in 2022, Oxford in 2007, at the Pergamon-museum of Berlin ten years ago in 2012, on the Museum island (Museumsinsel), in a city still riddled with bullet holes, the bloody traces of the European war, as in the colonnade of the Altes Museum, and also in the relationship which is still perceptible between presence and absence in the urban landscape, in the indefinite equilibrium in town planning between fullness and emptiness. We last met in 2017 in Vienna, a city that is incredibly modern.

Our meetings have always been extraordinary opportunities for growth, for comprehension and for international cooperation, as scholars are always the vanguard of vast cultural ferment that characterise the world in which we live. It will be this way also in Bordeaux this year, with many friends, many plans, and our gaze cast out towards the places we love, on the shores of the Black Sea, the Πόντος Εὔξεινος, the welcoming sea sailed by the Argonauts, the first meeting place of the Greeks and the Cimmerii or Scytae or Roxlani and other peoples and civilizations. This is a key area (how can we not think of the Trojan war?) to which the Emperors addressed pacatores orbis. The mysterious population of the Hyperborae, the myth of the Argonauts and of Prometheus, as well as Orpheus and Dionysas: myths that developed so well “the notion of the mysterious Levent in the consciousness of the European continent towards the different shores of the Mediterranean”. This area was considered a borderland, beyond classical “civilization”.

Today we witness that which in the visions of Tragedy has been defined the return of Dionysus to the places that maintained a fundamental importance for Asia, with economic and strategic interests of the region that are ever growing.

I was for a long time uncertain as to how to face the task given to me — Geography, geopolitics, epigraphy – whether to do so from the approach that is most familiar to us, that of the ancient peoples, or from that of the modern worlds, in an attempt, with a certain amount of foolhardiness, to project ourselves onto the continuity that the ancient writings document, in many cases up to the present. To remember the value of classical heritage and culture, but also so as not to forget the present, with its unknown aspects, its tensions, its incomprehension, its injustice and its violence. Arriving at an explanation for some phenomena of rapid and succinct communication also on the social media of today. And if this allow us to improve interconnections between states, they also show us a glimpse of the thousand new ways that can be used to justify war crimes, to define strategic compasses that often appear to be malfunctioning beyond any pretence of sanity, that claim to provide crucial orientations for the coming decades.

We live in a time of transformation, of risks, of clashes between cultures, between peoples, between countries, also due to our incapacity to understand others, to develop a peaceful way of life together, to put to one side selfishness and self-interest, to say no to extremism and intolerance, without naivety as good will is not always enough when facing the forces that are to be dealt with. It would be naïve to highlight only the positive aspects of the ancient world, that of the Greeks and the Romans, which put together elements that are in opposition: imperialism, colonisation, “Romanisation”. Yet Greek history and Roman history and that of the Mediterranean in antiquity have been represented too many times as an uninterrupted succession of wars; neither is it possible to stop at the threshold of an enormous theme, that of war, with references to military events, wars, expeditions, as the many bella, the wars of conquest that appear in hundreds of inscriptions, the bellum Germanicum, the bellum Thracicum, the bellum Britannicum, the bellum Iudaicum and the bellum Dacicum, just to name a few in the Imperial period. The many expeditiones cited are even more frequent on the inscriptions, such as the Britannica, Germanica, Asiana and Parthica. The inscriptions often mention military events; Jehan Desanges in his last days spoke with me about the Bellum Numidum of Thignica or the Fraxinenses furentes of Tubursicu Numidarum. To cite a historical document, dating to the years of Vespasian:  in Tibur there is a famous epitaph by Ti(berius) Plautius Silvanus Aelianus, companion of Claudius in Britannia, that commemorates the transfer of more than 100,000 Transdanubian refugees that arrived in Mesia ad praestanda tributa, after the first victories over the Dacians: the Roman incursion in the Scythian Barbaricum beyond the Dineper, not the Dniester, the Borustene, and the gathering of an enormous quantity of grain; as a premises for the attribution of the ornamenta triumphalia and for the iteration of the consulate in 74: a few years later Plautius Silvanus was honoured by the words of his friend Vespasian at the moment of his death: regibus Bastarnarum et Rhoxolanorum filios Dacorum fratrum captos aut hostibus ereptos remisit, ab aliquis eorum obsides accepit per quem pacem provinciae et confirmavit et protulit. Scytharum quoque rege a Chersonensi quae est ultra Borustenen, obsidione summoto, primus ex ea provincia magno tritici modo annonam p(opuli) R(omani) adlevavit. These are the places where today a bloody war is being waged, one full of cruelty and violence.

In antiquity the immediate consequences of the conquest wars, as after Caesar’s campaigns in Gaul, were depopulation, demographic depression, administrative reorganisation (judicial and that of the borders between cities and tribes), imposed acculturation of the local principes, leading to an exploitation of resources, cultural readjustment, the permeability of certain frontiers, e.g. so as not to block the transhumance routes. In parallel with the damage done in the past by colonial archaeology and today, with the contemporary thousand-fold damage to archaeological heritage, the result of speculation and lack of attention: a heritage that has been beheaded.

Only a few years before Vespasian, in the civil war that broke out at the death of Nero, Galba and Otho, the fire in the ancient Capitol temple and the tabularium publicum on Capitoline Hill was truly catastrophic, considered a crime by the people of the time: according to Tacitus id facinus post conditam urbem luctuosissimum foedissimumque rei publicae populi Romani.

The lower part of the Capitoline Archive was to be saved: in 73 in a symbolic manner Vespasian personally started the reconstruction of the temple of Jupiter and the other public buildings on the Hill, and set about replenishing the treasure of more than three thousand bronze plates that were destroyed in the fire of 19th December 69. With regards to this the information provided by Suetonius is essential: ipse restitutionem Capitolii adgressus ruderibus purgandis manus primus admovit ac suo collo quaedam extulit; aerearumque tabularum tria milia, quae simul conflagraverant, restituenda suscepit, undique investigatis exemplaribus: instrumentum imperii pulcherrimum ac vetustissimum, quo continebatur paene ab exordio urbis senatus consulta, plebi scita de societate et foedere ac privilegio cuicumque concessis.

Therefore, at least three thousand bronze plates were damaged or destroyed in the fire, and were no longer legible; we do not know how many on the other hand we saved. It is though certain that amongst the tabulae aeneae quae simul conflagraverant that were lost in the fire there were the cadastral maps, at least those of the Republican era. It is true that Suetonius does not mention them, and speaks only of Senatus consulta and plebiscites (in particular about plebiscita de privilegio cuicumque concesso), precisely in the year 73 AD Vespasian and Titus, censors, initiated a vast operation of cadastral revision in Italy and in the provinces, freeing the agri populi Romani illegally occupied by private subjects and carrying out a wide-reaching verification of landholding, with the aim of setting up a more accurate taxation system and a more informed distribution of public land. The inscriptions conserve traces of what happened in the agri adsignati; many bronze documents were gathered for fiscal purposes, above all in the Sanctuarium Caesaris on the Palatine and in the tabularia.

In order to address a matter that is even more specific, I would like to cite Hadrian’s interventions to repress with violence the tumultus Iudaicus in Cyrenaica, to end the atrocissima bella, the magna seditio or the στάσις, defined as Ίουδαικὸς τάρακος with M. Aurelius on the occasion of the reconstruction of the temple to Zeus at Cyrene. We know of the financial investments for the restoration of public buildings, the exile to the farthest islands of the Jews, the deportation of the population, at the time obligatory, as for the Jews of Berenice and Cyrene, protagonists of the revolt from the last years of Trajan, which caused enormous damage, a revolt which Hadrian managed to quash: balineum / cum porticibus et sphaeristeris / ceterisque adiacentibus quae / tumultu Iudaico diruta et exusta / erant civitati Cyrenensium restitui / iussit. The Beronicenses of Benghazi were then condemned ad metalla and deported to Sardinia as incolae peregrini in the municipality of Sulci, excluded as in a ghetto from the universae tribus of the municipal ordinance as in other geographic areas of the Jewish diaspora.  In general we see migrations, difficulties in cultural integration, the slow adaptation of local institutions. Similarly, the violence that often accompanies the change of the protagonist and the myriad forms of abolitio nominis and of damnatio memoriae does not escape us. Examples include the erasure of the names of Commodus or of Geta and many other Emperors considered unworthy, the partial re-inscription, signs of internal clashes that provoked massacres, murders and death, hidden in a propaganda-like manner under Concordia, an expression of what was, in reality, deep, unresolvable Discordia. We may follow the traces of narration of history that was instrumentalised and distorted, both in urban and rural areas.

How can we forget Plutarch on the hastily written  comment on the Temple of Concordia, which was built in Rome by the Consul Opimius after the death of Gaius Gracchus? The text of an anonymous epigraphic comment, cited by Plutarch reads: “That which made the people indignant more that anything else was the construction, by Opimius, of a temple to Concordia: in fact, it seemed that he was proud, and desired to boast, as it were, in celebrating the killing of so many citizens. As a result, some people, during the night, wrote this verso under the dedication inscription of the temple: ‘Discordia built this temple to Concordia’” (ἕργον ἀπονοίας ναὸν ὁμονοίας ποιεῖ).

So we must recognise how Classical culture was able to look on itself with irony, in a critical manner, perhaps occasionally ignoring religious fanaticism, without knowing fully that which is the nationalism of our times; we must also recognise how it may provide us with the means to arrive at a new era based on tolerance (a quality which was also often amiss in antiquity) and on respect for others, based on pluralism and the value of diversity in a Mediterranean where the sea is no longer a frontier, but a common ground for peaceful interaction, to use the words of Edgar Morin, for which we must state that the unthinkable futures of our past have now become the unthinkable futures of our present (Alfredo Cacopardo).

An important theme that has emerged in recent decades is that of the interpretation to be given to the Late Antiquity period: many schools have in alternation defined the theme of the fall and the end of the Roman Empire, putting to one side the Illuministic theory of the Barbaric invasions, due to the new positions of scholars who prefer to speak of long-lasting relations: suffice it to consider H. Wolfram on ethnogenenis and W. Pohl on the Germanic peoples. In fact, in recent times, the cliché of a world suppressed by Barbarians or Christians has been abandoned. Instead, there is a greater tendency to consider a moment of Late Ancient democratisation that was favoured by the Church, that contributed to improving the social reality of the incredibly complex Mediterranean.

We are convinced that it is necessary to change the perception of the ancient world and the very same models of interpretation of classical civilisation, which are often inadequate, with the “awareness of a distance, separation, which nevertheless questions us continuously about our present.” This is the position that has recently been proposed by Guido Clemente in the wonderful new edition of Notitia Dignitatum just published by Edipuglia. This was my first book as a student in Cagliari long ago in 1968. Today classical culture continues to be a fundamental component of culture in Europe and beyond. We must repeat the importance of reading the texts in the original, as the language is not so much a logical exercise as a tool for the historical understanding of the texts.

As regards the Roman Empire we are able to gather constants in the ways of governing, in the domination of the agricultural land, in the religion, communication, literary and artistic culture, economy, in the political, institutional and administrative history from the Atlantic to the Black Sea, with traditions, continuity and exchange. Complexity is a value, pluralism is a widely recognised fact of life.

The possibility of availing of applied digital technology in an ever more consistent manner today gives epigraphy the capacity to adopt new perspectives for reading and penetrating the ancient world, with a greater knowledge of the documents, for example gathering proposals for filling gaps by way of artificial intelligence, computerised databases, new digital technologies applied to cultural heritage, photogrammetry, computer vision, the treatment of images, 3D modelling of finds by way of laser scanners, the surveying of archaeological sites, the positioning of finds in the territory by way of GPS, geo-referencing monuments, computerised systems capable of creating relations and cross-referencing data, a new perspective also for the presentation of texts in museums. We may consider the recent Arqueología y Téchne Métodos formales, nuevos enfoques, edited by José Remesal Rodríguez and Jordi Pérez González. This is what is happening in archaeology, numismatics, papyrology, the many media that arrive from the ancient world, that are to be placed alongside literary criticism.

Whether we realise it or not, our study methods change day by day, and we can observe with pleasure a form of democratisation of contemporary culture, a grounding that by way of the ancient writings puts us directly in contact with the past, in the most varied ways, overcoming by now the temptation to formulate post hoc categories of interpretation based on modern ideologies that have often severely deformed the documents. Instead an awareness has been reached that there exist geographical and chronological variables in the moment in which different cultures come into contact, always avoiding a loss of pragmatism and the danger of shoehorning scientific data into ideological frameworks, recognising the complexity and using it as a way to read reality, far removed from lazy periodizations that come in handy: the large dimensions of the Empire, the articulation of the territory, the biological processes, the presence of marginal areas have influence over the artistic styles, the craft schools, the linguistic variation, even on the perception of time, that is not measured in the same way everywhere, in the relationship between otium and negotium. The relationship with other empires, such as with Valerian in Persepolis.

We epigraphists are both historians and geographers: while it is true that the anxiety about one’s own profession must always accompany the historian who does not want to misrepresent the reality that is the object of his or her studies, while it is true that historians have often lent themselves to ideological interpretations that appear inadequate and inevitably end up looking dated, epigraphists can have a more neutral approach, thanks to the advantage of gathering, without intermediaries, the opinions, emotions, even the instrumentalisations that were certainly not absent from the ancient world, without with this admitting a priori the neutrality of all the studies being conducted: excavations, research in storage facilities, painstaking linguistic, philological and epigraphic analyses, based on a method that we all share, that of the autopsy of documents that are often scattered far apart, the search for texts in different collections or the rock-cut inscriptions that are chained to a territory, to a landscape and an environment that allow us to gather in a surprisingly immediate way the climate, the cultural view, the landscape, the geographic environment of antiquity, as even geography is grounded in history, as there exists a relationship between epigraphists and places, territories and peoples.

It is necessary to set up a framework for overlaying data, for opportunities to make comparisons. Historical research must be carried out with a taste for exploration, for travel, for autopsy-like examinations of sites and for topographic reconstructions. To use the words of Marc Mayer the greatest effort must be that of conceiving an epigraphic view with a new sensitivity for the topographic aspect, one that goes beyond the sole monumental complex, and rather integrates with the natural landscape. After all, the multiplicity of situations cannot be summarised in a formula: there are inscriptions that have been lost, are fragmentary, have been damaged by human action today or in the past, others have been erased or are in opistographus form. These are no longer legible even though originally they were inscribed on durable materials that were destined to last forever. These are facts we have often theorised about. We cannot hide from ourselves the fact that there exist independent variables that oblige us to evaluate the testimony of the epigraphers non only incomplete, by at times random, influenced by multiple factors, such as the damage in Algeria, the recent nomination of the Conseil Consultatif du Patrimoine notwithstanding, clandestine excavations, conflicts, even chance itself. Yet we state again the responsibility of the individual scholars in establishing the text, in filling in the gaps, in proposing comparisons, with a greater or lesser capacity to connect leads, ideas, research potential, with a method that now has the characteristics of being fully scientific and that makes epigraphy a discipline that is placed within the category of the experimental sciences, while ever rooted in the humanities. Hence it is at the vanguard of the humanities, well beyond any intellectualism.

Our colleagues are specialists who are ever more determined to investigate the ancient world with an original and non-conventional approach, with the capacity to enter in harmony with very complex realities, with the desire to apply textual criticism to documents that are at times fragmented. However, they have the advantage of being able to connect with the past without filters, with many unexpected perspectives, formulating myriad questions, to which it is not always possible to give clear answers. All this is done with a passion to reconstruct the lines of acculturation and the formation of public opinion: our discipline extends to the history of studies, social research, anthropology, demography to the relations with archaeology and the history of art with papyrology and numismatics. After all, more than half a century ago Karl Popper wrote in the fifties that “there are no disciplines, nor branches of knowledge; or rather of research. There are only problems and the necessity to resolve them”.

I believe that we epigraphists have a common view, that of resolving the myriad problems of interpretation of incomplete texts, extrapolated from their context, with much left unsaid. I found it surprising that, thirty years ago, when celebrating the 50 years of Epigraphica, Giancarlo Susini had clear ideas about the innovative role of epigraphy amongst the classical disciplines, of the new era that was already on the horizon, that of social media, rapid and concise messages, images: “epigraphy as a science of acculturation, as interpreter of processes that may even be peripheric, between writing and reading, as history of civil moments of cultural development”. And looking to the future: “How will men in the future express themselves ‘epigraphically’? Perhaps, I am inclined to suppose, there will be fewer glorious tablets, perhaps more fleeting messages (with different connections with the language of images, so in harmony with screens). Perhaps the state structures will write less in epigraphs (i.e. in public and with intentions for the message to be durable); men associated with faith, with clients, with companies will write more. Perhaps it will be ever more the protagonists of power who manage public knowledge”. This reads almost like a prophecy if we consider the role of social media today in its formulation of incisive denunciations, succinct judgements, lightning quick information, with an emphasis placed on summary, based on abbreviations and common conventions that spring forth from experiences that are far more profound.

In general, cultural heritage constitutes a resource, “it has an intrinsic value, it is an essential component for human development and it carries out a fundamental role in favouring the resilience and regeneration of economies and our societies…it is the basis for re-launching prosperity, social cohesion and the well-being of people and the community”.

The ministers for culture of the G20, who met in Rome a few months ago, asked for “the protection of cultural heritage, the condemnation of illicit trafficking of cultural heritage artefacts, recognising that all the threats to cultural resources, including looting and illicit trafficking of cultural heritage artefacts…the destruction or inappropriate use of cultural heritage…uncontrolled urban and regional development, degradation of the environment, may lead to the loss of irreplaceable cultural heritage, violating the human and cultural rights of people and their communities, damaging cultural diversity and depriving people and local communities of precious sources of meaning, identity, knowledge resilience and economic benefits. Therefore it is essential to recognise culture and heritage as integral parts of wider political agendas, such as social cohesion, employment, innovation, health and wellbeing, the environment, sustainable local development and human rights.

In the conviction that cooperation and dialogue are vital in combating violent extremism, the ministers of the 20 countries expressed the strongest possible condemnation for the deliberate destruction of tangible and intangible cultural heritage, wherever this takes place, as it irreversibly compromises the identity of communities, damages human rights, cancels the inheritance from the past and unravels social cohesion. It is necessary to sustain initiatives set up to protect cultural heritage that is in danger and to restore cultural heritage that has been damaged or destroyed. Despite the pledges made by UNESCO, we see an increase in looting, illicit trafficking of cultural heritage, threats to intellectual property, also by way of digital and social media platforms, as well as other crimes committed at a global level against cultural heritage and cultural institutions. The ministers asked the international community to adopt stringent and effective measures, recognising that the illicit trafficking of cultural heritage and threats to intellectual property are serious international crimes that are linked to money-laundering, corruption, tax evasion and the financing of terrorism, and that furthermore they deeply effect the cultural identity of all countries. They called for the creation of a specialised police unit and databases of stolen artefacts, updated and interconnected with INTERPOL, and with special customs organisations, to assist international investigations and in pursuing crimes against cultural and intellectual property.”

On a purely geographic level, epigraphy can also be a significant marker of territorial boundaries: in some provinces, and also in some kingdoms or territories on the borders, it testifies to unexpected relations and a presence that goes far beyond that of the fines of the known world. Let us think of Corpus Inscriptionum Regni Bosporani, Moskau 1965, with the names of localities that are now famous, Cherson at the mouth of the river Dnepr on the shores of the Black Sea, west of Crimea, the ancient Chersonesus Taurica (82 texts), Phanagoria close to Sennoy in Krasnodar Krai, in Russia (a Greek text, that of βα[σιλεὺς μέγας Τιβέριος Ἰο]/[ύλιος Σα]υρομάτης υἱὸς βασ[ιλέως Ῥησκουπόριδος φι]/[λόκαισαρ] καὶ φιλορώμαιος εὐσ[εβής ἀρχιερεὺς τῶν Σεβ]/[αστῶν διὰ β]ίου καὶ εὐεργέτης [τῆς πατρίδος καὶ κτίστη]) and Panticapaeum, today Kertsch. on the Taman peninsula (8 texts, amongst which the dedication made by the colonia Iulia Felix Sinope for the Rex Ti. Iul. Sauromatem between 92 and 124. And then above all Sebastopoli (Sewastopol, in SW Crimea), with its 135 epigraphs, its dedications IOM Conservatori and Dolicheno, to Mercury, Hercules, Vulcan, Sabazios, Nemesis conservatrix, Mitra, its diplomas such as that of 157 to the sailor from Olbìa today Parutyne, the imperial inscriptions such as for the Severi or for the vicennalia of Constantine in 343 at Panticapaeum, those of a military nature, such as that of the legionaries of the XI Claudia, of the I Italica, of the V Macedonica, after Diocletian of the II Herculia of the lower Moesia army, with the mobility that is typical of armies on the march, the cohorts Cilicum, Bracaraugustanorum, Lucensium, Thracum, Cypriae, Hispanorum, le vexillationes also of the fleet of Ravenna, the sailors of the classis flavia moesiaca. Or at Cherson the bilingual inscriptions of the vexillatio Chersonessitana in a military decree.

 

I have often asked myself whether the military events of today change the very perception of the ancient world; above all whether they reduce or increase the documentation that reaches us. It is possible that the fall of the Berlin wall had some influence on the recent increase in the number of Roman military diplomas that until the supplement of CIL XVI edited by H. Nesselhauf between 1936 and 1955 numbered no more than 169; the number increased notably in 1978 with the publication of Margaret M. Roxan’s Volume, then in 1985, 1994, and 2003 with Paul Holder, and finally in 2006. Today the Epigraphik-Datenbank Clauss / Slaby consists of (20 March 2022) 532,000 inscriptions, no fewer than 1246 diplomas, half of which, 670, are of uncertain provenance in terms of locality and province: a large number of the diplomas, no fewer than 422, are from the Rhenus and Danuvius provinces: 116 from Pannonia, 81 from Moesia, 77 from Raetia, 28 from Germania, 68 from Dacia, with just two from the Kingdom of Bosphorus; only 4 are from Syria, and 7 from Barbaricum. Among all these I would like to cite at least the diplomas from the Transdanubian regions: more precisely from the territory of the Azali (between the Danube and Lake Balaton, north of the Caspian Sea) there comes a diploma studied by Lőrincz of ex pedite of the cohors II Alpinorum Tertius Dasentis filius Azalus. Evidently the veteran returned to his homeland, Dunantul. A sailor, Niger Siusi f. Azalus, an ex gregale, according to the diploma from Arrabona moved to the Transdanubian region after his discharge. We may also cite the supplement of RIU, that dedicated by P. Kovács to more than two hundred Hungarian inscriptions, Tituli Romani in Hungaria reperti, 49 of which were found in Barbaricum Sarmaticum, 47 of which were unpublished. The recent work by Ionut Acrudoae has proved the existence of recruitment in many non-provincial milites-nautae, outside Pannonia.

There was also a clause in favour of liberi decurionum et centurionum item caligatorum quos antequam in castra irent procreatos, those born therefore before the father caligatus (foot soldier) signed on: this is found in two diplomas from unknown localities for a sailor and an auxiliary (AE 2013, 1216), but also at Carnuntum and Volubilis, always around the mid-second century.

Diplomas are significant territorial markers, arriving as early as in the Trajan period in Britannia at Sydenham, often alongside instrumentum, as is natural, importation products and coins far beyond the borders of the Empire.

These data have been cross-checked with the Epigraphic Database Heidelberg and with many other collections that today allow us to superimpose ancient geography with modern geography: in EDR there are 36 diplomas. I would like to briefly comment on at least the situation of the Danubian provinces, which was presented at the Vienna Conference Ad ripam fluminis Danuvi: and the impressive number of new diplomas that have come to light from 2000 to 2015 (more than 50 with respect to the 31 known examples beforehand) from Moesia, and were published incredibly quickly in “Chiron” by P. Weiss, W. Eck, and A. Pangerl: of these, 26 are from Moesia Superior and 25 from Moesia Inferior. A significant update of the RMD with details and corrections about the size of the Noricum army was carried out after the discovery of Lauriacum, Porgstall an der Erlauf in Lower Austria. At the same time, 12 new diplomas relating to the army of Pannonia, 5 alae and 13 cohorts. There are many cases that deserve to be mentioned, such as that of Cornacum that commemorates two consuls until now unknown: Euphrata et Romano coss., 7th September between 192 and 206, a diploma conceded to the ex-gregale (a sailor of the fleet) Priscinus Prisci f. Priscus ex Pan. Inf. Iatumentianis and to his sons. He was originally from an unknown village in Pannonia Inferior Iatumentianae.

We should also discuss the unique nature of this new knowledge, however unequilibrated it may be on a geographical plane. I have discussed the matter with Yann Le Bohec and we can agree that the fall of the Berlin Wall and the end of the DDR is perhaps one of the factors that influenced events, opening up a new world. Certainly the disappearance of the USSR reduced checks and allowed the emergence of fruitful clandestine work in some countries, such as Bulgaria. In some countries non-official excavations were started.

The multiplication of the discoveries is explained by a clear loosening of public control over heritage leading to the heinous activities of the tombaroli and clandestine excavators alongside the use of metal detectors, the increase in clandestine excavations, the expansion of the antiques market. It appears clear that the post-communist society gave impetus to archaeological research, at times without there being a framework of rigorous and strict rules, and the sole aim was to generate wealth. With this by no means do I claim that the protection of heritage in Italy and in France is always effective and has never been evaded.

The use of the metal detector would partially explain, for example, the discovery in Baetica of several municipal laws, that were numerous and detailed with respect to the thousand or so epigraphic leges that are known. We were deeply impressed at the AIEGL conference in Barcelona in 2002, when we saw the exhibition Scripta manent, about the large Iberian bronzes, amongst which lex Irnitana, studied from 1984 onwards and lex Ursonensis since 1951.

Yet in reality the theme is that of new horizons, intuitions and investigative paths that are proposed by big data, the new databases like that for amphorae of CEIPAC, or the Atlas patrimonii Caesaris endowed with historical atlases that bear witness to an uneven distribution of imperial property, in Africa as in Asia, often more consistent in the rural areas, close to the mines and quarries, but also to the abandoned areas, in any case far away from the main urban settlements, where there was less difficulty in disposing of goods that arrived at the fiscus, as was recently observed by Alberto Dalla Rosa in Milan. The problem facing us today is that of the representativity of the data: consider the circa 800 termini that are known (no fewer than 226 in Syria, 51 in Moesia and Thrace, roughly 20 in the Asiatic provinces, 50 in the African provinces, 46 in the Iberian provinces and 17 in the Gallic provinces) or the more than 8000 milestones, of which there are nearly 200 in Sardinia and just three in Sicily, and none in Corsica. In total, in EDR Rome, there are 603 milestones, even though there are many yet to be entered. There are no fewer than 1600 milestones from the African provinces, 1500 from the Iberian provinces, 800 from the Germanic and Gallic provinces and 500 from the Danubian provinces. Many different explanations have been proposed, but the impression is that of a heterogeneity and differences at the basis, certainly stemming from the presence of local traditions, the deployment of military units, the degree of agricultural penetration and exploitation, trade, the presence of quarries along the route, vice versa in Sicily on the abundance of timber. It is not to be excluded that the chronological factor may have played a role, the most precocious era for the realisation of military roads; yet one thing we cannot get out of our heads is the idea that the successive history of the territory, due to natural or artificial factors, depopulation, the formation of swamps and abandoning of land on one hand, and on the other the antiques market or building speculation in modern times, may have had an effect over time to profoundly modify the quantity of artefacts that were found and hence the very same perception we have today of the ancient world.

This also takes place when scholars extend their research to geographical sources, to the Antonine Itinerary, and other land-based Itineraries, archaeological excavations, the localisation of bridges and road infrastructure. Issues multiply when we move to the documentation of the sacred sites, to the localisation of the large regional sanctuaries, to the world of magic and of the defixiones: why are the defixiones distributed in such an unusual manner? There are 174 in Britannia, 116 in Proconsular Africa, 65 in the Germanic provinces, 69 in the Gallic provinces and 45 in the Iberian provinces. In EDR Roman there are 142 defixiones from Italy, even though activity is still ongoing; Celia Sánchez Natalías in the Sylloge of her comprehensive collection just published in BAR calculates 535 for Western Europe, no fewer than 255 just for Britannia. There are obviously very profound elements that often escape us completely and were not even clear in ancient times. There are many question marks in the background, many unresolved issues, many uncertainties that we do not aim to resolve in this sitting.

If we stay within the Empire, we can note that in general Romanisation was discontinuous and not homogeneous in the territory. This reflected differing levels of literacy and bears witness to profound cultural differences, based on distance from the coast, altitude, orography, and the presence of other languages alongside Latin and Greek. Epigraphy was a mostly urban phenomenon, also in relation to a better knowledge of the Latin and Greek languages in the cities, as opposed to the marginal areas that maintained local cultures: the presence of Italic immigrants in the port areas was influential, as was the activity of a fully-fledged bureaucracy employed in the provincial and town administration, the stay of individuals entrusted with exploitation of the land and what lies beneath it, especially in the mining areas, the deployment of military units, down to the distribution across the territory of epigraphic workshops, even the practical availability of schools.

The “epigraphic density” of a territory is in relation to the differing distribution of inscriptions, with particular regard to the isolated, internal and mountainous areas, generally inhabited by a local population that is often hostile to the Italic immigrants, apparently not always interested in overcoming the limits of illiteracy lasting for millennia, obviously with a diachronic variable. A significant example is that of Sardinia, where the number of inscriptions is related to distance from the sea, especially if we bear in mind that currently the Sardinian municipalities are all distributed homogeneously in a band that is from 0 to 60 km from the sea. About 70% of the inscriptions are from territories in a band that is no farther than 5 km from the coast (956 out of 1329); 86% of the instrumenta (539 out of 627) are concentrated in the same band. In relation to altitude, it is well known that the 377 Sardinia municipalities are currently distributed in a homogeneous manner between 0 and 600 m above sea level. Vice versa, 68% of the Latin inscriptions come from a place located between 0 and 50 m above sea level (956 out of 1329), even though the finds at higher altitudes (up to 100m) are distributed more gradually with respect to distance from the sea, perhaps a demonstration of a partial occupation of hill sites, close to the coast.

We must conclude that it is the plain coastal area that is the zone that conserved the majority of the Latin inscriptions and instrumenta, while the Barbaria in the interior hosted mainly documents released by central power, sentences of the governor, borderline cippi placed to contain the nomadism of the indigenous tribes, milestones, epitaphs for auxiliaries at the various encampments, military diplomas released to soldiers who, it is legitimate to suppose, returned to their birthplaces after their military service ended, finally also official dedications carried out by provincial magistrate or Imperial procurators.

A few dozen funerary inscriptions come from the rest of the interior and marginal zones of Sardinia. These are characterised by the rough appearance of the support produced by local craftsmen, the inscribing and the form of the letters, the funerary iconography, the form and the contents; the result of what is to all intents and purposes a local artistic “school”: we note the constant use of local stone (granite, trachyte, even basalt, never marble); the inscription of the letters is not marked, a ductus that is approximate and crude, onomastics that often have distinctly non-Roman characteristics, contents that are not all comprehensible with certainty.

The spread of Latin appears at times to have been in competition with other languages, the indigenous ones firstly, but also the Punic tongue, as well as Greek as in the trilingual inscription from San Nicolò Gerrei, which re-emerged in recent months in the new rooms of the Musei Reali of Turin (CIL X 7856, IG XIV 608, CIS I 143); in the Orient, such languages were that of the Nabataeans for example, or Greek-Palmyrene Aramaic. There are trilingual inscriptions Greek-Latin- Palmyrene Aramaic in the Museum of Palmyra that were recently studied by Union Académique Internationale for the Fontes Historiae viae Sericae edited by Samuel N.C. Leu, partially amended now by Stefano Magnani, for example for the bilingual of 146 AD with the reference by the demos to certain documents such as the Imperial epistulae by Hadrian and of θειότατος Α[ὐ]τοκράτωρ Ἀντωνεινος for Publicius Marcellus.

The inscriptions followed the European nations with states having borders that are often arbitrary: allow me to make an incursion in the mare magnum of Theodor Mommsen’s letters, to recall the recent publication of the correspondence between Ettore Pais and Theodor Mommsen edited by Antonio Cernecca and Gianluca Schigno. Theodor Mommsen (who was hostile to Trieste being Italian, already noted by Gino Bandelli) took on a position that in 1882 included a desire to limit the epigraphic journey of Ettore Pais in northern Italy to the Italian borders of the time, hence excluding Aquileia, Trieste and Istria, which were under the Austrians.

On the other hand, the case of the Alpes Maritimae is analogous. I would leave to one side for the moment the long colonial phase full of instrumentalization such as in Carthage, which in a certain way continued over time, such as the emphasis on the privileges of the Archbishop of Carthage, first all over Africa. These are themes that can be referred to by way of the rediscovery of archaeological ruins, inscriptions and monuments that took place in the 19th century as a result of the colonial armies. With the romantic aim of following the routes of a lost civilisation, refinding the roots of the European soul in North Africa or the Orient, overcome by the Arabs, as testified to in Algeria by the modern statue of Constantine, or at Kenchela in veneration of the statue of the Berber queen Kahina. After all, still today current affairs are present in the attribution of localities to one country or another: we are familiar with the uncertainties in the borders between Inscriptiones Italiae and ILJug., without mentioning Bosnia, but that is a subject that is truly more general.

Local languages must have been spoken, at least in the peripheral areas, in the interior and in the mountains. These must have had some influence also on the evolution of vulgar Latin, transmitting some particular characteristics. More precisely, some aspects of the vowel and consonant system of Vulgar Latin, a series of morphological and syntactic peculiarities and above all unique aspects of the vocabulary, perhaps due to the influence of the substratum, have allowed us to conclude that there were numerous and significant similarities in the spoken language in different provinces.

We arrive at Geography and its relationship with History. Let us consider the proposal to place the Pagus Veneriensis in Sicca Veneria. The theme of borders will be dealt with in a session of this XVI Congressus internationalis Epigraphiae Graecae et Latinae and it has been the object of many studies, such as those on cultural barriers, the relationship with others, Romanitas and Barbaritas, in the comparison between the exterae gentes, nationes, and populi. Some elements emerge from Medieval cartography, with an enormous legacy in the definition of the cadastral borders, between Medieval kingdoms, dioceses, cities, provinces, regions that took on the slow agony of the large land-holdings in the Roman era, ever with the worry of avoiding disputes, anticipating the possibility that the borders, the cippi or the termini could be destroyed or moved, as when the surveyors carrying out their terminare work moved around the territory and described in a narrative style a river, a prehistoric monument, a mausoleum, a rock, some stones with inscriptions. We know of the work of military surveyors, the “arpenteurs”, such as mens(or) lib(rator) M. Troianius M.f. Marcellus originally from Lucus Aug(usti) in Narbonensis of the 10th Pretorium, seen by G. Chouquer and F. Favory as “mensureur et niveleur”: he died young, after 5 years of service. He knew how to calculate distances using the decempeda, a 10-foot-long measuring stick used for inspections, such as that which appears in the monument to T. Statilius Aper.

We know of other civil mensores agrari, such as the Imperial servant Didymus at Carthage, who Lassère considers to be working for the proconsul and not of the colony, with the unspoken implications for the relationship between the agri adsignati, Imperial property, latifundia that had not undergone centurisation, with the respective vectigalia. Libertini recently observed that the word pertica, besides being a measurement of length, indicated also the stick used to measure the cadastral plots, but also the group of land plots subject of a limitatio and the map of a limitatio, a synonym of forma.

Pierre Salama has taught us that “la civilisation de Rome a pu etre qualifiée de routière”, Jean-Marie Lassère highlighted the signs of the Imperial authority on the landscape that was changed by man over time, so much so that we can state that Roman civilisation was truly a “civilisation cadastrale”. One which, according to R. Chevallier, had an influence on people, it forged the civic mentality, starting from the intertwining of geography with religion, as in the background ritual activity was indispensable to guarantee divine favour.

This was so from the distant times of Romulus’ pomerium of the urbs, progressively amplified parallel to the fines of the orbis. And pomerium, Gell reminds us 13 14 1: est locus intra agrum effatum per totius urbis circuitum pone muros regionibus certeis determinatus, qui facit finem urbani auspicii”; Varr ling Lat 5 143: qui (sc. orbis), quod erat post murum, postmoerium dictum eo usque auspicia urbana finiuntur.

I would like to refer to the expression of the cippi of Monte Testaccio or of the Via Flaminia placed by Claudius in his IX Tribunicia potestas, in 49 AD, precisely where the city ended: auctis populi Romani finibus, pomerium ampliavit terminavitque, where an immediate relation was established between the operation of augere the fines and that of enlarging or ending the pomerium. In the same way, Vespasian and Titus remind us of this always at Testaccio: auctis p(opuli) R(omani) finibus pomerium ampliaverunt terminaveruntq(ue). It was precisely Vespasian with the lex de imperio who highlighted the power of the emperor uti ei fines pomerii proferre promovere, as it was licit to Claudius. After all, there is a connection between the space of the orbis and that of the urbs, which almost summarises it: Constantine in Naples is the liberator urbis terrarum (CIL X 6932); Constance II is Restitutor urbis Romae adque orb[is] et extinctor pestiferae tyrannidis of Magnentius. But the imperium sine fine in time and space promised by Jupiter to the Romans (His [Romanis] ego [Iuppiter] nec metas rerum nec tempora pono: imperium sine fine dedi», Verg., Aen. I 279), was not to have borders, if not those undefined in space. Cecilia Ricci in her volume Orbis in urbe has studied the migratory phenomena in Imperial Rome, portraying the capital as being cosmopolitan and the opposite to a world summarised in Rome, ἡ κυρία τοῦ κόσμου Ῥώμη at Puteoli, rich in relations, often capable of welcoming the other, of preserving multiple identities, by way of the spaces, the dwelling places, the exercising of professions, the social organisation, the language, the onomastics and the ritual practices. There is a record of this in Formae urbis antiquae, the marble maps of Rome between the Republic and Septimius Severus, dealt with in the volume by E. Rodríguez-Almeida in 2002, with the emphasis of Mussolini’s imperialism that is enlarged to the orbis, to the  mare nostrum, an expression that would continue being hated also in the future “for its sense of ownership”, according to Franco Cassano, if we do not put the declination in the plural and contemporarily in various languages. With Severus the sublime templum Pacis welcomes the new forma urbis: the complex had hosted relics from the Hebrew war that had arrived from Jerusalem, such as the seven branched candelabrum in a sort of failed evocation to the god of the Jews; the Arch of Titus bears a representation of the scene of the triumphant pompa with the fercula accompanied by the relative tituli held up with long poles, with a clear didactic intent, as in the spectacles in the amphitheatres.

If the viewpoint is reversed from urbs to orbis Romanus or even to the whole world to the orbis terrarum or to the οίκουμένη and to the κόσμος several problems emerge that are even more complex and difficult, regarding wars and conflicts, but also continuity, schisms and contacts that allowed a number of things including overcoming nationalism and local identities, proceeding with integration, so as to arrive at what today we call globalisation, to quote the posthumous book by Marshall Mac Luhan, “the global village”.

In this framework, some aspects may really act as guides for us: the theme of the Latin epigraphy Barbaricum is only one of the means to define the routes by way of which we can now accept a rethink that is not banal, for example about the end of the Roman Empire, putting to one side the Illuministic theory of the Barbaric invasions.

The spatial elements of power seem essential to us, as they were precocious and introduced as early as in the very title of Regina inscriptionum, RGDA, quibus orbem terra[rum] imperio populi Rom(ani) subiecit. This was a theme that was completely obliterated from the Greek title that can be read at Ancyra. The Latin expression is evidently propagandistic rhetoric. Yet the title already expresses admiration for a universal empire seen in a positive sense, such as that of Alexander the Great, which coincided with the known world, a model that re-emerges from time to time. Always in the RGDA see chapter 3, where Augustus exalts the wars waged toto in orbe terrarum, in Greek [κατὰ γῆν] καὶ κατὰ θάλασσαν always referring to the Roman Empire: the first emperor boasts about himself in more detail in chapter 26: com[plu]ra oppida capta in Aethiopiam usque ad oppi/dum Nabata perventu[m] est cui proxima est Meroe in Arabiam usque / in fines Sabaeorum pro[ces]sit exercitus ad oppidum Mariba. Truly until the end of the world. After all, the propagandistic ideal model is not abandoned by the successors, not even Constantine in the second Rome, and we must state with some emotion, up to our days there lives on an imperial design that in some way still survives in Moscow, the third Rome.

There is also another aspect, that of the duration in time of the imperial power, which is naturally connected with space. Yet again, already with Augustus, who knew the assimilation of Dionysis and Hercules, in the framework of aeternitas, the infinite duration of the time of Fortuna, a virtue, that brought the prince closer to Jupiter.

In this moment of war in Europe, how can we not think of the Sea of Azov, of Lake Maeotis? Phanagoria on the eastern side of the Bosphorus, the land of the Cimmerians on the Taman peninsula, today in the Russian Federation: here in 7 BC the βασίλισσα Δύν[αμις φιλορώ]μαιος addresses Augustus Αὐτοκράτορα Καίσαρα θεοῦ υἱὸν Σεβαστὸν, calling him τὸν <π>άσης γῆς καὶ [πάσης] θαλάσσης ἄ[ρχ]οντα, as τὸν ἑαυτῆς σωτ[ῆρα καὶ εὐ]εργέτη[ν]. The latest excavations, published recently by Askold I. Ivantchik of Ausonius and Sergey R. Tokhtas’ev of the Russian Academy of Science have allowed us to understand in greater detail this queen of the promotion of the cult of Augustus associated with Apollo. With a backdrop of the Cimmerian Bosphorus, the Caucasus, the Roman Conquest, the occupation by Pompey of the Pontus, the agreements with August lord of the heavens, of the earth, of the cosmos, with Queen Δύναμις φιλορώμαιος, anticipated the translatio imperii from Rome to Constantinople and from Constantinople to Moscow, the third Rome, but taken as a whole they testify to a geographic dimension that is also cultural in the aggregation of the Euxine Sea to the Mare Nostrum.

It is at Myra in Lycia, that Augustus in the years before the death of Agrippa (18-12 BC) was invoked as ὁ εὐεργέτης καὶ σωτῆρ τοῦ σύμπαντος κόσμου (Θεὸς Σεβαστός, αὑτοκάτωρ γῆς καὶ θαλάσσης; Agrippa appears in an exceptional manner with the titles εὐεργητης καὶ σωτῆρ τοῦ ἔθνους). The title, even though not official, re-emerged a century later for Hadrian: Ὀλ̣υμπίωι, σω[τῆρι τοῦ] σ̣ύμπαντος κόσμου κα̣ὶ̣ [τῆς] π̣ατρίδ[ος, τῆς] π̣όλε[ως] Φα̣σηλιτῶν, Phaselis in Lycia 131 AD.

These are the natural premises for the extremely rare title of κοσμοκράτορες brought to the same region by Diocletian and the tetrarchs at the end of the 3rd century in the dedication made [ὑ]πὲρ ὑγεία[ς κα]ὶ νεί[κης τῶν κ]υρίων κοζμοκρατ[όρων {κοσμοκρατόρων} ἀνικ]ήτων da parte del δήμ[ος Καλ[λ]ατιανῶν, at Kallatis (Mangalia on the Black Sea in Dobruja) in Lower Scythia. After all in the east κοσμοκράτορες had already been attributed to Marcus Aurelius and to Lucius Verus in 164-166, at Ruwwafa, in pre-Islamic Arabia (east of Sharm El Sheik) in the inscription studied by J.T. Milik and G.WQ. Bowersock, placed ὑπὲρ αἰονίου διαμονῆς κρατήσεως τῶν ϑειτάτων κοσμοκρατόρων (with a translation in Nabatean, rendered by Milik: “Pour le salut des maîtres du monde entier”, M. Aurelius and L. Verus Armeniaci). The region directly connected with the Red Sea was inhabited by the Thamud of the Nabatean people became part of the province of Arabia under Vespasian. The efforts made by Trajan to extend the Empire are well known thanks to the aspects recently studied by Michael Alexander Speidel, Armenia et Mesopotamia in potestatem populi Romani redactae. The cosmoratic attribute is also assigned to Caracalla φιλοσάραπις on the 11th of March 216 at Alexandria, τὸν κοσμοκράτορα Μ(ᾶρχον) Αὐρ(ήλιον) Σεουῆρον Ἀντωνῖνον Germanico Massimo, τὸν φιλοσάραπιν, accompanied by Giulia Domna: it is a text that relates the prince with the cult of Serapis. In an urban opistographus epigraph the title of κοσμοκράτωρ originally borne by Zeus Serapis Elios, perhaps after the death of Caracalla in 217, was attributed to Mitra: εἷς Ζεὺς Σάραπις Ἥλιος κοσμοκράτωρ ἀνείκητος. Finally, Gordian III between 238-244 at Portus Ostia, in an inscription dedicated to the benefactor by the citizens of Gaza, Palestine τὸν θεοφιλέστατον κοσμοκράτορα: ἡ τῶν Γαζαίων ἱερὰ καὶ ἄσυλος καὶ αὐτόνομος, πιστὴ <καὶ> εὐσεβὴς, λαμπρὰ καὶ μεγάλη, ἐξ ἐνκ<ε>λ<ε>ύσεως τοῦ πατρίου θεοῦ.

Constantine’s time was a particular one: at Philadelphia in Lidia, (today Alaşehir) after 323 AD [τὸν γῆς καὶ θαλάσ]σης καὶ παντὸς τοῦ τῶν ἀνθρώπων γένους δεσπότην. The concept became more precise with the successive emperors and developed in the 4th century, when there was an enormous increase in references to aeternitas, the duration in time that was added to the extension in space of Imperial power: in this way at Uchi Maius in an almost euphoric manner (even though paradoxically at a few decades from the evacuation of Dacia) Constantine was perpetuus semper Augustus, in an inscription dedicated [d]omino triumphi, libertatis et nostro, restitutori invictis laboribus suis privatorum et publicae salutis; at Thamugadi semper et ubique victor; or at Rome after the second triumph in the Campidoglio: restitutor humani generis propagatori imperii dicionisq(ue) Romanae, fundator etiam securitatis aeternae. However, Maxentius already boasted of the titles of invictus ac perpetuus semper Augustus (Reggio Calabria). As an example: omnia maximus victor ac triumfator semper et ubique victor (Hierapolis, Valentinian); a[uc]toritate praeci[pua] Romani status ac libertatis propagator semper et ubique victor (Gratian, Antioch of Pisidia); Honorius and Theodosius II: semper et ubique vincentes (Calama).

We will now put to one side the references to the duration in time of Imperial power and return to the spatial aspect. Inscriptions marked the landscape in necropolis, in towns, on the roads with milestones, in the territory, above all in the pertica of the colonies, by way of the termini, the cippi embedded in the ground, which are directly linked to the auspicia, to place within the spatial dimension peoples, praedia, vici, colonies, provinces, and even the Empire itself, in its uncertain borders, with an effort to anchor them to mountains, gorges, lakes, swamps, bogs, marshes, rivers, streams, fords, caves, springs, trees, valleys, rocks, hills, agricultural land, vegetable patches, vineyards, olive groves, orchards, untilled land; places inhabited by humans, goats, pigs, bullocks, sheep, horses etc. We know how land was registered, as in Numidia at Castellum Fabatianum, with the bestowal to the colonisers carried out by the council of the decurions in the era of Augustus, agros ex d(ecreto) d(ecurionum) coloneis adsignatos.

The term pertica is used specifically to indicate the ager adsignatus of some Triumviral colonies, such as Thugga, where we know of a defensor immunitatis perticae Carthaginiensis, which opens a window for us onto the highly complex world of the tributum soli and the fiscal advantages of the city of Carthage, that weighed on the stipendiarii settled in various ways in the territory, with the explicit testimony of Uchi Maius. The perticae of the colonies of Turris Libisonis and Tharros, to be seen instead as cadastral copies of the tabularium, are expressly cited in Sardinia in a lost epigraphy, known to Mommsen by way of archive documentation of the 16th c., which testifies to the attention and care given to the archiving of cadastral documents. The lex Hadriana de rudibus agris caused local effects that had a notable development in North Africa, in particular in the pertica of Augustus’ colony of Carthage. There is documentation of the relationship between procurators, colonisers, homini rustici, often victims of abuse by conductores and by violent behaviour on the part of the soldiers, as in saltus Burunitanum at Bou Salem in the first years of Commodus, in 182.

The term pertica also means the 10 foot long tool for the measuring of cadastral tracts and also the cadastral map with the limits of the centuriation closed with the arae that had been placed, e.g. by Gaius Gracchus, which on the ground can been seen by way of the border cippi, the termini placed by the provincial governors or by the praefecti iure dicundo substituting the IIviri of the colony, in a process that was continuously revised and updated involving disputes between different sides and uncertainties about individual rights. The discovery in 1949 of one of the cadastres of Orange points to the triple centuriation of the colony Firma Iulia Secundanorum Arausio, with an orientation aligned with the cardinal points which varied over the centuries in relation to the Rhone; according to Michel Christol’s interpretations, we may envisage an intervention by Augustus and then by Vespasian in 77 AD to indicate the dimension of the single centuria on the cadastral map.

Naturally this was a rather naïve way to reconstruct the concrete reality of the land, to codify it in an abstract way, even without the desired manipulation, also because in cadastral operations still today cartographers allow for the presence of a gap between representation and real distance, and all the limitations that have been clearly highlighted by Pascal Arnaud. From the new fragments of the cadastre it emerges that in any case tracts of land were left to the city of Arausio for which the payment of a vectigal was due; the proconsul was the official who gave instructions so that the dimensions of the single centurium were indicated on the cadastral map, with the aim of defining the vectigal: [formam agrorum prop]oni [iussit, adnotat]o in sin[gulis centuriis] annuo vectigali. And in this case the operation was carried out agente curam L. V[alerio Um]midio Basso, proconsul and not by initiative of the magistrates of the colony as in the aforementioned cases. The proconsul’s role was that of a mediator, alternatively the magistrate acted on the basis of the needs of the provincial funds? We doubt that the vectigalia went directly to the province and not into the funds of the colony. To the contrary, Lorenzo Gagliardi recently hypothesised that the officials of the colony were responsible only for levying taxes, that were then transferred from the town to the provincial governor, to the benefit of the aerarium. These are all themes that perhaps developed in Italy (one may think of the cadastre of Verona) in a different manner with respect to the provinces, as is testified to by the most recent interpretation of the gromatici, for example, that of Atella, after all there were significant differences from province to province. Carolina Cortés Bàrcena extended the reflection to the provinces in the extreme west between the 1st c. BC and the 1st c. AD, maintaining that the overlaying of the new spatial demarcations imposed by the Roman administration on the earlier territorial organisation modified not only the older landscape, but also the relationship the local populations had with the territory and space itself. José Cardim Ribeiro addressed the specific details of the epigraphy found in the westernmost areas, where land ends and the sea begins (aqui… onde a terra se acaba e o mar começa), on the Mons Sacer-Promontorium Magnum, Σελήνης ὄρος in the territory of the Municipium Civium Romanorum Felicitas Iulia Olisipo north of the source of the Tago, Cabo da Roca at Sintra in Portugal, the most western point of the European mainland, with the famous dedication Soli et Oceano placed in the era of Antoninus Pius by C. Iulius C.f. Quir. Celsus, a knight with a splendid cursus honorum. Other are in the same locality are dedicated Soli aeterno, Soli occiduo, Soli invicto, Oceano patri, Lunae, and, in Greek, Ηλίῳ Μήνῃ, to the sun and the moon.

Looking at our theme from a distance, today we know that pertica is a term that can mean different things, apart from the unit of measurement and the tool to measure ten feet: not only the land which is the subject of the limitatio but also the map of a limitatio (that is the forma): we may therefore speak of forma coloniae, but also of forma provinciae as in Dalmatia in the era of Tiberius, recalled in the 3rd c. secundum formam Dolabellianam; and also in the era of Hadrian, again in Dalmatia, the legatus worked at Corinium [s]ecundum formam Dolabellianam. But the edict terminatio of the legatus P. Cornelius Dolabella is referred to in the same locality iussu A(uli) Duceni Gemini leg(ati) Augusti pr(o) p[r(aetore)] in the era of Nero 63 and 68, for the borders inter Neditas et Corinienses, later defined as finis derectus mensuris actis.

To remain on aspects that are strictly geographical, the provincial borders are cited already by Augustus in the RGDA 26 : omnium prov[inciarum populi Romani] quibus finitimae fuerunt / gentes quae non p[arerent imperio nos]tro fines auxi (τοὺς ὃρουϛ ἐπεύξ[ησ]ασα). And further on at number 30, imperio populi Romani s[ubie]ci protulique fines Illyrici ad ripam fluminis / Danu(v)i citr[a] quod [D]a[cor]u[m tr]ansgressus exercitus meis ausp[iciis vict]us profliga/tusque [es]t. The termini, the cippi that marked these provincial borders on the ground, to date number about forty. But we must start off from the speech given by Claudius in the Senate in 48 AD, which we find in Tacitus XI 23-24 and in the Tabula Claudiana Lugdunensis that indicates the territory placed ultra fines provinciae Narbonensis. After all, the demarcations between provinces, such as those between Africa Vetus and Africa Nova, continued to be significant a century after the birth of Proconsular Africa and the union of the two old provinces ordered by Augustus: from the most recent studies carried out by Ali Chérif and Riadh Smari we know that, still in the Vespasian era in 73-74, the border passed between Tichilla (Testour) and Thignica (Aïn Tounga) perhaps following in part the course of the Siliana wadi, therefore Uchi Maius, Thignica, Thugga were certainly west of Fossa Regia. Today, we avail of about a dozen termini cippi from the Vespasian era concerning fines provinciae novae et veter(is) decreti qua Fossa Regia fuit; many unpublished examples were presented recently at the Byrsa of Carthage in the premises of the Biblioteca Moscati, on the eve of the meeting on the “arpentage” de Didon.

As regards the rest of the Empire, we may cite examples of milestones on the [via] a colonia Salonitana ad f]in[es] provinciae Illyrici in Dalmatia with a milestone by Tiberius in 16-17 AD, with the intervention of the vexillarii of the VII and XI legions. Again in Africa, milestones feature several times on the roads that connected the capital with the provincial border, such as the via a Karthagine usque ad fines Numidiae provinciae longa incuria corruptam adque dilap[sa], which we know of in ten examples in the last years of Maximinus Thrax, coming from different locations, in some cases from across the old Fossa Regia. In various areas we also know of the borders of all the Empire, such as those defined by Septimius Severus in his third Potestas tribunicia and by the procurator Pacatianus between the far eastern province of Osrhoene and the kingdom om Abgar. Amongst the most well known termini are those placed in Britannia by Hadrian for his Wall, such as those at Jarrow, close to Edinburgh, dated to 122-126.

The border of Thrace was fixed in the 1st c. AD, for example at Hadarca, Nikolaevka in Moesia inferior; or at Varna – Odessus in 45-100 AD: F(ines) terr(ae) Thrac(iae), defined in relation to the lands of Odessa on the Black Sea in the era of Commodus. That there was necessity for praesidia ob tutelam provin(ciae) Thraciae and in the intervention of the Imperial legatus in order to realise burgos et praesidium as early as 155 under Antoninus Pius is certain thanks to AE 2017, 1264, that testifies to fines col(oniae) Fl(aviae Deult(ensium). At Serdica and per fines [civitatis Tra]ianensium Antoninus Pius in 152 laid out praesidia et burgos ob tutelam provinci(ae) Thraciae: more precisely at Serdica 4 praesidia, 12 burgi, 109 phruri. Curante C(aio) Gallonio Frontone Q(uinto) Marcio Turbone leg(ato) Aug(usti) pr(o) pr(aetore).

Inscriptions tell us of the borders between towns, such as Mustis, where Azedine Beschaouch maintains that the honorary arch was an “arc-frontière” that defined to the west precisely the territory of the colony of Carthage: in fact here, thanks to numerous texts, we know of the termini of the definitio finium in the era of Antoninus Pius between 138 and 161 for the territory of Mustis, determinatio facta publica Mustitanorum.

The same applies to the borders within the provinces, how the variations of the judiciary conditions of the lands confiscated from the Musulamii after Tacfarinas’ war in 24 AD, partially returned to the shepherds in the Trajan era by the legatus L. Munatius Gallus, simply by moving again the termini or better the metae. As regards the Musulamii we know of a terminus of three distinct territories, that met in a trifinium placed in 116 by the legatus L. Acilius Strabo Clodius Nummus, the Musulamii, the inhabitants of Ammaedara and the imperial latifundium: after all, Frontinus spcificies: De positione terminorum controversia est inter duos pluresve vicinos: inter duos, an rigore sit ceterorum sive ratione; si inter plures, trifinium faciant an quadrifinium.

After all, the Musulamii bordered with the colony of Roman citizens called Madauros close to the terminus placed by the legatus L. Minucius Natalis and with land belonging to a private individual, Valeria Atticilla; the border stone was placed by the same legatus of Trajan; another case is in Bosnia inter Sapuates e[t La]matinos. As a mere example we may cite the Suburbures in the borders defined ex auctoritate by Trajan in the Chott El Beida in Numida with the legatus T. Sanius Barbarus : fines adsignti gen[ti] Suburburum. Or ex indulgentia by Hadrian, for the fines adsignati genti Numidarum ad Equizetum by the procurator of Mauretania Caesariensis C. Petronius Celer in 137. The same procurator in the same year, always in Mauretania records the fact that Hadrian had authorised the placing of the termini i[n]ter Regienses et saltum Cu[–]. At Igilgili (Mauretania Caesariensis) we know of the Imperial intervention of 128, with the confiscation of the lands left by the Zimizes to the benefit of the city of Igilgili, with termini placed ut sciant Zimizes non plus in usum se haber(e). How can we forget the reflections of Lidio Gasperini on the border between the Roman municipality of Olbia and the Balari of Logudoro in Sardinia in the first part of the Julio-Claudian era? Balari // Finem / poni iussit / praef(ectus) pr[ov(inciae)] / pas(sus) DLIIII. In Cilicia Campestris at Mopsuestia 40 km from the mouth of the river Pyramus at the end of the 1st c. we know of the activity of the legatus Asprenas, who was occupied with placing in space, terminare, the fines inter Mopseotas et Aegenses, therefore between the territory of the adjacent cities, Mopsuestia and Aegaeae.  In Germania superior we may think of the Teutons cited in the terminus of Miltenberg. No matter how much the authorities attempted to establish the borders, we are certain that there were continuous re-adjustments following usurpation, illegal occupation and sentences, in any case, new situations that profoundly changed the geography.

It is not possible on this occasion to deal with the theme of the limes of the Empire with regard to the Barbaricum, a periphery that became central according to the view of Marco Valenti for Archeologia Barbarica: it is sufficient to say that the theme of the decline and fall of the Empire with respect to the world order is now discussed in favour of new equilibriums in the Mediterranean ecosystems, and the relations this and that side of the barrier, as the limes has been considered up to now, were continuous and intense, and a wealth of Latin epigraphic evidence comes from the Barbaricum, at least a thousand in Clauss Slaby, most of a commercial nature. This is not to say that the attention paid to indicating the extremities of the Empire waned over the centuries: at the start of the 5th c. AD Arcadius, starting from the second Rome is said to have stated “We have placed termini at Constantinople mostly with signs and symbols. In a ditch we built them with cement and sand, and placed charcoal below. In the same overseas provinces we also placed stone termini, and on the same wrote the names of the fundi, so that one may research their dimensions as the authors established in Book XII, using the types of letters that are valid the world over”, therefore both in the Latin world and the Greek world.

If we leave the Empire, we must first of all highlight how numerous the finds from the classical era are, for us inscriptions, that have been transferred to museums very far away, well beyond the ancient world, such as MASP, the Museum of Art of São Paulo, in Brazil, or placed in public and private collections; if instead we speak of veritable finds, we can start off from the inscribed instrumentum spread the worlds over, for example as far away as the distant Mathura in central India. Epigraphy that is found in very distant areas testifies to the arrival of Greek and Roman culture in these localities. Apropos of this, I will now deal just with some inscriptions from Azerbaijan, such as the dedication to Domitian by a centurion from the legio XII Fulminata at Qobustan Qorogu on the western bank of the Caspian Sea. There is also the much discussed case of the Greek and Latin rock inscriptions in the caves of Kara Kamer in Uzbekistan on the Silk Road beyond the Caspian Sea recently studied by Yulia Ustinova of the Ben Gurion University, who even thought of a Mitraeum of the legio XV Apollinaris. Epigraphy, and not only, sometimes risks bordering on the romanticized myth, due to anxiety, irrational efforts to try to find what one is looking for, e.g. the Latin texts in Central Asia, as was rightly observed by David Baund, following the instructions about the necessity to relaunch the ancient Chinese “Silk Road”, according to a blueprint traced out by President Xi Jinping.

Corridors of penetration into the Empire are known also in Britannia under the control of the Astures and the Mauri, Germania and in Africa as in the gorge of El Kantara – Calceus Herculis in Algeria under Settimius Severus, with its 65 inscriptions, some dedicated by the numerus of the Severian Palmyrenes to the god Malagbel, the god of travel in the east, which appeared also at Castellum Dimmidi, with its 78 inscriptions that testify to the vitality of a fortress that controlled the caravan route that crossed the Fossatum Africae, a frontier that faced the Sahara, but that was not closed, but rather porous, as is testified to by the rich customs records recently studied also in relation to other geographical situations; thousands of immigrants were filtered towards the urban slave markets.

In Numidia we know that Gordian III in his fifth year of Tribunicia [summa ae]quitata{e} s[ua] provi[nciae et gentium fines direx]it per T(itum) Iulium Antioc[um leg(atum) Aug(usti) pr(o) pr(aetore)], at Dusen. After all, we know of the fines, the consecrated spaces, of cities and temples, such as in the temple of Augustus of Narbo Martius in the lex flamonii perpetui.  There were then the territories that were disputed amongst local populations and immigrants, such as the fines that were clearly marked on the cadastral maps conserved in the tabularium provinciae, improperly kept by the local Galillenses and instead assigned for centuries to the Patulcenses of Campania in the sentence by the proconsul L. Helvius Agrippa, registered in bronze on the Esterzili sheet in Sardinia in the era of Otho.

There has recently been a UNESCO candidature for the limes in Dacia and on the Eastern Danube, in Romania at Cetatea Beroe – Ostrov for example, or in Dinogetia – Garvan in Dobrugia, in Bulgaria at Durostorum-Silistra or at Dimum-Belene, in Serbia at Cuppae-Golubac or at Diana-Davidoovic) and in Croazia, at Pogan or at Dragojlov Brijeng: the tropaeum Traiani of Adamclissi in Scythia Minor represents the Imperial policies of Trajan in 109 AD in a three-dimensional manner. An exemplary case of cultural exchange beyond the limes is represented by the transfer ordered by Diocletian of the Carpi from the Barbaricum in Pannonia: leading on some decades later, Ammianus Marcellinus (Storie, XXVIII 1,7) narrates of a person belonging to this people who was able to interpret the flight and song of the birds, the augurales alites and the oscines, the prophetic birds, and precisely thanks to these traditional ornithomantic skills was able to predict a future full of success for the son Maximinus, but at the end death by execution. We know a lot about this Maximinus, who had been only very recently romanised, born in Sopianae a town in Valeria (today Pécs in Hungary), who under Valentinian and Valens governed Corsica and Sardinia with the title of praeses, arriving at the prefecture of the praetorium of Gaul in 371.

Flavius Maximinus is known to us as a result of the milestones on the main roads of Sardinia, cornerstone of the system of cultivated land, amongst the most recent to have been discovered. Here he met a Sardinian wizard, who he later killed in a treacherous manner, who was very skilled at re-evoking the evil souls of the dead and asking spirits for omens: these were themes that occurred repeatedly in the numerous defixiones in the island. As long as this person was alive, Maximinus, afraid of being betrayed, was mild and compliant towards him. What is striking is the connection between the different sources and the epigraphic sources, telling us of the aristocratic background of the governor, Flavius, and our historical-literary sources that illuminate us on aspects that have recently been of interest to anthropologists and scholars of the history of religion. We may conceive a long and contradictory upheaval of the “world order” in the Late Antiquity period, a swift change in the protagonists over the centuries, a complexity that is enriched but does not forget, with continuity and new functions, such as at Volubilis in 655 AD on the occasion of the 616th year of the Tingitana province for the epitaph of Iulia Rogativa de Altava. Or at Pomaria in Caesariensis (Tlemcen) for the epitaph for Val(erius) Emeritus in 633 AD, for the 597th year of the province.

In fact, we may envisage ever more detailed reflections in the future concerning the plurality of identities, without forgetting Amin Maalouf and Les identités meurtrières, if indeed “ethnic identity is situational, constructed, negotiated and always fluid, but since relations of power and social inequality leave clear material traces, the same occurs in relation to this” (Marco Valenti): in the background there is the theme of hegemony in Gramsci, a theoretician of the complexity of the processes of transition and of the processes of transition in complex, intricate societies, of various levels of advancement; certainly there is inheritance and transformation, even though I refuse to adopt in the Italian language the schematic, cursory and misleading category of “meticciato”.

The fundamental importance of the fines municipii for any kind of economic or judicial activity is referred to in the lex Irnitana (El Saucejo / Irni) with regard to the activities of the IIviri, of the decurions, of the tutors of pupils of both sexes, for the carrying out of debates qum in eo municipio intrave fines ei{i}us municipi(i) erit causa cognita, with ten days of deferral; as both the municipes and the incolae may act judicially to place the case within the municipality: [Qu]i eiu[s] municipi(i) municipes incolaeve erunt q(ua) d(e) r(e) ii inter se suo alte/[r]iusve nomen(e) qui municeps incolave sit privatim intra fines eius / [mu]nicipi agere petere persequi volent.

We possess precise indications as to the recognition of rights over the agri, which are defined with exact borders: fines agros vectigalia eius municipio; about the economic agreements that are valid if pacti erunt dum intra fines eius municipi(i). These are themes that return in S.C. de Cn. Pisone Patre of 20, El Saucejo / Irni, a patre divo Aug(usto) Cn(aeo) Pisoni patri donatus erat reddi cum / is idcirco <d=P>ari eum sibi desiderasset quod quarum fines hos saltus contin/gerent frequenter de iniuri(i)s Cn(aei) Pisonis patris libertorumq(ue) et servorum / eius questae essent. And already the Lex Ursonensis, Osuna, in the era of Caesar (44 BC) ordered: ne quis intra fines oppidi colon(iae)ve qua aratro / circumductum erit hominem mortuom inferto. Si qu<a=I>s vias fossas cloacas IIvir aedil(is)ve publice / facere inmittere commutare aedificare mu/nire intra eos fines qui colon(iae) Iul(iae) erunt volet / quot eius sine iniuria privatorum fiet it is face/re liceto. Quae viae publicae itinerave publica sunt fuerunt / intra eos fines qui colon(iae) dati erunt quicumq(ue) / limites quaeque viae quaeque itinera per eos a/gros sunt erunt fueruntve eae viae eique limites / eaque itinera publica sunto. natus erit qui in ea colon(ia) / intrave eius colon(iae) fines domicilium praedi/umve habebit. Qui limites decumanique intra fines c(oloniae) G(enetivae) deducti facti/que erunt quaecumq(ue) fossae limitales in eo agro erunt.

As we have already seen, inscriptions often mention military events: the unpublished inscription from the Severian era that takes us beyond the limes, to el Bayath and cites one of the many incursions of the Bavares on the North African coast, was discovered not during a proper archaeological excavation but when the ground was being dug for construction purposes, as has happened in many other localities in the Mediterranean. Such operations have profoundly changed the state of the places, by way of intensive digging and radical restoration. The cases can multiply and are often in relation to bloody wars such as that in Libya, where in the post-Gheddafi period there has been great instability and a huge military crisis that have had an immediate effect on the archaeological heritage, on the museums, on the ancient sites, and also, it goes without mentioning, the infrastructure, the ports and airports.

The picture painted by Pau Bennett and Graeme Barker (Protecting Libya’s Archaeological Heritage) up to the death of Col. Muhammar Gheddafi which took place on 21st October 2011 is today completely out of date, even though it is true that the Antiquities Department in Libya for years had few means to avail of, perhaps due to the contradictory sentiments of post-colonial Libya with respect to the past. The second civil war, which was waged from 2014 up to the peace process that started last year, caused considerable damage to the Libyan economy and saw a slump in oil production; the activities of IS, first at Derna, and then at Sirte, the weakness of the government of national unity and the siege of Tripoli all contributed to a general framework of widespread instability that provoked the abandonment and pillaging of some territories. In the last issue of the journal “Libya antiqua” we published the mosaic inscription of Henchir Banis – Tarhuna, which had been severely damaged by the passing of military vehicles. The scene depicted in the mosaic seems one that was well known to Greek painters: that set on the island of Skyros, at the court of Lycomedes, the king of the Dolopians, with Achilles in female attire, virginis habitum occultatum. Deidamia offers him his son Neoptolemus Pyrrhus, who was perhaps to follow him to Troy.

In the same area, controlled up to a few years ago by General Khalīfa Belqāsim Ḥaftar, we see how the passing of tanks severely damaged a Late Antiquity fortified structure, a gasr, built upon an open farm of an earlier date: in 2020 all of this was subjected to clandestine excavations.

There remains the majority of the threshold and the door-jambs of the main door to the gasr of the Late period, all of which is completely buried; on the right, during late reutilisation an inscribed stele has been placed, while on the opposite side a threshold has been reused. The walls flanking the entrance are still relatively well conserved, but the structure underwent an out-and-out pillaging in recent years, due to the treasure hunt conducted by clandestine operators, leading to widespread damage to the structure. The stele is an example of sculpture inscribed by a Punic craftsman, Masof, almost certainly belonging to a local workshop: it may be described as a elongated stele with tabula epigraphica ansata on the top and bottom, at the centre there is a well-crafted eight-leafed rosula in relief. This presents a panel inside of which is inserted the text bearing the name of the dead person, a Roman citizen, honoured by two sons. The D(is) M(anibus) on the side triangles is missing. From the point of view of the technical realisation, it is clear that the artefact was created in two distinct moments: the tabula epigraphica and floral decoration in a first phase; in a second, the inscription of the name of the sons and the artifex, all very interesting and which adapt to the available text: Monume/ntum C(ai) Vale/ri Romani, qui (et) / Amas Valath qu/od fec(erunt) fili(i) eius / Fronto et Acavas (.) / Artifex Masof.

We have several times reflected on the efforts and results of epigraphic research campaigns carried out by many pioneers in war zones: it is above all thanks to them that our view has been able to extend over an extraordinary expanse of territory and geography, in the three parts of the Roman ecumene, Africa, Europe and Asia, with a widening of horizons and perspectives that allow us to overcome the narrow view of the Mediterranean sea, mainly based on a Nord-South axis, and to remember what the official bilingualism of the Roman Empire actually was. These are the words of Azedine Beschaouch. Africa, for example, has become an essential part of a widened Mediterranean basin, a coastal area that was not isolated, but rather connected profoundly with the continent, finding in the Mediterranean a space for contact, cooperation and should we please to term it so, supra-national integration. For the L’Africa Romana conference at Djerba (the 13th) we studied the theme of pioneers in archaeology, when we thought that the time had truly arrived to observe from a distance the problem of the birth of archaeology and study the history of the archaeological discoveries in the Maghreb, highlighting the errors, ideological stretches, and instrumentalisation of the colonial past, but also re-discovering the figures of those great scholars, be they Europeans or Arabs, pioneers who left sincere testimonies of curiosity, of passion, of interests. These must often be placed within the historical climate in which they lived, frequently in periods of bloody wars, without forgetting a past that in any case continues to be of meaning to each and every one of us. The theme intersects with important political aspects and brings into play above all the relations between Europe and the Arab world.

We cannot fail to contemplate the theme of the difficulties faced in the past by epigraphists in their research in some areas of the Mediterranean involved in armed conflict. I have many examples to be made, many things to be highlighted, many paths to be followed, but I will limit myself to the words of Theodor Mommsen to commemorate, a few years after his death, his young student Heinrich Gustav Klemens Wilmanns, editor of CIL VIII, born in Brandenburg in 1845 (Jüterbogk), professor in Strasbourg in 1872, who was several times unjustly suspected of being a spy: in the following four years, he ran the gauntlet of great dangers and diplomatic difficulties between Tunisia and Algeria, facing the horrors of the African winter and the difficulties and thousandfold dangers of two trips thwarted by nature that was still wild, a consistent French military presence, a few years after that “inexcusable Gallic aggression” unexpectedly ended with the Prussian victory of Field Marshal von Moltke at Sedan and the end of the second Empire with the dethronement of Napoleon III (C. Bardt): regnum Tunetanum peragravit, deinde provincias Africanas iam Gallicanas. Collectos titulos typis excudere coepit: in laboribus superandis periculisque obeundis animi plus solito fortis et constantis. Having fallen sick after his second trip, he was not able to finish the first volume of CIL VIII: today we note the first 4000 files with the expressions in first person, contuli, descripsi, followed by those from Verecunda onwards from n. 4187 to n. 8341/42 that bear the expression contulit Willmanns; the young scholar in reality succeeded in gathering more than 11,000 files up to Djemila. At the age of little more than 30, on his first trip, his physical resilience seems to have increased, but the second trip sapped his strength. When he appeared in Berlin in the summer of 1877, he was a wreck of a man, saevo morbo correptus quamquam ne inter dolores quidem a labore destitit et ad extremum fere plagulis emendandis invigilavit, he died at Baden Baden on 6th March 1878 opere imperfecto. Vitam vixit ut brevem et laboriosam, ita plenam et utilem, civis egregius, magister gnavus, amicis et discipulis carus. Multi Wilmannsium fleverunt immature litteris et necessariis ereptum magnamque cum eo neque unius nominis spem sepelivimus. Truly moved, Mommsen concluded in 1881: infelicis iuvenis tristem hereditatem ego senex adii curavique, ne cum ipso labores eius perirent. Perhaps he regretted some of the malicious things he had written about Charles Tissot to De Rossi, with regards to the inscriptions of North Africa, studied by “all those Frenchmen who prance around Algeria”, who with all their “French chatter” cannot be compared to the promising young German scholars (n. 85)

The impact of the world wars on epigraphic research is well known: we need only look at the simple graph of the number of Greek and Latin inscriptions published on L’année épigraphique in the years between 1911 and 1920 and between 1940 and 1946 to understand the dramatic fall in the publications and the reduction of the excavations, of historical research, of discoveries also hors de l’empire, as a result of the damage inflicted on the territory: a tradition was interrupted, almost to the point of extinguishing that passion for antiquity that animated so many scholars in times of peace; and this was together with the cruelty of war, with the loss of many specialists, and the competition also in the colonies between different scientific expeditions. The same applies for Supplementum Epigraphicum Graecum founded at Leiden in the Netherlands by Jacobus Johannes Ewoud Hondius in 1923, which had reached Vol. XI in 1939. Here the pause was quite long, from 1940 to 1955, when AG Woodhead became editor and curated the volumes from XII onwards. SEG is now at its 65th issue, curated by Princeton’s Angelos Khaniotis along with an international editing team and published by Brill.

We are all familiar with CIL. Allow me to speak finally of the journal Epigraphica, which is now at its 84th volume. This was not interrupted during the war, when it was directed by Aristide Calderini. In the double issue of 1943-44 reference to the fascist era was lost, and it had several double issues, before being directed by Giancarlo Susini. Published since 1888, Bulletin épigraphique has had greater continuity. Théodore Reinach produced it at Villa Kerylos à Beaulieu between Monaco and Nice: it was from this enchanting place that Simone Veil, the future president of the European Parliament was arrested by the Gestapo and sent to Auschwitz. I met her some years ago at the French Embassy, before her death: I have always been struck by the contrast that emerges from her autobiography, between the description of a joyful, tender and happy childhood at Villa Kerylos à Beaulieu between Monaco and Nice, the elegant house/museum of the great epigraphist and archaeologist Théodore Reinach, with the warmth of the family home. On the other hand, there is the narration of the suffering during the war in the territories of the Midi occupied by Italian troops, the arrival of the Gestapo in Nice after the armistice, the descent into hell that was her deportation as far as Auschwitz, where Dr Mengel was in charge of the reception, and all the humiliation that followed. There were however small gestures of solidarity by the very same persecutors. The scornful epigraphy in iron: Arbeit macht frei. There were the Jews in Prague. After the Liberation, in May 1945 there was the desire to be reborn and to rebuild, to find a family. As we know BE was directed from 1938 onwards by Jeanne and Louis Robert and is now curated by Denis Rousset.

To speak of the colonial policies of the European powers: I do not attempt to gloss over the fact that the most serious abuses were carried out by the Fascist colonial policies, defined by Benito Mussolini and by the Savoia family (135), Cyrenaica, in Tripolitania and in the Fezzan by Italo Balbo, to whom the construction of the Arch of the Philaeni in the Gulf of Sidra is to be attributed, so as to re-propose the theme of the arae located in the extreme peripheries of the territory of a colony or of a province, such as the Arae Philenorum between Greek Cyrenaica, and the Phoenician-Punic and Roman Tripolitania in the context of Libya being artificially unified with the Fezzan. There was also the large equestrian statue of Mussolini in front of the Red Castle, the Museum of Tripoli, because “we returned to where we had been before”, with the rhetoric of the benefits brought by Rome, thinking of Agrippa’s map in the Porticus Vipsania and now in the Via dei Fori Imperiali. After all, colonisation justified one’s self-existence with an anti-historical continuity. These are themes that regard us all, that remind us of the commitment we must guarantee today to refer to the past with respect and similarly to approach the safeguarding of our heritage with respect and balance. Nor should we forget the committed anti-fascists amongst the archaeologists, such as Doro Levi, director of the Scuola archeologica Italiana of Athens (Trieste 1898-Rome 1991) and his Greek wife Anna Cosadino (1895-1981).

In recent years I have read much about the relations between war crimes and the destruction of cultural heritage: the schizophrenia of war, the devastation that is inflicted on heritage during the very long, but short century, to adopt Eric Hobsbawn’s framework, up to the disintegration of the Soviet Union and the fall of the Berlin wall on 9th November 1989.

I will certainly not say that we should look back with nostalgia on the times when Berlusconi returned to Gheddafi the Venus of Cyrene or where this was placed inside the Castle of Tripoli, where the Tripoli Bengasi motorway passed, paid for by the Italian ENI: in the first room of the museum was the first Volkswagen, now damaged after what was improperly called the Arab Spring. In reality it was a terrible winter. The dictator was inspired by the story of the Buddhist monk who set fire to himself at the start of the American war. It was the premise for the slow end of a hated regime. Andrea Bruni, Valentina Capradossi and Martina Di Carlo have spoken of the “terrible devastation wreaked by IS on the Middle East”. Palmyra, Nineveh, Mosul and Aleppo are just a few of the archaeological sites that have become sadly famous on an international level due to the irrecuperable loss of historical and artistic heritage. UNESCO has decisively addressed the problem of the new challenges in the notebooks of the J. Paul Getty Trust dedicated to the prediction of risk, to the civil response to crimes against heritage, to cultural genocide, the protection of cultural heritage, conflicts, with an initial move that necessarily involves reference to the Convention for the protection of cultural heritage in the case of armed conflict stipulated in The Hague in 1954 with a successive protocol that specifies how the Interested Parties are committed to guaranteeing the immunity of cultural heritage under protection abstaining, from inscription to the International Register onwards, from any act of hostility towards them. Chiodi writes for UNESCO in the volume on Cultural Heritage and armed conflicts (Challenges and projects in light of war, terrorism, genocide and organised crime) “Cultural heritage belongs to all, a rare case in which every human being should be aware that omnia sunt communia. Italian heritage, that of Cambogia and Syria, belongs to all” (Proceedings of the conference “Cultural Heritage and armed conflicts, natural disasters and environmental disasters. Challenges and projects in light of war, terrorism, genocide and organised crime” held at Consiglio Nazionale delle Ricerche, Rome on 15th November 2013 edited by Silvia Chiodi and Giancarlo Fedeli). Latin and Greek inscriptions along with others are at the same time our archive, our memory, our future. We must all make a greater effort to prevent and resolve conflicts that undermine our very own “plural identities”. We will make just fleeting reference to the horrific attack on the National Museum of Bardo in Tunis on 18th April 2015. The wounds are still open and the Museum is again closed. But la Tunisie restera debout.

The Lebanon is amongst the regions that have suffered the most, above all during the Civil War, when it underwent sacking and pillaging, more in general, all over the Near East, clandestine excavations and supplying the antiques market with artefacts of dubious origin represents a widespread scourge. The most well known and important artefacts and inscriptions, besides being in the museums in the Lebanon (above all in the National Museum of Beirut, but also the Museum of the American University of Beirut, for example), are also held in numerous museums, amongst the most important of which are the Louvre, the British Museum and that of Istanbul, as well as Figeac and the Musée Champollion. In Southern Lebanon the blue helmets now work together with our students.

We have also witnessed devastation in Iraq at Hatra, and at the Museum in Mosul in 2003. In Syria we have seen the destruction of Aleppo. Again in Iraq we saw the pillaging and devastation of the Museum of Baghdad during the operation Ancient Babylonia and the 2nd Gulf War. The history and the rich cultural heritage of Syria, Palmyra, Dura Europos and Aleppo, revealed to the world, from the second half of the 19th c. to the start of the war in 2011, also thanks to the efforts of hundreds of archaeologists, researchers and travellers, is now risking annihilation. Despite the armed conflict and the huge amount of damage, the civic community and the local experts have attempted to save the extraordinary archaeological heritage Syria avails of and continue to do so every day, especially in the zones that are no longer controlled by IS. Nevertheless the risk of pillaging and clandestine excavations is high, such as in the area of the basin of the Upper Euphrates, which hosts such important sites for Syria as Tell Mumbaqa and Tell Shiyukh Tahtani. There are associations that attempt to promote culture amongst the sectors of the civic community to contribute to the protection of sites that are of archaeological interest, the training of personnel qualified for the protection and promotion of cultural heritage, and initiate cooperation with the towns and cities of the region and with all the states in the world. The association ATPA, in collaboration with ICCM ‒ International Committee for the Conservation of Mosaics -, recently undertook a campaign to recuperate a Byzantine mosaic found at the site of Tell Shiyukh Tahtani (close to Kobane) and immediately bring it to a safe place.

One of the UNESCO sites in Syria, Palmyra underwent a horrific attack in 2015 by IS/DAESH, as documented by the images of the Israeli Ofex 16 spy satellite. The Roman theatre next to the Temple of Bel was blown up with dynamite, along with other temples, the tower tombs, the honorary arch, and many other monuments. Numerous inscriptions came from the Temple of Bel in particular, such as those of the two altars dedicated in Aramaic/Palmyrene in 132 (with others in Nabatean, Greek and Latin). But I would like to remember Palmyra for its greatest archaeologist and epigraphist, Khaled al A’sad, who was decapitated on 18th August 2015, after a month of atrocious suffering. We salute our hero with affection, an archaeologist, the director of the Museum of Palmyra and also an epigraphist.

Khaled al As’ad and Cristiane Delplace dedicated an important article to Latin Epigraphy in Revue des études anciennes 104, 2002 pp. 363-400 (Inscriptions latines de Palmyre), later republished in AE in 2002, about 31 trilingual inscriptions in Latin, Greek and Palmyrene referring to the town’s aristocracy, the Empire, the military and funerals: among the trilingual inscriptions was that of Haeranes Bonne Rabbeli f. Palmyrenus phyles Mithenòn dated to the 363rd year of the Seleucid era, hence to 52 AD.

According to the ONG, the National Observatory for Human Rights in Syria, the killing of Khaled al-As’ad, director of the Museum for 40 years, was a public execution, which took place in a square in Palmyra before dozens of people. Then the IS militia members moved the body of the elderly archaeologist, hanging it from a Roman column in the ancient Syrian town, because he refused to reveal the place where the Roman artefacts of the site had been hidden before its occupation by IS, which occurred in the preceding May. Immediately after this event, I wrote in a rush of emotion: “there will always be a place in our hearts for our friend Khaled al-As’ad, the Syrian Archaeologist from Palmyra, barbarically murdered by DAESH in the first days of the ‘Arab Spring’ after a month of torture, perhaps to follow microscopic individual gain, amongst speculation, illegal traffic and grim money-grubbing. IS’s plan with regards to archaeological heritage is now clear: iconoclasm is not new to history and it is not supported by any sincere motivations. There is no longer East and West, Romans or Arabs, Christians or Muslims, if for example in Libya we can can at least one hundred Islamic sites that have been destroyed by DAESH in the conflict between Sciites and Sunnites”: with our friends from Libya Antiqua we presented a list to the international authorities with an appeal sent to UNESCO and to the Arab Centre for World Heritage.

The following year, the orchestra of Marinskij Theatre, St. Petersburg, directed by Valerj Gergiev gave a breathtaking and unforgettable concert.

The Silk Road reached precisely Palmyra and the International Academic Union published the Latin, Greek and Palmyrene inscriptions in Fontes viae Sericae. It is to be borne in mind that China looks to the Mediterranean. I participated in the conference in Beijing at the Italian Institute for Culture (Ambassador Ettore Francesco Sequi) on the Roman discoveries along the Silk Road. The conference was attended by the Hon. L.H. of the Chinese parliament, the archaeologist and cultural delegate, Wang W., the head of the “Academia Sinica”, Gaetano Ranieri, Raimondo Zucca, and the Italian cultural and scientific attaché Plinio Innocenzi. In Beijing five years ago we were surprised by the inscription at the entrance to the Beiwai Chinese University of Foreign Studies. It was in Chinese characters and in Latin, put up in the Maoist period and taken from Cic. De officiis, MENTE DISCERE APERTA, COMMUNI SERVIRE UTILITATI. To me this demonstrates that epigraphy can be adapted to different cultures and to all political leanings.

A lot has happened in the meantime and we have arrived at the recognition of intangible world heritage, with a view to the agenda 2030 and sustainable development. We can merely make fleeting reference to these themes in this sitting, also because yet again war threatens to delete humankind from history, to use the words of Pope Francis: I write in the days of the renewed worried for the Museums of Leopoli and Odessa, while we see the citizens bring to safety the works of art exposed to the bombardments, with an endless war for which a justification cannot be found, a war that casts a shadow that is ever longer. It has been written that: “The mission of art and of culture has always been, and still is, above all after the horrors of the 20th century, that of teaching people to experience the suffering of other people as their own, to understand that there is no sole idea, even the greatest and most sublime, that is worth a human life. We can already say this today: yet again culture and art have failed in their mission” (Lev Dodin, the great Russian theatre director, director of Malyj Teatr, in Liberation). If only the belligerents who in these days have reached the nuclear power plant of Zaporizhzhia could come to their senses, the letter Z painted on the tanks meaning Za pobedu, could turn into a victory, not in a military sense, but for international diplomacy, reason and humanity.

Let me finally commemorate Frédéric Leclerc-Imhoff, who died in Sieverodonetsk, at the end of May, with Bordeaux in his heart.




Il portolano stintinese.

Il portolano stintinese

Questo è un libro destinato soprattutto a chi ama il mare della Sardegna, ai marinai, ai pescatori, a coloro che osservano l’isola con gli occhi incantati di chi riesce a scoprire ogni giorno qualcosa di bello da ricordare nelle giornate invernali e da raccontare: una ragione in più per poter ritornare, per rivedere gli amici, per percorrere le rotte più care lungo le coste dell’Isola del sole.

Antonio Diana dopo i volumi dedicati al tempo della memoria, dopo le cartoline d’epoca e le immagini antiche di Stintino, ora ci rivela una conoscenza incredibile e di dettaglio sui mille luoghi di un territorio che va dalla Punta dell’Argentiera fino allo stagno di Pilo, nell’area nord-occidentale della Sardegna, comprendendo un accuratissimo periplo marino dell’isola-parco: gli antichi ritenevano che Ichnussa fosse quasi l’impronta del piede destro di un dio e che l’alluce andasse dal promontorio Gorditano (connesso alle Gorgoni dell’estremo occidente) fino all’Isola di Ercole: il primo è identificato  con il capo Falcone ed è citato due volte dal geografo Tolomeo, vissuto ad Alessandria d’Egitto nel II secolo d.C., sulla costa occidentale e la costa settentrionale, dunque proprio al limite tra i due litorali. L’alluce arrivava a comprendere due isole circumsarde. l’Isola Piana (Diabate) e l’isola di Eracle (l’Asinara), tutti punti anticamente collocati a meno di 30 gradi di longitudine dalla più lontana delle Isole Fortunate (le Canarie).

Un secolo prima il naturalista Plinio il vecchio nel terzo libro della Naturalis Historia precisava: Gorditano promontorio duas insulas quae vocantur Herculis.

Correggendo un poco Tolomeo, noi oggi sappiamo che l’errore dei pionieri greci era trascurabile e che il punto più occidentale della Sardegna è in realtà un po’ più a sud rispetto al promontorio Gorditano, cioé al Capo dell’Argentiera nella Nurra, un lungo sperone di roccia scistosa con le pareti a picco sul mare: da qui inizia un percorso marittimo dettagliatissimo, risalendo la costa dopo aver superato il Golfo delle Ninfe (Porto Conte), Capo Caccia e l’Isola delle Ninfe (Foradada), luoghi che nel nome rimandano a miti greci relativi alla navigazione nel Mare occidentale, alla scoperta di un mondo pieno di mistero, illuminato dalla fiaccola del dio Forco-Nettuno, oltre il confine più estremo per la navigazione. Qui la terra finisce e il mare comincia come a Cabo da Roca in Portogallo (aqui… onde a terra se acaba e o mar começa), sul Promontorium Magnum che si affacciava sull’Oceano, a Nord della foce del Tago: il punto più occidentale dell’Europa, con le celebri dediche al Sole del tramonto, all’Oceano padre, alla Luna.

In questa tratto della costa sarda è il tramonto che caratterizza il paesaggio: qui erano venerate le ninfe protettici della navigazione nel loro antro marino, e poi Ermes-Mercurio giunto dalla lontana Iberia, dall’isola della madre di Mercurio Erizia a Cadice, oltre le colonne d’Ercole; e poi Iside pelagia con la fiaccola in mano per incoraggiare i naviganti a superare il buio della notte; le stelle ad iniziare da Sirio, l più luminosa, che orientava i marinai nelle notti senza luna. Infine soprattutto Ercole, l’eroico semidio, che dava il nome all’isola dell’Asinara e nella stazione stradale di Ad Herculem, forse in Cuili Ercoli a Nord di Fiume Santo. Luoghi che conoscevano la violenza del mare investito da Nord-Nord Ovest dal Circius, originato alla foce del Rodano a Marsiglia, ossia dal Maestrale del Golfo del Leone; talora anche luoghi ridossati e protetti da una costa che cambia orientamento in continuazione rispetto ai punti cardinali, tra mare di dentro e mare di fuori.

Significative sono le diverse versioni dei toponimi nelle diverse lingue e nelle varianti documentate dalle fonti soprattutto Ottocentesche con una moltiplicazione dei dati presentati da Emidio De Felice sessanta anni fa (La Sardegna nel Mediterraneo in base alla toponomastica costiera antica).

La presenza in tempi lontani delle foche in questi litorali aperti non è documentata solo nella Grotta del Bue Marino nel litorale orientale della Sardegma a Dorgali ma anche nella spelunca bovis a Capo Marrargiu, e, nel settore geografico studiato in questa sede, a Lu Biggiu Marinu di La Nurra (a Musu de poshciu) presso Capo Mannu; oppure a Li Grutti di Lu biggiu marinu alla base di Capo Falcone presso la Valle della Luna. Del resto già nell’antichità molte leggende marinare parlavano di mostri marini in quest’area della Sardegna, i favolosi “montoni marini”, identificati con l’orca gladiator che secondo Claudio Eliano (all’inizio del III secolo d.C.) trascorrevano l’inverno nei paraggi del braccio di mare della Corsica e della Sardegna, accompagnati da delfini di straordinarie dimensioni, impegnati a dare la caccia alle foche con altri cetacei. E come è noto le foche costituivano il corteo che accompagnava il dio Forco e la sposa Ketos, madre di Medusa regina di Sardegna, una delle Gorgoni. Noi sappiamo che la riflessione mitica era fondata su una profonda conoscenza naturalistica da parte dei marinai greci intorno alle rotte dei cetacei e più in generale dei mammiferi che frequentavano (e continuano a frequentare) i mari collocati tra Sardegna settentrionale, Corsica, Liguria e Toscana, entro quello che oggi si chiama il “Santuario per i mammiferi marini”, ampliatosi a livello internazionale anche lungo la costa occidentale dell’Isola.

In queste pagine torniamo ad apprezzare la luce, il sole dei nostri giorni e vediamo scorrere attraverso le fotografie e le descrizioni dell’autore i promontori (Cabu Tagliaddu), le calette (Coscia di donna), gli isolotti (Zia Teresa, l’isola dei Porri, Lu Pizzinnu, Bosincu, Lu postlu Mannu, Agnadda), gli scogli individuabili per la loro forma o per il loro colore (Lu maili canu), le secche ricche di saraghi e dentici ma pericolose per la navigazione (Li Cavaddi), le spiagge, le foci dei fiumi, gli stagni, le grotte (Li Gruttazzi), le torri spagnole (la più spettacolare quella della Pelosa sull’Isola Piana o quelle dell’Asinara), i fari: in questo volume abbiamo una breve descrizione ma anche un dettagliato resoconto sulla possibilità di atterraggio, sui pericoli e sulle opportunità, addirittura sui tesori nascosti, sulla presenza di acqua e di legna; la localizzazione di antiche tonnare (come a La calanca di Lu vascellu) o di luoghi privilegiati per la pesca (Canna Pilu).

Colpisce l’immaginazione e la fantasia dei pescatori che cercano dal mare i loro punti di riferimento sulla costa, gli allineamenti a terra, le mire, i segnali, per ritrovare il campo di pesca più fortunato: l’elefante, il maiale, i gatti, il leone, i lupi, la poppa di una nave; tutte interpretazioni di fantasia, frutto di fervida immaginazione ma anche esperienze reali, come i luoghi effettivamente frequentati dalle capre (La punta de li becchi, Schcianna Crabitti) o da buoi e vacche come a la Cala de li boi ed a Funtana di li boi o a Cala di vacca; anche da cavalli (Lu seccu di li cavaddi), da grandi uccelli, come a Lu Faschioni presso Cala Maccaroni.

Riemergono tanti episodi memorabili, lo sbarco dei Turchi, i naufragi, l’attività di pescatori singoli o associati, le conoscenze geografiche, la costante verifica della posizione delle barche rispetto ai punti cardinali, le paure millenarie come nella valle del diavolo (Lu baddigiu di lu diaulu): ma anche le speranze di salvezza e del ritorno in porto, la devozione religiosa per Maria stella maris protettrice della navigazione oppure per i Santi. Anche antiche abitudini di pesca locali, le nasse, le reti, lu bullu, le canne, il corallo: specialità dei pescatori Ponzesi, Napoletani, Genovesi, come quelli di Camogli provenienti dal levante genovese verso Portofino oppure dalla colonia tabarchina di Carloforte. Tutti temi e curiosità che in qualche modo hanno toccato (penso a Gabriella Mondardini) e sono certo potranno toccare l’interesse degli antropologi.

Non manca un quadro delle attività economiche, la raccolta del sale (Li alippi), le miniere (La calanca di lu ferru), le attività agricole come nelle aie per lavorare il grano (Punta di Agliola), l’allevamento (Lu ziraccu, con il ricordo di un pastore solitario), la carpenteria navale a Ipaimadori, le cave di granito a Li shcalpellini, il complesso delle Tonnare, ancora le preziose saline. Sull’Asinara il ricordo vivissimo della stazione sanitaria del Lazzaretto, a Lu Secundu o a Lu Terzu; e poi i prigionieri di guerra austroungarici o i soldati serbi nel loro commovente ossario.

Soprattutto l’ambiente strepitosamente ricco con la sua biodiversità: la flora, tra i ginepri di Lu Nibaru; gli olivi selvatici come a La calanca di l’agliastroni, gli olivi come a Cala d’Oliva, il gelso a La murighessa; le alghe a La Pilosa oppure a La pagliazzedda o anche a Pazzoni. Ancora più numerosi i toponimi che fanno riferimento alla fauna: Lu Caccioné, il cormorano; Li murineddi, i mufloni, i buoi, i cavalli; i corvi, i falchi di Lu faschioni che ci rimandano a un’altra isola circumsarda, l’isola di San Pietro, nell’antichità conosciuta da Plinio e da Tolomeo come Acciptrum insula – Hierakon nesos, l’isola degli sparvieri o dei falchi. Del resto il tema dei molti e grandi uccelli che abitano questi promontori e questi monti attraversa tutta la letteratura sarda.

E poi i pesci, come a Lu Bugaiolu, a Cala di sgombro, a Cala d’Aluzzu ricca di lucci. I ritrovamenti archeologici (Sthintineddi e Sthintini Mannu. ma anche alla Fossetta Carlofortina), i monumenti come le antiche domus preistoriche (Furreddus), i monumenti nuragici (Unia), le anfore romane, Li Iorri, ad esempio a Cala Reale,  o i castelli medioevali come a Castellazzo sull’Asinara, l’archeologia industriale.

Chiudendo il libro si ha l’impressione non solo di una ricchezza straordinaria di questi paesaggi collocati sull’isola-parco o sul “continente” sardo,  in alcuni punti investiti pesantemente dal turismo a numero chiuso o dal turismo nautico; soprattutto si apprezza il legame che l’autore ha con i luoghi più solitari, la sua ammirazione per la bellezza di questa costa: leggiamo molte cose non dette che sottintendono un collegamento con le generazioni che l’hanno preceduto e che in qualche modo hanno contribuito a lasciarci un punto di vista, un’attenzione piena, un rapporto profondo, un senso di appartenenza che stupisce e commuove.

Attilio Mastino