Inaugurazione della scalinata “Luisa Monti, pediatra”

Inaugurazione della scalinata “Luisa Monti, pediatra”
Bosa 5 luglio 2008
Intervento del prof. Attilio Mastino

Cari amici,

mi è stato chiesto di ricordare Luisa Monti a quattro anni dalla sua improvvisa e dolorosa scomparsa, per rendere omaggio alla sua memoria, ai volontari del pronto soccorso, agli uomini ed alle donne della Croce Rossa e dell’emergenza della nostra città.

Voglio riportarvi ora più indietro nel tempo, a 15 anni fa, quando come Assessore alla protezione civile della Provincia di Nuoro ero stato incaricato di coordinare il settore dell’emergenza e del volontariato. Ricordo le tante riunioni nella sala del Consiglio Provinciale a Nuoro, per creare una rete di associazioni, per scrivere il piano provinciale di protezione  civile, per definire le competenze in caso di alluvione del fiume Temo, del Cedrino o del Flumendosa e per altre calamità.

Luisa Monti era là, sempre presente, capace di suggerire, di stimolare, piena di curiosità, di desideri, di passioni, sempre con una voglia forte di fare e di costruire.

La passione aveva condotto i giovani della Croce Rossa a creare questo spazio all’interno della stazione ferroviaria ristrutturata di Bosa Marina, che non era solo il luogo ove raccogliere le segnalazioni delle tante emergenze, ma anche un centro pulsante di vita, di incontri, di discussioni, di amicizie.
Luisa ci lavorava come volontario del soccorso dal 1989, due anni dopo la laurea in Medicina e Chirurgia conseguita nella mia Università durante il rettorato di Antonio Milella. I miei colleghi medici la ricordano ancora con simpatia e con rimpianto.

Da noi quattro anni dopo la laurea aveva conseguito la specializzazione in Pediatria e quindi l’abilitazione, durante il rettorato di Sandro Maida.

Allora non sapevo che Luisa sarebbe cresciuta continuamente, arrivando a diventare Ispettore Regionale della Sardegna dei Volontari del soccorso  della Croce Rossa Italiana, assumendo progressivamente incarichi nazionali nel Pronto Soccorso e nella Croce Rossa, diventando la protagonista di incontri di studio e varie emergenze.

Ho visitato in questi giorni la sua casa, dove la mamma Antonella Deriu conserva le memorie di una vita vissuta intensamente per gli altri, dove rimane il suo cane, il profumo stesso di lei, che ancora si avverte nelle diverse stanze, nello studio in particolare dove rimangono le immagini straordinarie di un impegno profondo e di una sensibilità che tutti abbiamo ammirato.

Sulla sua scrivania ho consultato un archivio ricco di notizie, i documenti che testimoniano le trappe di una preparazione specifica in tema di emergenze sanitarie che si è sviluppata per oltre dieci anni tra l’Istituto Gaslini di Genova, Jesolo, Riccione, Grado, Torino e soprattutto la Sardegna, con corsi di medicina d’urgenza, di emergenza pediatrica, di pronto soccorso, di rianimazione, una decina in tutto, ma anche convegni e congressi ai quali ha partecipato come relatrice e soprattutto esercitazioni pratiche e simulazioni di interventi, perché sul campo Luisa dava il meglio di se, con un forte sentimento di solidarietà, di partecipazione, di volontariato, sempre con il sorriso sulle labbra, ma anche senza far sconti a nessuno e senza scorciatoie.

Potrei stasera elencare una per una tutte queste tappe, potrei raccontare dei premi che Luisa ha ricevuto negli anni, onorificenze, medaglie, attestati; dopo la morte la clinica che porta il suo nome nelle Filippine oppure la piazza di Serre a lei intestata in provincia di Salerno.

Ma non riuscirei a dare l’idea di quello che Luisa è stata veramente col cuore e con la sua sensibilità verso i bambini.

Tra le sue carte c’è una foto di un bimbo ustionato a Baghdad, c’è la testimonianza viva dell’impegno nel 2003-04 presso il Medica City Hospital di Baghdad nell’assistenza ai grandi ustionati, c’è una lettera del Direttore Sanitario e del Direttore della Croce Rossa Italiana sul lavoro svolto in Iraq dopo la guerra americana in un angolo di mondo che aveva conosciuto solo odio e sofferenza e dove Luisa ha fatto sbocciare il seme dell’amore per gli altri. Le sue capacità professionali come pediatra sono state di esempio e punto di riferimento per gli assistiti e per i colleghi iracheni, come in Albania prima ed in Sardegna poi, sempre partendo dalla sua città, Bosa, che oggi la piange e vuole solennemente ricordarla.

Rimangono tanti messaggi, di amici increduli di averla perduta, con i disegni un po’ naif dei bambini che lei ha soccorso e che le hanno voluto bene.

Un documento dell’Iraqui Institute for Human Rights rimanda al rimpianto per una donna che ha saputo entrare in sintonia con un mondo tanto lontano da noi, sempre dalla parte dei sofferenti.

La Croce Rossa l’ha ricordata per aver sacrificato la propria vita per la sofferenza dei fanciulli del mondo.

Ho letto in questi giorni  anche i ricordi di don Lorenzo, di don Pietro Scanu, di Geronimo Carrreras e di tanti altri ed ho apprezzato le parole oggi del sindaco Paolo Casula: il tema della pace che non esiste senza giustizia, il tema della testimonianza cristiana, che è fiorita nell’Azione Cattolica, l’impegno generoso per gli altri che Luisa ha sviluppato nel mondo sportivo e nel canottaggio, la capacità di dare il giusto peso alla vita, anche nella sofferenza più nera, il tema della fame rispetto ai privilegi ed al troppo che c’è sulle nostre tavole.

Ora che Luisa non c’è più, è nostro dovere asciugare le lacrime e restituire un poco di conforto, dire parole di consolazione alla mamma Antonella, agli amici, alla croce Rossa, perché non morirà chi vive nei nostri cuori.




Erula, La storia e la memoria di un paese della Sardegna, Sassari 2016

Presentazione
in Alessandro Piga, Erula, La storia e la memoria di un paese della Sardegna, Sassari 2016

In questi ultimi anni ho seguito con crescente curiosità e con amicizia la ricerca di Alessandro Piga svolta presso Biblioteche, Archivi e Musei alla scoperta della storia e della memoria di Erula in Anglona, uno dei tanti piccoli paesi della Sardegna: egli si è alla fine potuto giovare della collaborazione di studiosi del livello di Anna Depalmas, Giuseppe Doneddu, Franco Fresi, Mauro Maxia, Carlo Patatu, Vittoria Pilo, Alessandro Soddu, infine di quell’indimenticabile Salvatore Brandanu, di amata memoria, presidente dell’ICIMAR, scomparso ormai da un anno.

Tutti hanno contribuito a quella che non è solo un’antologia fatta di frammenti eterogenei e disordinati, raccolti alla rinfusa, ma che finisce per essere un racconto legato coerentemente dall’autore con una pazienza davvero ammirevole, fino a ricomporre uno specchio profondo e luminoso capace di riflettere l’anima di quello che Fresi chiama “il paese dal vasto orizzonte”, dove <<lo sguardo spazia lontano per montagne rosso-amaranto, colline verdissime, pianori irrigati e vivacizzati da una serie di piccoli e grandi laghi artificiali che mandano riflessi ad ammiccanti nastri di marine>>, verso meravigliosi tramonti che hanno richiamato poeti, pittori, cineoperatori.

La pubblicazione di questo volume conclude questa lunga ed appassionata ricerca ed è motivo di viva soddisfazione per l’autore, per i suoi amici e per tutti i cittadini di Erula, ai quali l’opera è dedicata, con modestia e senso del limite.

Le ricerche sulle comunità locali, quando vengono proposte come materiali di confronto per una più chiara analisi della <<macrostoria>>, contribuiscono a fornire una visione più dettagliata di avvenimenti, di fenomeni e di realtà sociali che di solito sfuggono alle indagini generalizzanti. Pertanto, nella più vasta storia della Sardegna, dove le diverse aree ed i diversi centri costituiscono tessere di un ampio e differenziato mosaico, armonicamente elaborato come insieme socio-culturale, si colloca, con caratteri peculiari e con una sua dignità, la <<microstoria>> di Erula, il paese collocato sul Coghinas presso il lago artificiale, al piede meridionale del misterioso Monte Sassu con i suoi banditi, le sue tragedie, le sue vicende lontane; alle porte dei monti della Gallura, con al piede la chiesa romanica di Santa Vittoria di Perfugas consacrata il 3 aprile 1120 da Nicola vescovo di Ampurias. Sempre indicando i caratteri peculiari e una autentica dimensione umana all’interno della più vasta storia della Sardegna. Una <<<microstoria>> di una comunità che nel corso dei secoli ha mantenuto un’identità ed un forte legame con i valori tradizionali portati in questa transumanza dai monti d’origine.

L’assenza di una monografia su questo territorio, fortemente caratterizzato sul piano ambientale, ricco di sorgenti e di acque, era da tempo sentita, sia per la necessità sempre più evidente di riordinare il materiale sparso di una storia che solo in parte è possibile documentare, sia per le difficoltà obiettive che un lavoro che abbraccia circa trenta secoli e che spazia dall’archeologia all’etnografia ed alla sociologia comporta per lo studioso specializzato in un settore specifico. Dunque Erula con questo caratteristico insediamento sparso per stazzi secondo il modello di popolamento tipico della Gallura d’origine, tra Sa Mela (con Brandi Mela e Oltana), Sa Inistra, S’Iscala, Su Frassu e Carra Casu (con Lumbaldu, Falzittu e Sas Tanchittas), Cabrana, Tettile, Su Muntiju de s’omine, San Giuseppe, Su Frassigheddu, Oluitti, Su Monte ‘e Mesu, Pubattu, Basile, luoghi che evocano nella memoria antiche escursioni, importanti testimonianze archeologiche legate all’identità della Sardegna, come a Sa Pedra Iscritta, che ci ha restituito il 140° miliario della via romana che arrivava dalla lontanissima Karales.

Alla vigilia delle celebrazioni per i 30 anni dall’istituzione del comune autonomo staccatosi da Perfugas il 13 luglio 1988, questo volume ricostruisce l’economia, la società, le leggende, le tradizioni popolari, le conoscenze profonde, la lingua gallurese “dolce”, le controversie per la proprietà della terra, le professioni come quella dei mugnai, l’emigrazione verso l’Argentina, i personaggi illustri, le guerre e i combattenti; oggi la biodiversità di un ambiente naturale ricco di flora e di fauna, la longevità dei residenti. Raccoglie le testimonianze dei viaggiatori e degli studiosi, si allarga al resto dell’Anglona, a Perfugas, Chiaramonti, Tula, racconta l’attività della compagnia barracellare, dei sindacati, delle associazioni, delle società sportive, di un mondo fatto di relazioni e di incontri.

La navicella nuragica del nuraghe Spiena conservata al Museo Nazionale di Cagliari e riprodotta sullo stemma del nuovo Comune rende bene, con l’immagine a prua della protome di cervo col muso allungato, l’idea di una Sardegna profonda, ricca, attenta ad un ambiente che vorremmo sempre più rispettato e protetto: la navicella ci restituisce prodigiosamente il senso di un gusto artistico, di uno stile originale, di una forza dirompente che ci trasmette la sensazione di una eleganza e di una bellezza che ci appartiene; legando insieme il mare oltre la vallata fluviale e l’ambiente naturale fatto di una montagna popolata di cervi e di altri animali favolosi.

Vent’anni fa, presentando a Tula il volume di Mario Boninu e Stefano Flore, Tula, Retrattos e ammentos, Chiarella Sassari (8 gennaio 1994), avevo parlato di <<un  “luogo” senza confronti,  un territorio composto da un paesaggio di monti e di campagne, una campagna selvaggia e variata, un incredibile paesaggio inciso dal fiume, con sullo sfondo il lago; un paese legato alle sue tradizioni pastorali così come alla vita agricola della vallata,  oltre la quale si scorge  l’arco tracciato dal Coghinas>>.  Oggi, scorrendo queste pagine e osservando queste immagini, rinnoviamo una riflessione che può consentire di avviare concretamente un discorso sul passato e sulla storia di una comunità quanto mai ricca di tradizioni civili e di stimolanti fermenti culturali, alla ricerca di informazioni nuove offerte generosamente con l’intento di ricostruire un’identità che sia davvero il motore dello sviluppo.

Attilio Mastino
Università di Sassari, Natale 2016.




Presentazione del volume di Mario Boninu e Stefano Flore.

Attilio Mastino
Presentazione del volume di Mario Boninu e Stefano Flore,
Tula, Retrattos e ammentos
, Chiarella Sassari
Tula, 8 gennaio 1994

Cari amici,

ho accolto con piacere l’invito manifestatomi dal sindaco di Tula Antonio Obino e dall’amico Stefano Flore di presentare oggi questo bel volume dedicato ai Retrattos e ammentos, ai ritratti ed ai ricordi di un paese che cerca con affetto il proprio passato: l’opera, pubblicata dall’editore Chiarella di Sassari in una splendida veste tipografica, contiene 165 immagini rigorosamente selezionate, molte delle quali raccolte dal Comune di Tula in occasione della mostra organizzata cinque anni fa; le immagini sono state commentate negli articoli a firma di Mario Boninu, di Giovanni Maria Demartis e del parroco don Eugenio Cocco, con una serie di informazioni inedite e sorprendenti sulla storia del paese.

Una storia che, va detto subito, è una piccola storia, una microstoria, che però si presenta con una sua dignità, con caratteri peculiari e con una autentica dimensione umana all’interno della più vasta storia della Sardegna. Una storia di una comunità che nel corso dei secoli non si è mai persa, che ha mantenuto un’identità ed un forte legame con i valori tradizionali: e credo che questo sia poi il dato che emergerà con più evidenza dalle cose che dirò.

In realtà – ha scritto Stefano Flore nell’introduzione – «questo libro non è nè vuole essere una storia; semmai tante piccole storie quotidiane di vita comune e lavoro, inserite in un percorso di immagini recuperate e ricomposte con cura per rimettere in gioco, oltre al sentimento, il grande patrimonio documentario dei valori della comunità tulese».

Non ho bisogno di presentare Stefano Flore, che ho visto lavorare per altre mostre e per altri volumi e che ha dato un contributo fondamentale per rendere leggibile un materiale fotografico non sempre di buona qualità, sicuramente ingiallito dal tempo ed ormai quasi illeggibile: l’ho visto all’opera del resto per il volume su Bosa nel passato, La città, la gente, il paesaggio tra ‘800 e ‘900, volume ugualmente in via di pubblicazione, frutto di una lunga ed appassionata ricerca, nel corso della quale sono stati recuperati documenti che sembravano definitivamente perduti.

Quando gli amici dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Tula nel 1988 iniziarono a muoversi per raccogliere le fotografie storiche di Tula alla fine del’Ottocento non pensavano certo che sarebbe stato possibile acquisire una documentazione così abbondante e significativa, per illustrare la storia di uno tra i paesi più caratterizzati della Sardegna, un paese singolare, tra Monteacuto ed Anglona,  un  “luogo” senza confronti,  un territorio composto da un paesaggio di monti e di campagne, una campagna selvaggia e variata, un incredibile paesaggio inciso dal fiume, con sullo sfondo il lago; un paese legato alle sue tradizioni pastorali così come alla vita agricola della vallata,  oltre la quale si scorge  l’arco tracciato dal Coghinas.  Al di là dei discorsi e delle sterili dichiarazioni di intenti in questo caso c’è stato l’impegno concreto di un gruppo di amici e di appassionati che hanno voluto dare un contributo per chiarire tanti aspetti della vita di Tula alla fine dell’Ottocento, un periodo cruciale nello sviluppo urbanistico, culturale ed umano del paese.

Non si è fatto però allora l’errore – purtroppo assai frequente –  di mitizzare il passato di questo paese, ricercando le immagini oleografiche di paesaggi incantati o raccogliendo le  rappresentazioni parziali di  una realtà mitica ormai scomparsa.

L’Amministrazione Comunale aveva cercato di illuminare una tematica se vogliamo meno nobile ma più profonda, quella del lavoro e dell’organizzazione sociale, una materia che putroppo è rimasta fin qui ai margini dell’attenzione di specialisti e di storici. La protagonista principale di questo volume è dunque la gente di Tula nella sua vita di tutti i giorni: i ricchi proprietari, ma soprattutto la gente comune. E allora ecco le immagini che parlano dei pastori, dei contadini, degli artigiani, dei muratori, delle donne, dei giovani, dei tanti emigrati. Ecco le fotografie che raccontano una vivace tradizione di associazionismo, che risale a ben oltre l’Ottocento: la banda musicale, l’orchestrina, i militari in congedo, la società operaia, le confraternite, il Comitato di Sant’Elena, gli studenti, le associazioni cattoliche, i gruppi sportivi. E ancora le feste, i momenti di socializzazione e di incontro, legati alle fasi arcaiche e più tradizionali del lavoro, la tosatura, la macellazione del maiale,  la mietitura, la pigiatura dell’uva: e poi i pranzi nunziali, le scampagnate, le gite in barca sul lago, l’arrivo del circo Zanfretta. E ancora il mondo del lavoro, con la fatica di tutti i giorni: i mestieri, il falegname, l’artigiano, il fabbro ferraio, il muratore, il contadino con l’aratro e con la sua capanna circolare, il pastore impegnato nella mungitura, il netturbino con il suo carretto trainato da un mulo;  e ancora le donne, che lavano al ruscello, che tessono la lana ed il lino, che lavorano il pane, che fanno lavori di cucito, con l’arcolaio, che preparano cestini con il giunco. Tutto un mondo che vediamo nel tempo crescere, migliorare, arrivare ad una dimensione più vicina a noi, superando i disagi del passato.

Dalla lettura complessiva di questo volume e di queste immagini emerge un quadro a tinte forti di una realtà per tanti versi differente da quella di oggi, fatta di difficoltà, di sacrifici, di povertà, ma anche ricca di continue occasioni di solidarietà e di confronto, con una vita familiare più ampia e più partecipata.

La fotografia dunque può essere ora una fonte per scrivere la storia, uno strumento nuovo per una ricerca storiografica più attenta alla realtà sociale ed alle condizioni di vita della gente. Non può non osservarsi dunque che a Tula dovettero operare alcuni fotografi molto abili, di cui non credo ci sia rimasto il nome: li vediamo all’opera nei momenti importanti della comunità, con i loro arcaici apparecchi in legno a fuoco fisso, con i loro sfondi ed i loro panorami artificiali su tela spesso logori, per tentare di dare un’immagine più gradevole dei clienti orgogliosi di essere ritratti. Quando si è lontani da Tula, si cerca poi di farsi ritrarre eleganti, ben vestiti, come uomini e donne di successo, anche grazie a dei fotomontaggi che ritraggono i militari impegnati nei salti ad ostacoli a cavallo; oppure gli emigrati che vogliono inviare alle famiglie d’origine un messaggio tranquillizzante, di un successo ottenuto in America o nei paesi dell’emigrazione europea; talvolta abbiamo anche bei fotomontaggi con messaggi d’amore: un romanticismo ed una passione che non avremmo mai sospettato tra la gente dura di questi monti; ma forse la lontananza, la nostalgia, il difficile inserimento in altri ambienti può compiere miracoli.

Questa riflessione per immagini può consentire di avviare concretamente un discorso sul passato e sulla storia di una comunità quanto mai ricca di tradizioni civili e di stimolanti fermenti culturali, alla ricerca di informazioni nuove su un passato relativamente vicino, eppure per noi quasi sempre oscuro.

Tula alla fine dell’Ottocento è un paese ancora con moltissimi problemi igienici: le strade sono quasi impercorribili per il fango, imperversa la malaria causata dagli acquitrini e dal fiume, le disastrose condizioni igieniche e sanitarie suscitano apprensione, esiste un gravissimo problema di rifornimenti idrici, gli animali circolano liberamente per il paese, dalle galline ai gioghi dei buoi, i bambini sono scalzi e malvestiti, anche se non denutriti, la mortalità infantile è molto grave, la densità della popolazione sul territorio non supera i 20 abitanti per kmq., l’analfabetismo è pressocchè generalizzato, le scuole funzionano malissimo, le casupole quasi tutte a piano terra sono spesso malsane ed umide, il camposanto è in condizioni disastrose (diceva l’Angius nel Dizionario del Casalis alla metà dell’Ottocento che «serve per camposanto l’antico cemitero, che trovasi contiguo alla parrocchia e resta fuori dell’abitato; del quale perchè le inumazioni non eseguite secondo le prescrizioni esciono effluvi che contaminano l’aria che si respira»). Solo nel secondo dopoguerra, con l’intervento dell’ ERLAS e con l’irrorazione del DDT verrà eliminata la piaga della malaria nelle zone paludose, segnalata del resto già nei secoli precedenti. Le fotografie documentano il momento dell’arrivo della nuova condotta idrica e della costruzione della prima fontana nel 1914: è la fine della grande sete di Tula, l’inzio per un processo di modernizzazione.

Fu però la costruzione della diga sul Coghinas a dare una svolta decisiva da un punto culturale a questo paese, che le immagini ci consentono di veder crescere progressivamente anche nella sua struttura urbanistica: voluta con l’intento di bonificare la pianura malarica del Campo di Ozieri, la diga ha determinato nascita dell’invaso, con una capacità di 255 milioni di metri cubi ed una superficie di 18 kmq.; essa  ha costretto Tula a sacrificare una parte del suo territorio e soprattutto le sue pianure più fertili; e però la centrale del Coghinas, entrata in funzione nel 1927, fu veramente un’innovazione, se essa fu la prima in Italia ad essere realizzata in caverna con tecniche d’avanguardia. La sala macchine, che immagazzina attualmente oltre 40 miloni di KWh, si trova in un locale scavato entro la roccia a circa 40 metri sotto l’alveo del fiume. La diga, a gravità per caduta, con un dislivello di oltre 100 metri, in muratura di pietrame, è a pianta rettilinea e raggiunge sulla fondazione un’altezza massima di 58 metri, una larghezza al coronamento di 185 metri ed uno spessore che varia dai 6 metri della sommità ai 37 metri della base, con una muratura che ha un volume totale di oltre 100 mila metri cubi. Le foto di questo libro documentano alcuni momenti del cantiere, nel quale hanno lavorato moltissimi operai di Tula, acquisendo una competenza ed una capacità tecnica notevole. Non pochi furono però gli incidenti in corso d’opera, che ci ricordano le recenti tragedie vissute dal paese proprio in questi giorni. Volevo ricordare oggi i nomi di Agostino Masala e di Antonio Migali.

Per il resto, l’economia di Tula è fondata nell’Ottocento sull’agricoltura e sulla pastorizia, soprattutto sull’allevamento di bovini, ben oltre un migliaio di vacche in un territorio relativamente ristretto: osservava l’Angius che «i Tulesi sono in situazione piuttosto comoda per commerciare e facilmente possono portare le loro derrate in Terranova. Vendono capi vivi pel macello alle beccherie delle principali città, i prodotti agrari a’ negozianti d Sassari o di Terranova». Anche l’apicoltura, «proficua a’ pochi che la esercitano», scriveva l’Angius, era praticata alla metà dell’Ottocento: l’abbondanza della macchia mediterranea sul monte di Tula, con il cistio, il citiso, il corbezzolo ed altre specie – sono parole dell’Angius – consentiva alle api di trarre molto miele dai fiori. L’agricoltura produceva cereali, ma anche orzo, fave, legumi; e poi il lino, fino a 1000 cantaretti di fibra ben pettinata; la viticoltura, con l’uva che «non si pigia ne’ cupi, ma entro sacchetti di cannevaccio», tanto  il mosto sommava a 400 cariche. E poi il legname da ardere, il legname da costruzione e l’estrazione del sughero, che vediamo documentata su queste immagini solo indirettamente, con i vasi da fiori in sughero disposti dai fotografi sugli sfondi dei ritratti. Il tutto in un territorio dove la proprietà fondiaria è molto frazionata e i fondi di media non superano i 20 ettari.

Lo sport più diffuso è sicuramente la caccia, che è anche una straordinaria risorsa: le fotografie di questo libro ci mostrano carnieri straordinariamente abbondanti. Alla metà dell’Ottocento ancora l’Angius osservava che «il selvaggiume abbonda massime nelle montagne. I cinghiali sono in grandissimo numero e si trovano anche prossimi alla popolazione, e non si stenta ad incontrar cervi, daini, volpi, lepri ed il porco spino. Gli uccellatori fanno gran preda, massime in certe stagioni, di pernici, beccaccie, colombi, tortorelle, merli, tordi, quaglie, meropi ecc., e nelle acque anitre, folaghe, galline d’acqua ecc.». Più tardi si affermeranno i nuovi sports, il ciclismo prima di tutto con la comparsa delle prime biciclette, e poi il calcio ed il pugilato.

Per quanto riguarda il clima, l’Angius alla metà dell’Ottocento scriveva che questo centro aveva un’aria che non è molto da lodare per la salubrità: e ciò anche se il Monte Sassu protegge il paese dai venti del maestrale e del ponente, il monte Sassittu lo protegge dal libeccio ed i monti della Gallura dalla Tramontana e dal Grecale. Certamente il rilievo, l’alternarsi di ampie pianure, di colline e di aspre montagne, la grande varietà geologica e fisica, hanno influito oltre che sull’economia, sulle vicende umane e sulla storia di un territorio che appare generalmente ostile alle immigrazioni esterne e relativamente chiuso in sè stesso.

Il padre Angius aggiungeva che «i nativi del paese godono buona salute, fortemente temperati alle naturali condizioni del clima: egli è però vero che molti periscono ne’ primi anni, e non tanto per la intemperie del clima, quanto perchè non si bada alla conservazione delle tenere creature, e non si usano le precauzioni, che ragione vorrebbe; il che si avvera, come altrove, massime nella classe più povera».

Una causa della generale situazione di arretratezza è sicuramente da individuarsi nel diffuso analfabetismo e nelle difficoltà incontrate dagli insegnanti incaricati di gestire le scuole elementari: le fotografie di questo volume documentano la diffusione del fenomeno delle pluriclassi, con scolaresche molto eterogenee, con giovani maschi e femmine delle età più differenti. Una situazione che ricorda da vicino quella della metà dell’Ottocento, denuciata da Padre Angius: «L’istruzione elementare ha poco o nulla giovato, perchè forse una trentina di persone in trent’anni hanno imparato a leggere ed a scrivere. I fanciulli che accorrono all’istruzione quando sono in maggior numero non sorpassano la quindicina».

Anche la scuola viene però rinnovata, ma solo in epoca fascista, con la costruzione del nuovo caseggiato scolastico: allora le fotografie documentano l’asilo infantile, le scuole elementari, gli alunni con le divise ordinatissime, e poi nel dopoguerra le scuole di cucito e di ricamo, le scuole serali.

I giovani più intraprendenti scelgono però l’emigrazione verso l’America e quindi verso altri paesi europei: è una diaspora di dimensioni eccezionali rispetto al resto della Sardegna, che impoverirà il paese delle sue forze più vive, ma che a giudicare dalle fotografie non viene vissuta come un dramma o come una sciagura. I giovani emigrati appaiono da queste immagini come ben vestiti, con un’eleganza forse un pò affettata, uomini di successo che lavorano con orgoglio e che sono apprezzati all’estero.

Sul vestiario tradizionale di Tula ha scritto molto bene nel volume Giovanni Maria Demartis e dunque mi limiterò ad osservare che accanto alle forme cittadine, che dimostrano l’esistenza di un ambiente non particolarmente conservativo e relativamente aperto alle influenze esterne, sopravvive per tutta la prima metà del Novecento a livello popolare soprattutto l’uso del costume maschile, ormai senza ragas, ma spesso con il corpetto di velluto scuro chiuso a doppio petto da una duplice fila di bottoncini, accompagnato da una giacca di orbace con cappuccio e risvolti di velluto. Ma sono poi sas berrittas o le barbe foltissime, oppure i baffi, che ci danno il senso di una tradizione rispettata quasi religiosamente, soprattutto a livello maschile. Le donne viceversa appaiono più evolute e sempre eleganti.

Molto significative sono le foto che riguardano il mondo della chiesa e della religione, che ha costituito una parte importante della vita dei cittadini di Tula nel passato, con una radice profondisima rappresentata dall’introduzione, sicuramente in età bizantina, del culto di Sant’Elena, la madre dell’imperatore Costantino, la scopritrice a Gerusalemme della vera croce di Cristo. La chiesa di Sant’Elena, ricostruita dal can. Giovanni Maria Squintu nel 1898, compare sullo sfondo delle cartoline del paese, quasi a segnare un momento di svolta di un villaggio che aveva deciso per la prima volta di pensare in grande e di rinnovarsi. E poi le altre chiese, prima tra tutte N.S. di Coros, lo splendido gioiello di arte medioevale, malamente restaurato, che dimostra non soltanto l’antichità delle origini del paese moderno, che alcuni studiosi collegano addirittura ai Korakensioi di età romana,  ma anche e soprattutto il gusto e la qualità delle maestranze locali nel giudicato del Logudoro: la chiesa, costruita nel XII secolo dai Vallombrosani, fu edificata con pietra cavata nelle cave di Monte Su Sassu ed ospitava un trittico cinquecentesco, di tono popolareggiante, attribuito ad un Gerolamo Pinna ed all’anno 1577. Credo che basterebbe soltanto questa chiesa per rivalutare la nobilità delle origini di questo paese.

Ma si pensi anche alle misteriose rovine di San Pietro che ogni tanto misteriosamente riemergono dalle acque del lago, con i ruderi della antica frazione di Ossuna.

E poi il legame di Tula con Castro, che è essenziale per comprendere la storia del paese, ristretto in confini molto ridotti ed in un territorio di appena 66 kmq., solo il 4% dell’intera Comunità Montana del Monteacuto. Castro è l’altro polo, il luogo sognato e vagheggiato, l’altra sponda, alla quale si giunge in pellegrinaggio a piedi ed a cavallo verso la chiesa di N.S., per Pasqua: Castro fu forse l’antica sede diocesana alla quale doveva appartenere l’antica Tula, poi passata a Bisarcio; un Costantinus de Castra è ricordato come vescovo di Bosa e poi arcivescovo di Torres nel 1073; un Attone episcopus castrensis è noto nel 1164. Tula passa poi alla diocesi di Bisarcio e quindi in quella di Alghero ed infine in quella di Ozieri. Non cessa però il legame di Tula con il territorio di Castro, ormai abbandonato dai suoi abitanti e trasferito nella circoscrizione comunale di Oschiri: ancora alla metà del XVIII secolo gli abitanti di Tula sostengono un’annosa lite con il Comune di Oschiri per il possesso, ha scritto recentemente Giuseppe Meloni, che ci ha fatto l’onore di essere qui oggi con noi, «di alcuni territori di confine costituiti da un territorio vallivo e collinoso ricco d’acque correnti e di alberi di rovere, situato nei pressi di quella che veniva definita la città di Castro».

Le numerose chiese del territorio di Tula sono un’espressione di una forte devozione religiosa, con radici importanti e con una ritualità tradizionale, che rimane profondamente radicata ancora nell’Ottocento e nel Novecento: ecco le fotografie delle tradizioni religiose, delle processioni, delle prime comunioni, del voto a Santa Rita, i canti della settimana santa. O ancora le visite pastorali del vescovo di Ozieri mons. Franco, a cavallo, protetto dai carabinieri regi. Oppure le belle figure dei parroci, con il titolo di vicari, il sac. Antonio Canalis, don Cadeddu, fino ad arrivare al nostro Don Cocco.

Una vera e propria rinascita religiosa parte dopo la seconda guerra mondiale, con le folle che seguono la processione del corpus domini, la chiesa che diventa l’unico punto di rifermento dopo la sconfitta del regime fascista e la fine della monarchia sabauda.

L’andamento demografico della popolazione è stato ben descritto da Mario Boninu, partendo dal censimento del 1846, allorchè Tula contava 926 anime, distribuite in 218 abitazioni. L’Angius faceva un calcolo separato per gli immigrati galluresi, che servivano in campagna, considerandoli quasi dei servi che non facevano parte della comunità: «Si deve poi aggiungere – scriveva l’Angius – la popolazione silvestre di anime 119, distinte in famiglie 23, in case 22, sì che il totale delle anime sarebbe di 1045. Queste famiglie galluresi, che per poter fruire de’ pascoli si avvassallano, come usasi dire, ossia si sottomettono a tutte le gravezze degli abitanti».

La popolazione arriva alle 1400 unità nel 1901, per superare i 2000 abitanti nell’immediato secondo dopoguerra. Attualmente la popolazione di Tula è in calo, fino ad arrivare ai 1707 abitanti del 1991.

A proposito del carattere degli abitanti, citerò solo alcuni giudizi sbrigativi dell’Angius, che non possono non lasciare perplessi: «i tulesi sono gente dabbene, sebbene facilmente irascibili e nell’ira facili ad eccedere, sobri, laboriosi, di buoni modi, cortesi co’ forestieri e buoni vicini colle popolazioni limitrofe, e disposti ne’ bisogni a favorirli ed ajutarli».

Il concetto della laboriosità ho visto che ritorna anche nell’introduzione al volume scritta dal sindaco Antonio Obinu: in realtà l’Angius, descrivendo le campagne di Tula,  distingueva tra l’inerzia dei pastori e la laboriosità dei contadini (che pure producevano solo un quarto del frumento che poteva essere prodotto negli ottimi terreni della valle). «In altri tempi il Sassu era popolatissimo di grandi vegetabili; adesso la selva è in molte parti diradata dal ferro ed in qualche parte dal fuoco. Si trovano mescolate la quercia, il rovero, l’elce con diverse altre specie cedue. In molti siti la vegetazione è di ammirabile prosperità, e fruttifica tanto da restarne soddisfatti i pastori, che di rado si mostrano contenti pur quando la natura benignamente favorisce alla loro inerzia, che meriterebbe perpetue disdette».

E poi il problema dell’insicurezza nelle campagne, della criminalità, a stento contenuta dai Regi carabinieri e dalla locale compagnia barracellare: «in altri tempi – scrive ancora l’Angius verso il 1850 – il monte Sassu era un luogo di asilo pei banditi, dove, riuniti in grosse masnade, riposavano sicuri dopo le loro escursioni, nulla temendo della forza pubblica, perchè questa mancava. Sebbene anche in tempi poco lontani continuassero a frequentarvi; tuttavolta è vero che non vi facevano ordinara stazione, e di rado vessavano i passeggieri». E precisava: «I banditi erano non già tulesi, ma fuoriusciti dell’Anglona ed anche della Gallura».

Come non pensare allora al ritratto, molto negativo, che nel 1769 aveva fatto degli abitanti di Tula un funzionario piemontese, Vincenzo Mameli de Olmedilla: molto inclini al furto del bestiame, nel quale si distinguevano ora come ladri ora come vittime, a causa della vicinanza delle montagne che davano sicuro riparo dopo i misfatti; oziosi a tal punto che la giornata lavorativa del contadino terminava a mezzogiorno, per cedere il posto al divertimento ed al gioco.  A giudizio del pignolo funzionario piemontese, gli abitanti di Tula non avevano senso del diritto, dell’autorità, nè avevano rispetto per i terreni seminati. É sempre il contrasto tra agricoltori e pastori, che è una costante della storia della Sardegna e che vede le autorità sempre impegnate a favorire la sedentarizzazione agricola, perchè ponendo un freno alla pastorizia ed alla transumanza, si pensava di riuscire a tagliare le strutture che  alimentavano il banditismo.

Tula alla fine dell’Ottocento è però anche un paese che è deciso a svolgere un ruolo determinante in Sardegna e nel Regno d’Italia: i suoi ragazzi si segnalano  per l’impegno che mettono nel servizio militare, soprattutto in guerra, nelle colonie, e poi nella grande guerra, sul Carso, e quindi in Abissinia.

E poi la preziosa documentazione sul ventennio fascista, con i balilla ed i giovani in divisa, con i saggi ginnici del sabato fascista, con la preparazione pre-militare e poi la grande sciagura della guerra: prima in Spagna a Saragozza dalla parte di Franco, poi in Libia sul deserto o sul fronte greco-albanese.  E poi il servizio civile nel Monteacuto, come milizia territoriale fascista, quindi come barracelli. Sull’altro versante, quello dell’antifascismo, c’è poi la luminosa figura di Rino Canalis, morto a Roma per mano dei tedeschi, martire delle Fosse Ardeatine.

Mi ha sorpreso anche il numero relativamente alto di marinai della Regia Marina presenti a Tula, un paese che non ha propriamente delle tradizioni marinare, anche se è possibile vedere nelle foto qualche gita in barca sul lago subito dopo la costruzione della diga sul Coghinas, il grande monumento che ha cambiato il destino di questo territorio e l’aspetto stesso della vallata.  Le tradizioni pescherecce di Tula, ricordate dall’Angius non sono del resto molto significative:  «E’ parimente abbondante la pesca ne’ vicini fiumi, principalmente nel Termo, il quale somministra alle mense trote deliziose, anguille grosse e saporitissime nell’autunno, e talvolta anche pesci di squame, il muggine e la boga».

Sono particolarmente interessanti le fotografie che raccontano i successi e le vicende dei tulesi nel corso del loro servizio militare: in finanza, tra i carabinieri, nel 46° reggimento di fanteria che poi diventerà il 152° Brigata Sassari, addirittura tra le giubbe rosse. C’è un orgoglio, una consapevolezza del dovere compiuto, una soddisfazione profonda nelle immagini dei reduci che rientrano dalla guerra alla vita di paese. Tula ha inviato anche i ricchi proprietari, gli esponenti della sua evoluta élite borghese a combattere, come l’ufficiale medico, i tanti cavalleggeri, i marinai. E poi i tanti decorati, i morti in guerra ricordati nel monumento ai caduti inaugurato nel 1929, i feriti ospitati negli ospedali militari, i parenti superstiti che ricevono le medaglie.  Un doloroso contributo di sangue, che ora può essere meglio compreso attraverso queste immagini.

Questa alternanza tra banditismo e necessità d’ordine, tra la resistenza all’autorità costituita e la difesa delle proprietà, tra la libertà individuale e l’esigenza di una pace da imporre con le armi, è una costante della storia della Sardegna interna e di questo territorio in particolare e va molto più indietro nel tempo di quanto non possano documentarci queste immagini, che pure ci fanno riflettere quando vediamo affiancati due fratelli che si tengono per mano, l’uno terribile e minaccioso in costume sardo, l’altro più civile in divisa da fante in licenza premio.

Come non ricordare allora le tradizioni precedenti, come non tornare indietro di due millenni e rileggere la storia di queste montagne, pensando all’età romana ed all’oscillazione tra la resistenza deigli indigeni Balari della regione di Tula e di Perfugas contro i romani da un lato e l’impulso inarrestabile verso l’integrazione culturale dall’altro lato ?

Mi consentirete una piccolissima digressione a questo proposito.

Come è noto nel corso dei lavori effettuati dalla Soprintendenza archeologica di Sassari nell’area in cui sorge la chiesa romanica di N.S. di Coros, presso il cimitero di Tula, sono state individuate negli scorsi anni alcune sepolture romane e sono stati recuperati un piccolo sarcofago ed una stele funeraria romana. Quest’ultimo monumento, recentemente pubblicato dalla mia allieva Paola Ruggeri, contiene l’epitafio inedito di Marcus Iunius Germanus, un signifer, un  portabandiera della coorte dei Liguri, un reparto formato da fanti e da cavalieri, incaricato della sorveglianza della cassa militare,  forse un sardo che ha ottenuto la cittadinanza romana dopo aver combattuto per 18 anni contro i Balari, morendo poi a 50 anni nell’età di Nerone. Il reparto dei Liguri è già noto proprio alla metà del I secolo d.C. grazie all’iscrizione funeraria rinvenuta ad Olbia del veterano Gaio Cassio Blesiano, decurione e capo della cavalleria, sepolto da un Tiberio Claudio Eutico, già schiavo di Atte, la liberta di origine orientale amata dall’imperatore Nerone che aveva ad Olbia estese proprietà e fiorenti aziende.

Ora è probabile che questa coorte di Liguri sia la stessa che poi alla fine del I secolo d.C. è stata fusa con un reparto di Corsi originari della Gallura, costituendo un unico reparto.

Va osservato che le coorti ausilarie erano composte di peregrini privi della cittadinanza romana, dunque inizialmente dei Liguri e poi dei sardi reclutati nelle località in cui il reparto prestava servizio. Non escluderei dunque che Marco Giulio Germano fosse un sardo originario proprio della regione di Tula, inquadrato nella coorte dei Liguri, che doveva avere i suoi accampamenti presso la vicina località di Castro: del resto solo 7 km. separano in linea d’aria Nostra Signora di Coros da Nostra Signora di Castro e dal colle di San Simeone di Oschiri, dove sorgeva l’antico accampamento di Luguido, importante caposaldo militare tra Anglona e Monte Acuto lungo la strada che da Hafa (nei pressi dell’oderna Mores) conduceva a Tibula (in prossimità di Capo Testa), attraversando il fiume sul ponte romano collocato proprio nelle vicinanze di Tula: in questo accampamento debbono essersi avvicendati tre diversi reparti militari,  nell’età di Augusto una coorte di Aquitani poi trasferita in Germania,  più tardi sotto Nerone la coorte di Liguri equitata ed alla fine del I secolo d.C. la prima coorte di Sardi. L’attestazione della coorte dei Liguri a Tula ed ad Olbia va indubbiamente messa in relazione con l’attività svolta dal reparto nell’Anglona e nel Loguroro, a controllo del territorio dei Balari, una popolazione indigena ricordata da Tito Livo in lotta contro i Romani già dal II secolo a.C.: non è escluso che l’altopiano di Su Sassu sia stato utilizzato dai Balari per attaccare i convogli romani che percorrevano sul fondovalle la strada romana diretta verso Nord in direzione di Tibula-Santa Teresa. In questo settore operativo il ruolo difensivo dell’accampamento di Luguido-Castro e delle altre postazioni collocate sulle alture a controllo della vallata del fiume Coghinas deve esssere stato essenziale. Del resto l’occupazione romana del territorio di Tula è sicura già in epoca molto antica, come dimostrano ad esempio la rioccupazione del nuraghe Occultu, le necropoli tardo-repubblicane sulle sponde del Coghinas, i ritrovamenti di Sos Montorzos, di Tuva Ossu, con bolli su lucerne e su piatti del I secolo a.C. A Nord di Tula l’Angius segnalava molti ruderi, con diversi oggetti e fondamenta di edifici, probabilmente d’epoca romana in località Sa Trajada. Per non parlare poi della rioccupazione romana di altri monumenti nuragici nelle vicinanze, ad iniziare dallo splendido nugaghe Burghidu in territorio di Ozieri.

Parlando forse di questo territorio Strabone nel I secolo a.C. sottolineava l’esistenza di un aperto conflitto tra i razziatori delle montagne e gli abitanti delle pianure, sedentari ed organizzati alla romana: «sono quattro le tribù delle montagne, i Parati, i Sossinati, i Balari, gli Aconiti, i quali vivono nelle caverne e se hanno qualche terra adatta alla semina non la seminano con cura; anzi, compiono razzie contro le terre degli agricoltori».  E ancora Diodoro Siculo rilevava che «il popolo degli Iliensi, trasportate le proprie sedi sui monti, abitò certi  luoghi ardui e di accesso difficile, ove assuefatti a nutrirsi di latte e di carni, perché si occupano di pastorizia, non hanno bisogno di messi; e perché abitano in dimore sotterranee, scavandosi gallerie in luogo di case, con facilità scansano i pericoli delle guerre. Perciò, quantunque i Cartaginesi ed i Romani sovente li abbiano inseguiti colle armi, non poterono mai ridurli all’obbedienza».

Con l’età medievale il territorio ha mantenuto un insediamento umano diffuso, entro la curatoria del Monteacuto nel Giudicato del Logudoro, come dimostra il recente importante studio sui villaggi abbandonati di Giuseppe Meloni: in un raggio di meno di 7 km. si possono ricordare ben sei unità di innsediamento, Tula, Orvei, Lesanis, Ossuna, Balanotti e Castro. In particolare nell’attuale territorio comunale di Tula erano Lesanis, nella diocesi di Bisarcio, San Pietro Ossuna le cui rovine sono oggi dentro il lago a 3 km. ad oriente del paese ed Orvei sulle alture a Nord dell’attuale paese presso la chiesa di S. Leonardo de su Sassu. Solo a partire dal 1400 il territorio ha conosciuto un processo di progressiva concentrazione o se volete di inurbamento, con l’abbandono dei villaggi vicini a favore del capoluogo Tula: quest’ultimo centro dovè essere evidentemente quello nel quale si andarono concentrando nel tempo i servizi per l’intero territorio.

Spero mi vorrete perdonare questa lunga divagazione storica. E’ stato però un modo per dirvi quanto interessante, ricca e vivace sia la storia di questo territorio. Credo che ci siano veramente molti motivi per esserne orgogliosi.




Laurea ad Honorem di Gonçalo Byrne.

Laurea ad Honorem di Gonçalo Byrne.
5 dicembre 2012

L’Università di Sassari ha conferito all’architetto portoghese Gonçalo Byrne la laurea ad honorem in Architettura. La cerimonia solenne si è svolta mercoledì 5 dicembre in Aula Magna alla presenza del Magnifico Rettore Attilio Mastino, del Prorettore Laura Manca, del Direttore generale Guido Croci, dei componenti del Senato accademico e della Giunta di ateneo.
Gonçalo Byrne è “un grande maestro, uno studioso di elevata qualità, un grande professionista che ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti di livello internazionale – ha dichiarato il professor Attilio Mastino – Ha lavorato in Europa, nel Maghreb, negli Stati Uniti, nel Sud America. Questa cerimonia è il segno di un percorso compiuto dal Dipartimento di Architettura e da tutto l’Ateneo nel suo complesso, che si apre al mondo e si propone come parte integrante di una rete internazionale”.

Il Rettore si è soffermato sulla storia del bellissimo monastero di Santa Maria di Alcobaça in Portogallo (un monastero cistercense fondato dal Re Alfonso I nel 1153 per rendere omaggio a San Bernardo di Chiaravalle), uno degli interventi di riqualificazione più pregevoli di Gonçalo Byrne – A seguire ha preso la parola il professor Arnaldo Cecchini, direttore del Dipartimento di Architettura con sede ad Alghero. La proposta di conferire a Byrne la laurea ad honorem era partita da Vanni Maciocco, professore emerito, già preside dell’ex Facoltà (oggi Dipartimento di Architettura). Il 19 gennaio di quest’anno è arrivato il decreto del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca e oggi il cerchio si è chiuso con la consegna della pergamena e di un sigillo speciale nelle mani di Byrne.

Al presidente del corso di laurea in Architettura Aldo Lino è toccato spiegare le ragioni della proposta: tra le altre doti professionali, Gonçalo Byrne ha una spiccata “capacità di leggere luoghi, paesaggi naturali e umani”, interpretando i segni della storia. Nella sua lectio doctoralis intitolata “Tempi d’Architettura”, il progettista portoghese ha spiegato che “in architettura la contemporaneità – e la transitorietà – è la condizione propria dell’atto progettuale”; ha illustrato il suo progetto del Museu Nacional Machado Castro di Coimbra e infine, tra gli applausi dei presenti, ha accettato “con enorme gioia questo grande onore: la laurea conferita da un’università tanto prestigiosa”. La cerimonia è stata accompagnata dall’esibizione del Coro filarmonico della Sardegna.




Laurea ad Honorem di Alberto Ongaro.

Laurea ad Honorem di Alberto Ongaro
Sassari, 23 ottobre 2014

Autorità, cari amici, cari studenti,

questa laurea ad honorem che ci apprestiamo a conferire oggi allo scrittore Alberto Ongaro è uno degli ultimi atti del mio lungo mandato di Rettore. Come per tutti i cicli che si chiudono, non posso non provare congiuntamente un senso di liberazione per avere portato a compimento, con esiti che lascio agli altri giudicare, un compito così gravoso e in tempi così difficili, ed una inevitabile malinconia, perché è un periodo ventennale della mia vita che si chiude, prima come Prorettore, poi come Rettore: una malinconia sottile, che scaturisce inevitabilmente da tutto ciò che trova il suo compimento necessario e, peraltro, subito temperata e dissolta dalla prospettiva di poter tornare in toto ai miei studi di storia antica e di epigrafia, che ho dovuto spesso sacrificare, ma che – se consentire –  mi vanto di non aver mai abbandonato, avendo continuato a scrivere nel segno di una passione che non ho potuto accantonare o mortificare.

Sono un umanista; e, come tale, sono orgoglioso di poter conferire oggi questa laurea ad uno dei maggiori, se non al maggiore, narratore italiano vivente, Alberto Ongaro, che desidero caldamente ringraziare per aver accolto con trasporto la proposta formulata dalla nostra università e dal nostro Prorettore Aldo Morace; e non posso che plaudire in modo ammirato all’iniziativa, scaturita dal Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, di voler conferire questa laurea, che le lungaggini ministeriali hanno protratto nel tempo, prima che un intervento più risoluto non mi consentisse di poter oggi presiedere questa cerimonia, in cauda al mio mandato. E sono lieto, soprattutto, che questa laurea sia la prima in assoluto conferita ad Alberto Ongaro, ed anche la prima che il nostro scrittore consegua, avendo lasciato gli studi in Lettere, ad un passo dal loro naturale compimento, per seguire la sua natura cosmopolita, che lo ha condotto dalla natìa Venezia a percorrere le strade del mondo, prima come inventore di storie per fumetti in Argentina, poi come giornalista ed inviato speciale e, da ultimo, raccolto nella quiete della sua casa veneziana per potersi dedicare – quasi asceticamente – alla scrittura narrativa. E lì Ongaro ha dipanato nel tempo, a partire dal 1979, la sua vocazione più autentica, dando vita ad una ventina di opere che lo hanno imposto al pieno gradimento del pubblico dei lettori ed all’attenzione della critica più avveduta, soprattutto a partire dalla piena valorizzazione della sua arte narrativa, avvenuta dalle colonne del “Corriere della Sera”, per opera di Antonio D’Orrico, e poi proseguita con un processo di espansione che non ha avuto flessioni. Segnalo, a questo proposito, che nel prossimo mese di dicembre si terrà a Tolosa un seminario internazionale sulla sua opera, a poche settimane di distanza dalla cerimonia odierna.

Stiamo per ascoltare un grande scrittore che ha deciso di intitolare la sua lectio magistralis al «mestiere di scrivere». Confesso di essere affascinato – e immagino cosa questo possa rappresentare per i giovani che sono qui presenti – per questa possibilità di ascoltare dalla sua voce come matura una vocazione alla scrittura, come ci si misura ogni giorno con quel dono immenso e terribile che è la scrittura, sospesa tra eternità e inutilità, fra persistenza e dissolvenza. Come ricordava Ongaro citando le senechiane Lettere a Lucilio, «Ogni cosa è in mano altrui. Solo il tempo è nostro»: il tempo, appunto, che consegna o nega la scrittura, quel processo misterioso (e qui estrapolo da una pagina di Passaggio segreto) che è un «campo magnetico nel quale possono rimanere intrappolate sconosciute e lontane esistenze». Scorrendo la biografia di Ongaro, mi sono chiesto quale sia stato per lui quello che Montale definiva «il secondo mestiere», alludendo alla propria professione, intrapresa tardi, di giornalista professionista: nel caso del nostro scrittore, quale è stato, data la polivalenza delle sue attività? Credo che, in realtà, Ongaro non abbia avuto che un solo mestiere, di volta in volta diverso: dall’invenzione dei soggetti per storie a fumetti che sono divenute mitiche (e di cui sono stato anch’io fruitore in anni, ahimè, ormai lontani, sul Corriere dei Piccoli), alle splendide corrispondenze di viaggio, apparse sull’«Europeo» (ed è davvero un peccato che esse siano state raccolte e ristampate solo in minima parte), sino al momento in cui ha impresso una svolta radicale alla sua vita precedente, ancorandosi in una casa veneziana per  perseguire in un raccoglimento quasi ascetico – se rapportato alla tumultuosità di prima – la scrittura narrativa, quella che lo ha condotto oggi da noi, a conseguire questa laurea honoris causa in Filologia, Industria culturale e Scrittura creativa, a lui quanto mai appropriata, e che mi consente, da Rettore umanista, di tributare un omaggio deferente al dono della scrittura.

Desidero da ultimo ricordare che in questa stessa Aula magna, nell’aprile del 2001, l’Università di Sassari ha conferito una laurea honoris causa in Scienze politiche a Franca Ongaro Basaglia, che di Alberto Ongaro è stata sorella. Anche lei, come il fratello, ha avuto una precoce inclinazione per la letteratura, prima di divenire una protagonista del movimento della Psichiatria democratica e della rivoluzione psichiatrica. Mi colpisce quella che Alberto Ongaro chiama, col titolo di un suo notissimo romanzo, «la strategia del caso»: i percorsi, apparentemente casuali, in realtà guidati da un filo misterioso e rigoroso, per cui i destini umani si incrociano e si coagulano. È davvero ongariano che per le vie apparentemente imperscrutabili del caso e del destino il nostro scrittore sia oggi qui a ricevere la laurea ad honorem, ricongiungendo il suo percorso a quello della sorella, che non possiamo non ricordare con ammirazione ed orgoglio. Così come con orgoglio ed ammirazione ci apprestiamo ad ascoltare, dopo l’intervento del Direttore del Dipartimento che conferisce la laurea Gavino Mariotti e dopo la presentazione di Aldo Maria Morace, dalla voce di Alberto Ongaro la sua lectio magistralis sul «mestiere di scrivere»: quello che Montale definiva «il più bello, il più difficile del mondo».

Ancora un grazie allo scrittore, per essere qui, oggi, con noi; un grazie a tutti coloro che mi sono stati affettuosamente vicini, collaborativi e impegnati in questi ‘cinque nostri magnifici anni’.




Gli Scritti Africani di Antonino Di Vita.

Attilio Mastino
Gli Scritti Africani di Antonino Di Vita, curati da Maria Antonietta Rizzo Di Vita e Ginette Di Vita Evrard.
Roma, Istituto Nazionale di Studi Romani, 6 ottobre 2016

Ho letto con emozione questi due volumi di Scritti Africani di Antonino Di Vita, curati da Maria Antonietta Rizzo Di Vita e Ginette Di Vita Evrard, ritrovando luoghi che mi sono cari e scoprendo un filo rosso che unisce tanti frammenti sparsi e tante storie diverse, raccontate in quasi mille pagine, 52 articoli, 5 voci di enciclopedia, 17 tra recensioni, presentazioni e ricordi: con una vivacità che impressiona emerge una Tripolitania inedita, ma anche la Cirenaica, il Fezzan dei Garamanti, Cartagine, il teatro di Althiburos, Tipasa, Caesarea, la Numidia.

L’ho fatto però solo dopo aver sfogliato la straordinaria 40° monografia di archeologia libica pubblicata anch’essa da L’Erma di Bretschneider dedicata ai 45 anni di ricerche in Libia dell’Ateneo di Macerata: un’opera ricchissima, che attraverso tanti punti di vista, attraverso le parole dei colleghi e degli allievi, attraverso le immagini della Libia di oggi, consente di capire in profondità, di scavalcare questi decenni, di ricostruire un percorso lungo faticoso fatto di sacrifici personali, di fatiche fisiche che possiamo solo immaginare, di polemiche scientifiche, soprattutto permette di avere un quadro di quella che è davvero l’eredità lasciata da Antonino Di Vita, un gigante dei nostri studi e insieme un maestro capace di stimolare, creare curiosità e interesse tra i giovani, mobilitare risorse e forze nuove fino agli ultimi giorni, fino alla guerra sanguinosa che la Libia sta ancora vivendo in una interminabile fase post-coloniale.

Le sue grandi imprese africane testimoniano capacità organizzative e direzionali non comuni, che bene si sono manifestate negli anni in cui fu Rettore dell’Università di Macerata tra il 1974 e il 1977, quando fu nominato direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene al posto di Doro Levi, un incarico che sembrava assorbirlo interamente; ma questi volumi ci restituiscono lo studioso, l’archeologo colto, il filologo capace anche di pignolerie e di interventi puntualissimi su aspetti di dettaglio, come quando a Sassari nel 1989 mi aveva tormentato sui proiettori speciali che erano necessari per le sue rare grandi diapositive che accompagnavano al VII convegno de L’Africa Romana il suo intervento su Antico e tardo antico in Tripolitania: sopravvivenze e metodologie, ripubblicato in questa sede con le spettacolari immagini della tomba del defunto eroizzato di Sabratha e di sua moglie, sepolti in età giulio-claudia. Allora aveva un poco approfittato della nostra gratitudine, pubblicando nelle 16 costosissime tavole a colori i tondi dei 4 venti della villa di Tagiura, gli emblemata di Oceano e di Artemide Selene da Sabratha, l’incredibile Anfitrite tra le Nereidi e la tomba di Aelia Arisuth di Gargharesc. Ci aveva fatto scoprire un mondo colorato e emozionante, che ora ritroviamo in queste pagine nelle quali sono pubblicate tante foto a colori originali, recuperate negli ordinatissimi archivi del Centro di Macerata.

Per quanto mi riguarda personalmente, io l’avevo conosciuto per la prima volta ad Atene ai primi di ottobre del 1982, una settimana dopo la nascita di mio figlio Paolo, in occasione dell’VIII congresso internazionale di epigrafia greca e latina, dove Ginette aveva voluto presentare con molta indulgenza il mio volume su Caracalla e Geta, fresco di stampa, che le era stato passato da Claude Nicolet e che Pietro Romanelli, Guido Barbieri, Giancarlo Susini e Margherita Guarducci avevano rivisto con severità. Allora Antonino e Ginette ci avevano festeggiato, noi italiani, nella Scuola Archeologica Italiana, con un brindisi ai piedi del Partenone, che tanto ci aveva emozionato. Rileggendo il primo articolo di questa raccolta, pubblicato sul I numero della rivista “Libya antiqua” fondata da lui assieme a R. Goodchild, dedicato nel 1964 al limes romano di Tripolitania nella sua concretezza archeologica e nella sua realtà storica, credo di aver capito le ragioni di quella simpatia che ha sempre avuto nei miei confronti, soprattutto per merito di Settimio Severo e dei suoi figli. Per Di Vita fu la politica dei Severi a dare un’impronta fondamentale a Leptis Magna (basti pensare all’arco quadrifronte o all’epigrafe di Plauziano venuta alla luce nel 1964 dall’esedra del Foro Vecchio), così come a Sabratha o a tante città della Tripolitania e della Cirenaica romana; lo sosteneva in rapporto alle costruzioni in perfetta opera isodomica nel predeserto orientale tripolitano, partendo dalle premesse puniche e dalla complessità della cultura romano-africana; lo scriveva raccontando le fasi severiane della villa di Tagiura; ma soprattutto ipotizzando il piano originario del Forum Novum Severianum di Leptis, le due piazze progettate, separate dalla monumentale basilica con al margine il tempio della Gens Septimia. Soprattutto sul piano militare gli sembrava che l’opera fondamentale di Settimio Severo dovesse essere rivalutata alquanto, per la sua sistematicità strategica, per la costruzione di una linea di difesa appoggiata su forti come Bu Ngem, Gheria el-Gharbia, Ghadames: infine per lo stanziamento di gentiles-limitanei. Ne avrebbe parlato ancora nel 1996 su “Antike Welt” e nell’articolo postumo sul tesoro di Misurata. L’uomo aveva già le idee chiare e pochi anni dopo, nel 1965, la scoperta della grande iscrizione sulla fondazione del forte di Gheriat el-Gharbia confermava l’opera dei Severi tra il 198 e il 201, con l’intervento di una vexillatio della legione III Augusta negli anni del legato Q. Anicio Fausto.

Ci saremmo poi incrociati spesso in biblioteca a Roma, soprattutto ci avrebbe seguito nei convegni de “L’Africa Romana” a Sassari nel 1989, poi a Oristano nel 1992, a Tozeur nel 2002, a Rabat nel 2004, con interventi che ho potuto riscoprire con sorpresa. Proprio a Tozeur si era divertito moltissimo, assieme a Maria Antonietta, quando avevo voluto commentare un poco provocatoriamente davanti alle Autorità presenti e ad un pubblico internazionale una proposta formulata da Andrea Carandini, nel volume Giornale di scavo. Pensieri sparsi di un archeologo, pubblicato da Einaudi nel 2000, nel pieno della polemica sul rinnovo della direzione della Scuola Archeologica Italiana di Atene. Carandini proponeva la nascita a Tunisi di una scuola stabile aperta agli studenti italiani e magrebini, un progetto che è ormai maturo e che si è andato concretizzando a partire dal 22 febbraio di quest’anno, quando la Scuola è stata formalmente istituita e subito riconosciuta con personalità giuridica. Ieri abbiamo visitato i nuovi locali per la Biblioteca Sabatino Moscati a Tunisi-Montplaisir e per la SAIC al VI piano del nuovo palazzo dell’Agence de mise en valeur du patri moine et de promotion culturelle Sfogliando queste pagine si capiscono tante cose, come rileggendo l’articolo “Questioni di metodo” su Archeologia Classica del 1964, che è sostanzialmente una deliziosa ma feroce risposta al giovane ventisettenne dott. Carandini, che con qualche ragione lamentava il ritardo con il quale gli archeologi italiani pubblicavano i risultati degli scavi di Sabratha e di Leptis; ma tutto era documentato nei giornali di scavo conservati nel castello di Tripoli; lo scontro era concentrato sulla cronologia dei mosaici di Zliten, con le immagini delle stagioni che sono espressione di ateliers e di maestranze locali, che non vanno collocate in una fase troppo avanzata. Di Vita avrebbe ripreso la discussione con più garbo al VII Convegno de L’Africa Romana a Sassari nel 1989, cercando di convincere i suoi interlocutori sul sapore arcaico, “punico” dei mosaici di Zliten, con questi giganteschi occhi bovini, con le pupille dilatate, che ricordano modi espressivi di arte “popolare” . Del resto in Libia pochissimi archeologi italiani si erano visti caricati della responsabilità di studiare uno sterminato numero di monumenti antichi: l’intervento era forse indirizzato a difendere Salvatore Aurigemma (morto proprio in quel 1964), ma si può pensare a Ernesto Vergara Caffarelli, scomparso tre anni prima (ho letto il commosso ricordo su Libya Antiqua) e forse a Giacomo Caputo, che nel 1948 aveva inaugurato con le sculture di Tolemaide la serie delle Monografie di archeologia libica e proprio nel 1964 pubblicava il volume su Leptis Magna assieme a Bianchi Bandinelli);  infine a Gennaro Pesce (rimasto a Tripoli fino a novembre 1945, autore del volume sul tempio di Iside a Sabrata del 1953; morto a Cagliari nel 1984). Ma c’è incombente anche la figura di Pietro Romanelli.

Tutta giocata tra archeologia e storia dell’arte, con ruoli che mi pare si siano poi ribaltati, la polemica Di Vita-Carandini che si è estesa da Tagiura a Piazza Armerina non ha impedito ai due di collaborare attivamente; del resto il dialogo col Carandini rimane sotto traccia come a proposito dell’assenza di un porto alla foce dell’uadi Lebda visto che la polis di Leptis in età ellenistica liména dè ouk echei; fu Di Vita a ritrovare prima del 1974 il porto arcaico col molo più antico, al capo Hermaion, oggi sul promontorio occidentale di Homs, ben prima del porto-canale neroniano e del gigantesco kothon severiano che così bene ora conosciamo con le sue banchine di attracco che conservano sorprendentemente intatti i modiglioni di ormeggio, per quanto l’interramento provocato dalle sabbie e dalle esondazioni del fiume abbiano progressivamente soffocato le attività portuali. Con Carandini avrebbe condotto vere e proprie missioni di topografia, come quella di Leptis Minus nel 1973, assieme a Giulio Schiemdt, con l’intervento della nave per ricerche oceanografiche Marsili del CNR. Ma già nel 1973 Di Vita assieme a Beschaouch volle Carandini direttore della missione a Cartagine e dieci anni dopo avrebbe recensito positivamente il volume sugli scavi conclusi nel 1977 nell’ambito del progetto Unesco; per non parlare della collaborazione con <<il giovane incaricato dell’Università di Siena e a capo dell’équipe del ‘cantinone’ in cui brillava già Tina Panella>> nello scavo del Castellum del Nador tra Tipasa e Caesarea di cui al volume del 1989, con l’edizione dell’iscrizione del flamine quinquennale M. Cincius Hilarinus che data una delle fasi della fattoria algerina; ne avrebbe parlato nel 2011 nelle conclusioni al volume su I Fenici in Algeria.

Del resto sappiamo che l’uomo, Nino Di Vita, era effettivamente spigoloso, coraggioso, addirittura avventato, aveva aperto altre polemiche ad esempio col Sandro Stucchi tripolitano; con Claude Lepelley sui terremoti; con J.B. Ward Perkins sullo sviluppo urbano di Leptis Magna e Sabratha in età tardo-neroniana proprio con un richiamo alla colpa comune a italiani e inglesi di non aver finora pubblicato in maniera adeguata gli scavi di Sabratha; eppure col tempo si era addolcito. Negli ultimi tempi lo avevo incontrato a Roma, a casa sua, con Maria Antonietta, a parlare del rapporto tra arte e archeologia, il tema affrontato da Ettore Janulardo nel volume su Macerata, come – per tornare al mio piccolo mondo – a proposito di Mekiorre Melis, il pittore in fuga da Tripoli liberata dagli Alleati, direttore della Scuola musulmana di arti e mestieri, all’epoca di Italo Balbo, rifugiatosi nel 1944 nel più piccolo paese della Sardegna, Modolo (dove contemporaneamente arrivava dall’Istria bambino il poeta Orlando Biddau, che parlando del padre soldato avrebbe scritto: «giunse l’uomo spezzato dalla guerra, / faceva vino cattivo, era intrattabile>>).

Se c’è una cosa che Di Vita ci ha insegnato è soprattutto questa voglia di costruire ponti, reti, relazioni con i colleghi del Maghreb; questo rispetto per la cultura araba; la piena coscienza della necessità di un approccio che si liberasse dai condizionamenti acritici contemporanei, legati alla colonizzazione e alla successiva incerta fase di decolonizzazione dei paesi africani, al tema di una romanizzazione imposta o di una resistenza affermata acriticamente senza fare i conti con i luoghi, i tempi, la profondità dei sostrati libico e punico; e poi il riconoscimento generoso del contributo individuale di ciascuno dei suoi valenti collaboratori, operai, restauratori, capi cantiere, specialisti; questa volontà di “lavorare insieme”, respingendo categoricamente la prospettiva falsamente progressista del rapporto tra culture egemoni e culture subalterne, la voglia di immaginare per la riva sud del Mediterraneo ma per noi stessi un futuro desiderabile anche senza prevederlo e, per usare un’espressione felice di Bibo Cecchini e di Ivan Blečić, di programmare una fase nuova di un mondo futuro animato da città che vorremmo antifragili, partendo dalla profondità della storia e dalla complessità delle culture diverse. Le Corbusier nel 1965 sosteneva: <<Essere moderni non è una moda, è uno stato: Bisogna capire la storia: e chi capisce la storia sa trovare la continuità tra ciò che era, che è e che sarà>>. Credo che una lezione di questo tipo nel mondo sanguinoso e violento che stiamo vivendo sia davvero preziosa, soprattutto se metteremo da parte quell’idea di “mare nostrum” che Franco Cassano ne Il pensiero meridiano considera <<odiosa per il suo senso proprietario>>: essa <<oggi può essere pronunziata solo se si accetta uno slittamento del suo significato. Il soggetto proprietario di quell’aggettivo non è, non deve essere, un popolo imperiale che si espande risucchiando l’altro al suo interno, ma il “noi” mediterraneo. Quell’espressione non sarà ingannevole solo se sarà detta con convinzione e contemporaneamente in più lingue>>.

Allora possiamo mettere da parte il volume di Macerata, che illustra l’eredità di Di Vita testimoniata dai tanti giovani studiosi ormai attivamente all’opera, come i colleghi del Politecnico di Bari e di tante altre Università, del CNR, del Dipartimento alle antichità della Libia, dell’Institut National du Patrimoine di Tunisi, temi sintetizzati nella bella mostra agli antichi forni di Macerata del marzo 2014.  Oggi non possiamo certo dimenticare la crisi internazionale in atto, la nuova frontiera che come ai tempi delle Arae Philenorum separa Cirenaica e Tripolitania (un tema caro a Di Vita, che vedeva la Tripolitania proiettata attraverso il Gebel verso occidente, lungo la strada per Tacapae-Gabes), la presenza di truppe del Daesh e di eserciti contrapposti in una Libia orfana di Gheddafi e bombardata dall’aviazione occidentale, con negli occhi l’immagine della stazione aeroportuale di Tripoli completamente devastata o l’auto Wolkswaghen del colonnello sventrata nella prima sala del museo archeologico del castello di Tripoli. Di Vita era contro il terrorismo islamico, anche se ne parlava al passato a proposito ad esempio della rovinosa conquista del Maghreb ad opera dei Bani Hilal e dei Bani Suléim. <<Tale conquista, per quanto certa critica modernissima, di estrazione francese ed araba, cerchi di farla apparire come quasi pacifica e civilizzatrice, dal punto di vista archeologico è testimoniata in Tripolitania, almeno, da profonde distruzioni e gli scavi condotti dal Dipartimento libico alle antichità nella città alto-islamica di Medinet Sultan oggi Sort tra il 1963 e il 1965 sono, al riguardo, più che significativi>>.  A San Leucio di Caserta all’incontro promosso da Serena Ensoli avevamo parlato del disastro libico dopo il bombardamento del marzo 2011, poche settimane prima della morte di Mu’ammar Gheddafi (avvenuta il 20 ottobre), seguita due giorni dopo da quella di Di Vita: allora avevo rievocato l’emozione del viaggio compiuto con Raimondo Zucca, Piero Cappuccinelli, Salvatore Rubino, a Cirene, Sabratha, Tripoli, l’antica Oea, Tagiura, Leptis Magna, dove rimane evidente e visibile l’orma imponente dell’imperatore Settimio Severo e dei suoi figli; in quell’occasione a Sabratha a settembre 2008 avevamo incontrato Nicola Bonacasa, purtroppo scomparso a dicembre dell’anno scorso e Rosa Maria Carra, con i loro colleghi libici e i loro allievi, che scavavano ai piedi del mausoleo punico-ellenistico B.

Sono allora tornato ai due volumi di Scritti Africani che presento aiutato da Giorgio Rocco che leggerà dall’interno le principali imprese internazionali guidate da Di Vita e ho potuto ripercorrere una strada davvero emozionante che inizia nel 1962 in Libia e che documenta lo sviluppo nel tempo di tante grandi scoperte archeologiche, partendo dal Gebel tripolitano e dai due mausolei di Sabratha appena liberati dalle macerie: gli interventi pubblicati <<spaziano – scrivono le curatrici – dalla topografia all’urbanistica e all’architettura, dalla pittura ai mosaici, dalla scultura alle produzioni ceramiche, dall’epigrafia alla numismatica, alla storia delle istituzioni>>, partendo dal dato archeologico per ricostruire anche attraverso la cultura materiale il più ampio e complesso contesto socio-economico e storico della Libia antica. Mi pare che la presentazione dei testi in ordine di pubblicazione – anche in questa sede – restituisca il senso di un continuo progresso negli studi, di una sostanziale maturazione, con non pochi ripensamenti e qualche salutare polemica tra studiosi.

Il tema ricorrente del terremoto del 21 luglio 365 compare già nel primo articolo e percorre tutti questi due volumi, dove passo passo scopriamo una riflessione sempre più profonda e radicata. Le sue rassegne “Archeological News” su Libya Antiqua che dal 1964 arrivano al V numero della nuova serie del 2010, ma anche nella voce Libia delle Appendici del 1979 e del 1993 dell’Enciclopedia Italiana: a Leptis Magna raccontano la via colonnata, il porto, il grandioso circo e l’anfiteatro quasi inedito con la piccola edicola dell’Artemide efesia del 56 d.C, sul lato meridionale, con la fondamentale scoperta dell’iscrizione neroniana pubblicata da Ginette, il Serapeo, poi studiato frontalmente nei Quaderni del 2003, con specifica attenzione per le provenienze dei marmi assieme a Lorenzo Lazzarini e Bruno Turi, soprattutto il pentelico delle statue (anche dei capitelli del foro severiano), il marmo lunense delle teste isiache, il docimio del Marco Aurelio e del Serapide nero (con il corpo in marno lesbio), il marmo greco scritto e il proconnesio; e poi le pietre colorate, tra le quali emerge per bellezza la breccia nuvolata o la breccia corallina (marmor Sagarium) delle crustae parietali, proveniente dalla Bitinia; il marmor Lucullaeum, Scireticum, Chalcidicum, Taenarium. Temi che rimandano ad una ricca committenza e alla grande importanza e prestigio del Serapeo: in questo quadro significative appaiono le numerose dediche epigrafiche a Serapide in lingua greca presentate da Ginette: tra le iscrizioni latine si segnala il donario per Serapide e Iside del cittadino romano Q. Titleis C.f. che si data alla metà del I secolo a.C. e dunque rappresenta la più antica iscrizione di Leptis; ma ad indicarci il fascio di relazioni mediterranee si aggiungono le epigrafi relative ad un personaggio alessandrino signo Doulkiti, un Aur(elius) Sempronius Serenus e(ques) r(omanus) principalis Alexandr(iae).

E poi l’arco di Marco Aurelio e quello di Settimio Severo; il tempio d’età flavia; ancora di questi primissimi anni sono le indagini a Medinet Sultan, il Gebel e il predeserto con il Gasr Laussàgia, il medio e basso Soffegin, con il gasr di età imperiale sull’Uadi Gargiuma, il mausoleo di Uadi Mesueggi o di Gasr el Banat. E poi le nuove acquisizioni del Museo di Tripoli, come il misterioso ostracon inscritto di Assenamat, il doccione di Gasr el Banat, le lucerne di Zuara; a Sabratha era in corso la redazione del volume di Elda Joly dell’Università di Palermo sulle lucerne; si ripetevano i soggiorni di Pierre Salama che studiava i miliari dioclezianei, negando con soddisfazione di Di Vita l’ipotesi di un abbandono della Tripolitania costiera durante la tetrarchia; Salama in realtà era arrivato per pubblicare, da buon numismatico, gli 8000 folles di Massenzio dall’anfora ripescata a Marsa Marcan (di cui all’articolo con Annalisa Polosa sui Quaderni del 2009, con 27000 pezzi). Dopo la guerra dei sei giorni Salama non sarebbe più potuto tornare in Libia. E poi le basiliche cristiane in area gebelica, la testimonianza di Henscir Taglissi con l’iscrizione di Emiliano che disposuit, instituit, perfecit la basilica, richiamando le laudes domino omnipotenti deo e di suo figlio Cristo; un testo dal vago sapore donatista già per Goodchild e Ward Perkins. Le aree cimiteriali cristiane con le cupae monolitiche secondo lo Gsell di lontana tradizione punica. Fu Di Vita a dare nel 1964 alle terme di Tagiura la denominazione di “Villa della gara delle Nereidi” (così ad altri monumenti come la tomba della Gorgone a Sabratha o la tomba del defunto eroizzato), anche se ancora completamente da scrivere gli sembrava la storia dei mosaici della Tripolitania. Due anni dopo lui stesso ne avrebbe dato un fondamentale acutissimo contributo, 50 pagine, nei Supplementi a Libya antiqua, nel momento in cui – scriveva nel 1966 – <<lascio la carica di Consulente presso il Dipartimento per le Antichità della Tripolitania>>; sarebbe stato l’ultimo europeo a rivestire questo incarico: il quadro rispondeva ad un’esigenza, quella di ancorare il linguaggio artistico alle fasi storiche della Tripolitania romana. Si poteva ora partire dai bolli laterizi urbani sesquipedali e bipedali delle notissime officine urbane di Domizia Lucilla, madre di Marco Aurelio, datati al 155 (Severo et Sabiniano coss.) ed al 157 (Barbaro et Regulo coss.), dunque nella piena età Antonina. Ora era possibile accertare lo sviluppo della “villa di piacere” che si affacciava sul Mare Africum con la sua complessa planimetria, le sue terme, i suoi straordinari pavimenti musivi, in particolare i mosaici figurati con le quattro Nereidi che corrono ritte sul dorso di altrettanti mostri marini, dei quali le tre perdenti eccitano il corso mentre la vincitrice della gara lo raffrena; temi che rispondono ad una concezione decisamente barocca, aperta a sviluppi futuri, ben distinti dai tondi (quelli dei 4 venti) che appaiono più tradizionali, accademici e concepiti secondo i dettami del realismo pittorico. E poi i mosaici della seconda fase, che colgono già quelle tendenze dettate dalla nuova estetica dell’età severiana, descritta ad esempio dal Picard e dal Foucher; Di Vita riconosceva nei loro confronti un debito, pur non trascurando critiche e suggestioni. Allora si poteva accertare la distruzione alla metà del IV secolo in relazione al terremoto del 365 o alla scorreria degli Austuriani collocata da Ammiano Marcellino tra il 364 e il 366. E poi la parziale riutilizzazione. Ma l’aspetto più singolare è rappresentato dall’ampio, informato e documentato quadro di confronti con altre ville di Oea e di Leptis, come la villa del Nilo o quella di Dar Buc Annérea a Zliten.

Negli anni successivi Di Vita avrebbe puntualmente pubblicato altre rassegne, come quella sull’attività a Sabratha e a Leptis nel quadriennio 1976-79 uscita sui Quaderni del 1985: l’area sacro-funeraria pagana di Sidret el-Balik, l’acquedotto di Sabratha, il tophet di Ras el-Munfah con le sue 300 stele, i due mausolei con i blocchi originali del mausoleo B all’insaputa di Di Vita <<restaurati e sottoposti ad un assemblage non privo d’errori nel nuovo museo>>. E poi il catalogo delle 1080 lucerne di Leptis studiate dalla P. Procaccini, la fattoria di Umm Mbarka, i tre miliari di Sorman, uno dei quali – il più antico della Tipolitania – si data nell’età del proconsole A. Caecina Severus, dunque attorno al 10 d.C.

Nel 1997 una rassegna di sintesi è quella pubblicata nel volume del Ministero degli Esteri sulle Missioni archeologiche italiane, La ricerca archeologica, antropologica, etnologica, dove anch’io avevo presentato i primi risultati degli scavi di Uchi Maius: emerge tra tutti il tophet di Sabratha (monete studiate da Lorenza Ilia Manfredi) e l’area sacro-funeraria di Sidret el Balik, che definiva il più esteso e importante complesso pittorico del IV secolo ritrovato finora non solo in Africa ma nel mondo romanizzato o il più grande complesso di pitture di IV secolo mai trovato in Africa, con la spaventosa difficoltà di rialzare le pareti abbattute dal terremoto de 365; area salvata proprio prima che si costruisse la strada per la nuova città; inoltre il mosaico della basilica giustinianea. E insieme le critiche all’Unesco per il mancato intervento a Leptis dopo le alluvioni del 1987-88, il nuovo museo, il foro vecchio, studiato frontalmente nel volume pubblicato nel 2005 assieme a Monica Livadotti, con i tre templi dei dii patrii e di Roma e Augusto sui quali non ha nascosto il garbato dissenso con le posizioni di Nicolò Masturzo; ma per noi è quanto mai interessante il tentativo di sintesi per definire la lenta evoluzione delle classi dirigenti e della popolazione libica e punica, attraverso gli ordinamenti cittadini, i culti, la lingua parlata e scritta, verso l’impatto della romanità e i modelli romano-italici. Temi che percorrono tutta la produzione scientifica, facendo leva sull’iscrizione relativa a quel M. Vipsanius Clemens redem(p)tor marmorarius templi Liberi Patris pubblicata da Giacomo Guidi nel 1934, IRT 275, ritrovata nell’ambiente immediatamente ad ovest della cella, che lo portano a respingere l’ipotesi di un Campidoglio già in età augustea nel tempio di Liber Pater, mentre il “lealismo” si esprimeva nel vicino tempio ottastilo di Roma e Augusto studiato da Monica Livadotti e Giorgio Rocco ispirato al tempio del divo Cesare nel foro romano.

La dimensione storica dei suoi interventi è fortemente presente nell’articolo, pubblicato sui MEFRA del 1968 sulle influenze greche e tradizione orientale nell’arte punica della Tripolitania, che poggia su alcuni punti fermi: l’improvviso sviluppo delle città autonome della Tripolitania dopo Zama, divenute civitates liberae et immunes dopo la caduta di Giugurta; l’utilizzo della lingua punica, l’attività del tophet di Oea, gli stimoli greci e alessandrini sulle maestranze puniche che hanno costruito il mausoleo B di Sabratha sotto la guida di un vero artista; più ancora di un artista che visse e lavorò in una fase non tradizionalista dell’architettura ellenistica e in pieno clima barocco, elementi tutti ben leggibili dopo la difficile anastilosi; la precocissima consapevolezza di un contatto con i mausolei regali della Numidia, penso alle ultime scoperte algerine o – sull’altro lato del Mediterraneo – con la facciata del Khazné a Petra nel I secolo a.C., un tema rimasto in sordina ma ripreso nel 1989; e poi la scultura come nella stele di Ghadamès, nella statua di divinità di Leptis Magna, nelle teste di divinità provenienti dal Museo di Tripoli, nella statua di offerente da Sabrata e nella bizzarra testa di “Dioniso”, che affermano un antropoformismo sorprendente in ambito punico; infine la pittura. Il tema è quello dell’influenza di Alessandria sul mondo punico, dell’autonomia della Tripolitania da Cartagine, pure esposta alle influenze egiziane, culturali, religiose, artistiche; anche se inaccettabile gli sembra la posizione di quegli studiosi che denunciano presso i Cartaginesi un’incapacità quasi strutturale di produrre un’arte autonoma.

Al 1968 risale (su “Orientalia”) l’articolo che chiarisce la destinazione dei tre templi del lato nord ovest del foro vecchio leptitano: ben prima dell’età romana si veneravano due divinità virili, Shadrapa e Milk’Ashtart, sui quali si sarebbe prodotto il calco dei due dii patrii di Leptis, Liber Pater-Dioniso ed Ercole, affiancati da Astarte: l’aspetto davvero da sviluppare mi pare il fecondo contatto con il culto imperiale di Roma e Augusto, documentato già nell’8 a.C. con i flamines di antiche famiglie puniche addetti alle celebrazioni previste dal calendario ufficiale. Temi che si sarebbero sviluppati enormemente sotto Settimio Severo a Roma e in tutto l’impero con Caracalla, devoto di Libero e di Eracle negli anni della “ripresa cosmocratica”.

Al 1969 risale la presentazione di un disegno acquerellato settecentesco inedito dell’arco di Marco Aurelio e Lucio Vero a Tripoli, che è senza dubbio la più antica e attenta veduta dell’arco: un documento più eloquente e originale delle successive tavole di Ferdinand Hoefer con la nota Lemaitre direxit, di Mary Wortley Montague del 1816, di A. Baumeister del 1888, che appaiono <<di ricostruzione>>, non eseguite davanti al monumento. Pochi anni dopo, nel 1975 sui Quaderni, Di Vita discuteva con accenti critici la proposta di restituzione dell’arco dei Severi a Leptis Magna presentata da Giovanni Ioppolo e da Sandro Stucchi e pubblicava la ricostruzione di Carmelo Catanuso, che sarebbe stata alla base dei restauri che conosciamo. Non possiamo non condividere l’obiezione sulla collocazione e la pertinenza dell’epigrafe dedicata ad un imperatore Divus, il che obbligherebbe a immaginare che l’arco fu costruito dopo la morte di Settimio Severo o addirittura di Caracalla. Molto acute sembrano oggi le osservazioni, a valle del saggio di scavo di dieci anni prima, sulla collocazione del monumentale tetrapilo all’incrocio tra cardo e decumanus presso la porta Augusta salutaris, con l’evoluzione presentata a Tarragona nel 1993, interrompendo il percorso dei carri nel punto più centrale della colonia Ulpia Traiana Leptis a causa della presenza di tre gradinate interne; più discusso il tentativo di retrodatare di un secolo il monumento originario,  forse di età traianea, realizzato nel bel calcare grigio delle cave di Ras el-Hammam, cavato fino a Marco Aurelio usando il braccio punico, mentre nel corso della fase severiana il monumento sarebbe stato sommerso dal marmo cavato utilizzando come unità di misura il piede romano. Stucchi ironizzava a sua volta sui Quaderni del 1976 sulla possibilità che l’arco fosse stato costruito solo per assicurare refrigerio ai passanti, “a scopo umbratile”;  e Di Vita rispondeva l’anno dopo con un breve e fulminante intervento di 8 pagine, con l’intento di ristabilire una verità scientifica – scriveva – duramente maltrattata; la collocazione urbanistica dell’arco all’ingresso dalla strada Oea-Alessandria e la presenza dei gradini gli sembravano portare obbligatoriamente all’età della grande dinastia leptitana. C’è sullo sfondo la necessità di difendere Carmelo Catanuso, che aveva operato con piccole risorse, <<senza aver potuto mai fruire di nessuno dei mezzi cospicui di cui fruisce da anni lo Stucchi>>. Tutta la questione è ripresa sui Quaderni nel 2003, dove viene presentata la “filosofia e prassi del restauro”, con riferimento ai pannelli dei rilievi figurati trasferiti al museo di Tripoli e riprodotti in calco nei fornici (come l’assedio di città e le due scene di sacrificio), grazie all’impegno di un restauratore dell’Università di Urbino. Ho visto che i rapporti tra i due erano migliorati nel tempo, anche se Stucchi non aveva condiviso le posizioni di Di Vita sul foro severiano. Del resto ancora sul necrologio di Sandro Stucchi pubblicato sui Quaderni del 1992, Di Vita insisteva sulla dimensione “cirenaica” degli studi del collega urbinate, di cui riconosceva i meriti, l’originalità, l’ampiezza del contributo, partendo dalla positiva recensione sulla monografia sull’agorà di Cirene pubblicata nel 1965: <<non così felici né il restauro dell’arco di Settimio Severo a Leptis né gli studi leptitani dello Stucchi, alla cui cultura e preparazione la Tripolitania rimase sostanzialmente estranea>>. Come non apprezzare oggi questa sincerità senza limiti ? A distanza di oltre un decennio il tema del tetrapilo dei Severi di Leptis ritorna nel convegno de L’Africa Romana di Rabat del dicembre 2004 e ancora su Libya antiqua nel 2010: superate le polemiche, ora viene ricostruita la storia davvero complessa del restauro del monumento dalla spedizione di Federico Halberrr del 1910, allo scavo di Renato Bartoccini del 1923-24, di Giacomo Guidi (1930-31), di Sandro Stucchi (dal 1970 al 1992) e di Lidiano Bacchielli (1992-96), la cui prematura scomparsa ancora ci commuove: di lui conservo un ricordo prezioso, il suo soggiorno in Sardegna appena concluso il concorso che lo aveva portato in cattedra ad Urbino. Un sorriso aperto e leale, una grande gioia di vivere, una serie di progetti straordinari, nei quali pensava di coinvolgerci tutti. E un grande dolore per averlo perduto, che avevamo espresso nelle conclusioni del convegno cirenaico di Roma del dicembre 1996 promosso da Lidio Gasperini. Di Vita ricorda le lunghe interruzioni nel restauro dell’arco <<una delle maggiori imprese di restauro monumentale che dopo il 1951 abbiano avuto luogo in Tripolitania>>, i marmi arbitrariamente spartiti tra i musei di Tripoli e Leptis, i calchi dei rilievi storici, la nuova cupola in vetroresina, l’iscrizione collocata sulla fronte verso Tripoli che non è pertinente all’arco, ma non è stata rimossa in quanto preziosa testimonianza del pensiero dello Stucchi; rimane l’idea di un primo arco, traianeo, in calcare di Ras el Hamman sulla strada Cartagine-Alessandria. La complessa anastilosi completata tra il 1997 e il 2004 grazie all’impegno dell’équipe tecnica guidata da Gastone Buttarini dell’Università di Urbino, con l’ausilio di Paolo Frigerio e Mohammed Drughi, si è realizzata grazie al finanziamento di quasi mezzo milione di euro del Ministero degli Affari Esteri, del Murst e del CNR ed ha compreso la realizzazione della cupola centrale in vetroresina e la collocazione dei calchi dei pannelli figurati, realizzati in tempi diversi e dunque non sempre uniformi; infine le otto lesene angolari dell’ordine inferiore scolpite con girali animati e trofei è stata solo parzialmente felice. Solo sei su otto sono i pannelli superstiti con rilievi figurati a soggetto storico e allegorico, collocati negli incassi delle fronti interne dei piloni dell’arco, alcuni sicuramente sistemati dallo Stucchi in modo improprio, l’assedio di città (Seleucia per Ward Perkins), le divinità, i sacrifici, la acclamazione di Caracalla e Geta: niente di tutto ciò inficia il valore profondo dell’arco, con i quattro grandi rilievi che rappresentano due solenni parate militari, una scena di sacrificio, Settimio Severo e Caracalla che si stringono la mano davanti a Geta Cesare: emerge la propaganda di corte, la vita militare, la pietà religiosa, l’armonia e la concordia interna, il diritto alla successione dinastica.

Commentando il volume dell’Enciclopedia Classica del 1970 dedicato da Pietro Romanelli alla Topografia e archeologia dell’Africa romana, bilancio di un secolo intero di ricerche archeologiche, la nostra Bibbia di archeologia provinciale, Di Vita presenta un quadro davvero complesso di <<considerazioni, note segnalazioni>>, in realtà di critiche e di aggiornamenti che si estendono dalla Tripolitania a tutto il Maghreb, dimostrando insieme ammirazione per il Maestro ma anche piena libertà di discuterne metodi, categorie interpretative, cronologie, limiti in una documentazione che davvero è sterminata. Capitolo per capitolo emergono osservazioni sull’urbanistica, sulla colonizzazione italica che in Tripolitania sarebbe caratterizzata da uno stato di soggezione degli immigrati italici rispetto alle grandi famiglie locali; dunque il valore e la pervasività della cultura punica, i contatti con Alessandria, la necessità di inquadrare i dati di scavo nell’area della basilica e del foro severiani di Leptis con un progetto ben più grandioso, nel quale la basilica era concepita come asse di un complesso articolato su due ali contrapposte; progetto interrotto drammaticamente dalla morte di Caracalla. E poi gli edifici di spettacolo, come il teatro di Leptis d’impianto augusteo datato tra l’1 e il 2 d.C., l’anfiteatro di Sabratha, il circo di Leptis studiato da John Humphrey dell’Università del Michigan, le scholae per collegi come la casa di Bacco di Cuicul in Algeria, la biblioteca di Thamugadi, gli impianti produttivi, i frantoi, le vasche per salsamenta e l’estrazione della porpora, le figlinae, le ville, le fattorie fortificate, i mausolei, i monumenti funerari come le cupulae africane, le basiliche cristiane, i cimiteri. Tanti temi, tante curiosità, tanti stimoli, che lo portano ad interrogarsi sulle maestranze locali come quelle della spettacolare statua del flamen di età augustea Iddibal Caphada Aemilius, sugli artisti giunti da Afrodisia come nel Serapeo leptitano, da Alessandria (come i festoni e le ghirlande della tomba della Gorgone di Sabratha), da Cartagine, da Roma, come per i mosaici. Come si vede, Di Vita è ormai lontanissimo dalle posizioni del Romanelli che richiamava solo “modelli” e “forma di espressione” derivati dall’Oriente nell’arte della Tripolitania di Commodo e dei Severi, consapevole di una complessità di rapporti che riusciva ad aprire orizzonti nuovi.

Un deciso passo in avanti è rappresentato nel 1976 dalla pubblicazione sui MDAI Römische Abteilung dello studio monografico sul mausoleo punico-ellenistico B di Sabratha, dedicato secondo Colette Picard a quello che è il monumento punico più significativo conosciuto, interpretato come un segnacolo funerario numida a ridosso delle camere funerarie; segnacolo che alla fin fine è una sorta di stele del tipo nefesh (anima, persona), a breve distanza dal secondo mausoleo in gran parte perduto; lavoro arricchito ora in appendice in questo volume dagli straordinari acquarelli inediti di Carmelo Catanuso, anche se continua a mancare l’edizione definitiva dello scavo completa delle stratigrafie e dello studio dei materiali, in parte editi per le fasi più antiche da Benedetta Bessi nel 2009: costruito alla metà del II secolo a.C., il mausoleo era alto 46 braccia puniche, 23,65 m, si datava attorno al 180 a.C., perse il coronamento piramidale e la cuspide già prima del 60 a.C. e fu successivamente inglobato nella torre bizantina e nelle case vicine; l’anastilosi si rivelò complessa ma convincente: il nucleo centrale è rappresentato dalle tre metope che raffigurano il Bes domatore dei leoni a Est, Eracle che lotta contro il leone nemeo a Nord, i due personaggi a cavallo a Sud; si segnalano inoltre la falsa porta della fronte est, la principale, sormontata da un fregio con uréi, i disco solare, l’uso di semicolonne coronate da capitelli con fiori di loto, i leoni del secondo livello, le statue dei tre kouroi angolari (veri e propri geni funerari egittizzanti), i capitelli ionici a volute diagonali di sapore italico, i capitelli eolici, opera di un vero artista e di un artista che vive e lavora in pieno clima barocco nel medio ellenismo. Scontate le influenze egizie, il confronto più vicino (a parte il mausoleo A) è rappresentato da Beni-Rhenane presso Oran (tre volte più grande, veramente di proporzioni smisurate), scavato proprio nel 1964 da Gustave Vuillemot. Negli Atti del convegno del 1980 del CNR e EFR sull’Architettura fino al termine della repubblica, Di Vita si sarebbe spinto fino ad accettare che i due mausolei di Sabratha possano essere interpretati in qualche modo come <<il dilatamento puro e semplice di coeve basi di candelabri o delle basi di tripodi di età classica>>, con una pianta a triangolo dai vertici tagliati e dai lati ad arco di cerchio, dunque a pareti concave, con alto zoccolo a gradini, primo piano massiccio e secondo piano a lanterna, il tutto decorato con semicolonne ioniche al centro delle tre pareti e da tre quarti di colonne alle punte tronche.

Gli scavi effettuati tra il 1964 e 66, con limitati saggi di controllo nel 77, a Nord del Mausoleo punico ellenistico A di Sabratha sono presentati nel 1975 in Libya Antiqua, con molte novità, legate alla cronologia del più imponente mausoleo punico che poggia su una piattaforma di arenaria a forma di triangolo equilatero, segnacolo funerario, nefesh, datato ora al 180 a.C. circa, alla sua struttura, soprattutto alle cerimonie di fondazione documentate da un’olla in terracotta grezza e alle trasformazioni che possiamo seguire attraverso la ceramica, dalla sigillata chiara A, alle coppe in sigillata italica, alle anfore Dressel 7-11 di produzione spagnola per la salsa di pesce a partire dall’età di Augusto, dalla sigillata orientale ai bicchieri a pareti sottili della prima metà del I secolo d.C., alla terra sigillata D alle lucerne di importazione o tripolitane come quelle di Quartus o di A(gipu?)dargus, alle monete; gli aspetti principali sono rappresentati dall’apertura nella piattaforma del mausoleo fatta di grandi e talora immensi blocchi di arenaria di un pozzo, capace di captare una abbondante vena di acqua dolce a oltre 15 m. di profondità; la nuova cronologia dei crolli determinati da grandi sismi alla fine del II secolo a.C., al 65-70 d.C., al 306-310 e al 365, tutti avvenimenti che spesso hanno profondamente modificato l’urbanistica cittadina e l’orientamento stesso delle strade, in uno sforzo ricostruttivo che andò ben oltre l’area del mausoleo crollato. Le monete in particolare testimoniano la diffusione già negli ultimi decenni del III secolo di esemplari di radiati provenienti da zecche irregolari, clandestine o barbare locali relative alla consecratio (da parte di Quintillo) di Claudio il Gotico nel 270, fino agli esemplari di Costantino dalla zecca di Tessalonica o alla Felix temporum reparatio di Costanzo II.

Proprio ai terremoti del 306-310 e del 365 ma in Tunisia è dedicata la nota su “Antiquités Africanies” del 1980, con uno sforzo interpretativo che parte dalla stratigrafia, dal rifacimento dei pavimenti a mosaico come ad Hadrumetum, dalle costruzioni pubbliche nell’età di Valentiniano, Valente e Graziano a Sufetula, dalle opere edilizie di Thugga (un acquedotto), di Thuburbo Maius e di Cartagine, sempre in un contraddittorio con Louis Foucher, Alexandre Lézine, Gilbert Picard. Debbo dire che l’attività di Costantino e dei suoi successori a Cartagine in qualche caso andrebbe collegata forse opportunamente come a Cirta con i disordini successivi alla rivolta di Lucio Domizio Alessandro in Africa e in Sardegna contro Massenzio e con il successivo intervento di Costantino, ricordato espressamente nelle iscrizioni come ricostruttore di Cirta che per riconoscenza prese il nome di Constantina. Un’iscrizione recuperata da Azedine Bescaouch ad El Khandak (Abbir Maius) (AE 1975, 873), dedicata a Valentiniano Valente Gratiano durante il proconsolato di Petronius Claudius c(larissimus) v(ir) precisa che il curator rei publicae alm(a)e Kart(haginis) Flavianus Leontius oceanum a fundamentis coeptum et soliarem ruina conlapsum ad perfectionem cultumque perductos ingressus novos signis adpositis decoravit, ove l’espressione ruina sembra effettivamente indicare un crollo improvviso legato ad un terremoto negli anni precedenti. Al rapporto tra terremoti e urbanistica nelle città della Tripolitania è invece dedicato lo studio Sismi, urbanistica e cronologia assoluta, scritto alla fine degli anni 70, ma presentato a Roma nel 1987 in occasione del Convegno dell’EFR su L’Afrique dans l’Occident romain, al quale io presentai l’articolo dedicato alle Sirti nella letteratura di età augustea, con un capitolo sul rapporto tra Arae Philenorum e Arae Neptuniae: nella prima nota Di Vita racconta drammaticamente il mistero del furto del manoscritto del libro sui terremoti nel mondo romano che era quasi terminato nel 1975, quando il testo gli fu rubato presso via Giulia a Roma, anche se poi gli allievi dopo la morte sono riusciti a ritrovare alcuni capitoli incompleti in un vecchio armadio dell’Università di Macerata. L’ampio articolo dà comunque un’idea dell’orizzonte di una ricerca che istituiva confronti e spaziava in tutto il Mediterraneo, partendo da Sabratha, dai 5 terremoti documentati dal crollo dei mausolei, dagli scavi nell’Iseion e nel tempio del Liber Pater, dai reperti, dalle monete, tra il 100 a.C. e il 365 d.C., in particolare quelli dell’età di Nerone-Vespasiano (65-70), della seconda tetrarchia (306), del 21 luglio 365. A Leptis costituiscono documenti incontrovertibili dei crolli il Serapeo scavato già nel 1963 con la statua abbattuta di Marco Aurelio coperta da uno strato di fango che è veramente il simbolo dell’evento, l’edificio domizianeo costruito da L. Nonio Asprenate, il mercato, la c.d. schola, l’anfiteatro, il ninfeo curvilineo, le terme; il crollo della diga sull’ouadi Lebda avrebbe causato nel IV secolo una violenta inondazione che colpì l’abitato e le cui testimonianze più significative sono state rinvenute nelle terne adrianee, con questa massa di fango che investì le strutture evidentemente già pericolanti dopo i restauri del 306. A Oea il terremoto del 365 sembra documentato dai forni per ceramiche editi da Renato Bartoccini collocati all’interno delle mura e improvvisamente abbandonati, non certo in relazione all’attacco degli Austuriani, che non occuparono mai la città. Ma il terremoto avrebbe colpito Cipro, il Peloponneso, la Sicilia. La garbata polemica si allarga a François Jacques, a Claude Lepelley, a M. Blanchard-Lemée che comunque sul tema “terremoti” e “maremoti” nel Mediterraneo hanno assunto progressivamente una posizione sempre più aperta e disponibile. In questo campo il ruolo dei geologi è essenziale, anche se Di Vita rivendica il ruolo dell’archeologia e sostiene che sono le “scienze esatte” a dover cedere il passo all’evidenza documentaria. È Girolamo a parlarci nel Chronicon di un terremoto universale, terrae motus per totum orbem factum mare litus egreditur et Siciliae multarumque insularum urbes innumerabiles populos oppressere, così come Ammiano Marcellino che racconta come durante il primo consolato di  Valentiniano e Valente, <<improvvisamente orrendi fenomeni si verificarono in tutto il mondo, quali non sono descritti né dalle leggende né dalle opere storiche degne di fede>>,  horrendi terrores per omnes orbis ambitus grassati sunt subito, qualis nec fabulae nec veridicae nobis antiquitates esponunt. Più precisamente: <<Poco dopo il sorgere del giorno, preceduto da un gran numero di fulmini vibrati violentemente, un terremoto scosse tutta la stabilità della terra; il mare si disperse lontano e si ritirò volgendo indietro le onde>>.  La descrizione di Ammiano prosegue con molta efficacia presentando gli effetti del terremoto e del maremoto, la morte di animali e di uomini, la distruzione di navi e di abitazioni nelle città e dovunque si trovassero, su isole e tratti di terraferma,

Infine Libanio nell’Epitafio per Giuliano (che sarebbe successivo al 365 d.C. e al maremoto suscitato da Poseidone), parla di un grande terremoto in Palestina, nella Libia tutta, nella Sicilia, nella Grecia e non solo, descrivendo la Terra-Oikoumene sconvolta per la morte dell’imperatore che come un cavallo infuriato scuote dalla sua groppa le città: un resoconto che Lepelley considerava esagerato, retorico, comunque poco attendibile.

Dalla parte di Di Vita si è schierato René Rebuffat, con i dati dello scavo di Cuicul, l’attuale Djemila in Algeria. Ho rivisto per l’occasione l’ampia documentazione epigrafica citata d Di Vita sull’utilizzo del termine ruina nelle epigrafi di Costantino e poi dei Valentiniani, con l’intervento di curatores rei publicae incaricati dal governo centrale di soccorrere le popolazioni come a Thibusicum Bure: non c’è dubbio che la documentazione è ancora più estesa di quella presentata da Di Vita e parte dalla basilica vetus di Leptis sotto Costantino (IRTrip. 467): cum basilica vetus ex maxima parte ruina esset deformata conlabsa ac spatio sui breviass[et ar]eam forensem [quae] divino (igne ?) icta conflagrarat incendio negli anni di [La]enatius Romulus, nel 317. E tracce dell’incendio sono rilevabili negli scavi. E poi il macellum di Leptis ancora con Costantino e Licinio (IRTrip. 468): quod inter cetera civitatis Lepcimagnensium moenia quae cum sui magnitudine et splendore concordant etiam porticuum macelli in ruina [la]bemque conversam remanere nudam… Ma il confronto si può estendere all’aedes Liberi Patris a Sabratha quam antiqua ruina cum lab[e] … servavit nell’età di Costanzo II e Costante (IRTrip. 55), alle terme di Sabrata durante il VI consolato di Valente e il II di Valentiniano nel 378 (IRTrip. 103), a Tubursicum Numidarum, al fanum dei Mercurii di Avitta Bidda, alle thermae aestivae di Madauros ed al teatro e alla cella balnearum; infine la citata iscrizione di Abbir Maius. Escluderei che il termine ruina di per sé rimandi a un terremoto. Come a Cornus in Sardegna dove attorno al 379 si restaurano le thermae aestivae in una terra che sappiamo poco soggetta ai sismi.  Eppure mi scrivono di terremoti proprio in questi giorni Raimodo Zucca e Munir Fantar impegnati negli scavi sottomarini di Neapolis oggi Nabeul in Tunisia. Per loro, alla luce delle recenti indagini della VI missione a Nabeul oggi siamo sicuri di due cose:

1) c’è stato un sisma e una conseguente azione tettonica che ha fatto sprofondare in mare 1/3 della città di Neapolis. Mounir Fantar ricorda il passo arabo di El Bekri che nel XII secolo parla di “portoinghiottito di Neapolis” non di navi inghiottite. Bekri usa il termine marsa = porto. Il sisma ha fatto crollare gli edifici che sono stati sommersi.

2) l’evento sismico è avvenuto prima della riconversione del quartiere produttivo (per la produzione del garum) superstite in terra a Neapolis in quartiere residenziale con la Nymfarum (sic) domus e le altre lussuose abitazioni, poiché non abbiamo tracce di domus impostate sulle “usines de salaison” sommerse. La cronologia della costituzione nella parte terrestre superstite di Neapolis alla seconda metà del  IV secolo  d.  C. è sicura. Ergo come ipotesi storica si può fare riferimento al sisma del 21 luglio 365 di Ammiano Marcellino e Girolamo.

Nonostante le severe critiche successive l’articolo di Di Vita sembra dunque assai solido e mi pare certo che almeno nel 365 violenti terremoti culminati in quello che generò il maremoto del 21 luglio squassarono davvero le terre del Mediterraneo centrale e orientale: si trattò di fenomeni di inusitata potenza e ampiezza e le fonti letterarie fra loro concordi ce ne danno testimonianza.

A partire dagli anni 80 Di Vita scrive alcune opere di sintesi di grandissimo rilievo sulla Tripolitania romana, come nel 1982 sul X,2 volume di Aufstieg und Niedergang der römischen Welt dedicato ad un profilo storico-istituzionale degli Emporia tra Massinissa e Diocleziano e aprendosi ad una riflessione storica davvero innovativa: le colonie puniche di Leptis, Sabratha e Oea dopo lo sfaldamento dell’epicrazia cartaginese a seguito della battaglia di Zama avrebbero acquistato per due secoli una piena autonomia, anche se probabilmente nel 161 a.C. Roma le avrebbe assegnate formalmente a Massinissa, in una condizione sostanzialmente di “vassalli periferici”, vicina ad una vera e propria indipendenza, tanto che vediamo nel 111 a.C. Leptis abbandonare Giugurta e stipulare un trattato di amicizia e di alleanza con Roma. E sappiamo che le città della Tripolitania ebbero il privilegio di battere moneta in bronzo e, Leptis, anche d’argento fino all’età di Giuba, quando si schierò dalla parte dei Pompeiani per dissesionem principum. Mi pare si possa concordare sul fatto che l’enorme multa in olio imposta da Cesare contro i Pompeiani d’Africa dopo Tapso nel 46 riguardò Leptis Magna e non Leptis Minor, per un totale di 3 milioni di libbre d’olio all’anno; ciò però non impedì ad Augusto di riconoscere se non una piena libertas ai tre porti tripolitani come supposto dal Grant sulla base delle monete del 12-8 a.C. con la testa di Augusto, almeno un’ampia autonomia, come dimostrato da L. Teusch e da B.D. Shaw, sulla base della rilettura della formula provinciae pliniana, le cui fonti rimanderebbero addirittura all’età di Cesare quando le tre città della Tripolitania – che non compaiono nell’elenco dei 30 oppida libera dell’Africa – dovevano essere ai margini del regno Numida, tanto indipendenti da battere moneta fino a Tiberio. L’idea di M. Christol e J. Gascou di un nuovo foedus stipulato tra Leptis e Roma è fondata sulla celebre iscrizione dedicata Marti Augusto dove la civitas Lepcitana ricorda che sotto gli auspici di Augusto e sotto il comando del proconsole Cosso Lentulo (ductu) provincia Africa bello Gaetulico liberata; ma in realtà non sarebbe realistica, perché il documento del 6 d.C. ricorda la libertas dell’intera provincia proconsolare e non della singola civitas; analoga prudenza si deve avere con le due basi dedicate alla Victoria Augusta dal proconsole Dolabella, occiso Tacfarinate. Ancora con Vespasiano le città della Tripolitania appaiono relativamente autonome se Oea nel conflitto con Leptis può chiamare in aiuto i Garamanti: uno dei mosaici della villa di Zliten ci ha conservato l’immagine dei Garamanti fatti prigionieri in quell’occasione dal legato della legione Valerio Festo e gettati alle fiere nell’anfiteatro neroniano di Leptis. In quegli anni il legato Settimio Flacco riuscì a raggiungere la Phazania, utilizzando quell’iter praeter caput saxi che è da identificare con la nuova via Tripoli-Mizda-Gheria el-Garbia, la più breve tra le vie carovaniere per Garama, sulla quale vediamo muoversi la spedizione commerciale di Giulio Materno, da Leptis arrivato fino all’Agisymba, nel paese degli Etiopi. Di Vita ritiene che tale relativa indipendenza delle città della Tripolitania abbia avuto concrete conseguenze anche sul piano artistico: un conservatorismo assai accentuato di città che non si sono mai sentite inserite a tutti gli effetti nel regno di Numidia e che hanno mantenuto integra la propria antica cultura punica, per quanto non siano mancati gli influssi da Roma, dalla Grecia, soprattutto da Alessandria. In questi anni il fortissimo rapporto tra Leptis e la domus dei Severi è radicato proprio nell’ambito della permanenza in profondità della cultura punica, come già osservato da Stazio nelle Silvae (IV,5) per il nonno di Settimio Severo; l’imperatore, che praticava l’astrologia uti plerique Afrorum (HA Geta 2,6), continuò a parlare il punico (o almeno ad avere un accento punico) fin da vecchio: Afrum quiddam usque ad senectutem sonans (vd. Epitome de Caesaribus: punica eloquentia promptior) ed è noto che la sorella fu fatta tornare a Leptis perché ignorava totalmente il latino.

Leptis, che probabilmente nel 202, in occasione del reditus dei Severi in urbem [s]uam, ottenne l’eccezionale concessione dello Ius Italicum, con concreti contenuti economici, fu una delle poche città del Nord Africa, in cui fosse costruito ex novo un intero foro per volontà dei Severi: non è il caso di ricordare i celeberrimi monumenti del forum novum Severianum, la basilica che Severo coepit et ex maiore parte perfecit, il tempio, la strada colonnata, l’arco quadrifronte, opere di radicale trasformazione urbanistica che spiegano forse gli epiteti, portati a partire dai primi anni del III secolo, di Septimia riferito alla colonia e di Septimiani ai Lepcitani, grati ob eximiam ac divinam in se indulgentiam, ob cael[est]em in se indulgentiam eius, pro continua indulgentia eius ed ob publicam et in se privatam pietatem. Conosciamo le curie Severa Augusta, Pia Severiana e Severa Ulpia. Già Procopio ricordava le grandi fabbriche erette da Settimio Severo a Leptis, ta Basileia, che considerava mnemeia tes eudaimonias: da qui la riconoscenza della città e la venerazione per Severo divus.  Con la nascita della Regio Tripolitana, circoscrizione della res privata sorta per la gestione dei latifondi che la gens Septimia possedeva da tempo, l’area si avviava verso una nuova forma di autonomia che sarebbe stata riconosciuta da Diocleziano con la nascita della nuova provincia; Leptis diventava la capitale di un territorio più vasto, confinante con il tractus Biz[acenus]. Del resto, più che a Settimio Severo, l’espansione sul limes tripolitano sotto i Severi è attribuito da M. Euzennat a Plauziano e ad una consorteria africana a lui legata, anche se l’avanzamento della legione fino a Gheria el-Gharbia, Gheria es-Scerghia, Bu Ngem e Ghadamés prosegue oltre l’età di Caracalla ed è documentata fino ai Filippi.

Di Vita sottolinea l’importanza dell’attestazione tiburtina di un curator rei publicae … Tripolitanorum e, alla fine del III secolo, di un cur(ator) reip(ublicae) reg(ionis) Tripolitanae, che farebbe pensare ad una vera e propria confederazione delle città più importanti della regione, che si sarebbero staccate dal concilium provinciale di Cartagine per le celebrazione del culto imperiale, ben prima della nascita della provincia dioclezianea nel 303.

Un capitolo di sintesi è quello relativo agli ordinamenti, alle istituzioni e alle magistrature civili, in relazione alle permanenze puniche nelle civitates della Tripolitania, popolo, decurioni, senato, sufeti, forse un rab (da tradurre in latino con quaestor) e i mahazim (gli aediles). Al linguaggio punico si richiamerebbero anche le magniloquenti espressioni di tante iscrizioni tripolitane, come ornator patriae, amator patriae, amator civium, amator concordiae ecc.

Superata la fase della civitas libera e forse foederata, con la costituzione sotto i Flavi del municipium di diritto latino (tra il 72 e il 78 d.C.), Leptis mantenne eccezionalmente la magistratura dei sufeti, ricoperta ad esempio dall’avo di Settimio Severo; Di Vita, pur con qualche distinguo, segue la nota posizione di H.E. Herzig e immagina due fasi nella nascita della colonia Ulpia Traiana fidelis: la prima con Traiano già nel 109, quando il nonno dell’imperatore L. Septimius Severus, fu praef(ectus) publ(ice) creatus cum primum civitas Romana adacta est,quando per la prima volta fu introdotta a Leptis la cittadinanza romana; l’espressione ricorre quasi alla lettera in un passo dell’Historia Augusta (Sev. I,2), dove si riferiscono le origini della famiglia dell’imperatore: maiores equites Romani ante civitatem omnibus datam. Solo successivamente Settimio Severo concesse nel 201 lo ius italicum e la colonia fu ripartita in 11 curie, che eressero nel teatro le statue dell’imperatore e di tutti i Severi. Tutte le tappe del complesso percorso istituzionale sono accompagnate da interventi edilizi e da profonde trasformazioni urbanistiche che partono dall’area del foro vecchio e dall’età augustea (mercato, teatro, calcidico, via trionfale).

Sabratha, sulla base della denominazione delle curie Hadriana e Faustina, sarebbe diventata municipio durante l’età di Antonino Pio; e poi colonia solo con Marco Aurelio, in contemporanea con Oea, dove conosciamo un duoviro nel 163 e dove ci è conservato il tempio dedicato al Genio della colonia prima del 183. A Sabratha l’amator patriae C. Anicius Fronto è onorato dalla colonia dopo la questura, l’edilità, il duovirato, perché designato al duovirato quinquennale.

Il capitolo dedicato ai culti e agli uffici di carattere sacrale mette in evidenza nuovamente il conservatorismo questa volta in campo religioso, con la persistente vitalità delle tradizioni puniche e libico-puniche, che si manifestano a Leptis attraverso il ruolo delle due divinità poliadi, Shadrapa, interpretato come Libero, e Milk’ashtart, interpretato come Ercole, titolari dei due principali templi del foro vecchio, il primo costruito in arenaria nel momento stesso in cui era nato il foro, il secondo che conosciamo nel rifacimento di età augustea in calcare; in realtà in un angolo del foro fu costruito già nel 5 d.C. durante il proconsolato di Cn. Calpurnio Pisone un terzo tempio proprio per ospitare Milk’ashtart, visto che il tempio precedente a giudizio di Di Vita fu completamente rifatto nel calcare di Ras el Hammam per ospitare il culto di Roma e di Augusto, poi dopo Tiberio con la dedica delle statue di tutta la famiglia imperiale. Sorprende la precocità delle testimonianze del culto imperiale nella città federata, poiché già nell’8 a.C. conosciamo due flamines di Augusto Cesare, Iddibal figlio di Aris e Abdmelquart figlio di Hannobal: a quella data già da diversi decenni l’impianto urbanistico per strigas di Leptis appare definito in rapporto alla strada Cartagine-Alessandria, con il mercato, il teatro, il calcidico voluto dal flamen Iddibal Caphada Aemilius nel 12 d.C. Appare accertato che il piano originario del foro vecchio prevedesse due templi gemelli e non tre; che i tre templi erano già costruiti nei primi decenni dell’era volgare, dopo il rifacimento del tempio di Milk’ashtart, che originariamente doveva essere in calcare. Il rilievo dato al culto imperiale nella sola Leptis è evidentissimo, proprio in relazione alla sua precocità, al cambio di destinazione per il tempio originario ma soprattutto per il fatto che a portare il titolo di flamines (tradotto nelle iscrizioni puniche in zubehim, i “sacrificatori”) sono i più alti esponenti dell’aristocrazia punica locale, che talora appaiono eponimi come i sufeti, spesso organizzati in un collegio di XVviri sacr(orum), eredità di un analogo collegio punico; uno di loro nell’età di Claudio costruì un tempietto nella corte della porticus post scaenam del teatro, per celebrare la divinizzazione di Livia. Altri esercitarono il flaminato di Tiberio vivente, dei divi Claudio e Vespasiano, mentre sempre a Leptis è documentata la dedica di età adrianea Antinoo deo Frugifero. Ancora una volta è però con i Severi che il culto per la domus divina esplode a Leptis oppure a Gheria el-Gharbia con Caracalla nel più grande dei forti costruiti dalla legione al piede dell’Hamada el Hamra. Flamines annui, flamines e flamines perpetui sopravvivono ancora nel IV secolo, quando finiscono con l’assumere una funzione più politico-ammninistrtiva che religiosa; a livello provinciale a partire da Traiano il titolo documentato è quello di sacerdos (e sacerdotalis) provinciae Africae, con un’evoluzione successiva al distacco della Tripolitania dal concilium di Catagine. Resta da dire del praefectus omnium sacrorum che arriva al IV secolo e che pare la traduzione dal punico addir’azarim. Insomma il tema è quello, che paradossalmente si estende anche alla sfera del culto imperiale, delle origini puniche di sacerdozi che forse continuano antiche tradizioni libiche e numide. Dobbiamo necessariamente sintetizzare il tema del ruolo dei proconsoli d’Africa in Tripolitania, del loro conflittuale rapporto con i legati legionis III Augustae, delle circoscrizioni degli altri legati del proconsole, dell’attività del procurator provinciae Africae che rappresentava gli interessi del principe in una provincia senatoria. Ma l’amministrazione comprendeva anche il procurator ad IIII publica Africae (portorium, XX heditatium, XX libertatis, XXV rerum venalium mancipiorum), i procuratores patrimonii, privatae rationis, fisci, con gerarchie e competenze territoriali distinte.

Capisco le esitazioni sulla cronologia intorno alla nascita della Regio Tripolitana ben documentata a Theveste sotto due Augusti, uno dei quali damnatus, circoscrizione della res privata sorta per la gestione dei latifondi che la gens Septimia possedeva da tempo, dopo le confische subite nel 197 dai partigiani di Clodio Albino, originario di Hadrumetum, e dopo l’istituzione di un apposito proc. ad bona cogenda in Africa. Una riorganizzazione della res privata del Severi avvenne sicuramente alla morte di Plauziano, quando fu istituita la procuratela ad bona Plautiani cogenda, che in Africa fu affidata a Macrino, il futuro imperatore, anch’egli di origine africana e più precisamente maura; ebbe nuovo impulso la politica annonaria del principe, con distribuzioni gratuite e giornaliere di olio alla plebe; del resto conosciamo a Roma un proc(urator) ad olea comparand(a) [per re]gionem Tripolit(anam) sessagenario, un ufficio creato sicuramente da Settimio Severo con sede a Leptis.

Dobbiamo ovviamente sorvolare sugli altri funzionari finanziari e sulle cariche militari che riguardavano dogane, commerci, difesa del limes (praepositi limitis), ecc. Quel che è certo è che la Tripolitania espresse un altissimo numero di procuratori imperiali, senatori, cavalieri, giudici delle 5 decurie, curatores civitatis, patroni, ecc. La nota in appendice sul commercio transahariano è utilissima per definire le vie di penetrazione verso il Fezzan, il Ciad e la Nubia, i prodotti trasportati, polvere d’oro, schiavi, animali esotici.

Nonostante l’evidente subordinazione al culto imperiale, il culto delle divinità poliadi Eracle e Dioniso ebbe uno straordinario successo, testimoniato dal ciclo scultoreo della basilica severiana. Il genius coloniae compare a Leptis, a Oea (dove erano venerati Apollo-Rashef e Athena-Tanit), a Sabratha, dove conosciamo i templi di Eracle e Libero, quest’ultimo restaurato ancora alla metà del IV secolo. Il tema ricorrente è sempre quello della contaminazione e dell’interpretatio delle divinità puniche, come la Tanit-Caelestis e Ba’al Hammon-Saturno spesso presso i tofet tripolitani, divinità ben distinte ad esempio a Bou Ngem dall’Ammone egiziano-Zeus-Iuppiter venerato a Gholaia nel tempio documentato nel 205. Possiamo chiudere con i culti nati in ambito ellenistico di Serapide ed Iside, come a Sabratha, dove Apuleio forse nel 158 tenne il discorso sulla magia nel processo davanti al proconsole Claudio Massimo intentatogli dal figlio di Pudentilla Sicinio Pudente: nelle Metamorfosi Apuleio racconta il sogno alla vigilia del 5 marzo, per la festa del “navigium Isidis”, in cui un battello con la statua della dea veniva portato a mare su un carro. Era la prima nave che partiva nella nuova stagione. Si credeva che la dea camminasse su questo battello ed aprisse ella stessa il periodo di navigazione. Il carro navale era accompagnato da una sfilata di maschere, i “misti” di Iside, travestiti da soldati o gladiatori al servizio della dea. Quando avevano realizzato il loro voto, si toglievano la maschera, indossando la bianca veste dei seguaci di Iside. Il sommo sacerdote reggeva in mano una corona di rose, la pianta sacra a Iside, che durante la processione in sogno veniva offerta a Lucio-asino. Sostenuto dalla forza prodigiosa della dea, Lucio finisce per riacquistare l’aspetto umano e si affida a Iside-Providentia, per andare verso la “renovatio” interiore. Temi tutti che rimandano alle più antiche tradizioni marinare, giunte in Tripolitania da Alessadria; la collocazione stessa del tempio di Iside a Sabratha è più eloquente di qualunque discorso; del resto di matrice alessandrina appaiono i culti dionisicaco-isiaco-alessandrini della tomba n. 1 di Zanzur (il villaggio a ovest di Tripoli) scoperta nel 1959 e quella del defunto eroizzato, poco fuori l’anfiteatro di Sabratha, sulla via per Oea, databili forse nell’età di Claudio, come dimostrato nei diversi articoli pubblicati fino al 2011, il principale dei quali è quello sui Comptes rendus de l’Académie des Inscriptions et Belles Lettres del 2008, che racconta anche il retroscena del mancato distacco della tomba di Zanzur (destinata al Museo di Tripoli) deciso da Abdulaziz Gibril interrotto dalla rivoluzione del I settembre 1969, con la realizzazione di un piccolo museo sul posto voluta da Awad Saddawija.

A Sabratha l’eccellente Marcius figlio del nobile (anziano) MNTLK, il princeps, nella traduzione di Giovanni Garbini che aderendo ai misteri dionisiaci <<aborrì il peccato, amò la mansuetudine>>; ormai cittadino romano, dopo il proconsolato di Q. Marcio Barea del 43 d.C., compare isolato ma scortato da un giovane armato lancia nell’atto del banchettare, sdraiato sulla kline, con il piede destro in una posizione davvero caratteristica che fa pensare ad un mystés o a un bacchos eroizzato, fiducioso nel destino ultraterreno promesso da Milk’ashtart-Liber Pater-Dioniso, nell’ambito del culto orfico o dionisiaco di origine alessandrina; dunque un banchettante isolato con una sua profonda dignità alla maniera dei sovrani orientali o degli aristocratici eroi della Grecia; sua moglie di nome Ala, una domina, appare come lui una libica “eccellente”, con il busto privo di braccia secondo una lontana tradizione punica, che però ricorda l’Euridice delle Metamorfosi di Ovidio, che si vorrebbe risuscitare grazie alla forza morale di Orfeo.

È proprio in età proto imperiale che Di Vita individua in una splendida sintesi gli elementi culturali alessandrini a Sabratha, nell’articolo del 1984 degli Studi in onore di Achille Adriani: la tomba della Gorgone, con le nicchie per le Hydriai contenenti le ceneri dei defunti e il bancone con incavi per effettuare le libagioni o le offerte votive, in un clima che è insieme espressione dell’arcaismo greco e dello stile punico, specie nell’espressione dei Gorgoneia di gusto “orrido” che digrignano mostrando lunghissimi denti, che si ritrovano nella tomba del defunto eroizzato, accompagnato da una Gorgone personale.

Il defunto rappresentato sulla tomba di Zanzur scoperta nel 1959 e mal restaurata (ma si vedano le successive sempre più ampie riflessioni di Mainz nel 2001, Parigi 2008, Selinunte 2011) appartiene ad una fascia sociale più alta, è rappresentato in posizione ieratica con un caratteristico copricapo cilindrico nell’atto di bruciare incenso su un thymiaterion punico, mentre sullo sfondo si presentano parenti e servi che attraversano la riviera infernale sulla barca di Caronte (mi pare una cumba come quella dell’arco costantiniano di Cherchel) e che con lui, presentati da Hermes psicopompo, raggiungono Hades e Persefone divinità infernali assistite da due personaggi femminili dalla caratteristica capigliatura, con tavoletta di cera e collana di perle bianche, nel verde dei campi elisi con alberi, in basso bovini, orsi, cervi, gazzelle, cani, dai quali (così come dai suoi parenti) il defunto proprietario della tomba prende congedo; sulla volta: rose, una grande ghirlanda con maschera di Gorgone e amorini agli angoli di grande eleganza decorativa; il protagonista è però Eracle con leonté rappresentato con barba e baffi che trascina Cerbero tricorpore dall’Ade, e riporta sulle braccia verso la luce Teseo svenuto: si tratta dunque di un punico ellenizzato, un cittadino raffinato della vicina Oea, come testimonia la tipica immobilità dei visi delle figure, secondo la tradizione punica, con i grandi occhi chiusi da un profondo cerchio d’ombra. Per molti aspetti i confronti con l’affresco di Dura Europos e le sculture di Palmira rimandano alle assonanze tra mondo siriaco e mondo punico di età ellenistico-romana, con una ascendenza semitica comune. Il fregio animale, la decorazione del soffitto, le teste dei personaggi, la rappresentazione del defunto senza legami con lo spazio raccontano di un pittore pienamente punico; viceversa l’idea della narrazione continua, certi elementi tipologici (come Eracle) e stilistici (l’impressionismo del trattamento delle figure e degli alberi) implicano degli imprestiti dal mondo figurativo ellenistico.

I protagonisti di questi cicli pittorici sembrano tutti esponenti, come il “miliardario”, il flamen Iddibal Caphada Aemilius costruttore del calcidico di Leptis dedicato al numen imperiale alla fine dell’età augustea, di un’aristocrazia che prendeva a suo carico l’enorme spesa degli edifici destinati alla vita comunitaria delle città e che in cambio si attendeva più grande prestigio ed accresciuta autorità sui concittadini. Il passaggio dall’ellenismo alla romanizzazione riguarda in questa fase solo l’élite cittadina, coloro che, in dimensioni differenti, possedevano ricchezza, cultura, potere comune, anche se si riconoscevano pienamente (ancora nel I secolo d..C.) nella coscienza di un’origine punica comune.

Per i 150 anni dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma Di Vita tornava nel 1982 sul progetto originario del Forum Novum Severianum e ricostruiva i risultati dello scavo avviato 25 anni prima da Renato Bartoccini con lo scopo di dimostrare l’esistenza, in fase progettuale, di un secondo foro a est del fianco orientale colonnato della basilica, in modo da ipotizzare un complesso articolato su due ali equivalenti e contrapposte, la seconda delle quali peraltro non venne mai realizzata, anche se rimane la vasta platea in conglomerato cementizio profonda 70 cm. Il tema è delicato, in rapporto all’iscrizione monumentale scolpita su una parete della basilica presso l’abside sud-orientale, che ripete come all’interno della basilica che Settimio Severo coepit et ex maiore parte perfecit e Caracalla completò l’opera del padre nel 216: perfici curavit. Espressioni che contrastano con l’ipotesi di Di Vita che la morte di Caracalla abbia interrotto il cantiere rimasto incompiuto per la seconda piazza forense, con una lacuna sul lato della basilica più lontano dal tempio della gens Septimia. Il punto focale dell’intero foro non sarebbe dovuto essere dunque il tempio severiano come oggi i visitatori ritengono, ma proprio la basilica (92 m x 38 m), che con le sue facciate lunghe colonnate avrebbe costituito la spina, il fulcro, il perno di due ali equivalenti; il che avrebbe consentito di ruotare parzialmente l’asse del complesso con l’area del foro ribaltata ad oriente in rapporto con la via colonnata lungo l’uadi Lebdah, alla quale aderivano i due gruppi di 7 tabernae che fiancheggiano l’ingresso principale alla piazza. Gli allineamenti, le visuali ottiche e gli accessi del foro severiano (132 m x 87 m) nella ricostruzione del progetto originario si debbono a Giovanni Ioppolo, con costante riferimento ai moduli vitruviani, evidenti nei 32 intercolumni del lato lungo della piazza scanditi dalle colonne di granito rosa di Aswan, poi prelevate e perdute. Ho riletto le osservazioni di Johnm Brian Ward Perkins, che non riteneva valida la ricostruzione dell’originario progetto del foro severiano (piazza-basilica-piazza), seguito da Sandro Stucchi, per il quale andrebbe categoricamente smentita l’affermazione di Di Vita che le pareti laterali alle absidi siano state costruite prima delle pareti lunghe perimetrali; all’uno e all’altro Di Vita credo abbia dimostrato nel dettaglio la scalpellatura degli archivolti della basilica verso il foro e molti elementi costruttivi come le grappe sulle pareti.

L’uscita nel 1987 dei due volumi di Giacomo Caputo nelle Monografie di Archeologia libica (III) dedicati al teatro di Leptis Magna, nel 1990 è l’occasione per ritornare sul “Journal of Roman Studies”, su “Gnomon” e sugli “Annali di Macerata” sui numerosi problemi posti dall’affrettata ma fondamentale edizione del monumento, forse il teatro più antico dell’Africa Romana, caratteristico per il suo tamburo chiuso ed eccezionale per l’attestata e datata presenza del tempio di Cerere in summa cavea, studiato assieme a Omar Mahgiub, Antonio Chighine e Raffaello Madaro in Libya Antiqua del 1976-77. Anche polemizzando con la severa recensione di H. Dodge, Di Vita ricostruisce la storia del monumento seguendo la stratigrafia, dunque rovesciando la cronologia: le fasi tarde, gli “avanzi bizantini”, l’abitato tardo-antico, il terremoto del 365, l’età dei Severi con il rivestimento musivo della cornice del portico di coronamento della cavea, il nuovo volto marmoreo sotto Antonino Pio durante il proconsolato di L. Hedius Lollianus Avitus con il rinnovamento della fronte scena e la mamorizzazione della porticus post scenam, l’età traianea e flavia con la nascita della colonia, le strutture originarie del teatro augusteo, che fu inaugurato tra l’1 e il 2 d.C., dono del più ricco leptitano del momento, Annobal Rufus. Di Vita ritiene sostanzialmente accettabile la grande impresa di Caputo del restauro, anche se discute la fronte scena e in particolare la mancata anastilosi del secondo e del terzo ordine. Ma è soprattutto l’iscrizione relativa al proscaenium columnis et marmoribus (a. 157, proconsolato di L. Hedio Rufo Lolliano Avito, legazione di C. Vibio Gallione Claudio Severo vd. IRTrip. 533) che ora, con l’aiuto certamente di Lidio Gasperini e Antonio Chighine, può essere corretta con riferimento alle nicchie (lacunae) planimetricamente presenti già nel teatro augusteo.

Un tema di grande interesse e relativamente autonomo all’interno di questi volumi è quello presentato nel novembre 1996 a S. Maria Capua Vetere sul tema Irregimentazione delle acque e trasformazione del paesaggio, intitolato acqua e società nel prede serto tripolitano, che parte dalla piena dell’Uadi Megenin alla periferia occidentale di Tripoli nel 1982: dunque il tema delle alluvioni causate all’interno del sito archeologico di Leptis dall’uadi Lebda, l’uadi Caam (il Cynips dei greci della spedizione di Dorieo), l’uadi Soffegin e lo uyadi Zemzem, i bacini di raccolta, la fertilità delle vallate fluviali sulla costa oltre che nelle oasi fino a Cidamus-Ghadamés, e poi il predeserto con le fattorie, gli agglomerati difesi, castelli, forti del limes, mausolei spesso a guglia, i ben noti senam: tutte strutture che avevano necessità di una “piccola idraulica” presso i gasr. Le esplorazioni di G. Barker, D. Gilbertson, B. Jones e D. Mattingly venivano pubblicate proprio nel 1996 nell’ambito di quello che ha definito la <<poderosa e metodica operazione di survey del predeserto>> nell’ambito del progetto “Unesco Libyan Valleys Surveys” con preziose osservazioni sulle tecniche di adduzione delle acque nella regione del pre-deserto, sottolineando una continuità fra mondo pre-romano, romano, bizantino, aglabide, in alcuni casi sino ai giorni nostri, con risultati straordinari che rendono giustizia a un mondo tutt’altro che sottosviluppato e al contrario capace di produrre del surplus per il commercio con i centri urbani della costa. Ne abbiamo parlato (con Antonio Ibba) recentemente a Djerba, ricordando come la popolazione sedentaria pratichi l’arboricoltura grazie a metodi di irrigazione molto particolari che attingono l’acqua non tanto dalle rarissime fonti ma grazie a terrazze o sbarramenti (jessour) che controllano e incanalano le acque alluvionali o degli oueds Merteba, Seradou, El Hamma (Ben Ouezdou). Strutture simili sono state individuate in Libia, nella Tunisia sud-orientale nella piana di Augarmi, fra Feriana e Kasserine nella regione delle Alte Steppe. Spesso gli archeologi le hanno confuse con le clausurae, sbarramenti lineari lungo le piste in cui si spostavano in antico uomini, armenti e merci, destinati a regolare i flussi piuttosto che a difendere o chiudere ermeticamente il territorio provinciale. Proprio ad una clausura costiera di Sabratha è dedicato l’articolo del Convegno de L’Africa Romana di Tozeur del 2002, in questo volume con fotografie originali che documentano il progressivo degrado dell’area archeologica in rapporto alla costruzione di un ospedale e di un ristorante che sono andati a insistere sul tophet, sulle latomie, sul porto e sul faro.

Il bilancio sulle città della Tripolitania si arricchisce nel 1998 nell’articolo su Sabratha, ora tradotto dal francese, ma originariamente pubblicato anche in tedesco: ne scaturisce un affresco a tutto tondo della città ellenistica con un tessuto urbanistico organizzato per strigas, che orienta la collocazione dei templi e dei monumenti nei diversi isolati, la prima città romana distrutta da un primo terremoto tra il 65 e il 70 tra Nerone e Vespasiano: il teatro, il foro, la basilica giudiziaria, le vaste latomie; infine la città monumentale dagli Antonini ai Severi, municipio promosso a colonia da Antonino Pio, con il tempio di Liber Pater nel foro con le sue caratteristiche colonne di granito grigio della Misia, la fontana di Flavius Tullus, lo spettacolare tempio Antoniniano dedicato dopo il 166 a Marco Aurelio e Lucio Vero, la curia poi trasformata in battistero, il tempio a divinità ignota dedicato ad Ercole erede di Melqart, la decorazione scultorea del proscenium del teatro, l’anfiteatro per combattimenti gladiatori di inizio III secolo con la quadriga di C. Flavius Pudens, una seconda quadriga, quella del monumento di Settimio Severo nel 202, il porto, il faro. Tutti elementi che vengono sincronizzati con le citazioni dei Sabratenses ex Africa a Roma per la dedica della statua di Sabina e con la statio Sabratesium del Piazzale severiano delle corporazioni di Ostia. Segue un capitolo sui terremoti del IV secolo, le ricostruzioni come della basilica giudiziaria, l’utilizzo come depositi di emergenza di statue monumenti delle favissae del Capitolium. Infine dalla città cristiana alla fortezza di Giustiniano si pone il tema dei complessi episcopali, della presenza dei donatisti, il nuovo battistero, la ricostruzione sulle rovine, le mura, le fortificazioni, le torri angolari, la basilica bizantina ricostruita dentro il museo, le abitazioni, la presenza araba.

Una sintesi sui risultati della lunga missione archeologica a Leptis Magna e Sabratha è pubblicata nel 2002 su “Il dialogo interculturale nel Mediterraneo, la collaborazione italo-libica in campo archeologico”, dove Di Vita ricorda i lunghi 39 anni di presenza in Libia partendo dal 1962, da ultimo in qualità di consigliere scientifico dell’Unesco al momento della realizzazione del nuovo museo di Tripoli, fondatore di Libya Antiqua assieme ad Aissa S. Laswed e Richard Goodchild nel 1963, che si è continuata a stampare in Italia, decano di tutte le missioni archeologiche in attività in tutte e tre le regioni della Jamahirija.

Al 1971 risale la scoperta dell’area sacro-funeraria pagana di Sidret el Balik immediatamente a Sud di Sabratha, che però fu presentata in maniera adeguata solo sui Rendiconti della Pontificia Romana di Archeologia del 1980-81 e in varie altre occasioni fino al 2011 (nel 2007 per l’Académie des Inscriptions et Belles Lettres): si tratta di un complesso funerario pagano collocato in una cava d’argilla abbandonata costituito da un ingresso, un sacello con due altari, un ampio vestibolo, con ad oriente un vasto spazio a cielo aperto, quattro caratteristici triclinia sigmoidali o stibadia, le esedre e le mensae, con una grande vasca addossata alla parete meridionale. Ancora una volta le strutture del I-II secolo appaiono danneggiate dal terremoto del 306-310, parzialmente ristrutturate nei decenni successivi, comunque prima del terremoto del 365, con un’area di riunione per i pasti funebri connessa ai parentalia; il refrigerium è il pasto commemorativo presso le sepolture, una pratica antica e radicata in Africa e nella Tripolitania di IV secolo, all’alba dell’a tarda antichità; ci appare viva sia presso i pagani (come appunto a Sidret el Balik) quanto presso i cristiani (il più modesto ipogeo di Adamo ed Eva a Gargaresc nei sobborghi occidentali di Oea). Si potrebbe pensare, anche attraverso lo spettacolare affresco (<<le cycle pictural le plus vaste et le plus important jamais découvert et Afrique romaine et (….) l’un des plus entendus de tout l’Empire>>), con animali selvatici e domestici, cacciatori, scene di caccia e altre scene agresti (che ricordano le pitture con scende di caccia del frigidarium delle terne dei cacciatori di Lepts), grappoli d’uva e spighe di grano, ma anche vedute di edifici, ad un paradeisos (amorini, pavoni sotto una pergola come nel mosaico di Cherchell) con riferimento a vere e proprie eterìe, curie, associazioni attive e potenti che avevano l’abitudine di assumere pasti comuni, veri e propri collegi funeratici (almeno 32 persone) che potrebbero esser rimasti pienamente attivi nei decenni successivi alla pace costantiniana: motivi tutti che rimandano all’antico repertorio alessandrino ma con elementi comuni ai mosaici africani.

Al IX Congresso internazionale di archeologia cristiana svoltosi a Roma nel 1975 Di Vita presentò l’ipogeo di Adamo ed Eva a Gargaresc, uno dei sobborghi occidentali di Tripoli, studiato a partire dal 1965 all’interno delle labirintiche cave di arenaria abbandonate: a parte la camera funeraria di Aelia Arisuth pubblicata cinquanta anni prima da Romanelli, ora emergono le figure di Adamo ed Eva (con acconciatura ad elmo) tentati dal serpente e la rara immagine forse dell’ingresso di Gesù su un asino in Gerusalemme o più probabilmente del profeta Balaam, con lampadofori entro nicchie, prototipi di miniature pergamenacee; nella parete occidentale rimangono molto danneggiati frammenti di un episodio cui assistono tre personaggi, dominus, domina e ancella, sovrastati da una lunga iscrizione dipinta poco leggibile;  nel complesso espressioni di arte popolare, che si confronta con le catacombe romane, con i mosaici di Piazza Armerina, con altre pitture tripolitane ed ora a Turris Libisonis. I dati antiquari, iconografici e stilistici ci poterebbero al secondo venticinquennio nel IV secolo, prima del terremoto del 365; di grande interesse la lunghissima iscrizione latina corsiveggiante, solo parzialmente interpretata, che potrebbe conservare il ricordo del rito del battesimo, un estratto dagli acta di un martire sottoposto a supplizio in una piscina calcaria. Il materiale rinvenuto nell’ipogeo, soprattutto orci ed anfore africane, rimandano al rito funerario cristiano dei refrigeria.

In questo volume ricorrono tanti temi diversi: uno degli ultimi lavori, presentato da Maria Antonietta Rizzo, proprio in questa sala all’Istituto Nazionale di Studi Romani pochi mesi dopo la scomparsa di Di Vita nell’aprile 2012 su invito di Salvatore Garraffo, è quello sul tesoro di Misurata e la Tripolitania tardo-costantiniana, un lavoro di sintesi che parte dal ritrovamento delle monete d’argento destinate ai gentiles limitanei che proteggevano la fattoria di Rimal Zariq (Zawiath el-Mahjoub), forse devastata dagli Austuriani, ma che si allaga al lontano ricordo di un viaggio del 1981 in compagnia di Omar Mahjoub a metà strada tra Tripoli e Sirte: <<arrivammo tardi, oltre l’imbrunire, vidi i resti di tre-quattro camere, in una delle quali, se non ricordo male, egli mi indicò che erano state trovate delle anfore, ma in realtà i vasi con monete furono rinvenuti seppelliti e non lontani l’uno dall’altro, in un’ampia area aperta, verosimilmente un cortile>>. Ma ormai il discorso è più ampio, riesce ad affrontare il tema dell’insieme della provincia tra Turris Tamallenis e Tacapae Gabes fino alle Are dei Fileni, con attenzione soprattutto per l’organizzazione del limes partendo da occidente dal Gébel che circonda ad arco la pianura costiera della Gefàra, con i tre forti di Ghadames, Gheriat el-Garbia e Bu-Ngem con gli incredibili ostraca di Gholaia, ai quali aveva dedicato voci di enciclopedia e riflessioni originali, nel fecondo confronto con René Rebuffat, lasciandosi alle spalle le vecchie posizioni del Courtois.

Non manca una rilettura attenta di tutte le fonti sulla Libia, partendo da quelle più antiche, come nella presentazione critica del volume Libykà di Gabriella Ottone, a proposito della caratterizzazione come borgo (chorìon) di Abrotonon, Sabratha, in Lico di Reggio: una città invece, polis, in Strabone. Ma Sabratha di inizio III secolo a.C. era ancora solo un piccolo emporio punico allo sbocco dell’importante via carovaniera di Ghadames: ne deriva che lo sviluppo degli empori tripolitani coincide con la autonomia riconosciuta loro dopo Zama quando non pagarono più a Cartagine il pesantissimo tributo annuo che per Tito Livio (34., 62,3) era di un talento d’argento al giorno, una quantità davvero enorme.

Significativa appare la riflessione di sintesi sul ricordo dei viaggiatori e l’esplorazione archeologica in Libia dalla fine del mondo antico ai giorni nostri, partendo dai Quaderni del 1983: Corippo racconta che l’esercito di Belisario che marciava contro i Vandali poteva camminare “nell’ombra che moltiplicavano gli alberi spessi”; e Procopio riferisce che “la zona litoranea era un continuo verziere che si tende da Tripoli fino a Tangeri; una regione ricca fra tutte dei frutti necessari alla vita”. Temi che tornano nelle descrizioni dei primi viaggiatori arabi arrivati nel 642, a proposito della sterminata distesa di alberi che tra Tripoli e Tangeri avevano l’aspetto di un unico immenso bosco nel quale sorgeva una quantità di villaggi (Ibn Khaldun da cui Abd-er-Rn-Ibn-Ziad-Ibd-Anan). La “fine del mondo antico” non sarebbe legata all’arrivo degli arabi di ‘Amr ibn al-‘Aas appoggiati dalla flotta copra di Alessandria, ma andrebbe spostata solo all’XI secolo con la violenta irruzione dei feroci Bani Hilal e dei Bani Suleim. Molti sono i viaggiatori arabi diretti alla Mecca nella Ribba rituale che descrivono la Tripolitania:già nel 1289 lo sceicco al-‘Abdari di Valenza ci ha lasciato la prima descrizione dell’arco quadrifronte dedicato dagli abitanti di Oea a Marco Aurelio e Lucio Vero, una qubba alta con costruzioni elevate; un monumento che nel 1309 viene descritto anche dallo scieicco er-Tigiani, che restò a Tripoli 18 mesi.

Non è possibile seguire in dettaglio l’attività degli europei, come il console francese Claude Lemaire sul finire del XVII secolo, che vide i dominatori ottomani nolenti più che volenti socchiudere la reggenza di Tripoli alle potenze occidentali: instancabile ricercatore di marmi antichi, il console trasse tra il 1683 e il 1708 centinaia e centinaia di colonne marmoree dal tempio (la basilica severiana) di Leptis che furono spedite in Francia. I Britannici scavarono a Leptis già nel 1817 su autorizzazione di Yusuf Caramanli pascià di Tripoli, col capitano W.H. Smyth dell’ammiragliato britannico, che si spinse fino a Ghirza. Due anni dopo il capitano inglese G.F. Lyon arrivava a Bou Ngem. A Cirene, la presenza della sfortunata missione americana diretta da Richard Norton arrivato da Creta tra il 1910 e 1911 e più volte minacciato di morte (sulla via per Cirene fu ucciso a fucilate Herbert Fletcher De Cou l’11 marzo 1911), infastidì non poco gli italiani, in particolare Federico Halbherr e Gaetano De Sanctis, che anticiparono di qualche mese l’occupazione italiana della Tripolitania e della Cirenaica decisa da Giolitti il 29 settembre 1911, quando scoppiò la guerra italo-turca. Ho trovato straordinario l’articolo sul carteggio Halbherr fa politica e archeologia, pubblicato negli Atti del convegno di Catania del 1985 sull’archeologia italiana nel Mediterraneo: vengono svelati con molto equilibrio gli imbarazzanti retroscena dell’attacco italiano alla Libia, preceduto dalle pericolose ricognizioni dell’Halbherr in Cirenaica e in Tripolitania, il ruolo del Banco di Roma, del Consolato e della Missione archeologica, di singoli studiosi come Salvatore Aurigemma a Tripoli (poi Pietro Romanelli) e Ettore Ghislanzoni (poi Gaspare Oliverio) a Cirene, le malignità sull’uccisione misteriosa del <<signore della missione americana>> che sottintende la storia delle donne beduine molestate dal De Cou ma che contrasta con l’indennità pagata per compensare la famiglia dell’ucciso; il ruolo dell’Istituto italiano per l’esplorazione del settore centrale dell’Africa del Nord. Sono soprattutto le lettere al Pernier, al De Sanctis, al Comparetti che ci fanno capire meglio l’ansia dell’Halbherr, il ruolo aggressivo da lui svolto, l’amarezza per il fatto che l’entrata in guerra dell’Italia imponeva buoni rapporti con quegli americani a Cirene che <<rappresentano una spina nell’occhio della nostra colonia>>. Ho studiato in passato lo scontro tra l’Halbherr ed Ettore Pais avvenuto nel 1918, quando il Pais riuscì a coronare una sua antica aspirazione, facendosi nominare a Roma ordinario di Storia antica sulla cattedra del Beloch, nonostante l’avversione dell’Halbherr, che lo considerava uno storico ormai “nella parabola discendente”, un “critico demolitore, incapace di una vera ricostruzione storica”. Che il De Sanctis avesse sposato pienamente ab origine le posizioni guerrafondaie dell’Halbherr è dimostrato dal fascicolo del 1928 della Rivista di Filologia e d’istruzione classica dedicato a Cirene. Fu allora istituito il Servizio per le Antichità presso il Ministero delle Colonie, premessa per la nascita delle Soprintendenze di Tripoli e Bengasi, unificate nel 1936. Conclude Di Vita: <<il moto del rinnovato impero di Roma dell’Italia fascista era cominciato>>. Di Vita osserva che il fascismo fu animato dal <<desiderio di riportare alla luce l’”orma profonda” di Roma nelle città antiche della Libia e soprattutto in quella “imperiale” per eccellenza, Leptis>>. Ma da respingere sarebbero quelle <<accuse generiche e generalizzate di incapacità scientifica e di servilismo ideologico, talora formulate in anni recenti nei confronti degli archeologi operanti in Libia>>, s’intende Salvatore Aurigemma, Gaspare Oliverio, Giacomo Guidi, Renato Bartoccini, Giacomo Caputo, Gennaro Pesce, Pietro Romanelli. Tra gli archeologi stranieri arrivati dopo la sconfitta dell’Asse, Di Vita ritiene che H.W. Haynes, J.B. Ward Perkins, R. Goodchild (primo controllore per le antichità della Cirenaica) e la nostra Joyce Reynolds si siano segnalati per il desiderio di collaborazione con gli archeologi italiani e francesi, se ai vecchi, si aggiunsero E. Vergara Caffarelli, Antonino Di Vita, Sandro Stucchi e René Rebuffat con l’impresa di Bou Njem (affidata inizialmente da Di Vita a Pierre Boyancé della Scuola di Roma, poi passata a Maurice Euzennat di Aix). Ma voglio ricordare anche gli studiosi americani impegnati ad Apollonia – Marsa Susa (prima di Laronde), Cirene, Hadrianolpolis, Euesperides, Tolemaide, ecc.

La cosa che più mi ha sorpreso in questi volumi che testimoniano la misura e la prudenza dell’autore, sempre impegnato a mantenersi su un piano “politicamente corretto” anche quando parla del colonialismo fascista, è nel commosso ricordo di tre amici libici, caduti in un incidente aereo mentre da Tripoli raggiungevano il Cairo. Cito per esteso: <<Tra i passeggeri dell’aereo di linea libico diretto al Cairo, abbattuto il 21 febbraio del 1973 da un caccia israeliano, si trovavano tre dei massimi dirigenti alle antichità di Libia: il dott. Awad Mustapha Saddawaya, direttore generale (Presidente) del Dipartimento dopo la rivoluzione del [I settembre] 1969, laureato a Liverpool, il sig. Aissa Salem el-Aswed, direttore di ricerca e capo dei rapporti con le missioni straniere segretario di redazione di Libya atiqua, il sig. Mohamed Fadil el-Mayar, aiuto controllore delle Antichità di Cirenaica>>. È l’occasione per esprimere il compianto più cocente per gli amici così tragicamente <<strappati agli affetti, al lavoro, alla Patria>>; a questi suoi figli generosi la Libia guarda ora con mestizia ma con orgoglio, e la loro devozione all’archeologia costituisce per tutti noi che li avemmo colleghi ed amici indimenticabili impegno a colmare il vuoto da essi lasciato, continuando la loro opera e adoperandoci a che essa fruttifichi ancora>>. Noi oggi possiamo cogliere solo parzialmente quell’emozione, il senso della perdita irreparabile, il danno che è stato determinato alla cultura archeologica della Libia. Emerge la figura di Aissa Salem El-Asewed, <<il caro, dolcissimo amico, che sarebbe così tragicamente e immaturamente scomparso>>: <<Segretario [di Libya antiqua] preparatissimo e linguisticamente “ecumenico” – giacché oltre al berbero e ad un arabo impeccabile conosceva l’italiano, l’inglese, il francese, il latino, il greco ed un po’ di fenicio-punico. A lui si devono le traduzioni in arabo dei contributi dei primi volumi, con termini “tecnici” che a volte egli dovette creare ex nihilo e che sono entrati nell’arabo archeologico>>.

Sarebbe troppo facile per me ricordare il bombardamento della sede dell’organizzazione per la liberazione per la Palestina del I ottobre 1985 in una località del golfo di Cartagine, Hamman al-Shatt a pochi passi dalla nostra casa di Ez Zahra, dove vivevo con i miei, in particolare con mio figlio Paolo. Allora 10 F 15 israeliani bombardarono l’abitazione di Arafat, che si salvò, a differenza di 50 suoi compagni palestinesi. Naturalmente un effetto più diretto e immediato sul patrimonio della Libia hanno avuto le vicende legate alla caduta di Gheddafi, alla c.d. primavera araba (un vero e proprio “inverno” per il premio Nobel per la pace il segretario generale dei sindacati dei lavoratori, Houcine Abbassi, che ha recentemente parlato a Cagliari su invito della Fondazione Sardegna), alla guerra in corso proprio in questi anni. In queste pagine si colgono qua e là le speranze di una Libia diversa, decisa a procedere sulla strada di uno sviluppo incredibilmente rapido, con la sua attenzione per i parchi archeologici, le ville, grazie alla lontana legge sulla tutela delle antichità che risale al 1953, alla nascita del Dipartimento per le Antichità nel 1963, che ha favorito l’arrivo di équipes di ricerca internazionali, con l’ammirazione per l’azione svolta dai colleghi libici e inglesi, riuniti intorno alla redazione di una rivista “Libia Antiqua” che intendeva portare <<il suo messaggio di civile collaborazione scientifica>>.

Credo di dovermi fermare, mentre resta sospesa la domanda del destino di tanti monumenti libici durante questa guerra sanguinosa che ha visto la distruzione del patrimonio. Ricordo l’opera dell’Istituto Centrale per il restauro per innalzare le pareti abbattute dal sisma del 365 del complesso di Sidret el-Balik con il più esteso ed importante ciclo pittorico di IV secolo trovato nel mondo romano: Di Vita raccontava come era stato difficile salvare le pitture, le quali, una volta tratte fuori dalla sabbia, hanno avuto ed hanno bisogno di restauri e cure continue. Mentre parliamo, ignoriamo totalmente  cosa sia davvero avvenuto negli ultimi anni. Naturalmente ci rimane nel cuore la sorte del nostro amico l’archeologo siriano di Palmira Khaled al-Assaad ucciso barbaramente dal Daesh il 18 agosto dell’anno scorso nei primi giorni della “primavera araba”, dopo un mese di torture, magari per inseguire microscopici obiettivi di parte, tra speculazione, traffici illeciti, bieco affarismo. Il progetto dell’Is nei confronti del patrimonio archeologico è ormai chiaro: l’iconoclastia non è un fatto nuovo nella storia e non è sostenuta da alcuna motivazione sincera. Non c’è più oriente o occidente, romani o arabi, cristiani o musulmani, se ad esempio in Libia abbiamo potuto contare oltre cento siti islamici distrutti dal Daesh nello scontro tra sciiti e sunniti: qualche mese fa ne abbiamo presentato un elenco alle autorità internazionali con l’appello inviato all’Unesco e al Centro Arabo per il patrimonio mondiale.

Ma torniamo al nostro amico: 53 anni fa durante i lavori per allargare Sciara es-Seidi a Tripoli, Di Vita ritrovò tra i ruderi di un’antica moschea un frammento architettonico romano in marmo reimpiegato nel 1668, con un’iscrizione araba: tornato da La Mecca lo hāğğ Ahmed Kathodā, <<rinnovò la costruzione di questa moschea benedetta, magnificata, nell’anno 1078 della nobile Egira. E Allah costruì a lui un palazzo nel Paradiso>>, cioè – per seguire alla lettera il Corano – nella dimora della salute (dâr as-salâm) e nei giardini della delizia e del soggiorno ospitale, presso una sorgente che si trova in quel giardino, chiamata Salsabîl. Resta un mistero di come Di Vita sia riuscito a conciliare queste sue curiosità con il rapporto con i suoi amici sacerdoti della chiesa ortodossa di Creta e del patriarcato di Costantinopoli. Ma forse negli ultimi giorni Nino Di Vita pensava a quel luogo misterioso e lontano, quel paràdeisos immaginario, dipinto proprio sulla parete dell’area sacro-funeraria di Sidret el-Balik a Sabratha, dove ora si trova in pace.




Premio città di Ozieri di letteratura sarda, 1 ottobre 2016.

Premio città di Ozieri di letteratura sarda, 1 ottobre 2016
Intervento del Presidente della giuria Attilio Mastino

Cari amici,

questa 57° edizione del Premio Ozieri vede la straordinaria partecipazione di tanti appassionati poeti, pieni di sentimenti, di voglia di confrontarsi, desiderosi di difendere la lingua, la poesia e la cultura della nostra terra. Eppure questa edizione si apre con un’assenza irrevocabile, quella del Presidente onorario Nicola Tanda, che prima di me ha presieduto la nostra Giuria per oltre vent’anni e che mi aveva chiamato a sostituirlo, con una generosità che mi aveva lasciato senza parole. Nicola è stato un attivo protagonista anche di altri importanti Premi letterari in Sardegna, punto di riferimento per tante generazioni di poeti e scrittori sardi.

Il nostro Nicola è scomparso il 4 giugno a 88 anni di età a Londra, assistito dal figlio Ugo: la sua lunga stagione ha avuto molti successi e molta forza. Sullo sfondo del suo impegno intelligente e colto c‘era una scelta non scontata, la progressiva codificazione e circolazione letteraria plurilingue che è alla base anche dell’edizione del Premio Ozieri negli ultimi anni. Ne hanno parlato Dino Manca, Vittorio Ledda, Antonio Canalis, Paolo Pillonca.

Nicola considerava Ozieri, la città di adozione che gli aveva conferito la cittadinanza onoraria, la culla della lingua sarda, per usare la recente espressione del giornalista franco-corso Xavier Pierlovisi, Ozieri “ville historique, parraine de la protection de la langue sarde”.  Il premio che daremo al prof. Edgard Radtke del Romanisches Seminar dell’Università di Heidelberg, in passato vicepresidente della Società di Linguistica Italiana, va in questa direzione.

E ciò anche nei tempi dell’accertato mancato assolvimento da parte dell’Italia degli obblighi imposti dalla Convenzione quadro delle minoranze nazionali in vigore da vent’anni, sia pure teoricamente tutelati dalla legge  482/99 e, in Sardegna, dalla legge regionale 26/97, che pure è più avanzata rispetto alla legge nazionale. E’ di poche settimane fa la rigorosa ispezione disposta dall’Unione Europea, che non è stata positiva in tema di difesa dei diritti delle minoranze linguistiche.

Grazie con al Sindaco Leonardo Ladu che ritroviamo davvero con affetto sincero, grazie alla Giunta e in particolare all’assessore alla cultura Giuseppina Sanna, grazie al consiglio comunale per aver decretato il lutto cittadino in occasione della scomparsa di Nicola Tanda.  Proprio ad Ozieri ci aveva chiamato a confrontarci alcuni anni fa  (il I aprile 2012) sullo straordinario carattere plurilingue (sardo, spagnolo e italiano) dell’opera Rimas diversas Spirituales di Gerolamo Araolla, vissuto nella seconda metà del 500. Era stata l’occasione per ricordare anche altri due personaggi che testimoniano la sensibilità della città di Ozieri in tema di lingua sarda: qui è nato Matteo Madao che ha scritto in  italiano il  Saggio di un’opera intitolata “Il ripulimento della lingua sarda” lavorato sopra le sue analogie colle due matrici lingue la Greca e la Latina (Cagliari 1782), con il proposito di far acquistare prestigio alla lingua sarda.  Altro personaggio ozierese importante è Francesco Ignazio Mannu (Ozieri 1758 – Cagliari 1839), che ha  esercitato l’avvocatura a Cagliari e durante il triennio rivoluzionario sardo (1793 – 1796), è stato avvocato dello Stamento militare, particolarmente attivo nel rivendicare l’autonomia del Regno sardo e l’abolizione dell’anacronistico sistema feudale. Tra la fine del 1795 e gli inizi del 1796, ha composto, l’inno Su patriota sardu a sos feudatarios. Più noto come, Procurade ‘e moderare, è un canto  di lotta contro il feudalesimo e la sintesi  poetica dei progetti e delle aspirazioni del popolo sardo, protagonista della rivoluzione angioiana. Non fu né volle essere un giacobino, fu un moderato che intendeva attuare i principi costituzionali della “divisione dei poteri”. Sostanzialmente egli esprime il sentimento di ribellione contro le ingiustizie di chi, in qualsiasi posizione di potere si trovi o sia riuscito a collocarsi, infrange la legge  e diviene un tiranno (custos tirannos minores / est precisu umiliare). Francesco Ignazio Mannu si è rivolto al popolo sardo  in  lingua  sarda. E Tanda osservava: <<non più di sessanta anni dopo la sua morte, un poeta come Sebastiano Satta,  si rivolgerà al popolo sardo in italiano>>.

Ricostruendo la storia del Premio attraverso i verbali delle diverse Giurie, utilizzando il Fondo manoscritti in lingua sarda, aveva scritto un preziosa sintesi sul Premio Ozieri che inizia dalla prima edizione con 50 partecipanti in occasione della festa di NS del Rimedio del Settembre 1956, grazie al maestro Tonino Ledda, ma sulla scia della lezione del poeta Antonio Cubeddu. Tra i segnalati di quella prima edizione ci sono anche poeti giovanissimi: Salvatore Farina e Beatrice Pirastru, appena diplomati all’Istituto Magistrale. I vincitori sono invece poeti già noti al pubblico: Nanni Marchetti, Giovanni Antonio Cossu, Giuseppe Raga, il sensibile poeta del Pélau.

Nicola Tanda accusava le chiusure del fascismo sulla lingua sarda e la stessa concezione crociana della letteratura che considerava negativamente il folklore e la poesia popolare, che distingueva dalla poesia riflessa. Così la tradizione poetica in lingua sarda era fino a quel momento rimasta sotto schiaffo. Per capire il livello raggiunto già con la terza edizione, Nicola citava autori come Forico Sechi, Giovanni Antonio Cossu, Salvatore Corveddu, Antonio Palitta, altre sicure promesse, come Predu Mura e Ubaldo Piga.

Fin dalla seconda edizione del 1957 la giuria veniva integrata con il Presidente Francesco Masala e, a seguire tra gli altri, da Antonio Sanna, Manlio Brigaglia, Gavino Pau e Mario Mossa Pirisino. Finalmente Predu Mura, che già ha partecipato a tre sessioni, riceveva un giudizio positivo che ne coglieva le qualità poetiche. Si affacciavano Giovanni Fiori e Giulio Cossu, Giovanni Maria Dettori e Pietro Mazza.

Dal 1961 Antonio Sanna, che sarebbe stato mio professore di linguistica sarda nella Facoltà di Lettere di Cagliari e nella Scuola di specializzazione in Studi Sardi,  presiedeva la Giuria assistito dal segretario Tonino Ledda.

Rileggendo i giudizi delle giurie del primo decennio, Nicola affermava con ottimismo: <<quando esiste un ascolto, cioè un orecchio linguisticamente e letterariamente competente, anche la produzione poetica e letteraria migliora>>.

La poesia sarda non è una poesia dialettale, e già <<compaiono concetti e categorie che denotano una maggiore competenza linguistica nuova, che già prelude a quella delle “lingue tagliate” delle minoranze e a una sensibilità diversa circa il ruolo svolto sinora dalla poesia sarda rispetto alle lingue nazionali>>.

Questa nuova atmosfera sarebbe evidente nell’atteggiamento del pubblico che si scorge nella fotografia dell’ottava edizione del 1963: <<Un aspetto del salone della Casa del Combattente di Ozieri dove si svolge  tradizionalmente la cerimonia di premiazione, gremito di folla. In prima fila (da sinistra) si possono notare, i poeti Pietro Mura (con la coppa del Presidente della Regione Sarda); Antonio Palitta: 1° premio; Rafael Sari: 2° premio sez. algherese; Faustino Onnis di Selargius: 2° premio sez. sarda; Cesira Carboni Aru di Cagliari: segnalazione; Ilia Pisano Cossu di Tempio; la moglie  del poeta Cesarino Mastino di Sassari: 3° premio sez. sarda;  Antonella Salvietti di Alghero: 1° premio>>.

Nicola tornava però su Pedru Mura: <<tra le due poesie presentate da Predu Mura, “si leva personalissimo e potente  (Fippo operaiu ‘e luche soliana ) l’anelito  pieno di speranza  del poeta e del sardo, in un futuro più buono>>

Mi piace ricordare quei versi:

Fippo operàiu ‘e luche soliana

commo so’ oscuru artisanu de versos

currende un’odissea ‘e rimas nobas

chi mi torret su sonu ‘e sas lapias

ramenosas campanas

brundas timballas e concas

e sartàghines grecanas.

<<Il poeta nuorese, in Annuntzia chi est bennia s’aurora, riprende idealmente il canto augurale del suo concittadino Satta sui destini della sua terra, già vede, in un commosso atto di fede, una nuova vita di pace, lavoro, prosperità, per la sua Isola amata, ed un domani per sé e per tutti migliore>>.

L’enfasi posta dalla giuria sulle speranze ispirate dal Piano di Rinascita sminuisce l’importanza della odissea de “rimas nobas” che ha proposto Predu Mura, nella sua poesia che avrà una straordinaria e crescente efficacia modellizzante. Come già succede per tutte le sue poesie premiate, destinate a rinnovare ed allineare la lingua poetica sarda alla lingua poetica contemporanea italiana ed occidentale.

Con l’Ozieri si rinnova il canone della comunicazione letteraria in Sardegna poiché proprio con l’immissione nel sistema linguistico e letterario sardo delle sue poesie per Tanda si rafforza l’automodello sardo e si raggiunge il traguardo di un vero e proprio bilinguismo letterario sardo – italiano. L’informazione, in quegli anni, sia dalla carta stampata che della radio, accompagna e segue le vicende del premio e ne diffonde di buon grado i messaggi. Il premio diventa punto di riferimento di quanti, in un momento in cui la scuola e i  media  tendono all’omologazione italianizzando i Sardi, ancora tengono alla propria identità e quindi alla proprie tradizioni. I verbali espriono giustamente soddisfazione e possono affermare che i moduli delle rime e delle strofe tradizionali non sono forme inerti ma possono anche  produrre risultati liricamente rilevanti. <<Davvero Predu Mura è riuscito a coniugare la tradizione poetica sarda con la lingua poetica contemporanea da Omero a Dante, da Garcia Lorca a Ungaretti, a Quasimodo: Gai fortzis su sole / in custa die  de chelu / est benniu a cojubare / frores de neulache / chin fruttos de melalidone. Questa produzione letteraria segna l’avvio di quella ripresa della cultura artistica sarda nel suo insieme che non solo ha guadagnato continuamente consensi ma ha posto le premesse di quel ribaltamento della rappresentazione dell’Isola che la ha inserita nell’immaginario collettivo europeo  e nel circuito mediatico internazionale>>.

Nominato presidente del Premio alla fine degli anni Ottanta, Nicola avrebbe lasciato la sua impronta profonda, al fianco di Tonino Ledda e poi di Antonio Canalis.

Egli ormai presiedeva il Centro di studi filologici sardi e ne dirigeva la collana, che continua ancora oggi a pubblicare (con la casa editrice Cuec) le edizioni critiche delle opere degli scrittori sardi; grazie per la sua partecipazione al nostro lutto al prof. Peppino Marci, il nostro amico di sempre. Il Centro promuove gli studi sulla cultura sarda e sulle lingue impiegate nell’uso scritto in Sardegna in epoca medioevale e moderna. Dirigeva inoltre la collana di letteratura sarda plurilingue “La biblioteca di Babele”, che ha scoperto progressivamente intelligenze nascoste, facendo emergere molti colleghi, allievi, autori non sempre noti. Dal 1997 faceva parte del Consiglio direttivo nazionale dell’Associazione Internazionale per gli Studi di Lingua e Letteratura Italiana.

Ho rivisto in questi giorni per questo appuntamento solenne le due consistenti cartelle che contengono i documenti conservati nell’Archivio storico dell’Università, in particolare l’articolato fascicolo personale con lo stato di servizio. Nicola era nato a Sorso il 22 dicembre 1928: a Sorso ci riportava ogni volta che poteva per parlare di Romangia, di Sala Magna, delle origini latine della lingua sarda. Sapeva che toccava i tasti giusti, quelli delle eredità, delle sopravvivenze, delle continuità di un passato romanzo che riteneva alla base della lingua sarda di oggi. Il suo primo incarico di Storia della grammatica della lingua italiana presso la Facoltà di Magistero nel corso di laurea in Materie letterarie risale al I novembre 1972, dunque a 44 anni fa. Nel 1974 è stato stabilizzato interno, per poi assumere dal 1978 l’incarico interno di Lingua e letteratura italiana nel corso di laurea in Lingue e letterature straniere del Magistero, dove aveva trasferito la sua stabilizzazione. Professore associato di Lingua e letteratura italiana dal 10 dicembre 1982, aveva assunto contemporaneamente la direzione dell’Istituto di Filologia moderna e la supplenza di Teoria della comunicazione nel corso di laurea di Pedagogia, di Metodologia e didattica degli audiovisivi, di Italiano nel Corso di laurea di Materie letterarie, di Pedagogia. Dal 1992 era stato trasferito alla neonata facoltà di Lettere e Filosofia e dopo il concorso a professore ordinario, pendeva servizio il I novembre 1992 come straordinario e poi dal 1999 come ordinario di Letteratura e filologia sarda, cessando dall’ufficio di professore associato. Fu poi inquadrato nel settore scientifico disciplinare L-Fil-Let/13 Filologia della letteratura italiana.

Dal 1994 ha diretto l’Istituto di Filologia Moderna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia ed ha coperto per supplenza gratuita Metodologia e didattica degli audiovisivi, di Italiano a Pedagogia.

La sua stagione più produttiva ha coinciso con la nomina a partire dal I novembre 1995 a Presidente del corso di laurea in Lettere per due trienni, dove l’ho visto davvero attivo, efficiente, capace di dare un indirizzo ai nostri studi, con una Facoltà che viaggiava sui 4000 iscritti.  Il I novembre 1998 fu nominato direttore dell’Istituto di studi etnoantropologici artistici e filologici della Facoltà di Lettere e Filosofia e contemporaneamente direttore della Biblioteca centralizzata.  Dal 13 novembre 1998 fu nominato vicepreside della Facoltà, dopo il mio mandato di Preside, durante la presidenza di Giuseppe Meloni. In data I novembre 2001 è cessato dall’ufficio di professore ordinario di Letteratura e Filologia Sarda della Facoltà di Lettere e filosofia per raggiunti limiti di età.

Era uno tra i maggiori esperti di Teoria della letteratura applicata a periodi di transizione come l’Umanesimo e l’Illuminismo. Nel volume Contemporanei ha offerto un quadro criticamente aggiornato della letteratura italiana del Novecento (1972). Ha proposto un’osservazione del fenomeno letterario italiano dal punto di vista dello spazio geografico e delle differenziazioni linguistiche “regionali”, una definizione sulla quale discutevamo e che poteva essere solo una tappa di un percorso ben più ambizioso. Ha pubblicato edizioni critiche della produzione letteraria contemporanea in lingua sarda.

È stato il vero scopritore di Antonino Mura Ena, in particolare con il volume Recuida, un ritorno, un viaggio conoscitivo di riappropriazione condivisa della sua comunità d’origine. Per i poeti e gli scrittori sardi la terra-madre, appassionato oggetto di scrittura, non è stata semplicemente un luogo, ma il luogo, e anche l’altrove è stato sempre il qui adesso immerso nello spazio-tempo dell’isola. Il luogo d’origine diviene così l’unico luogo possibile e l’insieme delle opere letterarie ci restituisce, dunque, un’immagine dell’isola che è la testimonianza del modo in cui una comunità, attraverso la sua più alta espressione intellettuale, percepisce e intende la terra in cui si è nati e alla quale ci si è uniti, da un fortissimo legame di nostalgia e amore. Ma dietro le pagine del capolavoro di Mura Ena rilette da Nicola Tanda, c’è la profondità di una storia, quando la parola poetante e narrante si fa memoria, ossia recupero di un mondo originario, ancestrale, primitivo. Quel mondo che nell’atto stesso della creazione artistica, paradossalmente ritorna ad essere centro e non più periferia. I pensieri e i ricordi si rapportano ai luoghi sentiti, percepiti sensorialmente ed emotivamente, luoghi vissuti e amati. Lo spazio fisico e naturale si traduce in luogo dell’anima, condizione dell’essere e dell’esistere, talvolta sentimento inesprimibile, ai limiti dell’incomunicabilità.

Nicola Tanda è stato battagliero membro dell’Osservatorio della lingua e della cultura sarda – istituito in applicazione della legge della Regione Sardegna n. 26 del 1997 e della legge dello Stato italiano 482 del 1999 – che tutela, difende, promuove la cultura, la lingua e la letteratura della Sardegna.  Tra le sue opere, quelle che più amava: Dal mito dell’isola all’isola del mito. Deledda e dintorni, Roma, Bulzoni, 1992; Un’odissea de rimas nobas: Verso la letteratura degli italiani, Cagliari, Cuec 2003. Nel 2007 aveva pubblicato con Dino Manca l’Introduzione alla letteratura, questioni e strumenti, Cagliari, Centro di studi Filologici Sardi / Cuec.

Ci mancheranno le sue frequenti visite a Palazzo Segni, la sua pazienza e un poco anche le sue sgridate. Abbiamo contratto nei suoi confronti un debito di riconoscenza che rende il dolore per la sua scomparsa ancora più grande. Ci aveva chiamato una settimana prima di morire, quando partiva per Londra: lo avevamo sentito sereno e Ugo qualche giorno dopo ci raccontava che se ne era andato tranquillo, nel sonno, magari pensando da lontano alla sua terra, a Sorso innanzi tutto, alla Romangia, a Ozieri e alla Sardegna. Credo senza il rimpianto di non aver saputo parlar chiaro.

Proprio una delle ultime sere, uscendo da Palazzo Segni, l’avevo sentito bofonchiare una poesia di Pedru Mura, il poeta di Isili, rivolta alla Barbagia, pro chi colet ridende su beranu, che mi aveva subito colpito: gliela avevo fatta ripetere più volte, anche se lui non ne aveva proprio voglia, e poi l’avevo usata proprio al Premio Ozieri e in chiusura del mio mandato di Rettore, perché davvero vogliamo che la Sardegna in un momento di crisi come quello terribile che sta attraversando ritrovi una dimensione nuova, con tanti fiori che spuntano sui nostri prati.

In su muru ‘e s’odiu

Aperibi una janna

Chi siat de artura tantu manna

Cant’est artu su sole a mesudie.

Chi siat de largura tantu larga

Cant’est largu su coro ‘e sa natura ;

pro chi colet ridende su beranu

chin tottu sos profumos ch’hat in sinu;

pro chi avantzet cantande s’arbèschia

chin tottu sos lentores de manzanu;

pro chi si nde confortet su desertu

e ti torret sos fizos fattos frores,

perché il deserto possa rifiorire e

e renderti i tuoi figli fatti fiori.

Nel momento in cui cessa una presenza costante per noi e inizia una assenza che pesa come quella di una persona ricca di idee e di voglia di costruire cose nuove, mi piace usare le parole di un poeta che amava, Orlando Biddau: se il comune sentiero dovesse biforcare, <<la tua assenza s’addolcirà nel tempo come sorba o dattero o corbezzolo, solo per il calore assicurato a una casa>>.

Parafrasando una iscrizione latina di un sarcofago di Aquincum, oggi Bucarest: Aeaqua perlegeris ei dices obiter: <<Nicola dulcis vale>> (AE 2010, 1289).




Ricordo di Tito Orrù in occasione dell’intitolazione della circonvallazione di Orroli alla sua memoria.

Ricordo di Tito Orrù in occasione dell’intitolazione della circonvallazione di Orroli alla sua memoria.
Orroli, 17 settembre 2016


Cari amici,

rispondendo all’invito del sindaco Antonio Orgiana, sono arrivato ad Orroli, “il paese delle roverelle” secondo l’etimologia di Massimo Pittau, giungendo da Fonni, Desulo, Santa Sofia, percorrendo i tornanti che scendono da Villanovatulo, il paese di Ercole Contu, e poi risalendo verso Nurri: qui ho avuto un colpo al cuore osservando i colori rossastri della vegetazione che inizialmente pensavo fossero quelli dell’autunno e che invece sono i colori che testimoniano una ferita sanguinante causata dai terribili incendi dei mesi scorsi.

Questi sono i luoghi che Tito Orrù amava di più, dove ci eravamo recati assieme a Silvio Sirigu e Armando Giocondo, che mi avevano portato all’inizio degli anni 90, nel Sarcidano, mentre si svolgevano ad Orroli gli scavi voluti da Fulvia Lo Schiavo nell’unico nuraghe pentalobato della Sardegna, Arrubiu, con le sue 21 torri e le inedite testimonianze del riuso in età romana con gli impianti produttivi tardi. Si riprendevano gli scavi svolti trent’anni prima, nell’immediato secondo dopoguerra,da Ercole Contu che aveva usato mezzi rudimentali, perfino una matassa di spago per misurare e rilevare il nuraghe rosso. Soprattutto lo aveva incuriosito il volume del 1992 da me dedicato alla tavola di Esterzili:, ai pastori sardi Galillenses e ai contadini originari dalla Campania romana i Patulcenses nell’età di Nerone: sono i luoghi cari anche ad Ercole Contu, originario della vicina Villanovatulo. Per Orrù e per Contu, al di là della scoscesa vallata del Flumendosa, l’orizzonte era chiuso dai monti di Esterzili (il paese di Fernando Pilia), sui quali sorgeva un edificio misterioso, che conservava tracce dei frequentatori preistorici, costruttori di quel tempio megalitico rettangolare noto come Domu de Orgìa.

Se è vero che esiste sempre per tutti noi al margine dell’orizzonte dei nostri spazi e delle nostre campagne un monumento antico, gravido di leggenda e di storia, per Tito Orrù, per Ercole Contu, ma anche per Fernando Pilia, fin da bambini, questo fu la cima del Monte di Santa Vittoria: dai paesi amati i tre potevano osservare la guglia di Cuccureddì, la vetta del monte (a circa mille metri di altitudine). Qui la tradizione narrava mirabilia sulla Domu de Orgìa, la casa di questa maga, nota in tuta la Sardegna come Luxìa Arrabiosa o Georgìa Arrabiosa, distrutta dal dolore per la perdita dei figli e ridotta in pietra, come la sventurata Niobe della tradizione classica. Ma Sa Domu, «la Casa» annunziava una costruzione per i vivi, non per i morti. Qualche tempo dopo, Ercole Contu, salito in cima al monte di Esterzili, vi avrebbe scoperto quel «tempietto a mègaron» imparentato con la civiltà micenea, identificato dalla tradizione nella casa di Orgìa. Il tempietto era strettamente collegato ai due esempi di Serra Orrios di Dorgali, illustrati negli anni trenta dal grande Soprintendente alle opere di Antichità ed arte, Doro Levi. Contu gli aveva dedicato la tesi di laurea e lo aveva pubblicato su “Studi Sardi” nel 1948, quando Tito aveva venti anni.

Ho parlato di Tito Orrù all’incontro di Cagliari del 28 marzo 2014, promosso da Maria Corona Corrias, in occasione della presentazione del numero speciale del “Bollettino bibliografico e rassegna archivistica e di studi storici della Sardegna”, un volume pieno insieme di ricordi personali e di ricerche originali, saggi e articoli, dedicati ai temi che erano cari allo studioso e all’amico. Il mio intervento è già stato pubblicato sul cinquantesimo numero dell’Archivio Storico Sardo per volontà di Luisa D’Arienzo.

Ho ricostruito allora il mio rapporto con Tito Orrù, iniziato ormai 45 anni fa: all’inizio, durante il grande gelo tra le Facoltà di Lettere e Filosofia, di Magistero e di Scienze Politiche, l’unico punto di contatto tra noi è stata Giovanna Sotgiu, la mia maestra di epigrafia nella Facoltà di Lettere e Filosofia dalla fine degli anni 60. Di lei Tito – a Scienze Politiche – conosceva le origini bittesi, che la rendevano speciale perché concittadina di Giorgio Asproni, così come di Giuseppe Musio, di Michelangelo Pira, di Raimondo Turtas, di Bachisio Bandinu. La Sotgiu sarebbe diventata anche concittadina di Orrù, quando Tito avrebbe ottenuto la cittadinanza onoraria di Bitti nel 2006, alla vigilia delle celebrazioni bicentenarie, un piccolo segno di una riconoscenza della città di Bitti per chi aveva pubblicato gli splendidi diari scritti tra il 1855 e il 1876. Più tardi nella sala sotto il Palazzo Comunale mi aveva seguito agli Amici del libro assieme a Nicola Valle con i due numeri della rivista “Il convegno” dedicati a Bosa che avevo curato tra il 1976 e il 1977.

Subito dopo il volume su Cornus pubblicato da Ettore Gasperini, che lo aveva interessato per la ricostruzione della storia di Ampsicora, un eroe raccontato da Tito Livio. Gli anni della Scuola di Studi Sardi, le escursioni organizzate da Lilliu in Ogliastra e in Barbagia, con curiosità e passioni vere che riguardavano tutti i territori della Sardegna, ben al di là del recinto della Storia del Risorgimento o della Storia dei Partiti.

Nel 1984 aveva fondato il “Bollettino bibliografico della Sardegna”, divenendo direttore, coordinatore scientifico e curatore della preziosa rassegna bibliografica, preziosa soprattutto allora, privi come eravamo di un repertorio agile come il Ciasca negli anni successivi alla cessazione della rivista curata da Giuseppe Della Maria. E naturalmente senza Internet. Eravamo affamati di notizie e allora schedavo tutto, interessato soprattutto ai rapporti tra Sardegna e Tunisia, un tema che era carissimo a Tito Orrù fin da trenta anni prima per il suo primo articolo, dedicato alla questione tunisina attraverso la stampa sarda pubblicato nel 1958 sulla rivista di Antonio Pigliaru Ichnusa; più tardi il lavoro su El Mostakel. Temi originali e difficili, che ora vediamo trattati nell’articolo di Gabriella Olla Repetto e in questi ultimi giorni da Romain H. Rainero nel volume di AM&D Edizioni sui Giornali di Cagliari per l’indipendenza della Tunisia il 1880 e il 1883 nella collana di testi e documenti mediterranei dell’ISPROM, proprio nelle settimane dell’approvazione della nuova costituzione della Tunisia democratica dopo la primavera araba e la fuga di Ben Ali.

Con la nascita del Bollettino nel 1984 era iniziato lo scambio con la fortunata serie dei volumi de L’Africa Romana, arrivata oggi al suo trentesimo anniversario: Orrù aspettava i miei volumi, anche se io pagavo raramente l’abbonamento al Bollettino, continuando a riceverlo, mentre Tito recensiva regolarmente i miei lavori con grandissima curiosità e interesse.

Al 1994 risale però il legame con Tito Orrù e con Maria Corona Corrias che mi è più caro: avevo scritto su L’Unione Sarda un polemico articolo per lamentare le scarse occasioni di collaborazione delle due Università con la Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna. A mio parere era stato disatteso quell’impegno che era stato assunto dai vescovi con l’abbandono del Seminario Regionale di Cuglieri vent’anni prima. Inaspettatamente il mio segnale era stato subito raccolto da Tito Orrù, che sapeva che l’Arcivescovo di Vercelli Tarcisio Bertone si apprestava a celebrare l’anno eusebiano tra il 1995 e il 1996 nella ricorrenza del 1650° anniversario dell’Ordinazione episcopale di Eusebio, natione Sardus, primo vescovo del Piemonte. Chi allora lavorò per costituire il Comitato scientifico (che mobilitava anche studiosi del calibro di Leonardo Pisanu e Raimondo Turtas) furono veramente Tito Orrù e Maria Corona Corrias, sostenuti dal Preside della Facoltà Teologia Natalino Spaccapelo. A Biella e presso il santuario di Oropa tra il 21 e il 22 settembre 1996 si svolse il Convegno nazionale Eusebio da Cagliari alle sorgenti di Oropa, i cui atti furono poi pubblicati da Battista Saiu presidente del circolo Su Nuraghe. Il convegno principale si svolse però un mese dopo a Cagliari nell’aula magna dell’Università tra il 10 e 12 ottobre 1996, promosso dalle due università e dalla Pontificia Facoltà Teologica e aperto da Mons. Tarcisio Bertone. Tre anni dopo usciva il volume di quasi 600 pagine dedicato alla Sardegna paleocristiana tra Eusebio e Gregorio Magno, che apriva la nuova fortunata serie di Studi e ricerche di cultura religiosa, con il mio articolo su La Sardegna cristiana in età tardo-antica. Pensavo che Tito Orrù e Maria Corona Corrias avrebbero dovuto firmare il volume, a testimonianza dell’incredibile lavoro portato avanti negli anni, coordinando una rete di studiosi che comprendeva nomi illustri, come il compianto Réginald Gregoire, l’agostiniano Vittorino Grossi, Luciano Gastoni, Enrico Dal Covolo. Ma c’erano anche i giovani Franco Campus, Antonio Corda, Mauro Dadea, Giovanni Lupinu.

E invece Orrù e Corona Corrias chiesero che il volume fosse firmato da me per l’Università di Sassari, da Giovanna Sotgiu per l’Università di Cagliari, da Natalino Spaccapelo per la Facoltà Teologica.

A parte la sorpresa, l’emozione, l’orgoglio, l’ho sempre ritenuto un incredibile gesto di umiltà e di stima che non doveva essere dimenticato e che soprattutto mi pare rivelasse il carattere delle persone, la generosità, l’altruismo, il desiderio di coinvolgerci in altre avventure.

Ci sono state poi tante altre occasioni, tante lettere, tante ricerche svolte in comune, su Giuseppe Manno ad Alghero, su Luigi Canetto a Tresnuraghes, per l’Enciclopedia della Sardegna di Brigaglia. I suoi straordinari incontri e dibattiti sui democratici sardi dell’Ottocento, innanzi tutto su Giorgio Asproni e su Giuseppe Musio, in una linea ideale che prosegue con un vero gigante della politica sarda quale Francesco Cocco Ortu. Maria Corona Corrias ha affrontato il rapporto tra Asproni e Musio, riuscendo a rendere in modo straordinariamente vivace l’evoluzione del pensiero democratico risorgimentale tra opposizione e governo della sinistra dopo la perfetta fusione del 1847, la saporita polemica contro i Gesuiti, la denuncia dei vizi degli ecclesiastici, contro il potere temporale dei Papi. E poi i lavori sull’eroe Efisio Tola fucilato a Chambery nel 1833, fratello di quel Pasquale Tola che fu a Sassari maestro dell’Asproni; su Giovanni Maria Angioy, su Giovanni Battista Tuveri nel centenario dalla morte, su Filippo Garavetti, su Emilio Lussu, su Salvatore Mannironi, su alcuni studiosi come Giovanni Siotto Pintor, poi Carlino Sole e Felice Cherchi Paba. Una linea di studi e di riflessione coerente e positiva, che ci consente di scorgere collegamenti con il pensiero di Giuseppe Mazzini, di Carlo Cattaneo, di Giuseppe Garibaldi. Lascerei per ultimo Sebastiano Dessanay, con una posizione politica tormentata tra comunismo e socialismo ma coraggiosamente aperta al nuovo, alle origini dell’autonomia, alla scoperta di un meridionalismo denso di motivazioni umanistiche positive, radicali e religiose, indirizzate verso un orizzonte identitario alto, proiettato verso la modernizzazione della Sardegna, con molte sintonie con Giovanni Lilliu. Proprio per Dessanay, presidente dell’Isprom, Orrù aveva pubblicato il volume della Commissione italiana Unesco con Notizie e immagini dei Paesi dell’Africa Mediterranea in scrittori, giornalisti e operatori economici della Sardegna.

La figura che l’ha affascinato per tutta la vita, a parte Asproni, è Giuseppe Garibaldi, dal centenario della morte del 1982 al bicentenario dalla nascita con il 63° congresso di storia del Risorgimento svoltosi a Cagliari nel 2006; fino alla salma imbalsamata o bruciata raccontata negli ultimi anni da Ugo. Carcassi. Caprera, Maddalena, gli altri luoghi garibaldini dalla Russia fino all’America Latina. Manteneva una rete di rapporti con i circoli dei sardi in Italia e all’estero, come testimonia il Convegno nazionale sulla lingua sarda svoltosi a Biella a novembre 2011, i cui atti sono usciti postumi . Così a Pavia, col circolo Logudoro, a Novara, con la collaborazione con la Federazione delle Associazioni sarde in Italia. La frequentazione di tanti archivi, le sue lezioni, i suoi carissimi studenti a Scienze Politiche. Fu Orrù a presentarci tre anni fa Francesca Pau per il volume su Asproni parlamentare che pubblicammo con Carocci nella collana del Dipartimento di Storia di Sassari.

C’è un aspetto che mi ha sempre colpito nella sua opera e che recentemente è stato richiamato da Diego Carru e Giuseppe Monsagrati ed è la ricostruzione filologica del rapporto tra Asproni e gli autori classici, soprattutto Tacito, ma anche Cicerone, Sallustio, Orazio, Livio, Seneca, Plutarco: il tema del passaggio dall’illuminismo al romanticismo senza tradire la cultura classica che è vista come fondativa dell’Italia repubblicana e democratica, un tema che Orrù poteva trattare nei tempi nuovi del federalismo, del sardismo e del riformismo moderno, senza dimenticare Mazzini e, sul versante isolano, i padri del sardismo Lussu e Bellieni

Il tema della sovranità popolare è fondato sull’idea di Roma antica, eterna capitale, nemica della tirannide, fondatrice di una fratellanza universale, contro il Cesarismo, il Monarchismo, il Papismo. C’è in Asproni una rilettura di Nicolò Macchiavelli, in particolare dei Discorsi sulla prima deca di Livio, per esaltare le virtù repubblicane, per rileggere i classici dell’antichità con occhi nuovi, senza imbalsamarli ma riscoprendoli vivi, capaci di consegnarci ancora oggi una lezione di libertà e di virtù. Del resto fu Nicolò Machiavelli a concepire nei Discorsi (come anche nel Principe) il modello di Roma, dei suoi uomini illustri e delle sue vicende storiche, come un costante exemplum per leggere, interpretare ed indirizzare l’attualità: e ciò in un senso così accentuato, che il Guicciardini, nelle Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli sopra la prima Deca di Tito Livio, rivolge proprio a questo aspetto la sua critica, sostenendo che l’onnipresenza del modello romano non soltanto non contribuisce ad un approccio diretto alla realtà storica contemporanea, ma addirittura lo svisa, dirottando il punto di vista su situazioni e personaggi non confrontabili con il “particulare” che deve essere decodificato e condotto ad un esito “utile”, cioè funzionale allo status politico, sociale, economico attuale. Eppure il discorso di Macchiavelli non è antiquario, ma fortemente contemporaneo. Così mi sembra anche nell’Asproni. Ma mi riprometto di scrivere in altra occasione su questo aspetto.

Proprio la sovranità popolare è alla base del progetto firmato da Tito Orrù e della prima strepitosa realizzazione nel 1996 di Sa die de Sa Sardigna, con l’evocazione della cacciata dei piemontesi del 1794.

Altri oggi hanno ricordato il suo sorriso, il tratto di gentilezza, umanità e umiltà nel rapportarsi agli altri, il suo garbo, nei confronti della gente comune, dei suoi studenti, dei suoi allievi. Tito Orrù è stato uno studioso capace di uscire dagli archivi, di guardare negli occhi tante persone diverse, di costruire il futuro della nostra isola sulla valorizzazione della sarditas fondata su un patrimonio identitario positivo, motore dello sviluppo, capace di commuovere e di appassionare. Senza alimentare polemiche, con semplicità e voglia di amare.




Oltre il fiume Oceano. Uomini e navi romane alla conquista della Britannia. Il modello di proiezione romano alla prova d’Oltremare raccontato da un marinaio di Cristiano Bettini.

Oltre il fiume Oceano
Uomini e navi romane alla conquista della Britannia
Il modello di proiezione romano alla prova d’Oltremare raccontato da un marinaio

di Cristiano Bettini
MUT- Museo della Tonnara – Stintino, 30 agosto 2016

Parlare di navigazione oceanica qui a Stintino, a due passi dall’isola d’Eracle, significa partire dalla rotta seguita dai naviganti greci e cartaginesi verso il favoloso occidente mediterraneo oltre le Bocche di Bonifacio del Fretum Gallicum verso la Gallia Narbonense e in direzione delle colonne d’Ercole, verso l’Oceano. E ricordare che il toponimo Fretum Gallicum è utilizzato in età romana per indicare anche il canale della Manica. Soprattutto significa partire dai misteriosi mostri marini che abitavano il mare Sardum tra la Sardegna e la Corsica, le due grandi vere isole del Mediterraneo, collocate per i Romani al di là del grande mare; infine richiamare la dimensione dell’ecumene inizialmente sulle rive di quel Mare Nostrum che nella sua denominazione originaria greca (par’emin thalasse) era priva di quell’odioso senso “proprietario” e “imperialista” che le si vorrebbe attribuire e che le è stato attribuito in passato; soprattutto significa uscire da quel mare interterraneo sul quale per Platone abitavano uomini come formiche o rane sulle sponde di uno stagno o di una palude. Significa affrontare l’oceano, affacciarsi in campo aperto, cercare nuove rotte, seguir con l’Ulisse di Dante virtute e canoscenza, <<perché fatti non foste a viver come bruti>>.

Questo libro dell’Ammiraglio di squadra Cristiano Bettini, già Sottocapo di Stato Maggiore della Difesa dal 2011 al 2013 (con un curriculum davvero importante e di tutto rispetto) vede la luce e viene presentato a pochi mesi dalla cosiddetta “Brexit”, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, in un momento storico complesso in cui il tema dell’unità del Nord e del Sud dell’Europa si pone davvero in primo piano. L’autore conosce i luoghi di cui parla, è stato per alcuni anni addetto militare italiano alla nostra ambasciata di Londra ed è consapevole come <<il modello politico, militare e sociale romano >> sia ancora centrale nella cultura britannica.

Il titolo del libro edito in questi giorni da Laurus evoca uno dei grandi temi dell’immaginario geografico e storico del mondo antico: l’Oceano, inteso nelle rappresentazioni più antiche, come un fiume che circonda la terra e il cielo. Nel diciottesimo canto dell’Iliade, Efesto forgia per l’eroe greco Achille uno scudo sulla cui superficie sono rappresentate cinque zone nelle quali sono distribuiti la terra, il cielo, il mare, il sole, la luna i segni celesti; vengono poi raffigurati gli spazi fisici della terra: i campi arati e i mietitori, le vigne, i pascoli e due città, una con l’agorà nella quale è riunito il demos (il popolo), l’altra circondata da due eserciti. L’intero complesso della rappresentazione forgiata, dal fabbro dall’inclita arte, figura circondata dal fiume Oceano. L’Oceano non è interconnesso con gli elementi dello scudo, esso è «l’insieme delle acque primordiali, una presenza cosmica, un essere divino dal quale hanno origine tutte le acque ed in particolare i fiumi terrestri. È in qualche modo la riserva freatica del mondo e la sua cintura. Come tale non può essere realmente conosciuto ed esplorato se non allegoricamente» (S. Magnani, Geografia storica del mondo antico, Bologna 2003). Il passaggio dal mito alla geografia e alla storia avviene nel VI secolo a. C. con Anassimandro di Mileto; sulla sua rappresentazione in piano dell’ecumene (pínax), l’Oceano esterno circonda il mondo allora conosciuto con i tre continenti affacciati sul Mediterraneo, Europa, Asia e Africa. Ciò porta all’abbandono delle caratteristiche mitico-cosmologiche e l’Oceano diviene un elemento geografico che, nella cartografia del filosofo di Mileto, disegna i contorni della terra emersa. Ad una modernizzazione del concetto di oikouméne ha dato poi un contributo decisivo, nella seconda metà del IV secolo, l’astronomo e matematico Pitea di Marsiglia che ha compiuto un viaggio, mai prima realizzato da alcuno, confluito nell’opera Perì Okeanou (di cui ci sono giunti pochi frammenti e testimonianze indirette) lungo le coste oceaniche dell’Europa, da Cadice passando per l’Armorica e le isole Casseritidi, toccando le isole Britanniche per giungere sino all’isola di Thule (dirimpetto alle coste della Norvegia meridionale), situata, secondo Pitea, a circa sei giorni di navigazione dalla Britannia in direzione nord ad una latitudine approssimativa di 66°, laddove si realizzava la coincidenza tra il circolo artico e il tropico estivo: «dove il limite astronomico e geografico dello spazio abitabile… coincide con quello fisico e filosofico tra la sfera terrestre e quella lunare, tra il nostro mondo e l’Aldilà » (S. Magnani, il viaggio di Pitea sull’Oceano, Bologna 2002). Pitea descriveva questo mare come <<un misto confuso e sospeso tra terra e acqua, un paesaggio spettrale e nebbioso, quasi lunare, dove il solstizio d’inverno dura sei mesi e negli altri la notte è breve, anche due o tre ore, mentre il sole né tramonta né sorge, ma semplicemente passa all’orizzonte>> (Corrado Petrocelli), direi rotola lungo l’orizzonte. Attraverso l’esperienza diretta di un viaggio, Pitea ha dimostrato che se alcune popolazioni vivevano in condizioni difficili a quelle latitudini, il punto terminale dell’ oikouméne andava spostato, conferendo «al limite astronomico il valore di confine dell’ecumene» e trasferendone «il significato ad un piano geografico e cartografico». (S. Magnani, Da Massalia a Thule. Annotazioni etnografiche piteane, in Dall’Indo a Thule: i Greci, i Romani e gli altri, A. Aloni – L. de Finis (a cura di), Trento 1996).

Ovviamente il pragmatismo di Pitea di Marsiglia ma soprattutto l’oggetto delle sue esplorazioni, le coste oceaniche dell’Europa, si attagliano perfettamente allo scopo di questo libro dell’ammiraglio Bettini: egli da marinaio, per formazione e vocazione si sente portato da una parte all’azione e dall’altra allo studio dei piani attraverso i quali l’azione può concretizzarsi; anzitutto i piani strategici che passano anche attraverso quel modello che Vittorio Emanuele Parsi, nella prefazione al libro, definisce di “expeditionary”, ossia un dispositivo militare costituito da forze armate rapidamente proiettabili con un equilibrio fra “rapidità dello spiegamento e consistenza” (ovvero caratterizzato “dalla intrinseca capacità di proiettarsi ed operare con continuità in teatri esterni e distanti”, ormai assolutamente necessario a causa della multidirezionalità delle minacce mondiali).

Il “caso Britannia” rappresenta per Bettini un esempio di conquista e provincializzazione romana paradigmatico, in un’area rimasta periferica sino alla prima metà del I secolo d.C. e considerata ai confini dell’oikouméne: anche dopo la costituzione della provincia nel 43 durante il principato di Claudio, le opere di fortificazione promosse tra la prima e la seconda metà del II secolo d.C. dagli imperatori Adriano e Antonino Pio, note come Vallo di Adriano e Vallo di Antonino mostrano la necessità di proteggere la provincia a Nord attraverso un limes “pesante” che isolava la Britannia dalla Caledonia e dalle incursioni dei Pitti. Dunque ambiente e soprattutto popoli che continuarono a mantenersi ostili ben oltre la seconda metà del II secolo d.C.

L’effetto propagandistico che poteva avere una spedizione di conquista in Britannia si coglie con precisione se si analizzano i prodromi della conquista claudiana, un secolo prima con Cesare. Questi nel 55 a.C. compì una sorta di prima ricognizione nelle terre al di là del Fretum Gallicum (il Canale della Manica), muovendo con navi e uomini da Portus Itius probabilmente Boulogne (la futura Gesoriacum) (Passo di Calais) verso la costa est del Kent, in prossimità di Walmer o Deal, a S della foce del Tamigi: tale ricognizione, che non portò ad alcun risultato concreto dal punto di vista delle acquisizioni territoriali, fu oggetto di una vera e propria glorificazione da parte del Senato che decretò venti giorni di feste e celebrazioni pubbliche a Roma; la stessa eco ebbe la seconda “spedizione” del 54 a.C. con più uomini e mezzi che condusse al raggiungimento di una serie di alleanze diplomatiche con le popolazioni locali, pur in assenza di vere e proprie conquiste territoriali.

A Cristiano Bettini va dato merito di esaminare con precisione da “navarco”, laddove le fonti lascino spazi all’incertezza, l’adeguatezza o compatibilità dei porti di partenza e di quelli d’approdo delle navi di Cesare, il perché Dover a causa dell’aspra e impervia scogliera, i Cliffs, fosse inadatta all’approdo delle navi romane e nella prima spedizione si fosse preferito Walmer (o Deal) e nella seconda Wantsum, sempre presso la costa est del Kent. Ciò rileva da parte di Bettini una profonda conoscenza del territorio e soprattutto, come chi opera in marina ben sa, la consapevolezza che mare e terra, geografia marittima e terrestre sono strumenti unitari e imprescindibili per qualunque operazione militare. In questo senso le spedizioni cesariane vengono descritte con dovizia di particolari tratti da fonti autoptiche (in primo luogo Cesare del De Bello gallico), con un’attenzione al rapporto tra mezzi navali – lunghe navi da guerra (naves longas), navi onerarie entrambe dotate di soldati con fionde (frombolieri), frecce (sagittari) e con macchine da lancio – e truppe da sbarco.  Consapevole delle abilità strategiche del grande Cesare, scrive Bettini: «Si tratta, in fondo, di un uso moderno della flotta a copertura dei “marines” che sbarcano, attuato anche con macchine da lancio, come balestre, lancia-giavellotti e, forse, catapulte imbarcabili, che davano una copertura tra 300 e 1000 metri circa. Anche le unità più piccole da esplorazione, gli speculatoria navigia ed i tender delle navi militari, scaphae, collaborarono nel trasportare i legionari a terra più rapidamente perché i primi a sbarcare non venissero sopraffatti». Il ritardo (nella prima spedizione) nell’arrivo delle navi che trasportavano la cavalleria, lo scoppiare di una tempesta, con il mare in burrasca, forse a forza 8-9, lo sconquasso delle navi da trasporto con le ancore che dovettero cominciare ad arare in rada, scontrandosi le une con le altre, suggeriscono al nostro autore che Cesare avesse comunque imparato a proprie spese «che ormeggiare le navi come in Mediterraneo, non era fattibile e sicuro nei mari del nord».

Nella bella postfazione, il mio amico Rettore Emerito di Bari Corrado Petrocelli spiega benissimo i limiti delle due spedizioni in Britannia di Cesare, ostaggio di informazioni imprecise e intempestive: egli rivelò la Britannia a Roma ma non gliela lasciò in eredità.

Certo è che l’ammiraglio Bettini spende parole lusinghiere nei confronti del valore di alcuni capi delle popolazioni autoctone della Britannia come Commio, capo degli Atrebati già elogiato da Cesare (a proposito del quale analizza il problema dell’esistenza di due capi tribali con lo stesso nome), mostrando di inserirsi appieno – per venire al nostro oggi – nella politica delle forze armate italiane tendente a stringere rapporti di parità sul piano culturale con le popolazioni locali, nel pieno rispetto delle loro identità (due anni fa in Afganistan un colonnello dell’Aviazione inquadrato nella forza italiana coordinata dalla Brigata Sassari ha sorprendentemente discusso con noi sul superamento dell’impostazione culturale, che credevamo progressista, del volume di Alberto Mario Cirese: Cultura egemonica e culture subalterne del 1971).

Per quanto riguarda gli eventi militari successivi ricorderemo alcuni progetti di spedizione da parte di Ottaviano Augusto e la farsesca spedizione di Caligola in prossimità del canale della Manica, con dispiegamento di truppe, baliste e macchine e l’ordine imperale di: «raccogliere le conchiglie e di riempirne gli elmi e le vesti, dicendo che quelle erano le spoglie dell’Oceano dovute al Campidoglio e al Palatino. In ricordo della sua vittoria fece costruire una torre molto alta, dove i fuochi dovevano brillare tutte le notti, come sulla cella del Faro, per illuminare la rotta delle navi…» (SUET. Calig., 46).

Ma la vera e propria conquista della Britannia venne realizzata da Claudio a partire dal 43 d.C. Bettini sottolinea come, anche in questa occasione, vi fossero resistenze da parte dei legionari, preda del timore reverenziale e superstizioso di fronte alla navigazione oceanica e alla possibilità di essere spinti fuori rotta; del resto erano note le perdite umane e di navi che avevano già caratterizzato la spedizione di Cesare, ripetutesi poi nel 15 d.C. con Germanico nel Mare del Nord, in occasione della navigazione dall’estuario del fiume Amisia (oggi Ems a E dell’Olanda) fino al Reno. A questo proposito l’autore cita le parole del poeta Albinovanus (note attraverso le Suasoriae di Seneca) presente nella spedizione di Germanico, che ben sottolineano il terrore quasi religioso provocato dalla navigazione nelle acque dell’Oceano. Solo la grande perizia e autorevolezza di Aulo Plauzio, incaricato da Claudio di condurre la spedizione in Britannia a fianco del popolo degli Atrebati messi in difficoltà dai Catuvellani, pose fine alla rivolta dei legionari sulle coste settentrionali della Gallia; occorre poi ricordare che in questa circostanza, secondo la testimonianza di Cassio Dione, intervenne il liberto imperiale Narcisso che come emissario di Claudio, riuscì a convincere le truppe ad abbandonare le resistenze e a salpare per lo sbarco in Britannia. Le quattro legioni romane: IX Hispana (comandata da Cn. Osidio Geta), II Augusta (comandata da Vespasiano), XIV Gemina (comandata da T. Flavio Sabino), XX Valeria Victrix (secondo Eutropio comandata da Cn. Saturnino, testimonianza del IV sec. d.C. e di attendibilità incerta), fanti di marina e ventimila ausiliari (tratti da Traci e Batavi), sbarcarono secondo alcuni a Richborough (l’antica Rutupiae) nel Kent, località strategicamente eccellente per via del ridosso fornito dall’isola di Thanet (ipotesi preferita da Bettini), secondo altri nel Sussex, nel Solent o nell’Essex (ipotesi analizzate ma bocciate da Bettini), tra il 43 e il 51 d.C. (fino al 47 sotto la guida di Aulo Plauzio e successivamente di Ostorio Scapula). Le truppe romane sconfissero i Catuvellauni di Verulamium (guidati da Togodumno e Carataco) presso i fiumi Medway e Tamigi; poi valendosi del sostegno dei Briganti della regina Cartimandua, Aulo Plauzio marciò su Camulodunum (Colchester) capitale dei Catuvellauni, primo nucleo della provincia romana, dove fu raggiunto da Claudio che per qualche settimana partecipò personalmente alla battaglia finale e dichiarò avvenuta la conquista della Britannia. L’isola fu solo allora costituita come provincia al cui governo fu preposto un legatus Augusti pro praetore di rango consolare.

Piero Meloni, Giovanna Sotgiu e Guido Clemente nel lontano 1969 ci avevano portato, studenti, a visitare le rovine Camulodunum, la fortezza del Marte celtico, con le grandi sostruzioni del tempio del divo Claudio: ho un lontano ricordo di quel viaggio indimenticabile. Oggi noi sappiamo che Colchester fu dedotta come colonia Vitricensis nel 49 d.C. e fu espressione di una urbanizzazione modello: gli scavi hanno messo in luce il podio del tempio per il culto imperiale, di matrice militare ma sempre osteggiato dalle popolazioni locali. L’imperatore tornò a Roma nello stesso anno e rifiutò decisamente il cognomen ex virtute di Britannicus, che pure entrò a far parte del nome del figlio suo e di Messalina Tiberio Claudio Cesare Germanico, nato due anni prima: venne celebrato un imponente trionfo come attesta l’iscrizione urbana sull’arco trionfale del 52 (CIL VI 920), dove Claudio viene onorato come vincitore di undici re: [q]uod reges Brit[anniai XI devictos sine] ulla iactura[a in deditionem acceperit] gentesque b[arbaras trans oceanum primus] in dici[onem populi romani redegerit], ricostruita da Th. Mommsen su Tacito Ann. 12, 35 ss., con riferimento all’eroismo di Ostorio Scapula: <<le file dei Britanni si scompigliavano, perché privi della difesa di elmi e corazze; e se tentavano di resistere agli ausiliari, erano falciati dai gladi e dai pili dei legionari; se affrontavano questi ultimi, cadevano sotto le lunghe spade e le aste degli ausiliari. Quella vittoria fu splendida e caddero prigioniere la moglie e la figlia di Carataco, mentre i suoi fratelli si arresero>>).

Seguendo Luttwack Bettini definisce quella del 43 d.C., una spedizione per la conquista in profondità, per la quale nei porti di Boulogne (Svetonio) come pure di Ambleteuse vennero raccolti circa 40.000 uomini con l’aggiunta di un migliaio di “addetti alla logistica” e schiavi, cavalli, e ingenti attrezzature, macchine da guerra e rifornimenti: il numero di navi impiegate, secondo l’autore può fissarsi tra le 900 e le 1000 unità: «il che rimane compatibile con l’ipotesi di tre ondate sbarcate in successione sull’isola, tutte nella stessa area (non necessariamente nello stesso luogo), come ritengo più verosimile». Risulta davvero interessante il calcolo della quantità di approvvigionamenti in grano per un lasso di tempo di circa tre mesi, 3500 tonnellate, cui andavano aggiunti quantitativi sufficienti di carne e vino per i soldati, per garantire un’autonomia durante i mesi invernali della campagna militare, quando il mare clausum avrebbe impedito rinforzi e altri rifornimenti dalla Gallia attraverso la Manica. Del resto andava poi considerato il foraggio per i circa 10.000 muli necessari per i trasporti (pochi elefanti dice Bettini con esigenze limitate). Quanto allo sbarco presso Richborough, l’autore mostra come l’esperienza in campo militare possa servire a inserirsi nel dibattito storiografico rispetto ad una testimonianza controversa delle fonti, nello specifico Cassio Dione (LX, 19) che fa riferimento ad un frazionamento delle forze romane in tre colonne e ciò avrebbe portato una buona percentuale degli storici britannici a ipotizzare diversi punti di approdo della flotta ad es. Fischbourne e Chicester: in realtà si sarebbe trattato di uno sbarco in tre ondate a poca distanza di ore l’uno dall’altro, sempre nel tratto di mare che va da Richborough a Reculver, dovuto alla necessità di non congestionare le operazioni di sbarco: «poiché la ritengo la più plausibile militarmente» scrive Bettini che si cimenta, forte di un efficace pragmatismo nella traduzione dal greco dello storico di epoca severiana. «Plauzio suddivise le sue forze in tre ondate, in modo che sbarcando in un’unica area non si ostacolassero nello sbarco». Per quanto riguarda Rutupiae-Richboroug poi vengono analizzate le testimonianze archeologiche di epoca romana, quello che Bettini chiama un fortilizio, con due muri paralleli di 640 metri, posti sulla sommità del promontorio: attorno a questa costruzione militare difensiva sarebbe successivamente sorto un villaggio a popolamento misto, soldati romani e popolazioni romanizzate del Kent. Certo è che Bettini ritiene che Richborough sia in breve tempo divenuto: «il principale hub marittimo del sud-est della Britannia per lo smistamento delle merci». All’importanza di questo porto d’imbarco andrebbe collegato il “tesoretto di Bredgar” costituito da 37 aurei con l’effigie di Claudio, rinvenuto a Maidstone nel Kent, forse sotterrato da militari o mercanti prima di imbarcarsi a Richborough.

Il concetto di conquista in profondità verso l’area di Camulodunum in un certo senso contrasta con il basso numero di fortificazioni che sono state rinvenute nel sud-est della Britannia: ciò per Bettini potrebbe significare che i popoli di quell’area dell’isola non valutavano del tutto negativamente i Romani, forse consci del fatto che i veri nemici per Roma erano Carataco e la coalizione dei Catuvellauni. L’autore riporta che: «lo storico John Manley estremizza questo concetto con un’analogia alla percezione da parte di quelle popolazioni, di un’odierna operazione di peacekeeping. Bird rinforza questo concetto, affermando che i Romani inizialmente intendevano più combattere le forze coalizzate che annettersi il territorio, perché i veri nemici erano a nord del Tamigi (Catuvellauni) e ad ovest nel Dorset (Durotrigi)». Del resto tra il 45 e il 46, Vespasiano il futuro imperatore, dovette sedare la rivolta degli Iceni mentre le campagne successive fecero avanzare il confine tra i fiumi Severn e Hamber, sebbene anche dopo la cattura di Carataco nel 51 e lo spostamento del confine fino ai Welsh Marsh (un luogo imprecisato al confine tra Inghilterra e Galles): sappiamo che proprio il Galles rimase costantemente in preda alle ribellioni, come pure lo Yorkshire, il regno dei Briganti.

Un risultato certamente importante e duraturo venne rappresentato dalla creazione, in occasione della spedizione britannica di Claudio, forse nel 43, della Classis Britannica, la flotta di supporto alla conquista, ormeggiata dapprima a Gesoriacum (Boulogne-sur-Mer) e destinata a durare anche dopo la nascita della provincia romana per pattugliare il Fretum Gallicum, le acque prospicienti la Britannia e per lo svolgimento di funzioni di rifornimento e logistiche. Già con Claudio la sede della Classis venne spostata a Rutupiae (Richborough) e, dopo l’istituzionalizzazione di questa flotta con i Flavi, essa fu trasferita nell’85 d.C. a Portus Dubris (Dover), con distaccamenti a Portus Lemanis (Lympne) e Anderitum (Pevensey). Risulta assai nota la circumnavigazione della Scozia, effettuata dalla Classis, negli anni in cui era governatore Giulio Agricola. La Scozia poi venne attaccata nell’83 d.C.

La grande rivolta degli Iceni della regina Boudicca, alla quale aderirono Londinium e Verulamium, a partire dal 60, culminò nel massacro dei coloni romani di Camulodunum e fu sedata da Svetonio Paolino, il sanguinario uccisore dei druidi rifugiati sull’isola di Mona, oggi  Anglesey; in età Flavia riprese l’avanzata romana per lo spostamento verso nord dell’area di influenza sino alla conquista del Galles e della Britannia settentrionale da parte di Giulio Agricola il suocero di Tacito (77-84). La cadrai disgrazia di Agricola presso Domiziano ebbe serie conseguenze: si verificò un deciso arretramento con la rinuncia alla Scozia, a cui corrispose uno spostamento di truppe nell’area germanico-danubiana, e la smobilitazione di una rete di forti nel territorio dei Pittii: dopo la sua visita nell’isola nel 122 d.C., Adriano fece costruire il muro fortificato che da lui prende il nome di vallum Hadriani, lungo la strada romana dal golfo di Solway fino a Newcastle upon Tine; lo Stanegate che corre tra Carlisle e Corbridge. La realizzazione di tale progetto che mise fine al’avanzamento romano in Scozia fu portata avanti grazie alle legioni, i corpi ausiliari e alla classis Britannica; presso il forte di Vindolanda (Chesterholme) sullo Stanegate la famosa scoperta archeologica delle 800 tavolette lignee inscritte in latino corsivo testimonia come l’attività militare di questo avamposto nei confronti dei Brittunculi, fosse ormai assai limitata negli anni tra il 90 e il 130. A partire dal 142 d.C. venne fatto costruire da Antonio Pio un Vallo più avanzato sulla linea Clyde Forth in Scozia, non più con pietrame ma con zolle di terra.         Questo Vallo sembra essere rimasto attivo oltre il principato di Commodo: dopo la morte dell’imperatore la Britannia venne coinvolta nella lotta per la conquista del potere attraverso il suo governatore dal Clodio Albino. Con l’acclamazione del legato della Pannonia Settimio Severo che divenne imperatore nel 193, le popolazioni della Britannia in particolare i Meati e i Caledoni della Scozia, agevolate dal fatto che in occasione della scontro tra i pretendenti all’impero le truppe romane fossero state allontanate per intervenire in altri teatri di guerra, ripresero le ostilità contro i Romani: fu forse per questo che Settimio Severo nel 208 intraprese un’iniziativa nella Britannia settentrionale di cui non conosciamo con precisione gli eventi militari, ma che si concluse con l’assunzione del cognome ex virtute di Britannicus Maximus. Poco prima di morire l’imperatore africano fece collocare la statua della Concordia a Eburacum (York) alternativamente negli appartamenti di Caracalla e in quelli di Geta. La morte dell’imperatore il 4 febbraio 211 fece decidere i figli che trasferirono il corpo del padre a Roma e posero termine alle ostilità, anche se Geta fu ucciso dal fratello; si tornò allora all’assetto territoriale segnato dal Vallo di Adriano e la Britannia fu divisa in due province Superior (con un governatore di rango pretorio) e Inferior (con un governatore di rango consolare).

La fase degli usurpatori Carausio e Alletto viene analizzata con grande interesse da Bettini, probabilmente anche per il ruolo svolto dalla Classis Britannica (fonti Aurelio Vittore ed Eutropio): il menapio originario della Belgica Carausio, distintosi al fianco di Massimiano nella campagna militare contro i Bagaudi del 286, dalla fine di quello stesso anno nominato comandante della Classis Britannica, era stato incaricato dall’Agusto Erculeo a combattere i pirati franchi e sassoni; successivamente lo stesso Massimiano aveva cercato di farlo eliminare, venuto a conoscenza di sue intese con i pirati. A quel punto Carausio si fece acclamare imperatore rifugiandosi in Britannia con la flotta che aveva raccolto ai suoi ordini; Massimiano impegnato in Germania non poté contrastarlo immediatamente ma si trovò ad intervenire solo nella primavera del 289: la sua flotta fu altresì danneggiata da una tempesta e Carausio ebbe la meglio su di lui. L’usurpatore riuscì a presentarsi come liberatore della Britannia dall’oppressione romana e ad estendere la sua sfera di influenza sulla costa della Gallia, sostenuto dalle legioni stanziate in quelle aree: sono indicativi in questo senso i conii battuti a Londinium e forse a Camolodunum con la legenda Restitutor Britanniae e Genius Britanniae. Del resto a proposito della monetazione Bettini cita la famosa emissione con la rappresentazione personificata della Britannia che stringe la mano a Carausio e la legenda: expectate veni e la monetazione con la quale Carausio cerca di accreditarsi come terzo Augusto comparendo con Diocleziano e Massimiano: Pax Auggg.; Laetitia Auggg.; Carausius et fratres sui. A proposito di tale monetazione va sottolineato che dopo la sconfitta di Massimiano, questi, supportato da Diocleziano, convenne sulla necessità di riconoscere a Carausio il suo potere sulla Britannia e di affidargli le operazioni contro i pirati germani, tant’è che l’usurpatore dopo tale riconoscimento assunse il nome M. Aurelius per accreditarsi come fratello di Massimiano. In quest’ottica rientra anche l’emissione con il terzo consolato, per quanto i due tetrarchi non lo abbiano mai citato come console nei documenti ufficiali. La stagione di Carausio si concluse nel 293 quando il suo prefetto del pretorio (forse rationalis summae rei) Alleto, lo uccise e lo sostituì nelle sue funzioni sulla Britannia e la Gallia settentrionale.

Bettini dedica grande spazio alla riconquista della Britannia (296 d.C.) da parte del cesare Costanzo Cloro, che per sconfiggere Alletto e per sbarcare nell’isola si affidò alla strategia consolidata di Cesare ma soprattutto di Claudio, cioè quella di utilizzare diversi porti di partenza per la flotta, anzitutto Boulogne-sur-Mer, che era stata dotata di un molo per chiudere il porto nell’ansa di Brequerecque (probabilmente per aumentare la capacità d’ormeggio ma anche in funzione difensiva) e un secondo porto sulla Senna, più a SW. Secondo i panegiristi del IV secolo, Alletto, la cui flotta era probabilmente ormeggiata a ridosso dell’isola di Wight al largo di Southampton, a causa della fitta nebbia fu sorpreso da Giulio Asclepiodoto, prefetto del pretorio di Costanzo, che dopo aver fatto bruciare le navi sbarcate nell’area ridossata del Solent, raggiunse Alletto sconfiggendolo, mentre la flotta al comando di Costanzo Cloro si diresse verso Londra per combattere contro i mercenari di Alletto, dove nel 296 Costanzo venne accolto come liberatore: redditor lucis aeternae. L’ammiraglio Bettini ritiene che la scelta di muovere da due diversi punti di sbarco fosse dovuta al piano di dividere le forze dell’usurpatore, sorprendendole in una sorta di tenaglia: si sarebbe così resa vana «una sua resistenza incentrata sulla capacità di avvistamento e difesa dei Saxon Shore, in particolare quelli del Kent e del Sussex». Cosa erano i Saxon Shore, il litus saxonicus ? Una linea fortificata di installazioni militari, speculari alle esigenze della Classis Britannica, posta sotto il controllo del comes litoris saxonici per Britanniam; la serie di postazioni fortificate iniziò ad essere costruita presumibilmente alla fine del II secolo d.C. con i forti di Reculver e Brancaster proseguendo poi nel III secolo (a partire dal 275) con Richboroug (all’altra estremità del canale di Wantsum rispetto a Reculver), Pevensey e Lympne. La linea dei Saxon Shore venne senza dubbio potenziata da Carausio per difendersi e arroccarsi sulle sue posizioni in Britannia e non già per azioni di contrasto alla pirateria, a questo periodo risalirebbero Portchester e Pevensey; il forte romano di Burgh Castle invece venne edificato dopo Costanzo Cloro e Costantino a partire dal 320. Tali postazioni avevano lo scopo di fornire supporto logistico alla flotta come pure alle legioni, con una funzione di avvistamento: si assicurava in tal modo l’efficienza strategica romana sui due versanti della Manica (per quanto riguarda il settore settentrionale della Gallia le fortificazioni si estendevano sino all’Armorica dove stazionava la Classis Sambrica) e si favoriva lo shipping attorno alla Britannia. Con la sua estrema precisione Bettini sottolinea poi il cambio di passo, in epoca tardoantica, nelle costruzioni navali militari: le navi con alte prore e poppe e dotate di un solo ponte di vogatori erano di dimensioni più modeste rispetto al passato, per rispondere ad una esigenza di dispersione presso vari porti marittimi e fluviali e per poter agire prontamente in caso di attacco da parte dei pirati, per quanto tali imbarcazioni incontrassero alcune difficoltà nel navigare stringendo il vento.

Da ultimo vengono analizzate l’architettura e le costruzioni navali, con le loro peculiarità legate alla navigazione oceanica, quanto a robustezza, stabilità, velocità, armamento. Mi immagino che l’autore vorrà parlarcene in dettaglio. Colpisce in senso positivo, all’interno della narrazione di questo testo, la modernizzazione del linguaggio tecnico-strategico, che da un lato può considerarsi come un portato della storiografia anglosassone e dall’altro deriva senza dubbio dall’esperienza marinara dell’autore: mettendo a fuoco la storia militare del mondo romano, Bettini parla sia a proposito della spedizione di Cesare che poi della conquista di parte dell’isola sotto Claudio oltre che di “expeditionary” di “una migliorata organizzazione anfibia”; tutto ciò ribalterebbe il luogo comune dell’esercito romano da considerarsi un “trained automata” (“una monolitica macchina bellica”). Del resto nel rapporto tra comizi e consules in epoca repubblicana, e poi tra grandi comandanti militari (come Mario) e legionari, l’ammiraglio vede piuttosto che un’organizzazione monolitica, una forma di partecipazione dei cittadini-soldato alle scelte dei comandanti, una sorta di “diritto di consenso”, tanto che si dovrebbe parlare di una gerarchia militare topdown e bottom upwards, certamente diversa da quella attuale e caratterizzata dal rapporto fiduciario con i comandanti. La scelta del linguaggio deriva anche dall’uso delle opere di esperti di strategia militare, come Edouard Luttwak che viene spesso citato dall’autore nelle conclusioni; certo è che l’analisi del tema della logistica della Marina romana, della logistica integrata, della logistica di aderenza e della logistica di sostegno secondo il linguaggio della strategia contemporanea, applicata al mondo antico attirano l’interesse dei lettori: paragrafi interi vengono dedicati al foraggiamento, all’approvvigionamento idrico, alla costruzione di strade e ponti, alla sanità a bordo delle navi e in campo. Appare oggi evidente che senza una grande organizzazione militare alcune gigantesche imprese sarebbero state impossibili, come quelle di Cesare che si svolsero dalla Britannia alle Gallie all’Egitto, dalla Hiberia al Nord Africa, alla Sardinia fino alla fondazione di Turris Libisonis nel golfo dell’Asinara. Il modello antico appare ancor oggi interessante da conoscere e studiare in un’ottica strategica di intervento militare e peacekeeeping, anche se nel mondo che viviamo i contrasti, i rischi e i tragici pericoli dei nostri giorni non vengono da un lontanissimo finis terrae o dal fiume Oceano ma piuttosto dal cuore stesso del Mediterraneo e da entrambe le sue sponde.




I decenni tra l’esilio in Sardegna di Callisto e quello di Ponziano: i rapporti tra cristiani e pagani.

Attilio Mastino
I decenni tra l’esilio in Sardegna di Callisto e quello di Ponziano:
i rapporti tra cristiani e pagani.

Per un paradosso della storia, la prima notizia relativa alla presenza di cristiani in Sardegna nell’età di Commodo precede di vent’anni la più significativa testimonianza dei culti pagani nell’isola, la ricostruzione del tempio del dio “nazionale” Sardus Pater, che documenta la vitalità delle antiche tradizioni pagane locali: tra il 213 ed il 217 d.C. si può infatti datare l’epigrafe dedicatoria all’imperatore Caracalla, in occasione dei restauri dell’antico tempio di Antas in comune di Fluminimaggiore nella Sardegna sud-occidentale, a breve distanza dall’isola circumsarda di Sulci-Sant’Antioco, che Tolomeo conosce come Molilbòdes, l’isola del piombo, Plumbaria.

Si tratta di un edificio, completamente nuovo non solo rispetto a quello cartaginese costruito per Sid Addir Babi, ma anche rispetto a quello di età graccana (o augustea), che oggi conosciamo attraverso le terrecotte architettoniche del frontone; il tempio severiano testimonia la sopravvivenza dell’antico culto salutifero del grande dio eponimo della Sardegna, il Sardus Pater figlio di Eracle, interpretatio romana del dio fenicio di Sidone (Sid figlio di Melkart), dell’eroe greco Iolao Padre compagno di Eracle e probabilmente dell’arcaico Babi, forse un dio venerato da età preistorica presso il santuario nella vicina grotta di Su Mannau. Sovrapposto infine al Sardo figlio di Makeris delle fonti greche.

La cosa straordinaria è che il culto pagano del dio “nazionale” veniva affiancato e integrato con il culto di Eracle, padre di Sardus, e di conseguenza – secondo un progetto che potrebbe esser attribuito già a Commodo – affiancava Caracalla ad Eracle e lo integrava al culto imperiale, ormai fondato su un’articolata organizzazione provinciale (con sede a Carales) e municipale (che è documentata nella vicina Sulci). L’aditon bipartito del tempio testimonia forse la pratica congiunta del culto, se dobbiamo immaginare la statua di Sardus col suo caratteristico copricapo di piume in una cella (rimane un dito in bronzo di 15 cm. di lunghezza) e quella di Caracalla-Ercole nell’altra cella, mentre l’altare era localizzato secondo l’uso romano sula scalinata d’accesso al tempio. Oggi conosciamo meglio la planimetria del tempio tetrastilo, suddiviso longitudinalmente in anticella, cella e penetrale.

Risulta singolare il fatto che la dedica epigrafica in dativo, la quale collega il tempio del dio nazionale dei Sardi al nome dell’imperatore negli anni della “ripresa cosmocratica” di Antonino Magno, sia stata effettuata una ventina d’anni dopo la prima vicenda a noi nota di cristiani esiliati nella vicina area mineraria, inviati in condizioni di schiavitù secondo i Philosophoumena attribuiti al presbitero romano Ippolito eis metallon Sardonias e liberati per l’intervento di Marcia (Marcia Aurelia Ceionia Demetrias), la compagna di Commodo. Tra essi era anche uno schiavo, il futuro papa Callisto, arrestato dopo il fallimento della banca di proprietà del liberto imperiale Carpoforo, banca impegnata a favore di orfani e vedove; i fatti si erano complicati per Callisto in seguito al pubblico scandalo avvenuto in una sinagoga urbana nel giorno di sabato, quando Callisto aveva tentato inutilmente di recuperare i suoi crediti.

È dunque ammesso pacificamente dagli studiosi che Callisto si trovasse in Sardegna per ragioni differenti da quelle che avevano provocato l’esilio en Sardonìa dei numerosi màrtures romani, inseriti nell’elenco ufficiale fornito a Marcia dal pontefice di origine africana Vittore:  siamo tra il 189 (elezione di Vittore a vescovo di Roma) e il 31 dicembre 192 (uccisione di Commodo). L’imperatore aveva firmato un editto (meglio una lettera assolutoria, ten apolùsimon epistolén) che disponeva la liberazione dei cristiani romani esiliati anni prima (sembra negli ultimi anni di Marco Aurelio) ad metalla in Sardegna a causa della loro fede, senza considerare in nessun modo Callisto, condannato per altri delicta dal praefectus urbi Seius Fuscianus ta il 185 e il 189.L’eunuco Giacinto (chiamato anche col titolo di presbitero), antico tutore di Marcia, fu incaricato di recarsi in Sardegna per liberare i cristiani romani e probabilmente informò innanzi tutto il prefetto equestre che governava la provincia: si tratta di un epìtropos anonimo, per Piero Meloni e Davide Faoro, anche se forse possiamo collocare proprio tra il 190 e il 192 quel C. Ulpius Severus, procurator Augusti e praefectus attivo in piena Barbaria, ricordato sulla targa dedicata a Diana e Silvano nel Nemus Sorabense, nelle foreste dei Montes Insani a mille metri di altitudine (Fonni).

Successivamente Giacinto dové presentarsi presso l’epitropeuon tes choras, il locale procurator metallorum imperiale, con l’elenco dei cristiani assolti e da liberare. Fu quest’ultimo e non il governatore provinciale a occuparsi concretamente del problema, visto che tutta la scena è ambientata nel campo di prigionia di Callisto e non nella capitale Carales.È dunque molto probabile che le miniere sulcitane fossero rette da un liberto procuratore imperiale con sede a Metalla,a breve distanza dalla valle di Antas attraversata dalla strada “costiera occidentale” a Tibula Sulcos: personaggio apparentemente analogo, forse addirittura da identificare col proc(urator) metallorum et praediorum, un liberto imperiale di età severiana, quel (Marcus Aurelius) Servatus Aug(ustorum duorum) lib(ertus), stretto collaboratore (adiutor)del prefetto provinciale Q. Baebius Modestus nel 211-212 nell’età di Caracalla e Geta (cat. 6, Fordongianus). Il distretto minerario appare fortemente presidiato dall’esercito romano e in particolare dalla cohors I Sardorum nei primi secoli dell’impero, in relazione proprio alla sorveglianza sui deportati e sugli schiavi impiegati nell’estrazione dei minerali nei metalla del fiscus imperiale (in particolare piombo argentifero, galena e ferro): a Grugua nel II secolo conosciamo un miles Farsonius Occiarius e un Charittus Cota[e f(ilius), miles coh(ortis) I? ] Sardorum, (centuria) Pa[—]; infine nella vicina Buggerru un Surdinius Felix (centurio) coh(ortis) I Sard(orum). L’area mineraria, passata dal controllo dell’aristocrazia sulcitana nelle mani di Cesare, a partire dall’età di Ottaviano fu parte integrante delle proprietà imperiali, come ha recentemente dimostrato Mattia Sanna Montanelli.

La vicenda è troppo nota per dover essere ricostruita nei dettagli, deformata con tutta probabilità da quella che in passato è stata ritenuta la malevola ostilità di Ippolito nei confronti di Callisto, che si sarebbe disperato davanti all’inviato imperiale e sarebbe comunque riuscito a farsi liberare; al suo rientro a Roma sarebbe diventato diacono, assistente di Zefirino, incaricato della manutenzione delle catacombe sulla Via Appia, infine pontefice per cinque anni tra l’età di Elagabalo e quella di Severo Alessandro (218-222).

Che le miniere fossero di proprietà del fisco imperiale è sicuro, come testimoniano i numerosi lingotti di piombo di produzione locale e di forma tronco-piramidale dalla miniera di Santa Lucia di Fluminimaggiore (Sa Colombera) già a partire dall’età di Adriano, recentemente studiati da Raimondo Zucca; analoga è la massa plumbea di Carcinadas presso Buggeru, così come i lingotti del relitto di Pistis ritrovati in comune di Arbus nel 1987, tutti di origine locale.

Nella valle di Antas qualche anno dopo la partenza di Callisto e degli altri cristiani romani assolti da Commodo, tra il 213 e il 217 il p(raefectus) p(rovinciae) S(ardiniae) (?) Q(uintus) Co[ce]ius Proculus avrebbe ricostruito dalle fondamenta il temp[l(um) D]ei [Sa]rdi Patris Bab[i.],ve[tustate c]on[lap(sum)], dedicandolo però non al dio pagano ma all’imperatore Caracalla: il nome in dativo dell’imperatore sembrerebbe farci escludere che l’iniziativa del restauro del tempio sia stata assunta da Antonino Magno; più probabilmente da un funzionario imperiale presente in Sardegna, come abbiamo supposto il governatore provinciale, alto soprintendente del culto imperiale nell’isola. Sembra più difficile un’iniziativa del responsabile dell’area mineraria, dato che il procuratore a noi noto negli stessi anni, responsabile dei metalla e dei praedia del fiscus imperiale, è il (Marcus Aurelius) Servatus liberto imperiale.

È stato supposto che l’occasione sia l’emanazione della constitutio antoniniana de civitate, che estendeva la cittadinanza romana anche ai peregrini di origine sarda; ma non è escluso che la ricostruzione del tempio vada collegata con la malattia di Caracalla, che negli stessi mesi ordinava anche in Sardegna di porre la dedica agli dei e alle dee, in esecuzione delle disposizione dell’oracolo di Apollo di Claros in Lidia, subito dopo la campagna germanica nel corso della spedizione in oriente. Eugenia Tognotti mi fa notare che forse andrebbe approfondito il tema delle caratteristiche della lunga malattia di Caracalla descritta da Dione Cassio 77, 15, 6-7 ed Herod. 4,8,3, iniziata dopo la morte di Geta e sviluppasi durante la spedizione contro gli Alamanni nel 213, durata almeno cinque anni se al momento della morte nell’aprile 217 Caracalla visitava il santuario di Luno a Carre: gli incubi notturni del principe, il rimorso per l’uccisione del fratello, l’apparizione di fantasmi (per Dione <<enosei de kai te psuché pikrois tisì fantasmasi>>), la cura del sonno davanti al santuario di Asclepio di Pergamo (dove secondo Erodiano si riempì di sogni finché ne ebbe voglia, <<es oson ethele ton oneiràton emforetheis>>), rimandano forse alla pratica del sonno terapeutico che certamente è documentata nello stesso periodo dalla statuina di Punta ‘e su coloru presso il santuario di Esculapio a Nora; forse proprio da questo tempio proviene l’iscrizione cat. 5, rinvenuta tra le <<rovine della chiesetta di S. Nicola, in comune di Sarrok, ma prossima a S. Pietro di Pula>>, trasferita sicuramente in età medioevale. Non senza forse un lontanissimo richiamo alla tradizione di età tardo-nuragica conosciuta nella Fisica di Aristotele, a proposito delle pratiche incubatorie determinate dall’assunzione di droghe presso gli eroi, che rappresentavano il fior fiore delle aristocrazie isolane, senza dimenticare la connessione tra le necropoli con tombe monosome tardo-nuragiche di Antas e quelle di Mont’e Prama.

Che il paganesimo fosse pienamente vitale in Sardegna all’inizio del III secolo è testimoniato proprio dalla ricostruzione del tempio del Sardus Pater, che riscopriva le “origini” africane dei Sardi, analoghe a quelle dei Severi, per quanto oggi possiamo ammettere che in passato si sia fin troppo enfatizzata “l’estraneità” del cristianesimo all’isola, in particolare in relazione alla provenienza dei martiri dioclezianei.

Chiudiamo l’ambito cronologico di questo intervento con l’episodio dell’esilio in Sardegna ricordato dal Catalogo liberiano – in Sardinia, in insula nociva, con allusione evidente alla malaria – del vescovo di Roma Ponziano (nominato il 21 luglio 233) e del presbitero Ippolito nel primo anno di Massimino il Trace, il 235: un episodio che conferma come la Sardegna fosse considerata ancora terra d’esilio popolata da pagani, nella quale gli esiliati cristiani anche di altissimo rango non avrebbero potuto trovare solidarietà da parte dei pochi fedeli. Il Liber Pontificalis, apparentemente derivato dal Catalogo ma con non poche varianti e inesattezze, attribuisce impropriamente l’esilio di Ponziano ad una decisione di Severo Alessandro, nel suo ultimo anno.

Dimessosi il 28 settembre 235, secondo il Catalogo, in eadem insula discinctus est IIII K(a)l(endas) Octobr(es), Ponziano morì un mese dopo, il 30 ottobre, a causa del trattamento disumano che dové subire forse presso le stesse miniere sulcitane, adflictus, maceratus fustibus, apparentemente ad opera dei soldati incaricati di obbligare i prigionieri a lavorare nelle miniere (e ormai sappiamo che gli ausiliari romani erano concentrati in Sardegna solo a Carales e nell’area mineraria del Sulcis); molto dubbio e addirittura da escludere, pur considerando le osservazioni contrarie di Raimondo Turtas, è l’esilio nell’insula Bucina, forse Molara, fondato su una variante del Liber Pontificalis, che appare decisamente meno informato del Catalogo: Pontianus episcopus et Yppolitus presbiter exilio sunt deportati ab Alexando in Sardinia insula Bucina.Eppure l’arrivo sotto Gordiano III o Filippo l’Arabo di una delegazione della chiesa romana, guidata da papa Fabiano (236-250), incaricata di recuperare i corpi di Ponziano e di Ippolito,deposti in una tomba provvisoria in Sardegna, dimostra che la memoria del luogo in cui il vescovo di Roma e il suo comes Ippolito erano stati sepolti era rimasto nel ricordo della piccola comunità cristiana locale per quasi cinque anni: Fabianus adduxit [Pontianum] cum clero per navem et sepelivit in cymiterio Callisti, via Appia; Ippolito fu sepolto invece nella catacomba di Ippolito. Avvenimento impensabile se i corpi dei due prelati fossero stati sepolti inizialmente a Molara, isola piccolissima e inospitale, che appare totalmente disabitata nell’antichità. Poco utile è la presenza a Cala Chiesa di una chiesa romanica monoansata intitolata più tardi, apparentemente solo in età spagnola, a San Ponziano.

È possibile che entrambi gli episodi (verificatisi rispettivamente tra il 190 e il 235) vadano collocati nelle miniere sulcitane, forse presso Metalla (identificata ora con Grugua), a breve distanza dalla valle di Antas nella quale negli stessi anni fu ricostruito il tempio dedicato al culto salutifero del grande dio eponimo della Sardegna, il Sardus Pater Babi: un tempio che credo abbia rappresentato nell’antichità preistorica, poi in quella punica e soprattutto in età romana, il luogo alto dove era ricapitolata tutta la storia del popolo sardo, nelle sue chiusure e resistenze, ma anche nella sua capacità di adattarsi e di confrontarsi con le culture mediterranee. È solo uno dei tanti dati sulla forza e sulla vitalità che le tradizioni pagane continuavano ad avere in Sardegna, dove per tutto il III ed anche nel IV secolo abbiamo notizia di restauri di edifici di culto pagani e, su base municipale e provinciale, della ramificata e capillare organizzazione del culto imperiale, che fu il modello territoriale diretto sul quale credo dovette impiantarsi la nuova organizzazione religiosa diocesana, che troviamo documentata (per la capitale provinciale Carales, successivamente qualificata come metròpolis) a partire dal concilio antidonatista di Arelate all’indomani della pace costantiniana, ma che risale sicuramente almeno al secolo precedente.

Il culto imperiale cittadino, collegato al culto della Dea Roma e articolato con un ricco calendario di celebrazioni affidate a flamines perpetui, flamines Augustales, flamines Augusti, Augustorum, divi Augusti o divorum Augustorum, è documentato a Carales, Nora, Sulci, Forum Traiani, Cornus, Bosa, Turris Libisonis, colonia anch’essa qualificata col titolo di metròpolis nelle passioni tarde; l’organizzazione provinciale del culto è testimoniata dall’epigrafia di Carales, Sulci, Bosa, Cornus e dalla adlectio nel consiglio municipale della capitale (splendidissimus ordo Karalitanorum ex consensu provinciae Sardiniae) dei flamini e dei sacerdoti provinciali, una volta usciti di carica. La geografia ha davvero un peso, se molti di questi centri divennero più tardi sede diocesana, come Carales (prima di Costantino) e le altre sedi citate per la prima volta nel 484 ma sicuramente più antiche: in occasione del Concilio convocato a Cartagine dal vandalo Unnerico, in totale sono documentati otto i vescovi trasmarini (non africani), ricordati tutti come episcopi insulae Sardiniae, nell’ordine il vescovo di Carales, forse già con l’autorità di metropolita su 7 vescovi suffraganei, di Forum Traiani, di Senafer, di Minorica, di Sulci, di Turris, di Maiorica e di Evusum; di essi dunque 4 sicuramente sardi, tre delle Baleari, uno, quello di Senafer, ancora della Sardegna (Cornus) piuttosto che della Corsica; conosciamo successivamente la Sancta Cornensis ecclesia con Boetius nel Concilio Lateranense Romano del 649; in piena età giudicale i territori della sede cornuense furono ereditati dalla diocesi di Bosa.

Raimondo Zucca ha scritto che il tempio del Sardus Pater ricostruito nell’età di Caracalla fu abbandonato dai fedeli dopo la pace religiosa, comunque dopo l’età costantiniana: le testimonianze più tarde sono infatti delle monete imperiali del IV secolo, che offrono evidentemente il terminus post quem per la caduta in disuso o per la distruzione violenta del tempio, forse per volontà del clero cristiano local. C’è da chiedersi quanti altri templi pagani nel corso del IV secolo e soprattutto nei due secoli successivi siano stati distrutti dai cristiani, oppure siano stati destinati ad altro uso o più probabilmente trasformati e riconvertiti, secondo le istruzioni che per un’epoca più avanzata furono impartite dai pontefici romani, come Gregorio Magno, a proposito della necessità di trasformare i templi degli Angli da luogo di adorazione dei démoni a luogo di adorazione del vero Dio.

Qui in onore di Caracalla ammalato, fervente ammiratore di Ercole e Libero (dii patrii di Leptis Magna, città natale proprio dell’imperatore) fu restaurato il tempio di Sardus Pater e di suo padre Eracle-Maceride-Melkart (Paus. X, 17,2). La loro immagine emerge ora sorprendentemente dalle terrecotte architettoniche tardo-repubblicane da riportare a botteghe urbane conservate al Museo di Fluminimaggiore, accompagnate dalle figure credo di Demetra-Cerere e proprio di Libero-Dioniso. E questo in una dimensione tutta interna alla Sardegna, addirittura “identitaria”, se veramente Cerere alla fine del II-inizi del I secolo a.C. allude alla produzione di grano dell’agricoltura sarda e forse alla fortuna dei populares nell’isola alla fine dell’età repubblicana; e se Libero-Dioniso-Bacco (più tardi collegati alle origini della dinastia severiana proveniente dalla Tripolitania) rimandano al lontanissimo ricordo dei Sardolibici isolani, noti per l’amore per il simposio e la loro caratteristica kulix, la coppa per bere il vino; forse un modo per richiamare antichi contatti tra la Sardegna e la Libia.

Infine, al centro del frontone tardo repubblicano del tempio, Sardus Pater è collocato in una posizione di rilievo, accanto ad Ercole, con la caratteristica corona ornata da tre file di penne, il calathos piumato con un’iconografia che coincide con l’immagine rappresentata sulle monete di età triumvirale coniate da Ottaviano per ricordare un antenato, Marco Azio Balbo governatore dell’isola nell’anno cruciale del consolato di Cesare (59 a.C.), alla vigilia dell’invasione romana in Gallia: il dio presenta quelle caratteristica “nazionali” e addirittura “regali” (già ben documentate per Sid) che richiamano l’eleutheria dei Sardi della Barbaria ricordata da Diodoro Siculo proprio in età triumvirale. La moneta, che noi conosciamo in oltre 200 esemplari, fu battuta con il sistema quartunciale in uso tra il 39 ed il 15 a.C. in quanto pesa un quarto di 27 gr. cioè di un’oncia. II fatto che sui rovescio compaia di profilo la testa barbata del Sardus Pater, con corona di penne e giavellotto porterebbe a collocare l’emissione in coincidenza forse con i restauro del tempio punico per iniziativa di Ottaviano, particolarmente interessato a valorizzare il culto nazionale dei Sardi.

Né va dimenticato che un altro antenato rimane sullo sfondo, Settimio Severo, padre di Caracalla, originario di Leptis Magna in Tripolitania, che aveva governato come questore l’isola nel 174 d.C.

Attilio Mastino

 

I decenni tra l’esilio in Sardegna di Callisto e quello di Ponziano:

i rapporti tra cristiani e pagani

 

 

Per un paradosso della storia, la prima notizia relativa alla presenza di cristiani in Sardegna nell’età di Commodo precede di vent’anni la più significativa testimonianza dei culti pagani nell’isola, la ricostruzione del tempio del dio “nazionale” Sardus Pater, che documenta la vitalità delle antiche tradizioni pagane locali: tra il 213 ed il 217 d.C. si può infatti datare l’epigrafe dedicatoria all’imperatore Caracalla, in occasione dei restauri dell’antico tempio di Antas in comune di Fluminimaggiore nella Sardegna sud-occidentale, a breve distanza dall’isola circumsarda di Sulci-Sant’Antioco, che Tolomeo conosce come Molilbòdes, l’isola del piombo, Plumbaria. Si tratta di un edificio, completamente nuovo non solo rispetto a quello cartaginese costruito per Sid Addir Babi, ma anche rispetto a quello di età graccana (o augustea), che oggi conosciamo attraverso le terrecotte architettoniche del frontone; il tempio severiano testimonia la sopravvivenza dell’antico culto salutifero del grande dio eponimo della Sardegna, il Sardus Pater figlio di Eracle, interpretatio romana del dio fenicio di Sidone (Sid figlio di Melkart), dell’eroe greco Iolao Padre compagno di Eracle e probabilmente dell’arcaico Babi, forse un dio venerato da età preistorica presso il santuario nella vicina grotta di Su Mannau. Sovrapposto infine al Sardo figlio di Makeris delle fonti greche. La cosa straordinaria è che il culto pagano del dio “nazionale” veniva affiancato e integrato con il culto di Eracle, padre di Sardus, e di conseguenza – secondo un progetto che potrebbe esser attribuito già a Commodo – affiancava Caracalla ad Eracle e lo integrava al culto imperiale, ormai fondato su un’articolata organizzazione provinciale (con sede a Carales) e municipale (che è documentata nella vicina Sulci). L’aditon bipartito del tempio testimonia forse la pratica congiunta del culto, se dobbiamo immaginare la statua di Sardus col suo caratteristico copricapo di piume in una cella (rimane un dito in bronzo di 15 cm. di lunghezza) e quella di Caracalla-Ercole nell’altra cella, mentre l’altare era localizzato secondo l’uso romano sula scalinata d’accesso al tempio. Oggi conosciamo meglio la planimetria del tempio tetrastilo, suddiviso longitudinalmente in anticella, cella e penetrale.

Risulta singolare il fatto che la dedica epigrafica in dativo, la quale collega il tempio del dio nazionale dei Sardi al nome dell’imperatore negli anni della “ripresa cosmocratica” di Antonino Magno, sia stata effettuata una ventina d’anni dopo la prima vicenda a noi nota di cristiani esiliati nella vicina area mineraria, inviati in condizioni di schiavitù secondo i Philosophoumena attribuiti al presbitero romano Ippolito eis metallon Sardonias e liberati per l’intervento di Marcia (Marcia Aurelia Ceionia Demetrias), la compagna di Commodo. Tra essi era anche uno schiavo, il futuro papa Callisto, arrestato dopo il fallimento della banca di proprietà del liberto imperiale Carpoforo, banca impegnata a favore di orfani e vedove; i fatti si erano complicati per Callisto in seguito al pubblico scandalo avvenuto in una sinagoga urbana nel giorno di sabato, quando Callisto aveva tentato inutilmente di recuperare i suoi crediti. È dunque ammesso pacificamente dagli studiosi che Callisto si trovasse in Sardegna per ragioni differenti da quelle che avevano provocato l’esilio en Sardonìa dei numerosi màrtures romani, inseriti nell’elenco ufficiale fornito a Marcia dal pontefice di origine africana Vittore: siamo tra il 189 (elezione di Vittore a vescovo di Roma) e il 31 dicembre 192 (uccisione di Commodo). L’imperatore aveva firmato un editto (meglio una lettera assolutoria, ten apolùsimon epistolén) che disponeva la liberazione dei cristiani romani esiliati anni prima (sembra negli ultimi anni di Marco Aurelio) ad metalla in Sardegna a causa della loro fede, senza considerare in nessun modo Callisto, condannato per altri delicta dal praefectus urbi Seius Fuscianus ta il 185 e il 189.L’eunuco Giacinto (chiamato anche col titolo di presbitero), antico tutore di Marcia, fu incaricato di recarsi in Sardegna per liberare i cristiani romani e probabilmente informò innanzi tutto il prefetto equestre che governava la provincia: si tratta di un epìtropos anonimo, per Piero Meloni e Davide Faoro, anche se forse possiamo collocare proprio tra il 190 e il 192 quel C. Ulpius Severus, procurator Augusti e praefectus attivo in piena Barbaria, ricordato sulla targa dedicata a Diana e Silvano nel Nemus Sorabense, nelle foreste dei Montes Insani a mille metri di altitudine (Fonni).Successivamente Giacinto dové presentarsi presso l’epitropeuon tes choras, il locale procurator metallorum imperiale, con l’elenco dei cristiani assolti e da liberare. Fu quest’ultimo e non il governatore provinciale a occuparsi concretamente del problema, visto che tutta la scena è ambientata nel campo di prigionia di Callisto e non nella capitale Carales.È dunque molto probabile che le miniere sulcitane fossero rette da un liberto procuratore imperiale con sede a Metalla,a breve distanza dalla valle di Antas attraversata dalla strada “costiera occidentale” a Tibula Sulcos: personaggio apparentemente analogo, forse addirittura da identificare col proc(urator) metallorum et praediorum, un liberto imperiale di età severiana, quel (Marcus Aurelius) Servatus Aug(ustorum duorum) lib(ertus), stretto collaboratore (adiutor)del prefetto provinciale Q. Baebius Modestus nel 211-212 nell’età di Caracalla e Geta (cat. 6, Fordongianus). Il distretto minerario appare fortemente presidiato dall’esercito romano e in particolare dalla cohors I Sardorum nei primi secoli dell’impero, in relazione proprio alla sorveglianza sui deportati e sugli schiavi impiegati nell’estrazione dei minerali nei metalla del fiscus imperiale (in particolare piombo argentifero, galena e ferro): a Grugua nel II secolo conosciamo un miles Farsonius Occiarius e un Charittus Cota[e f(ilius), miles coh(ortis) I? ] Sardorum, (centuria) Pa[—]; infine nella vicina Buggerru un Surdinius Felix (centurio) coh(ortis) I Sard(orum). L’area mineraria, passata dal controllo dell’aristocrazia sulcitana nelle mani di Cesare, a partire dall’età di Ottaviano fu parte integrante delle proprietà imperiali, come ha recentemente dimostrato Mattia Sanna Montanelli.

La vicenda è troppo nota per dover essere ricostruita nei dettagli, deformata con tutta probabilità da quella che in passato è stata ritenuta la malevola ostilità di Ippolito nei confronti di Callisto, che si sarebbe disperato davanti all’inviato imperiale e sarebbe comunque riuscito a farsi liberare; al suo rientro a Roma sarebbe diventato diacono, assistente di Zefirino, incaricato della manutenzione delle catacombe sulla Via Appia, infine pontefice per cinque anni tra l’età di Elagabalo e quella di Severo Alessandro (218-222).

Che le miniere fossero di proprietà del fisco imperiale è sicuro, come testimoniano i numerosi lingotti di piombo di produzione locale e di forma tronco-piramidale dalla miniera di Santa Lucia di Fluminimaggiore (Sa Colombera) già a partire dall’età di Adriano, recentemente studiati da Raimondo Zucca; analoga è la massa plumbea di Carcinadas presso Buggeru, così come i lingotti del relitto di Pistis ritrovati in comune di Arbus nel 1987, tutti di origine locale.

Nella valle di Antas qualche anno dopo la partenza di Callisto e degli altri cristiani romani assolti da Commodo, tra il 213 e il 217 il p(raefectus) p(rovinciae) S(ardiniae) (?) Q(uintus) Co[ce]ius Proculus avrebbe ricostruito dalle fondamenta il temp[l(um) D]ei [Sa]rdi Patris Bab[i.],ve[tustate c]on[lap(sum)], dedicandolo però non al dio pagano ma all’imperatore Caracalla: il nome in dativo dell’imperatore sembrerebbe farci escludere che l’iniziativa del restauro del tempio sia stata assunta da Antonino Magno; più probabilmente da un funzionario imperiale presente in Sardegna, come abbiamo supposto il governatore provinciale, alto soprintendente del culto imperiale nell’isola. Sembra più difficile un’iniziativa del responsabile dell’area mineraria, dato che il procuratore a noi noto negli stessi anni, responsabile dei metalla e dei praedia del fiscus imperiale, è il (Marcus Aurelius) Servatus liberto imperiale. È stato supposto che l’occasione sia l’emanazione della constitutio antoniniana de civitate, che estendeva la cittadinanza romana anche ai peregrini di origine sarda; ma non è escluso che la ricostruzione del tempio vada collegata con la malattia di Caracalla, che negli stessi mesi ordinava anche in Sardegna di porre la dedica agli dei e alle dee, in esecuzione delle disposizione dell’oracolo di Apollo di Claros in Lidia, subito dopo la campagna germanica nel corso della spedizione in oriente. Eugenia Tognotti mi fa notare che forse andrebbe approfondito il tema delle caratteristiche della lunga malattia di Caracalla descritta da Dione Cassio 77, 15, 6-7 ed Herod. 4,8,3, iniziata dopo la morte di Geta e sviluppasi durante la spedizione contro gli Alamanni nel 213, durata almeno cinque anni se al momento della morte nell’aprile 217 Caracalla visitava il santuario di Luno a Carre: gli incubi notturni del principe, il rimorso per l’uccisione del fratello, l’apparizione di fantasmi (per Dione <<enosei de kai te psuché pikrois tisì fantasmasi>>), la cura del sonno davanti al santuario di Asclepio di Pergamo (dove secondo Erodiano si riempì di sogni finché ne ebbe voglia, <<es oson ethele ton oneiràton emforetheis>>), rimandano forse alla pratica del sonno terapeutico che certamente è documentata nello stesso periodo dalla statuina di Punta ‘e su coloru presso il santuario di Esculapio a Nora; forse proprio da questo tempio proviene l’iscrizione cat. 5, rinvenuta tra le <<rovine della chiesetta di S. Nicola, in comune di Sarrok, ma prossima a S. Pietro di Pula>>, trasferita sicuramente in età medioevale. Non senza forse un lontanissimo richiamo alla tradizione di età tardo-nuragica conosciuta nella Fisica di Aristotele, a proposito delle pratiche incubatorie determinate dall’assunzione di droghe presso gli eroi, che rappresentavano il fior fiore delle aristocrazie isolane, senza dimenticare la connessione tra le necropoli con tombe monosome tardo-nuragiche di Antas e quelle di Mont’e Prama.

Che il paganesimo fosse pienamente vitale in Sardegna all’inizio del III secolo è testimoniato proprio dalla ricostruzione del tempio del Sardus Pater, che riscopriva le “origini” africane dei Sardi, analoghe a quelle dei Severi, per quanto oggi possiamo ammettere che in passato si sia fin troppo enfatizzata “l’estraneità” del cristianesimo all’isola, in particolare in relazione alla provenienza dei martiri dioclezianei.

Chiudiamo l’ambito cronologico di questo intervento con l’episodio dell’esilio in Sardegna ricordato dal Catalogo liberiano in Sardinia, in insula nociva, con allusione evidente alla malaria – del vescovo di Roma Ponziano (nominato il 21 luglio 233) e del presbitero Ippolito nel primo anno di Massimino il Trace, il 235: un episodio che conferma come la Sardegna fosse considerata ancora terra d’esilio popolata da pagani, nella quale gli esiliati cristiani anche di altissimo rango non avrebbero potuto trovare solidarietà da parte dei pochi fedeli. Il Liber Pontificalis, apparentemente derivato dal Catalogo ma con non poche varianti e inesattezze, attribuisce impropriamente l’esilio di Ponziano ad una decisione di Severo Alessandro, nel suo ultimo anno. Dimessosi il 28 settembre 235, secondo il Catalogo, in eadem insula discinctus est IIII K(a)l(endas) Octobr(es), Ponziano morì un mese dopo, il 30 ottobre, a causa del trattamento disumano che dové subire forse presso le stesse miniere sulcitane, adflictus, maceratus fustibus, apparentemente ad opera dei soldati incaricati di obbligare i prigionieri a lavorare nelle miniere (e ormai sappiamo che gli ausiliari romani erano concentrati in Sardegna solo a Carales e nell’area mineraria del Sulcis); molto dubbio e addirittura da escludere, pur considerando le osservazioni contrarie di Raimondo Turtas, è l’esilio nell’insula Bucina, forse Molara, fondato su una variante del Liber Pontificalis, che appare decisamente meno informato del Catalogo: Pontianus episcopus et Yppolitus presbiter exilio sunt deportati ab Alexando in Sardinia insula Bucina.Eppure l’arrivo sotto Gordiano III o Filippo l’Arabo di una delegazione della chiesa romana, guidata da papa Fabiano (236-250), incaricata di recuperare i corpi di Ponziano e di Ippolito,deposti in una tomba provvisoria in Sardegna, dimostra che la memoria del luogo in cui il vescovo di Roma e il suo comes Ippolito erano stati sepolti era rimasto nel ricordo della piccola comunità cristiana locale per quasi cinque anni: Fabianus adduxit [Pontianum] cum clero per navem et sepelivit in cymiterio Callisti, via Appia; Ippolito fu sepolto invece nella catacomba di Ippolito. Avvenimento impensabile se i corpi dei due prelati fossero stati sepolti inizialmente a Molara, isola piccolissima e inospitale, che appare totalmente disabitata nell’antichità. Poco utile è la presenza a Cala Chiesa di una chiesa romanica monoansata intitolata più tardi, apparentemente solo in età spagnola, a San Ponziano.

È possibile che entrambi gli episodi (verificatisi rispettivamente tra il 190 e il 235) vadano collocati nelle miniere sulcitane, forse presso Metalla (identificata ora con Grugua), a breve distanza dalla valle di Antas nella quale negli stessi anni fu ricostruito il tempio dedicato al culto salutifero del grande dio eponimo della Sardegna, il Sardus Pater Babi: un tempio che credo abbia rappresentato nell’antichità preistorica, poi in quella punica e soprattutto in età romana, il luogo alto dove era ricapitolata tutta la storia del popolo sardo, nelle sue chiusure e resistenze, ma anche nella sua capacità di adattarsi e di confrontarsi con le culture mediterranee. È solo uno dei tanti dati sulla forza e sulla vitalità che le tradizioni pagane continuavano ad avere in Sardegna, dove per tutto il III ed anche nel IV secolo abbiamo notizia di restauri di edifici di culto pagani e, su base municipale e provinciale, della ramificata e capillare organizzazione del culto imperiale, che fu il modello territoriale diretto sul quale credo dovette impiantarsi la nuova organizzazione religiosa diocesana, che troviamo documentata (per la capitale provinciale Carales, successivamente qualificata come metròpolis) a partire dal concilio antidonatista di Arelate all’indomani della pace costantiniana, ma che risale sicuramente almeno al secolo precedente. Il culto imperiale cittadino, collegato al culto della Dea Roma e articolato con un ricco calendario di celebrazioni affidate a flamines perpetui, flamines Augustales, flamines Augusti, Augustorum, divi Augusti o divorum Augustorum, è documentato a Carales, Nora, Sulci, Forum Traiani, Cornus, Bosa, Turris Libisonis, colonia anch’essa qualificata col titolo di metròpolis nelle passioni tarde; l’organizzazione provinciale del culto è testimoniata dall’epigrafia di Carales, Sulci, Bosa, Cornus e dalla adlectio nel consiglio municipale della capitale (splendidissimus ordo Karalitanorum ex consensu provinciae Sardiniae) dei flamini e dei sacerdoti provinciali, una volta usciti di carica. La geografia ha davvero un peso, se molti di questi centri divennero più tardi sede diocesana, come Carales (prima di Costantino) e le altre sedi citate per la prima volta nel 484 ma sicuramente più antiche: in occasione del Concilio convocato a Cartagine dal vandalo Unnerico, in totale sono documentati otto i vescovi trasmarini (non africani), ricordati tutti come episcopi insulae Sardiniae, nell’ordine il vescovo di Carales, forse già con l’autorità di metropolita su 7 vescovi suffraganei, di Forum Traiani, di Senafer, di Minorica, di Sulci, di Turris, di Maiorica e di Evusum; di essi dunque 4 sicuramente sardi, tre delle Baleari, uno, quello di Senafer, ancora della Sardegna (Cornus) piuttosto che della Corsica; conosciamo successivamente la Sancta Cornensis ecclesia con Boetius nel Concilio Lateranense Romano del 649; in piena età giudicale i territori della sede cornuense furono ereditati dalla diocesi di Bosa.

Raimondo Zucca ha scritto che il tempio del Sardus Pater ricostruito nell’età di Caracalla fu abbandonato dai fedeli dopo la pace religiosa, comunque dopo l’età costantiniana: le testimonianze più tarde sono infatti delle monete imperiali del IV secolo, che offrono evidentemente il terminus post quem per la caduta in disuso o per la distruzione violenta del tempio, forse per volontà del clero cristiano local. C’è da chiedersi quanti altri templi pagani nel corso del IV secolo e soprattutto nei due secoli successivi siano stati distrutti dai cristiani, oppure siano stati destinati ad altro uso o più probabilmente trasformati e riconvertiti, secondo le istruzioni che per un’epoca più avanzata furono impartite dai pontefici romani, come Gregorio Magno, a proposito della necessità di trasformare i templi degli Angli da luogo di adorazione dei démoni a luogo di adorazione del vero Dio.

Qui in onore di Caracalla ammalato, fervente ammiratore di Ercole e Libero (dii patrii di Leptis Magna, città natale proprio dell’imperatore) fu restaurato il tempio di Sardus Pater e di suo padre Eracle-Maceride-Melkart (Paus. X, 17,2). La loro immagine emerge ora sorprendentemente dalle terrecotte architettoniche tardo-repubblicane da riportare a botteghe urbane conservate al Museo di Fluminimaggiore, accompagnate dalle figure credo di Demetra-Cerere e proprio di Libero-Dioniso. E questo in una dimensione tutta interna alla Sardegna, addirittura “identitaria”, se veramente Cerere alla fine del II-inizi del I secolo a.C. allude alla produzione di grano dell’agricoltura sarda e forse alla fortuna dei populares nell’isola alla fine dell’età repubblicana; e se Libero-Dioniso-Bacco (più tardi collegati alle origini della dinastia severiana proveniente dalla Tripolitania) rimandano al lontanissimo ricordo dei Sardolibici isolani, noti per l’amore per il simposio e la loro caratteristica kulix, la coppa per bere il vino; forse un modo per richiamare antichi contatti tra la Sardegna e la Libia. Infine, al centro del frontone tardo repubblicano del tempio, Sardus Pater è collocato in una posizione di rilievo, accanto ad Ercole, con la caratteristica corona ornata da tre file di penne, il calathos piumato con un’iconografia che coincide con l’immagine rappresentata sulle monete di età triumvirale coniate da Ottaviano per ricordare un antenato, Marco Azio Balbo governatore dell’isola nell’anno cruciale del consolato di Cesare (59 a.C.), alla vigilia dell’invasione romana in Gallia: il dio presenta quelle caratteristica “nazionali” e addirittura “regali” (già ben documentate per Sid) che richiamano l’eleutheria dei Sardi della Barbaria ricordata da Diodoro Siculo proprio in età triumvirale. La moneta, che noi conosciamo in oltre 200 esemplari, fu battuta con il sistema quartunciale in uso tra il 39 ed il 15 a.C. in quanto pesa un quarto di 27 gr. cioè di un’oncia. II fatto che sui rovescio compaia di profilo la testa barbata del Sardus Pater, con corona di penne e giavellotto porterebbe a collocare l’emissione in coincidenza forse con i restauro del tempio punico per iniziativa di Ottaviano, particolarmente interessato a valorizzare il culto nazionale dei Sardi.

Né va dimenticato che un altro antenato rimane sullo sfondo, Settimio Severo, padre di Caracalla, originario di Leptis Magna in Tripolitania, che aveva governato come questore l’isola nel 174 d.C.

Attilio Mastino

 

I decenni tra l’esilio in Sardegna di Callisto e quello di Ponziano:

i rapporti tra cristiani e pagani

 

 

Per un paradosso della storia, la prima notizia relativa alla presenza di cristiani in Sardegna nell’età di Commodo precede di vent’anni la più significativa testimonianza dei culti pagani nell’isola, la ricostruzione del tempio del dio “nazionale” Sardus Pater, che documenta la vitalità delle antiche tradizioni pagane locali: tra il 213 ed il 217 d.C. si può infatti datare l’epigrafe dedicatoria all’imperatore Caracalla, in occasione dei restauri dell’antico tempio di Antas in comune di Fluminimaggiore nella Sardegna sud-occidentale, a breve distanza dall’isola circumsarda di Sulci-Sant’Antioco, che Tolomeo conosce come Molilbòdes, l’isola del piombo, Plumbaria. Si tratta di un edificio, completamente nuovo non solo rispetto a quello cartaginese costruito per Sid Addir Babi, ma anche rispetto a quello di età graccana (o augustea), che oggi conosciamo attraverso le terrecotte architettoniche del frontone; il tempio severiano testimonia la sopravvivenza dell’antico culto salutifero del grande dio eponimo della Sardegna, il Sardus Pater figlio di Eracle, interpretatio romana del dio fenicio di Sidone (Sid figlio di Melkart), dell’eroe greco Iolao Padre compagno di Eracle e probabilmente dell’arcaico Babi, forse un dio venerato da età preistorica presso il santuario nella vicina grotta di Su Mannau. Sovrapposto infine al Sardo figlio di Makeris delle fonti greche. La cosa straordinaria è che il culto pagano del dio “nazionale” veniva affiancato e integrato con il culto di Eracle, padre di Sardus, e di conseguenza – secondo un progetto che potrebbe esser attribuito già a Commodo – affiancava Caracalla ad Eracle e lo integrava al culto imperiale, ormai fondato su un’articolata organizzazione provinciale (con sede a Carales) e municipale (che è documentata nella vicina Sulci). L’aditon bipartito del tempio testimonia forse la pratica congiunta del culto, se dobbiamo immaginare la statua di Sardus col suo caratteristico copricapo di piume in una cella (rimane un dito in bronzo di 15 cm. di lunghezza) e quella di Caracalla-Ercole nell’altra cella, mentre l’altare era localizzato secondo l’uso romano sula scalinata d’accesso al tempio. Oggi conosciamo meglio la planimetria del tempio tetrastilo, suddiviso longitudinalmente in anticella, cella e penetrale.

Risulta singolare il fatto che la dedica epigrafica in dativo, la quale collega il tempio del dio nazionale dei Sardi al nome dell’imperatore negli anni della “ripresa cosmocratica” di Antonino Magno, sia stata effettuata una ventina d’anni dopo la prima vicenda a noi nota di cristiani esiliati nella vicina area mineraria, inviati in condizioni di schiavitù secondo i Philosophoumena attribuiti al presbitero romano Ippolito eis metallon Sardonias e liberati per l’intervento di Marcia (Marcia Aurelia Ceionia Demetrias), la compagna di Commodo. Tra essi era anche uno schiavo, il futuro papa Callisto, arrestato dopo il fallimento della banca di proprietà del liberto imperiale Carpoforo, banca impegnata a favore di orfani e vedove; i fatti si erano complicati per Callisto in seguito al pubblico scandalo avvenuto in una sinagoga urbana nel giorno di sabato, quando Callisto aveva tentato inutilmente di recuperare i suoi crediti. È dunque ammesso pacificamente dagli studiosi che Callisto si trovasse in Sardegna per ragioni differenti da quelle che avevano provocato l’esilio en Sardonìa dei numerosi màrtures romani, inseriti nell’elenco ufficiale fornito a Marcia dal pontefice di origine africana Vittore:  siamo tra il 189 (elezione di Vittore a vescovo di Roma) e il 31 dicembre 192 (uccisione di Commodo). L’imperatore aveva firmato un editto (meglio una lettera assolutoria, ten apolùsimon epistolén) che disponeva la liberazione dei cristiani romani esiliati anni prima (sembra negli ultimi anni di Marco Aurelio) ad metalla in Sardegna a causa della loro fede, senza considerare in nessun modo Callisto, condannato per altri delicta dal praefectus urbi Seius Fuscianus ta il 185 e il 189.L’eunuco Giacinto (chiamato anche col titolo di presbitero), antico tutore di Marcia, fu incaricato di recarsi in Sardegna per liberare i cristiani romani e probabilmente informò innanzi tutto il prefetto equestre che governava la provincia: si tratta di un epìtropos anonimo, per Piero Meloni e Davide Faoro, anche se forse possiamo collocare proprio tra il 190 e il 192 quel C. Ulpius Severus, procurator Augusti e praefectus attivo in piena Barbaria, ricordato sulla targa dedicata a Diana e Silvano nel Nemus Sorabense, nelle foreste dei Montes Insani a mille metri di altitudine (Fonni).Successivamente Giacinto dové presentarsi presso l’epitropeuon tes choras, il locale procurator metallorum imperiale, con l’elenco dei cristiani assolti e da liberare. Fu quest’ultimo e non il governatore provinciale a occuparsi concretamente del problema, visto che tutta la scena è ambientata nel campo di prigionia di Callisto e non nella capitale Carales.È dunque molto probabile che le miniere sulcitane fossero rette da un liberto procuratore imperiale con sede a Metalla,a breve distanza dalla valle di Antas attraversata dalla strada “costiera occidentale” a Tibula Sulcos: personaggio apparentemente analogo, forse addirittura da identificare col proc(urator) metallorum et praediorum, un liberto imperiale di età severiana, quel (Marcus Aurelius) Servatus Aug(ustorum duorum) lib(ertus), stretto collaboratore (adiutor)del prefetto provinciale Q. Baebius Modestus nel 211-212 nell’età di Caracalla e Geta (cat. 6, Fordongianus). Il distretto minerario appare fortemente presidiato dall’esercito romano e in particolare dalla cohors I Sardorum nei primi secoli dell’impero, in relazione proprio alla sorveglianza sui deportati e sugli schiavi impiegati nell’estrazione dei minerali nei metalla del fiscus imperiale (in particolare piombo argentifero, galena e ferro): a Grugua nel II secolo conosciamo un miles Farsonius Occiarius e un Charittus Cota[e f(ilius), miles coh(ortis) I? ] Sardorum, (centuria) Pa[—]; infine nella vicina Buggerru un Surdinius Felix (centurio) coh(ortis) I Sard(orum). L’area mineraria, passata dal controllo dell’aristocrazia sulcitana nelle mani di Cesare, a partire dall’età di Ottaviano fu parte integrante delle proprietà imperiali, come ha recentemente dimostrato Mattia Sanna Montanelli.

La vicenda è troppo nota per dover essere ricostruita nei dettagli, deformata con tutta probabilità da quella che in passato è stata ritenuta la malevola ostilità di Ippolito nei confronti di Callisto, che si sarebbe disperato davanti all’inviato imperiale e sarebbe comunque riuscito a farsi liberare; al suo rientro a Roma sarebbe diventato diacono, assistente di Zefirino, incaricato della manutenzione delle catacombe sulla Via Appia, infine pontefice per cinque anni tra l’età di Elagabalo e quella di Severo Alessandro (218-222).

Che le miniere fossero di proprietà del fisco imperiale è sicuro, come testimoniano i numerosi lingotti di piombo di produzione locale e di forma tronco-piramidale dalla miniera di Santa Lucia di Fluminimaggiore (Sa Colombera) già a partire dall’età di Adriano, recentemente studiati da Raimondo Zucca; analoga è la massa plumbea di Carcinadas presso Buggeru, così come i lingotti del relitto di Pistis ritrovati in comune di Arbus nel 1987, tutti di origine locale.

Nella valle di Antas qualche anno dopo la partenza di Callisto e degli altri cristiani romani assolti da Commodo, tra il 213 e il 217 il p(raefectus) p(rovinciae) S(ardiniae) (?) Q(uintus) Co[ce]ius Proculus avrebbe ricostruito dalle fondamenta il temp[l(um) D]ei [Sa]rdi Patris Bab[i.],ve[tustate c]on[lap(sum)], dedicandolo però non al dio pagano ma all’imperatore Caracalla: il nome in dativo dell’imperatore sembrerebbe farci escludere che l’iniziativa del restauro del tempio sia stata assunta da Antonino Magno; più probabilmente da un funzionario imperiale presente in Sardegna, come abbiamo supposto il governatore provinciale, alto soprintendente del culto imperiale nell’isola. Sembra più difficile un’iniziativa del responsabile dell’area mineraria, dato che il procuratore a noi noto negli stessi anni, responsabile dei metalla e dei praedia del fiscus imperiale, è il (Marcus Aurelius) Servatus liberto imperiale. È stato supposto che l’occasione sia l’emanazione della constitutio antoniniana de civitate, che estendeva la cittadinanza romana anche ai peregrini di origine sarda; ma non è escluso che la ricostruzione del tempio vada collegata con la malattia di Caracalla, che negli stessi mesi ordinava anche in Sardegna di porre la dedica agli dei e alle dee, in esecuzione delle disposizione dell’oracolo di Apollo di Claros in Lidia, subito dopo la campagna germanica nel corso della spedizione in oriente. Eugenia Tognotti mi fa notare che forse andrebbe approfondito il tema delle caratteristiche della lunga malattia di Caracalla descritta da Dione Cassio 77, 15, 6-7 ed Herod. 4,8,3, iniziata dopo la morte di Geta e sviluppasi durante la spedizione contro gli Alamanni nel 213, durata almeno cinque anni se al momento della morte nell’aprile 217 Caracalla visitava il santuario di Luno a Carre: gli incubi notturni del principe, il rimorso per l’uccisione del fratello, l’apparizione di fantasmi (per Dione <<enosei de kai te psuché pikrois tisì fantasmasi>>), la cura del sonno davanti al santuario di Asclepio di Pergamo (dove secondo Erodiano si riempì di sogni finché ne ebbe voglia, <<es oson ethele ton oneiràton emforetheis>>), rimandano forse alla pratica del sonno terapeutico che certamente è documentata nello stesso periodo dalla statuina di Punta ‘e su coloru presso il santuario di Esculapio a Nora; forse proprio da questo tempio proviene l’iscrizione cat. 5, rinvenuta tra le <<rovine della chiesetta di S. Nicola, in comune di Sarrok, ma prossima a S. Pietro di Pula>>, trasferita sicuramente in età medioevale. Non senza forse un lontanissimo richiamo alla tradizione di età tardo-nuragica conosciuta nella Fisica di Aristotele, a proposito delle pratiche incubatorie determinate dall’assunzione di droghe presso gli eroi, che rappresentavano il fior fiore delle aristocrazie isolane, senza dimenticare la connessione tra le necropoli con tombe monosome tardo-nuragiche di Antas e quelle di Mont’e Prama.

Che il paganesimo fosse pienamente vitale in Sardegna all’inizio del III secolo è testimoniato proprio dalla ricostruzione del tempio del Sardus Pater, che riscopriva le “origini” africane dei Sardi, analoghe a quelle dei Severi, per quanto oggi possiamo ammettere che in passato si sia fin troppo enfatizzata “l’estraneità” del cristianesimo all’isola, in particolare in relazione alla provenienza dei martiri dioclezianei.

Chiudiamo l’ambito cronologico di questo intervento con l’episodio dell’esilio in Sardegna ricordato dal Catalogo liberiano – in Sardinia, in insula nociva, con allusione evidente alla malaria – del vescovo di Roma Ponziano (nominato il 21 luglio 233) e del presbitero Ippolito nel primo anno di Massimino il Trace, il 235: un episodio che conferma come la Sardegna fosse considerata ancora terra d’esilio popolata da pagani, nella quale gli esiliati cristiani anche di altissimo rango non avrebbero potuto trovare solidarietà da parte dei pochi fedeli. Il Liber Pontificalis, apparentemente derivato dal Catalogo ma con non poche varianti e inesattezze, attribuisce impropriamente l’esilio di Ponziano ad una decisione di Severo Alessandro, nel suo ultimo anno. Dimessosi il 28 settembre 235, secondo il Catalogo, in eadem insula discinctus est IIII K(a)l(endas) Octobr(es), Ponziano morì un mese dopo, il 30 ottobre, a causa del trattamento disumano che dové subire forse presso le stesse miniere sulcitane, adflictus, maceratus fustibus, apparentemente ad opera dei soldati incaricati di obbligare i prigionieri a lavorare nelle miniere (e ormai sappiamo che gli ausiliari romani erano concentrati in Sardegna solo a Carales e nell’area mineraria del Sulcis); molto dubbio e addirittura da escludere, pur considerando le osservazioni contrarie di Raimondo Turtas, è l’esilio nell’insula Bucina, forse Molara, fondato su una variante del Liber Pontificalis, che appare decisamente meno informato del Catalogo: Pontianus episcopus et Yppolitus presbiter exilio sunt deportati ab Alexando in Sardinia insula Bucina.Eppure l’arrivo sotto Gordiano III o Filippo l’Arabo di una delegazione della chiesa romana, guidata da papa Fabiano (236-250), incaricata di recuperare i corpi di Ponziano e di Ippolito,deposti in una tomba provvisoria in Sardegna, dimostra che la memoria del luogo in cui il vescovo di Roma e il suo comes Ippolito erano stati sepolti era rimasto nel ricordo della piccola comunità cristiana locale per quasi cinque anni: Fabianus adduxit [Pontianum] cum clero per navem et sepelivit in cymiterio Callisti, via Appia; Ippolito fu sepolto invece nella catacomba di Ippolito. Avvenimento impensabile se i corpi dei due prelati fossero stati sepolti inizialmente a Molara, isola piccolissima e inospitale, che appare totalmente disabitata nell’antichità. Poco utile è la presenza a Cala Chiesa di una chiesa romanica monoansata intitolata più tardi, apparentemente solo in età spagnola, a San Ponziano.

È possibile che entrambi gli episodi (verificatisi rispettivamente tra il 190 e il 235) vadano collocati nelle miniere sulcitane, forse presso Metalla (identificata ora con Grugua), a breve distanza dalla valle di Antas nella quale negli stessi anni fu ricostruito il tempio dedicato al culto salutifero del grande dio eponimo della Sardegna, il Sardus Pater Babi: un tempio che credo abbia rappresentato nell’antichità preistorica, poi in quella punica e soprattutto in età romana, il luogo alto dove era ricapitolata tutta la storia del popolo sardo, nelle sue chiusure e resistenze, ma anche nella sua capacità di adattarsi e di confrontarsi con le culture mediterranee. È solo uno dei tanti dati sulla forza e sulla vitalità che le tradizioni pagane continuavano ad avere in Sardegna, dove per tutto il III ed anche nel IV secolo abbiamo notizia di restauri di edifici di culto pagani e, su base municipale e provinciale, della ramificata e capillare organizzazione del culto imperiale, che fu il modello territoriale diretto sul quale credo dovette impiantarsi la nuova organizzazione religiosa diocesana, che troviamo documentata (per la capitale provinciale Carales, successivamente qualificata come metròpolis) a partire dal concilio antidonatista di Arelate all’indomani della pace costantiniana, ma che risale sicuramente almeno al secolo precedente. Il culto imperiale cittadino, collegato al culto della Dea Roma e articolato con un ricco calendario di celebrazioni affidate a flamines perpetui, flamines Augustales, flamines Augusti, Augustorum, divi Augusti o divorum Augustorum, è documentato a Carales, Nora, Sulci, Forum Traiani, Cornus, Bosa, Turris Libisonis, colonia anch’essa qualificata col titolo di metròpolis nelle passioni tarde; l’organizzazione provinciale del culto è testimoniata dall’epigrafia di Carales, Sulci, Bosa, Cornus e dalla adlectio nel consiglio municipale della capitale (splendidissimus ordo Karalitanorum ex consensu provinciae Sardiniae) dei flamini e dei sacerdoti provinciali, una volta usciti di carica. La geografia ha davvero un peso, se molti di questi centri divennero più tardi sede diocesana, come Carales (prima di Costantino) e le altre sedi citate per la prima volta nel 484 ma sicuramente più antiche: in occasione del Concilio convocato a Cartagine dal vandalo Unnerico, in totale sono documentati otto i vescovi trasmarini (non africani), ricordati tutti come episcopi insulae Sardiniae, nell’ordine il vescovo di Carales, forse già con l’autorità di metropolita su 7 vescovi suffraganei, di Forum Traiani, di Senafer, di Minorica, di Sulci, di Turris, di Maiorica e di Evusum; di essi dunque 4 sicuramente sardi, tre delle Baleari, uno, quello di Senafer, ancora della Sardegna (Cornus) piuttosto che della Corsica; conosciamo successivamente la Sancta Cornensis ecclesia con Boetius nel Concilio Lateranense Romano del 649; in piena età giudicale i territori della sede cornuense furono ereditati dalla diocesi di Bosa.

Raimondo Zucca ha scritto che il tempio del Sardus Pater ricostruito nell’età di Caracalla fu abbandonato dai fedeli dopo la pace religiosa, comunque dopo l’età costantiniana: le testimonianze più tarde sono infatti delle monete imperiali del IV secolo, che offrono evidentemente il terminus post quem per la caduta in disuso o per la distruzione violenta del tempio, forse per volontà del clero cristiano local. C’è da chiedersi quanti altri templi pagani nel corso del IV secolo e soprattutto nei due secoli successivi siano stati distrutti dai cristiani, oppure siano stati destinati ad altro uso o più probabilmente trasformati e riconvertiti, secondo le istruzioni che per un’epoca più avanzata furono impartite dai pontefici romani, come Gregorio Magno, a proposito della necessità di trasformare i templi degli Angli da luogo di adorazione dei démoni a luogo di adorazione del vero Dio.

Qui in onore di Caracalla ammalato, fervente ammiratore di Ercole e Libero (dii patrii di Leptis Magna, città natale proprio dell’imperatore) fu restaurato il tempio di Sardus Pater e di suo padre Eracle-Maceride-Melkart (Paus. X, 17,2). La loro immagine emerge ora sorprendentemente dalle terrecotte architettoniche tardo-repubblicane da riportare a botteghe urbane conservate al Museo di Fluminimaggiore, accompagnate dalle figure credo di Demetra-Cerere e proprio di Libero-Dioniso. E questo in una dimensione tutta interna alla Sardegna, addirittura “identitaria”, se veramente Cerere alla fine del II-inizi del I secolo a.C. allude alla produzione di grano dell’agricoltura sarda e forse alla fortuna dei populares nell’isola alla fine dell’età repubblicana; e se Libero-Dioniso-Bacco (più tardi collegati alle origini della dinastia severiana proveniente dalla Tripolitania) rimandano al lontanissimo ricordo dei Sardolibici isolani, noti per l’amore per il simposio e la loro caratteristica kulix, la coppa per bere il vino; forse un modo per richiamare antichi contatti tra la Sardegna e la Libia. Infine, al centro del frontone tardo repubblicano del tempio, Sardus Pater è collocato in una posizione di rilievo, accanto ad Ercole, con la caratteristica corona ornata da tre file di penne, il calathos piumato con un’iconografia che coincide con l’immagine rappresentata sulle monete di età triumvirale coniate da Ottaviano per ricordare un antenato, Marco Azio Balbo governatore dell’isola nell’anno cruciale del consolato di Cesare (59 a.C.), alla vigilia dell’invasione romana in Gallia: il dio presenta quelle caratteristica “nazionali” e addirittura “regali” (già ben documentate per Sid) che richiamano l’eleutheria dei Sardi della Barbaria ricordata da Diodoro Siculo proprio in età triumvirale. La moneta, che noi conosciamo in oltre 200 esemplari, fu battuta con il sistema quartunciale in uso tra il 39 ed il 15 a.C. in quanto pesa un quarto di 27 gr. cioè di un’oncia. II fatto che sui rovescio compaia di profilo la testa barbata del Sardus Pater, con corona di penne e giavellotto porterebbe a collocare l’emissione in coincidenza forse con i restauro del tempio punico per iniziativa di Ottaviano, particolarmente interessato a valorizzare il culto nazionale dei Sardi.

 

Né va dimenticato che un altro antenato rimane sullo sfondo, Settimio Severo, padre di Caracalla, originario di Leptis Magna in Tripolitania, che aveva governato come questore l’isola nel 174 d.C.