La scomparsa di Jehan Desanges (Nantes 1929 – Parigi 25 marzo 2021)

La scomparsa di Jehan Desanges (Nantes 1929 – Parigi 25 marzo 2021)

A nome della Scuola archeologica italiana di Cartagine annunciamo con vivo dolore la scomparsa del socio Jehan Desanges, Maestro ed amico indimenticabile. Siamo vicini alla Signora Monique Longerstay, che abbracciamo con affetto, ai suoi allievi, ai suoi studenti. Abbiamo avuto il privilegio di conoscere da vicino uno studioso che già nel 1962 aveva pubblicato il suo capolavoro, Catalogue des tribus africaines de l’Antiquité classique à l’ouest du Nil, éd. Publications de la section d’histoire de l’Université de Dakar.

Lo abbiamo visitato più volte, nella casa di Rue Lauriston a Parigi oppure in Nord Africa e persino in Sardegna. Qui aveva poi seguito la prof.ssa Longerstay, allora presidente dell’associazione Le pays vert, a Thabarka ed a Carloforte, diventato amico con nostra sorpresa dello specialista della lingua tabarchina e genovese Fiorenzo Toso.

Negli ultimi  mesi ci aveva scritto dopo aver letto sul quinto numero di  Caster l’articolo sulle due iscrizioni bilingui di Thignica, condividendo un’ipotesi un po’ spericolata sulla rivolta dei Gordiani e suggerendoci nuove piste sul Bellum Numidum (“J’ai profité de cet “échange” collectif pour lire “Come le generazioni delle foglie” avec beaucoup d’intérêt”), rinviandoci ad un’iscrizione di Thubursicu Numidarum (Khamissa), quella dei Fraxinensibus furentibus, con un sorprendente commento ironico sull’editore e su un collega.

Del resto ci conoscevamo da oltre 40 anni e con noi aveva iniziato a lavorare strettamente fin dal 1987 con il quarto dei convegni dell’Africa Romana, quando aveva presentato a Sassari nell’aula magna dell’Università una straordinaria relazione sulla  Cirta di Sallustio e quella di Frontone. Due anni dopo ci aveva portato in Numidia al Saltus e al vicus Phosphorianus.  Da allora non è mai più mancato, ci ha seguito in Tunisia, in Marocco, in Spagna, in Sardegna, sempre con nuove idee e ricerche originali: così a Cartagine nel 1994 per discutere la geografia dell’Africa nella Chorographia di Pomponio Mela; e poi di nuovo a Tozeur nel 2012. E in tanti altri luoghi del Mediterraneo.

Si era laureato nel 1959 e da allora aveva insegnato a Tunisi, a Dakar e ad Algeri, per poi tonare a Nantes e da qui definitivamente a Parigi.  Ha insegnato a Princeton e Cincinnati. Tra il 1983 e il 2001 è stato direttore dell’ École pratique des hautes études, VI sezione.  Ha presieduto il Comité des travaux historiques et scientifiques, è stato membro della  Société des Antiquaires de France, Presidente del consiglio scientifico della rivista dell’Aouras, la Societé d’études et recherches sur l’Aurès antique. Ha lungamente curato la  Encyclopédie berbère come membro del Consiglio Scientifico e del Comitato Editoriale. Già membro del Consiglio nazionale delle università, del consiglio scientifico e del consiglio di fondazione dell’Ecole française de Rome, del Consiglio scientifico dell’ Institut Français d’Archéologie Orientale. È stato anche presidente del Comitato Editoriale della serie Graeco-Arabica (Atene).

Tra le sue pubblicazioni per noi importantissime, segnaliamo almeno l’edizione critica del VI libro della Naturalis Historia di Plinio il vecchio (sul Nord Africa), tra il 1980 e il 2008, nella prestigiosa collana Les Belles Lettres. E poi il bel volume del 1999 Toujours Afrique apporte fait nouveau. Scripta minora, éd. Boccard, Paris: un’opera che dà davvero l’idea della ricchezza di un mondo che amiamo.

Le passioni, gli entusiasmi, le curiosità di Jehan Desanges sono stati anche i nostri.

È per questo che oggi lo ricordiamo con affetto davvero sincero.




Traiano l’Optimus Princeps.

Traiano l’Optimus Princeps
Benevento, Università Giustino Fortunato 6 marzo 2021

Cari amici,

oggi festeggiamo insieme l’uscita di questo volume Traiano, l’optimus princeps, curato dall’amico Livio Zerbini, con gli atti del convegno svoltosi nella bella sede di Ferrara nel settembre 2017, in occasione della ricorrenza dei 1900 anni.  A quell’incontro avevamo partecipato in tanti, consapevoli di una pagina nuova che insieme stavamo scrivendo e che ora vediamo splendidamente presentata in questo volume delle edizioni Unibré, col quale si ripercorre un itinerario ideale che da Italica ci porta a Roma, al Piceno, alla Campania, alla Sardegna, alla Germania Superior, alla Dacia, alla Siria, fino all’Africa, alle origini di un secolo, quello degli Antonini, che ha rappresentato per tanti versi il momento più alto di una romanità in espansione nel Mediterraneo, più aperta ma ancora piena di conflitti e di contraddizioni.

Tante questioni in campo, dalle innovazioni sul piano giudiziario civile e penale al governo delle province, dal processo di colonizzazione allo sviluppo dell’architettura militare, dalla propaganda all’arruolamento dei peregrini daci, ai viaggi per terra e per mare. Questo libro è una nuova finestra anche sul mondo danubiano e sul mondo partico, in relazione al viaggio computo da Traiano sulla triere Ops della flotta di Ravenna armata con marinai di origine sarda (su questo ha scritto Piergiorgio Floris ed io stesso).

Vorrei partire dalla celebre frase di Geza Alföldy e Helmut Halfmann che nel 1973 si interrogavano su M. Cornelius Nigrinus Curiatius Maternus, quello che Vincenzo Scarano Ussani chiama “L’altro successore” di Nerva: “Non possiamo sapere tuttavia … se anche Cornelio Nigrino non sarebbe entrato nella storia come optimus princeps”.  I tempi erano forse maturi perché questo nuovo elemento inserito nella titolatura imperiale, più tardi nella stessa onomastica di Traiano, si affermasse per chiunque fosse arrivato al potere ? O c’è uno specifico che lega l’attributo e poi il cognome Optimus alle qualità riconosciute del personaggio, al rapporto con il senato, alle amicizie coltivate, alle strategie politiche, al programma ideologico ?

Ho riletto in questi giorni Il panegirico a Traiano di Plinio il giovane, curato da Giulio Vannini, pubblicato negli Oscar Classici Mondadori nel 2017, con l’orazione tenuta il I settembre del 100 d.C., dunque agli esodi dell’età di Traiano, con l’insistenza sulla nuova titolatura imperiale, aperta da questa sorta di dedica al migliore degli imperatori, optimo principi, già in I, 2:  e conclusa all’ultimo capitolo 95 ancora una volta col richiamo all’optimus princeps che è amato da tutti gli uomini che odiano i tiranni.  Il panegirico, continua davvero a sorprendere ancora oggi, per il fatto che un discorso vagamente adulatorio pronunciato nella curia, un testo letterario di occasione, abbia potuto di fatto profondamente incidere nella titolatura imperiale per molti decenni successivi, in luoghi lontanissimi da Roma.

Del resto sappiamo che l’auto-rappresentazione degli imperatori inizia a cambiare radicalmente proprio con Traiano, con una svolta nella titolatura cosmocratica timidamente adottata fin dall’età di Augusto, che ora diventa centralissima e capace di sintetizzare un’intera epoca: come hanno recentemente dimostrato Gianluca Gregori e Gianmarco Bianchini le dediche Principi optimo hanno un precedente già alla fine dell’età repubblicana e nell’età augustea: l’espressione è occasionalmente documentata nel de natura deorum di Cicerone per Iuppiter, il supremo dio del Campidoglio, poi attribuita occasionalmente agli imperatori del I secolo: per i due autori l’epiteto avrebbe assunto una connotazione inizialmente ufficiosa e poi ufficiale ben prima di Traiano.

Plinio, all’inizio dell’età traianea, utilizza ancora in modo convenzionale il titolo onorifico di “optimus princeps” (che pure considera un cognome), attingendo proprio agli attributi di Giove Ottimo Massimo, il dio supremo del Campidoglio “Optimus Maximus“, per l’imperatore che è riconosciuto come  dis simillimus princeps.

Due anni prima del solenne panegirico, morto Domiziano, l’amico di Plinio, Cornelio Tacito aveva scritto nel De vita et moribus Iulii Agricolae, la frase famosa: nunc denim redit animus, ora davvero riprendiamo a respirare, dopo la morte del tiranno, un termine – tyrannus – che ricorre più volte nel discorso in senato di Plinio e che non sarà dimenticato, se compare sull’arco di Costantino per indicare Massenzio, oltre che ovviamente nell’Historia Augusta.

Del resto già Nerva, secondo Tacito, era riuscito a coniugare due cose un tempo inconciliabili, res olim dissociabiles miscuerit, principatum ac libertatem. L’adozione di Traiano studiata in questo volume da Livio Zerbini annuncia inequivocabilmente l’impegno ad accrescere la felicitas temporum. E come è noto Julien Guey già settanta anni fa  aveva messo in rapporto l’adozione di Traiano con quella di Settimio Bassiano, Caracalla, che avrebbe dovuto aprire un nuovo secolo d’oro, come era stato  quello degli Antonini (28 janvier 98-28 janvier 198 ou le Siècle des Antonins).

Nel suo Panegirico pronunciato due anni dopo l’adozione e all’indomani della morte di Nerva, Plinio, riferendosi ora a Traiano, reduce dalle prime vittorie, poteva esaltare un imperatore moralmente integro, onesto e in tutto simile agli dei, castus et sanctus et dis simillimus princeps. E lo poteva fare senza arrossire, senza paura di essere preso per un adulatore responsabile di estemporanee e vergognose piaggerie, perché sapeva di esprimersi con libertas, fides et veritas. Le doti di Traiano sono quelle di coniugare la severitas con la hilaritas, la gravitas con la simplicitas. E poi la pietas, la moderatio, la dignitas dell’impero, la securitas e il pudor, l’honor e la potestas, l’auctoritas, la reverentia, la liberalitas, la virtus, la verecundia, l’indulgentia. Ancora la modestia, la magnanimitas, la benignitas, la magnitudo, l’humanitas.   Esempi da seguire per i boni principes del futuro, che non saranno sopra le leggi, perché leges super principes. Esempio per chi affianca il principe: cum ipse sis optimus, omnes circa te similes tui fecisti.   Solo in questo consisterà la securitas, la tranquillità del suo potere, non interrotto da notizie che non arrivano, da lettere che ritardano. Contro ogni utilizzo di delatori, usati dagli imperatori che odiano, non dai principi che sono amati.  Contro malversazioni, abusi, ladrocini compiuti in nome dell’imperatore.

Il dio che viene invocato agli esordi della gratiarum actio pro consulatu è appunto Giove Ottimo Massimo: nel suo grembo – come era consuetudine dopo i trionfi – Nerva aveva posto i serta d’alloro, le ghirlande giunte dalla Pannonia per l’adozione di Traiano assente, ante pulvinar Iovis optimi maximi adoptio peracta est, ni qua tandem non servitus nostra sed libertas et salus et securitas fundabantur. Nel vestibolo del tempio capitolino fin dai primi mesi vengono collocate statue di Traiano. D’ora in avanti i ringraziamenti del popolo per le grazie ottenute dal principe non debbono essere più rivolte al genius dell’imperatore ma all’onnipotenza di Giove Ottimo Massimo; e proprio dal dio viene preso in prestito l’epiteto Optimus, un po’ come un secolo prima il Senato aveva fatto con Ottaviano, chiamato Augustus-Sebastòs col senatoconsulto del 13 gennaio 27 a.C. Gli  studiosi non sempre sono sembrati concordi sull’attribuzione del titolo di Optimus per senatoconsulto nel 99, ma l’espressione utilizzata da Plinio è inequivocabile, iam quid tam civile tam senatorium, quam illud additum a nobis Optimi cognomen ? E più avanti: Iustisne de causis senatus populusque Romanus Optimi tibi cognomen adeicit ? A deliberare fu dunque la curia ma anche il popolo intero, che conferirono a Traiano quello che non è ancora esattamente un cognomen.

La cerimonia, dice Plinio, fu accompagnata dalle acclamazioni del senato, ”O te felicem”   e dagli atti che i senatori hanno fatto inserire negli acta urbis (in acta publica mittenda) e incidere nel bronzo  (et incidenda in aere) perché non fossero dimenticati: i primi sono certamente gli acta diurna, che secondo Enrica Malcovati hanno iniziato proprio con Traiano ad ospitare le acclamazioni dei senatori nella curia in onore dei principi  buoni; così sarà per il filo-senatorio Severo Alessandro un secolo dopo: felices nos imperio tuo, felicem rem publicam, di te servent; e questo all’indomani della morte dell’odiato Elagabalo, impurum et obscenum tyrannum eradicato dagli dei.

Plinio sa bene che l’epiteto Optimus avrebbe caratterizzato in futuro il solo Traiano; accompagnato da Maximus, avrebbe fatto apparire troppo ambizioso qualunque altro pur bravo imperatore, anche se egli avesse reso servizio all’intero genere umano; a maggior ragione l’epiteto sarebbe suonato falso per un principe cattivo. E se gli imperatori che verranno dopo di te se ne volessero appropriare (usurpent), Optimus sarà sempre riconosciuto come tuo, semper tamen agnoscetur ut tuum, verrà alla memoria solo in rapporto con Traiano.

In realtà in epoca così liminare, quando si festeggia la reciperata libertas dopo Domiziano,  Optimus – nonostante la diversa affermazione di Plinio – non è un cognome o almeno non lo è ancora, è solo un epiteto laudativo, un aggettivo che vuole contrapporre i tempi nuovi all’adrogantia priorum principum.  Ed era stato il senato a offrire il titolo di pater patriae inizialmente rifiutato da Traiano; il rifiuto di consolati e altri honores è ripetutamente citato nel Panegirico, dove vengono esaltate Pompeia Plotina e Ulpia Marciana, come osserva Francesca Cenerini, per aver inizialmente  rifiutato il titolo di Augustae.  Del resto Plinio rimane rigorosamente in un ambito tradizionale, se si pensa che già Orazio aveva chiamato Augusto optimus custos e Ovidio optimus pater (patriae), associandolo a Giove anche nel titolo di maximus: Caesar ades voto, maxime dive, meo. Un’iscrizione recentemente scoperta negli scavi del Campidoglio di Brescia, datata al momento della designazione al V consolato di Caligola trattenuto in Germania, era stata già  dedicata  [Pro s]alute et reditu et victor(ia) [C. Caesa]ris Aug(usti) principis optimi, p(atris) exercit(uum). Ben noto è poi l’anacronismo tra la damnatio di Nerone e il richiamo alla clementia optumi maximique principis, la generosità dello Nerone: siamo al 13 marzo 69 durante il principato di Otone, con la sentenza trascritta  sulla Tavola di Esterzili in Sardegna, che riproduce ad verbum il testo della decisione del procuratore di qualche anno precedente nella controversia giudiziaria tra Galillenses e Patulcenses Campani, quando Nerone era ancora vivo.

Torneremo sul Panegirico dove optimus ricorre una ventina di volte, ma è davvero sorprendente l’irruzione con Traiano di una titolatura che estende notevolmente l’attributo di optimus princeps sulle iscrizioni, sulle monete già dal 103, sui papiri: nelle iscrizioni in lingua greca Optimus è tradotto con Aristos, forse già dal 99 d.C. in Cilicia.

Se lasciamo la vasta documentazione del I secolo dove optimus è utilizzato per caratterizzare il comportamento in vita di privati cittadini in iscrizioni sepolcrali, il caso più antico che conosco per Traiano è in Italia, proprio a Roma dove tra il 103 e il 104  i sagari, i mercanti del teatro di Maercello, cultores domus Augustae dedicano una base di statua Imp. Caes. Divi Nervae filio Nervae Traiano Augusto Gernanico Dacico Pontifici max., nella sua VIII potestà tribunicia, nella IV acclamazione e V consolato, optumo principi: l’espressione come si vede è ancora esterna alla vera e propria titolatura imperiale, così come a Nescania in Betica a SE di Italica ancora nel 108-109: qui una dedica a Traiano nella sua XIII potestà tribunicia si conclude con la formula Optumo / Max{s}imoque / principi Nesca/nienses d(ecreto) d(ecurionum).  Siamo dopo le campagne daciche studiate in questo volume da Florin-Gheorghe Fodorean e l’iscrizione ci conferma – se ce ne fosse bisogno – che  l’espressione riferita a Traiano è un epiteto laudativo formalmente sganciato dalla vera e propria titolatura imperiale. L’uso non viene abbandonato se a Brindisi nel 110 (XIV potestà tribunicia), sulla dedica a Traiano pubblicata da Cesare Marangio su Epigraphica alcuni anni fa, la dedica è posta [Opti]mo indulgen[tissimo] pruncipi dai [Brund]isini decuriones et [municipes].

Se lasciamo da parte il primo caso precedente al 106, molto frammentario da Vienna con l’espressione [Nerva Tr]aian[us Optim]us Aug(ustus) quasi completamente integrata, una novità fu rappresentata dall’introduzione di Optimus-Aristos come rafforzativo di Augustus-Sebastos all’interno dell’onomastica ufficiale del principe dopo il senatoconsulto che già René Cagnat datava al luglio-agosto del 114, all’indomani delle prime vittorie in oriente, se seguiamo Dione Cassio.  Barbara Scardigli in un lontano articolo del 1974 aveva osservato che la situazione cambia proprio quando Optimus viene associato ad Augustus: a mio avviso ne rappresenta anzi un accrescimento ed entra a tutti gli effetti tra i nomina ufficiali dell’imperatore come un vero e proprio cognome, con una definitiva modifica della titolatura abituale, come possiamo vedere anche in decine di diplomi miliari, nel corso della spedizione partica. I primi esempi sono del 114, in coincidenza con la XVIII potestà tribunicia ma dopo la decisione del Senato.

Così nei due diplomi di Aquincum in Pannonia inferiore  datati al 114: 
Imp(erator) Caesar divi Nervae f(ilius) Nerva Tra[ianus Op]/timus Aug(ustus) Germ(anicus) Dacic(us) pontif(ex) max(imus) tr[ib(unicia) po]/test(ate) XVIII imp(erator) VII co(n)s(ul) VI [p(ater) p(atriae)  …

Così a Roma nello stesso anno per il restauro dei sacraria numinum vetustate dilapsa:  Imp(erator) Caesar divi Nervae f(ilius) / Nerva Traianus Optimus Aug(ustus) / Germanicus Dacicus pontif(ex) max(imus) / tribunic(ia) potest(ate) XVIII imp(erator) VII co(n)s(ul) VI p(ater) p(atriae) / sacraria numinum vetustate dilapsa a solo restituit.

Oppure in Betica a Cisimbrium, in una dedica effettuata dai municipes nel  il 114: Imp(eratori) Caesari / divi Nervae f(ilio) Nervae Traiano Op/timo Aug(usto) Germ(anico) Dacico / Parthico pontif(ici) max(imo) trib(unicia) / pot(estate) XVIII imp(eratori) VII co(n)s(uli) VI / patri patriae municipes

In realtà il primo caso sembra essere non ufficiale, quello della dedica testamentaria di Burnum di Dalmazia con terminus ante quem del 9 dicembre del 113, in coincidenza con la XVII potestà tribunicia, la VI acclamazione, il VI consolato: Imp(eratori) Caesari divi Nervae f(ilio) / Nervae Traiano Optimo / Aug(usto) Germ(anico) Dacico pont(ifici) max(imo) / trib(unicia) pot(estate) XVII imp(eratori) VI co(n)s(uli) VI p(atri) p(atriae).

Possiamo proseguire negli anni successivi con decine di attestazioni ormai consolidate, dove Optimus/Optumus compare stabilmente collocato affiancato ai cognomina Traianus e Augustus, quasi ad innalzare il livello del titolo di Augustus distinguendo Traiano dai suoi predecessori: ho una lista molto ampia che vi risparmierei, ma che se dimostra l’origine ufficiale del titolo, testimonia anche che venne evitata una vera inflazione se calcoliamo che quasi il 90% delle iscrizioni successive al 114 non hanno i cognomi Optimus Augustus – Aristos Sebastòs, che sembrano riservati ad occasioni speciali, come la dedica del Traianeum di Pergamo o di Iotapé in Cilicia, oppure i ludi di Giove e Traiano a Colossae di Frigia. Il caso inverso Sebastos Aristos di Lyttos a Creta potrebbe essere da rettificare, almeno come numero delle potestà tribunicie e per il bizzarro cognomen ex virtute in dativo, Sebasto Arìsto Armenikò, eventualmente da correggere in  Germanikò. Dal 114 al 117 possediamo moltissimi altri esempi dall’Egitto alla Siria, dalla Grecia al Ponto-Bitinia, dalla Dacia alla Pannonia e alla Rezia, dall’Italia alla Sardegna, fino alla Lusitania e alla Betica, perfino nel Barbaricum in Ucraina-Maurocastro sul Mar Nero.  Lasciatemi citare almeno il caso di una città dell’Asia (Aidindjik) per la dedica posta tra il 115 e il 116 dal proconsole, il patrigno della moglie di Plinio, come se la famiglia avesse conservato una lontana memoria del Panegirico.  All’ultimo anno di Traiano ed al 117 possiamo riferire le dediche di Artaxata in Armenia, Tomi in Moesia inferiore, ma anche Thibica in Africa Proconsolare ed Alba Fucens in Italia. Dopo la morte, negli ascendenti fino ai Severi, il titolo si perde.

La titolatura  greca con Sebastos preceduto da Aristos, predilige la titolatura cosmocratica ancora più capace di esprimere le attese dell’impero per l’impresa partica. In particolare gli epiteti cosmocratici sono quasi tutti in lingua greca e compaiono per la prima volta con Traiano, con una svolta davvero significativa, che sarà a lungo imitata fino almeno alla prima tetrarchia:  O euergetas kai saoter tas oukoumenas a Ereso nell’isola di Lesbo s.d.; O tes oikoumenes ktistes, 12 volte tra il 105 e il 113 sempre a Lyttus Creta e Chersonesus; O kurios tes oikoumenes, Cestrus in Asia Minore 98-102 anticipando Adriano Marco Aurelio Lucio Vero Settimio Severo Caracalla; O kurios soter kai euergetes tou kosmou Iotapé in Cilicia 115 d.C.; O soter tes oukoumenes, come Cesare ad Atene; O soter tou pantos kosmou Insula Cythera; O ges kai thalasses kurios a Pergamo.

Quello che va segnalato è che tutto è già contenuto nel Panegirico del 100: è dal giudizio e dalla volontà di Traiano che dipendono il mare e la terra, la pace e la guerra, cuius dicione nutuque maria terrae, pax bella egerentur, dove nutuque rimanda alle azioni di Zeus, ille mundi parens, che  ora può pensare solo al cielo, poiché ha messo il principe a svolgere il suo compito nei confronti di tutto il genere umano, qui erga omne hominum genus vice sua fungereris;  tematica che sarà ripresa da Caracalla (sulle statue con lo sguardo corrucciato verso Giove, che non si vuole interferisca con le vicende degli uomini)  e che comunque per Traiano ricorre ampiamente sulle iscrizioni per il propagator orbis terrarum come a Roma nel 108, lucupletator civium, che Plinio chiama in questa fase parens generis humani, capace di percorrere l’impero più con la sua fama che di persona: cum orbem terrarum non pedibus quam laudibus peragrares, victor gentium, prolatis imperii finibus in appena un biennio, princeps generis humani. Il tutto è compendiato nel titolo di conservator generis humani ad Aratispi a N di Malaga in Betica, dell’ultimo anno di Traiano. Un programma ideologico ben orientato, che si è dunque evoluto e arricchito in tutti gli angoli dell’impero.




Intervento del Presidente della Giuria per l’apertura della 61° edizione del Premio letterario Città di Ozieri.

Intervento del Presidente della Giuria per l’apertura della 61° edizione del Premio letterario Città di Ozieri.

Otieri, 27 febbraio 2021

Ci siamo lasciati un anno fa, il 29 febbraio 2020, con la 60° edizione del Premio Otieri di Letteratura Sarda fondato nel 1956 per volontà di Tonino Ledda: la cerimonia si era svolta nel Teatro civico Oriana Fallaci, con l’emozionante esibizione del coro della Brigata Sassari. Dae tando, da allora abbiamo attraversato il deserto ma non ci siamo mai fermati: la pandemia ci ha fatto soffrire enormemente, con gli oltre millecento morti della Sardegna e i quasi cento mila del nostro paese, lutti che hanno anzi contribuito ad ampliare la riflessione dei poeti, di uomini e donne sensibili, attenti, desiderosi di approdare in un mondo migliore, di immaginare un futuro diverso per la nostra gente.

Ho conosciuto a Cagliari Antonio Sanna, al quale è intestata la sessione principale del premio: era arrivato da Bonorva e ci raccontava di aver perso un polmone durante la prigionia in India sotto gli inglesi. Ci insegnava Linguistica Sarda anche nella Scuola di specializzazione in Studi Sardi.

La sezione di questo premio in prosa ricorda un altro bonorvese, Anghelu Dettori, scomparso quasi centenario a Cagliari nel 1991; egli – in contemporanea col premio – aveva fatto uscire nel 1957 il primo numero de  S’ischiglia, fortunata rivista mensile di poesia, lingua e arte sarda.

Premiare i poeti ad Otieri significa laurearli, riconoscerli, consegnar loro idealmente una corona, come diceva – attaccando Pitanu Morette – Antoni Cubeddu,  poeta di Otieri scomparso un anno prima della nascita del premio; a lui è intestata la nostra terza sezione di poesia per il canto.

Lasciatemi ricordare da ultimo Antonietta Dettori, già direttrice del Dipartimento di linguistica nell’Università di Cagliari, originaria di Macomer,  scomparsa in questa stessa settimana.

Oggi siamo costretti a celebrare on line dal Centru ‘e Documentascione de sa Literadura Regionale «Tonino Ledda», in Otieri, questa 61° edizione senza i poeti che sarebbero stati benennidos à Otieri: ateru no podimos fagher. Lasciatemi dire che non usciremo da questa pandemia senza cambiare in profondità, senza rinnovare reti di solidarietà fondate sull’identità profonda della nostra isola. Oggi guardiamo al futuro, preconizziamo tempi nuovi per rilanciare il nostro premio, in queste settimane stiamo discutendo il progetto di un profondo rinnovamento, per percorrere quella caminera ‘e virtute che Paolo Pillonca ci indicava pro su tempus benidore, per unu populu chi leat alénu dae s’istoria sua pro poder atopare a cara franca cun ateros populos de su mundu.

Vogliamo scavalcare i ponti, immaginare una vita migliore, alimentare la speranza di tempi nuovi, guardare ad una Sardegna diversa (emmo!, nois cherimos e devimos abbaidare a una Sardigna divescia, noa).

Ci incoraggia il numero dei giovani che hanno partecipato a questa edizione che ha coinvolto oltre cento poeti.

Se questo è tempo di bilanci, è anche tempo di sciogliere gli ormeggi e di imbarcarci verso un futuro che vorremmo più positivo e più felice: con una forte saldatura con le nostre radici più profonde. Apriremo una fase nuova, con nuovi linguaggi, affrontando con spirito di unità il tema della difesa della lingua sarda. Assumiamo l’impegno di guidare il vasto movimento di opinione che ci accompagna, partendo dal prezioso patrimonio di conoscenze e di sensibilità che ereditiamo e che vogliamo mettere al servizio della nostra terra, senza imposizioni verticistiche, con un nuovo equilibrio tra oralità e scrittura, con attenzione più consapevole per il valore della lingua sarda, ripensando alla poesia di Giovanni Maria Dettori, Sa limba sarda ‘oe:

Fis, de tempus meda, presonera

tra nuraghes e baddes soliànas

ninnàda dae fadas fitianas

lagrimàda, che prenda, da’ s’aera.

Non vogliamo più lacrimare per la nostra lingua e la nostra cultura: asciugheremo tutte le lacrime.  Sos poetas poden fagher meda in custa caminera noa…, i poeti possono aiutarci a costruire questo progetto con spontaneità ed efficacia perché hanno questo dono speciale, suscitano emozioni, spingono le persone ad agire per obiettivi alti e positivi: il nostro premio vuole raccogliere le eredità più feconde per riuscire a darci suggestioni e sentimenti positivi, per una nuova rivoluzione possibile.

Auguri a tutti i poeti, auguri a Otieri e alla Sardegna. Augurios mannos a totus sos poetas, a Otieri e a sa Sardigna amada.




La scomparsa di Edward Burman (Cambridge 1947 – Sassari 13 dicembre 2020).

La scomparsa di Edward Burman (Cambridge 1947 – Sassari 13 dicembre 2020)

Con grande dolore annunciamo la scomparsa ieri a Sassari in cardiochirurgia del nostro amico Edwad Burman, alcuni giorni dopo un’operazione al cuore di grande complessità.  Lascia a Sassari la figlia Lucy, a Milano il figlio Nicholàas e a Pekino la moglie Xiao Hong.   Lo avevamo conosciuto proprio in Cina  grazie a Plinio Innocenzi e Ettore Sequi; era rimasto incantato dalla Sardegna raccontata da Raimondo Zucca, Gaetano Ranieri, Alessandra Casu, in particolare lo avevano colpito i “giganti” di Mont’e Prama. Ci aveva seguito dopo qualche mese nell’Isola, dove contava di far arrivare definitivamente anche la moglie, che aveva solo un permesso provvisorio per 5 anni, mentre lui e Lucy erano diventati cittadini sassaresi da pochi mesi.

Edward Burman era nato a Cambridge nel 1947. Aveva studiato presso l’università della sua città natale e si era laureato in Filosofia all’Università di Leeds. Dopo la laurea, aveva insegnato in diverse università italiane (parlava benissimo l’italiano).  Amministratore di una società di investimento a Pechino e Partner dello Studio Ambrosetti di Milano, aveva  anche lavorato con la Mediapolis engineering di Torino in Cina. Da due anni si era trasferito con la famiglia in Sardegna, acquistando casa a Sassari.  La figlia Lucy studia con grande soddisfazione al Canopoleno, accolta con amore dagli studenti, dai professori, dal Dirigente.

I libri di Edwuard Burman sono basati sulla storia e sulla cultura europea, ma aveva pubblicato tra l’altro un volume sull'<<esercito di terracotta>> di Xi’an, trattando in particolare il tema del restauro delle migliaia di statue dei dignitari che accompagnavano l’imperatore cinese (Terracotta Warriors: History, Mystery and the Latest Discoveries).

Le sue opere comprendono “Inquisition: The Hammer of Heresy”, 1984  e “The  Templars: Knights of God” , 1990, entrambi successi internazionali; è noto come autore di molti libri famosissimi su diversi argomenti: “La Cina e l’Iran”, “L’impero cinese” ,  “Gli assassini. La setta segreta dei sacri killers dell’Islam” e “I Templari”, edita dalla casa editrice Convivio.

L’ultimo volume (Sardinia, Island of the Giants, Myths and Magic, Tauris Parke editore) presenta con una prospettiva inusuale la Sardegna, isola di Giganti, di Miti, di Magia: seguendo percorsi diversi  rispetto a quelli dei grandi viaggiatori inglesi (William Henry Smyth , William Warren Vernon, Peter Paul Mackey , William Fox Talbot,  Duncan Mackenzie,  Thomas Ashby, David Herbert Lawrence, e così via), rilancia la riflessione sulla vicenda di Benjamin Piercy e la ferrovia costruita tra Chilivani e Cagliari, la casa di Macomer e il castello incantato, collocato nella Valle dei Salici nei boschi del Marghine tra Macomer e Bolotana.

Burman discute sulla preistoria della Sardegna, dalle domus de janas a Su Nuraxi di Barumini,  il culto delle acque come a Su Tempiesu di Oune; la fase finale dell’età nuragica e le nuove scoperte effettuate da Raimondo Zucca, Gaetano Ranieri, Alessandro Usai sulle statue in pietra di Mont’e Prama, Cabras.  Per l’età romana è rimasto molto colpito dal “Genius loci” che ancora si percepisce nella valle di Antas a Fluminimaggiore, presso il tempio del Sardus Pater ricostruito da Augusto e poi da Caracalla ammalato. Gli scavi romani sotto la basilica di San Simplicio ad Olbia.

Ha affrontato il tema della sovranità della Sardegna  in età giudicale, partendo dagli affreschi del castello dei Malaspina a Bosa, realizzati nei primi decenni del 300 per volontà di Giovanni fratello di Mariano IV d’Arborea; e poi  il Panteon giudicale – secondo Francesco Cesare Casula – con l’immagine dei sovrani d’Arborea, in particolare della giudicessa Eleonora nella chiesa di San Gavino Monreale; la cattedrale romanica di San Gavino a Porto Torres.

Ancora  Oristano, Tharros, Cagliari, Gavoi, Fonni, Nuoro (l’ISRE di Peppino Pirisi e il museo del costume), Arzachena, Caprera, Tempio, Castelsardo, Stintino, Asinara, Alghero (San Francesco), Ozieri (ricordando la “strega” di Siligo Julia Carta, accusata dall’inquisizione spagnola, studiata da Tommasino Pinna).

Infine grande spazio nel volume è dedicato alla città di Sassari, ai Dimonios della Brigata Sassari e ai Gremi della Faradda Unesco.

C’è tutta  la Sardegna di oggi, vista con gli occhi interessati e attenti di un viaggiatore intelligente, pieno di curiosità e di passioni.

Il volume si chiude con la bella immagine ispirata da un romanzo del Premio Nobel José Saramago:  la Sardegna viene trasformata in un’enorme “zattera di pietra” che inizia a vagare sul mare, verso altri orizzonti e un ignoto destino. Sulla zattera i protagonisti sono costretti a fare i conti con la loro favolosa e fatale condizione di naviganti, in un clima di sospesa magia, tra eventi miracolosi e oscuri presagi. Una terra alla deriva, verso l’Africa, verso l’Italia o verso la Spagna, che rappresenta anche una riflessione sul mancato processo di integrazione europea, verso un possibile nuovo mondo e una nuova identità.

A costruire questa immagine hanno certamente contribuito Antonio Gramsci (“Se la Sardegna è un’isola, ogni sardo è un’isola nell’isola”) e Gavino Ledda di Padre Padrone, un libro che ci appartiene, distinguendo però tra il paese letterario pieno di dolore e di disperazione e la Siligo solare che tutti noi amiamo.

Abbiamo presentato il libro in tante città della Sardegna, partendo dalla serata animata da Paolo Mastino nellla Galleria Chelo a Palazzo Don Carlos a Bosa: il  23 gennaio scorso alla Fondazione di Sardegna, su invito dei Rotary di Sassari, Sassari Nord, Sassari Silki e Oristano, lo avevano presentato Luigi Gallucci, Mauro Milia, Antonio Falco.  Il dibattito si era svolto con la partecipazione di Raimondo Zucca e mia. Aveva  concluso il Presidente dell’Istituto sardo di scienze lettere e arti Ignazio Camarda.

Oggi che una finestra sulla Cina per noi inaspettatamente si è chiusa dopo un’inspiegabile tragedia, rimane un grande dolore, l’orgoglio per averlo conosciuto, le preoccupazioni per il futuro della sua giovane figlia, la bellissima Lucy, che da poco aveva conseguito il brevetto subacqueo a Bosa con Vincenzo Piras: qui da noi aveva conosciuto il mare due anni fa nelle spiagge del campeggio di S’Abba Druke, risiedendo dai suoi amici,  la famiglia d Vincenzo Pischedda nell’Hotel Baja Romantica alla foce del Temo. E poi la spiaggia di Mari Ermi a Cabras, la rena di quarzo bianco e rosa,  di fronte all’isola di Mal di Ventre.  In piena sintonia con tutti noi, quando mondi tanto diversi si erano incontrati.

Attilio Mastino




La scomparsa dell’archeologa Antonietta Boninu.

La scomparsa dell’archeologa Antonietta Boninu

Antonietta Boninu se ne è andata a 72 anni il 30 ottobre scorso, in silenzio, con stile, senza raccontarci nulla della malattia che l’aveva colpita quasi sei mesi fa e che ha affrontato negli ultimi giorni assieme al suo parroco don Massimiliano Salis a Mater Ecclesiae : la vogliamo ricordare oggi come storica direttrice della Soprintendenza archeologica di Sassari e Nuoro, antica compagna di studi e di mille progetti comuni, indimenticabile amica e generosa studiosa della Sardegna.

L’avevamo conosciuta alla Facoltà di Lettere a Cagliari, dove era stata allieva di Piero Meloni e Giovanna Sotgiu, per poi laurearsi con Mario Torelli in archeologia classica, con una tesi intitolata Catalogo della ceramica “sigillata chiara africana” del Museo di Cagliari (pubblicata nel 1972 sulla rivista diretta da Giovanni Lilliu “Studi Sardi”); un argomento che avrebbe segnato una vera e propria svolta non solo negli studi sulle relazioni tra Africa e Sardegna ma anche sulla classificazione scientifica dei materiali e sulle fabbriche di ceramica da mensa e in «sigillata chiara», di ceramica da cucina e di lucerne, precisando cronologie, trasferimenti per nave e mercati transmarini delle officine africane. La sua classificazione avrebbe permesso negli anni successivi di datare gli strati degli scavi anche in siti urbani o ostiensi.

Da qui bisogna partire per ricostruire una produzione scientifica nella quale spesso ci aveva coinvolto, come nel 1984 col volume firmato da noi con un grande maestro, Marcel Le Glay, su Turris Libisonis colonia Iulia per le Edizioni Gallizzi, dove lei aveva affrontato per la prima volta il tema dell’impianto urbanistico della Colonia Cesariana. Tre anni dopo (nella serie dei “Quadernni” della Soprintendenza) sarebbe uscito sullo stesso tema il volume Turris Libisonis. La necropoli meridionale o di S. Gavino, per l’Editore Chiarella, presentando gli scavi degli ultimi anni 70; gli argomenti dell’archeologia urbana e del rapporto tra Archeologia e architettura sarebbero stati ripresi con Antonella Pandolfi fino al 2012.

Pubblicava i Quaderni dedicati al territorio delle due più grandi province italiane (Sassari e Nuoro), il volume su Dorgali nel 1980; il lungo articolo con l’amico tedesco (di Monaco) Armin Stylov sui miliari inediti; tra tutti gli inediti quello importantissimo di Quintillo, il governatore delle Sardegna diventato imperatore dopo la morte del fratello Claudio il gotico. Nel 1992 aveva pubblicato la riedizione della Tavola di Esterzili nel volume sul conflitto tra pastori e contadini nella Barbaria sarda; nello stesso anno aveva scritto su il Monte Acuto oppure sugli scavi del municipio di Bosa in età romana assieme a Raimondo Zucca (giorni che l’arch. Guglielmo Machiavello ha ricordato per noi), le tante ricerche archeologiche non solo sul mondo classico, ma partendo dalle eredità nuragiche (ad es. il pozzo sacro di Perfugas) e fenicio-puniche; arrivando poi fino all’età paleocristiana.

Nel 1984 la Soprintendenza aveva inaugurato con Fulvia Lo Schiavo l’Antiquarium Turritano in occasione del secondo Convegno de “L’Africa Romana”; ma si possono ricordare  ad esempio i musei di Ittireddu, di Torralba, di Padria, il Museo archeologico navale Nino Lamboglia di La Maddalena; nel 2006 il volume sul Nuraghe Santu Antine di Torralba (sistemi, segni, suoni). La storia della storiografia, come per il centenario dalla morte di Giovanni Spano nel 1978, le Giornate europee del patrimonio con la presentazione del mosaico di Orfeo, che narra un amore sfortunato, quello di Aristeo e di Orfeo per la bella Euridice, riportandoci ai cartoni usati dai mosaicisti africani a Carales e in Sardegna; le ultime arrivate sono state la maschera marmorea di Marsia (o il Satiro) vicino alle terme Maetzke, le bellissime statue imperiali loricate, la statua di Eracle vincitore del leone proprio di fronte all’isola Asinara, l’antica Herakléous nésos (in Via delle Terme).

La Sardegna è stata battuta in lungo e in largo, dalla Planargia, al Goceano, dalla Gallura alla Nurra, con un’incredibile conoscenza delle persone impegnate sul territorio, degli amministratori locali, dei funzionari, cercando le procedure giuste e consultando periodicamente i sindacati sulle battaglie per salvare tanti posti di lavoro.

Vogliamo oggi ricordare il suo ruolo per l’avvio e l’attività del Centro regionale di restauro di Li Punti, dove i Sardi hanno riscoperto le statue degli eroi di Mont’e Prama, grazie ad un finanziamento voluto da Renato Soru e da Maria Antonietta Mongiu. Su questa vicenda l’Editore Gangemi nel 2015 aveva pubblicato la monumentale trilogia su “Le sculture di Mont’e Prama: Conservazione e restauro-La mostra-Contesto, scavi e materiali. Ediz. illustrata”.

In questa sede vogliamo ricordare la sua collaborazione con Pier Giorgio Spano e Maria Christiana Oppo per il volume Insulae Christi : il cristianesimo primitivo in Sardegna, Corsica e Baleari del 2002. Mi torna lucidamente in mente la delicata sorpresa che aveva voluto farci a Siviglia nel 2006 per il XVI convegno de L’Africa Romana , quando presentò il mosaico di una villa della sua Porto Torres, con la straordinaria iscrizione entro una ghirlanda : Quod benistis, contentus esto, tutus fecistis, qui probissimus superbenistis. Il richiamo alla probitas è la cosa che allora più ci aveva colpito e che, in fondo, ha caratterizzato la sua esistenza, illuminata da una passione e dalla convinzione di svolgere il lavoro che aveva sempre sognato.

Rubens D’Oriano nell’ultimo ricordo ha affermato che Antonietta Boninu ha consacrato la sua intera esistenza con devozione ad “un dovere morale, perché crediamo fermamente che la conoscenza del passato, la sua divulgazione e la conservazione delle sue testimonianze sono fonte di progresso materiale e morale del mondo e della società. Quanti monumenti salvati, quanti oggetti recuperati e restaurati per merito suo!”. Bellissime anche le parole scritte dal personale nel sito ufficiale della Soprintendenza: “Progettava con lungimiranza e riusciva a coinvolgere tutti per raggiungere gli obiettivi che si era prefissata: lavorare per la tutela del patrimonio archeologico e fare in modo che diventasse motore di sviluppo per la comunità. La Soprintendenza non dimenticherà mai l’Archeologa Antonietta Boninu e i suoi insegnamenti e si unisce al cordoglio dei familiari per la sua scomparsa. Grazie per l’impegno profuso con infaticabile passione”.

Centinaia e centinaia di commenti ci sono arrivati in questi giorni sui social per esprimere l’affetto e l’ammirazione per una “professionista dal carattere ruvido” (Gibi Puggioni), la falsa grinta che le faceva da scudo, la severità ma anche l’ironia, la passione, la competenza, la preparazione, il legame con il territorio e con i luoghi che ci sono cari ad iniziare da Turris Libisonis, il carisma di una donna colta, intelligente e con senso dell’umorismo. Oggi prevale il senso della perdita e della assenza dopo una presenza lunga e significativa, di una studiosa che spaziava con lo stesso entusiasmo dai corsi CIF alle escursioni del CAI, fino alle Università della Terza Età, che l’hanno voluta ricordare ovunque – come abbiamo potuto constatare – da Sassari fino alla lontana Capoterra.

Attilio Mastino

Foto di Mario Unali.




I risultati V Edizione del premio “Giancarlo Susini”

I risultati V Edizione del premio “Giancarlo Susini”

Cecilia Ricci Presidente della Società Scientifica “Terra Italia” e Attilio Mastino direttore del Periodico internazionale di Epigrafia “Epigraphica” anche a nome delle Edizioni Fratelli Lega hanno proclamato il 26 ottobre 2020  il vincitore della V edizione del <<Premio Giancarlo Susini>>, in occasione di un collegamento Zoom promosso per una conferenza di Hernán Gonzáles Bordas (Bordeaux) e di Ali Cherif (Tunisi) su  Le grandi iscrizioni agrarie dell’Africa, la lex Hadriana de rudibus agris, conferenza nella quale sono stati generosamente presentati numerosi dati inediti su uno dei temi centrali della ricerca epigrafica in Tunisia negli ultimi anni. Grazie alla collaborazione della Scuola Archeologica Italiana di Cartagine, erano collegati oltre 60 specialisti, studiosi di molte sedi e centri di ricerca della Francia, della Spagna, dell’Austria, dell’Italia e molti studenti, dottorandi o laureandi, delle Università di Bologna, Campobasso, Cagliari e Sassari.

La conferenza è stata seguita da un ampio dibattito al quale hanno partecipato tra gli altri Francesca Cenerini, Antonio Corda, Antonio Ibba, Sergio Lazzarini, Paola Ruggeri.

 

La IV Edizione era stata finanziata un anno prima dalla Fondazione di Sardegna, dall’Editore F.lli Lega, dalla Società scientifica Terra Italia ed era stata vinta da Riccardo Bertolazzi, ora ricercatore di Storia Romana presso il Dipartimento di Culture e Civiltà, presso l’Università di Verona col volume col volume intitolato Septimius Severus and the Cities of the Empire, 47° numero della serie “Epigrafia e antichità”, uscito nei giorni precedenti per i tipi dei F.lli Lega Editori: nell’occasione l’opera è stata presentata da Attilio Mastino. Dal 2017 al 2019 Riccardo Bertolazzi è  stato Faculty of Arts & Science Postdoctoral Fellow nel Dipartimento di Classics presso l’Universita di Toronto, dove ha lavorato sotto la supervisione di Christer Bruun; nel 2017 ha conseguito un Ph.D. in Greek and Roman Studies presso l’Universita di Calgary, discutendo una tesi intitolata Julia Domna: Public Image and Private Influence of a Syrian Queen, scritta sotto la supervisione di Hanne Sigismund Nielsen. L’autore è impegnato nei seguenti ambiti di ricerca: storia politica, militare, religiosa e sociale del periodo medio-imperiale romano; epigrafia romana dell’Italia settentrionale, dell’Africa e delle province danubiane dell’impero romano; storiografia imperiale con particolare riferimento alla Storia romana di Cassio Dione.

Come ha comunicato Cecilia Ricci, la V edizione del Premio Giancarlo Susini è stata interamente finanziata nel 2020 da Terra Italia Onlus con la collaborazione della rivista “Epigraphica” e degli Editori Fratelli Lega. Essa è stata bandita in data 6 novembre 2019, a Iaşi in Romania, nel corso della 5th International Conference on the Roman Danubian Provinces (Romans and Natives in the Danubian Provinces, Ist C. BC – 6th C. AD), dedicata alla memoria di Angela Donati. La commissione giudicatrice per la V edizione era composta da Francesca Cenerini, Silvia Giorcelli Bersani e Attilio Mastino.

Allo scadere dei termini per la presentazione (30 maggio 2020), le opere pervenute erano otto, cinque inedite e tre in fase di pubblicazione.  Preliminarmente la Commissione aveva precisato che per le opere edite da altro Editore (che non andranno incluse nella collana Epigrafia e Antichità dei Fratelli Lega) sarebbe stato possibile l’inserimento immediato di una fascetta o altra indicazione con la scritta “Opera vincitrice della V edizione del Premio Giancarlo Susini”. In caso di segnalazione, “Opera segnalata in occasione della V edizione del premio Giancarlo Susini”.

I commissari hanno esaminato le opere pervenute e, dopo attenta discussione, hanno deliberato all’unanimità di attribuire il premio al volume di Hernán Gonzáles Bordas (Docteur en Histoire, Langues et Littératures anciennes – Ausonius, Université de Bordeaux Montaigne. Qualifié aux fonctions de Maître de conférences), col titolo: Un recueil d’épigraphie africaine établi par Francisco Ximenez et son étude par Scipione Maffei, in stampa presso Ausonius, con un’ampia motivazione che si riassume. <<Hernán Gonzáles Bordas nato a Mar del Plata in Argentina l’11 settembre 1981,   titolare di un contratto post-dottorale a Bordeaux sulle proprietà imperiali in Africa Proconsolare, è ben conosciuto tra gli specialisti per gli originali studi e per le ricerche su: <<Économie agraire et exploitation du territoire en Afrique romaine>>, <<Colonat partiaire en Afrique romaine>>,  <<Nouvelles technologies appliquées à l’épigraphie>>, <<Tradition manuscrite de l’épigraphie latine d’Afrique>>,  <<Épigraphie de l’Occident romain>>.   L’opera presenta un umanista settecentesco spagnolo che ha soggiornato a lungo in Tunisia: Franciscus Ximenez (Esquivias Toledo, 1685 – Tejada in Castiglia, 1758), amministratore dell’ospedale trinitario di Tunisi tra il 1720 e il 1735, ha svolto numerose escursioni archeologiche nel territorio della Reggenza tunisina, come sappiamo per il fatto che G. Willmans e Th. Mommsen hanno largamente consultato a suo tempo alcuni dei manoscritti per la redazione di CIL VIII,1, dandone un giudizio positivo. Ximenez è stato il primo europeo ad aver esplorato la Tunisia e ad aver osservato e descritto numerose località archeologiche e una enorme quantità di monumenti. Viaggiatore, esploratore, straniero, non può esser definito né antiquario né storico dell’antichità, anche se fa emergere una spiccata predilezione per l’epigrafia. I suoi lavori erano ben conosciuti in Europa e il merito dell’opera è quello di far emergere l’utilizzo delle schede di Ximenes da parte di Scipione Maffei.  L’argomento è stato oggetto della tesi di dottorato a Bordeaux nel  2015 sotto la direzione di  J. France (Ausonius, Université de Bordeaux Montaigne), con una ricerca su Les inscriptions latines de la Régence de Tunis à travers le témoignage de F. Ximenez, alla luce delle ricerche presso la Casa de Velázquez  e la Biblioteca dellla Reale Accademia di Storia di Madrid (su un altro manoscritto di Francisco Ximenez).  Il tema viene ora esteso dopo il ritrovamento, all’interno del manoscritto MS01032 del fondo  Seguier, conservato agli Archivi della Biblioteca Municipale di Nîmes, di una raccolta di iscrizioni intitolata: Inscriptiones Africanae ex Schedis Maffeianis, con riferimento all’opera di Scipione Maffei (1675-1755) e in particolare al Museum Veronense del 1749. È ora evidente che l’opera comprende testi segnalati tra il 1724 e il 1726 da Franciscus Ximenez, con un significativo contributo alla storia dell’epigrafia latina d’Africa e alla storia delle esplorazioni e della trasmissione delle conoscenze.  L’opera sarà proseguita per il periodo 1727-1731.

Si apprezza l’accuratezza dell’edizione critica dei documenti epigrafici, con un materiale presentato in modo ragionato, ristabilendo l’ordine originale nella quale l’autore l’aveva concepita.  Si segnala l’impegno per ricostruire il contesto culturale e politico, le fonti disponibili (lo studio delle opere dei viaggiatori contemporanei permette di ricostituire lo stemma della tradizione manoscritta delle iscrizioni), il ruolo di Ximenez e le sue innovazioni in materia di trascrizione e realizzazioni di fac-simili), la ricezione dell’antico nella prima metà del XVIII secolo sulle due rive del Mediterraneo, in un periodo che precede di poco l’età dei Lumi e la grande riscoperta di Pompei e di Ercolano, oltretutto fuori del contesto strettamente scientifico e accademico, ma grazie alle mille curiosità, motivazioni e interessi dell’autore.

Al momento, mancano ancora lavori di sintesi alla storia degli studi e l’antiquariato in Africa nel 700 e nell’800, per quanto il XIII de L’Africa Romana abbia affrontato nel 1998 proprio il tema “”Geografi, viaggiatori, militari nel Maghreb: alle origini dell’archeologia nel Nord Africa”, con un risultato che viene apprezzato nell’opera: si approfondiscono i temi della localizzazione delle iscrizioni, della descrizione dei singoli siti, delle caratteristiche dei cimeli epigrafici, delle circostanze delle diverse scoperte, degli  itinerari seguiti fino alla redazione del 1726>>.

Nella stessa occasione la Presidente di Terra Italia Cecilia Ricci ha provveduto a consegnare due attestati di segnalazione speciale deliberati dalla Giuria con l’intento riconoscere due lavori originali che meritano di essere pubblicati al termine di una revisione globale, su argomenti particolarmente significativi per la disciplina.

Il primo è stato attribuito a Simone Ciambelli (Dottorato di ricerca in Storia Culture Civiltà presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna in cotutela con l’Université de Poitiers), per il dattiloscritto sul tema: I collegia e le relazioni clientelari: studio sul patronato delle associazioni professionali nell’Occidente romano tra I e III sec. d.C.

Il secondo attestato di segnalazione speciale è stato attribuito a Chiara Cenati (Ricercatrice post-doc nel progetto ERC Mappola, Università di Vienna), per il volume “Miles in Urbe”: Costrutti identitari e forme di autorappresentazione nelle iscrizioni dei soldati di origine danubiana e balcanica a Roma.

Nell’occasione Hernán Gonzáles Bordas, Chiara Cenati, Simone Ciambelli e Riccardo Bertolazzi hanno presentato e discusso i rispettivi lavori.  Tra gli altri interventi si segnala quello di Pedro David Conesa Navarro che presso le Università di Murcia e di Roma Tor Vergata aveva superato nei giorni precedenti la prova finale di dottorato sul tema Fulvia Plautilla: análisis histórico y arqueológico de una empetratriz de los Severos (Direttori José Miguel Noguera Celdrán, Rafael González Fernández, Margherita Bonanno).

Nell’immagine: Il settimo viaggio in Tunisia di F. Ximenez secondo Hernán Gonzáles Bordas e Ali Cherif.

A.M.




La scomparsa dell’archeologo Mario Torelli (1937- 2020).

La scomparsa dell’archeologo Mario Torelli (1937- 2020)

È scomparso il 16 settembre a Palermo un gigante dell’archeologia italiana, Mario Torelli: laureato a Roma nel 1960, ispettore presso la Soprintendenza dell’Etruria Meridionale, aveva partecipato nel 1968 al primo concorso di Epigrafia Latina in Italia bandito dall’Università di Cagliari e poi aveva preso servizio l’anno dopo come professore aggregato di Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana, facendosi amare dagli allievi con quel suo primo seminario sull’isola sacra di Delos e per i decennali scavi del santuario greco di Gravisca, l’antico porto di Tarquinia.

Nel 1975 è stato chiamato a Perugia come professore ordinario, poi visiting in decine di università straniere,  membro di Società scientifiche (la nostra Scuola archeologica italiana di Cartagine) e di Accademie italiane (l’Accademia Nazionale dei Lincei) e straniere, direttore della rivista di antichistica “Ostraka”.

Ha promosso e diretto le Mostre “Gli Etruschi” tenuta a Palazzo Grassi a Venezia (novembre 2000) e “Etruschi. Le antiche metropoli del Lazio”, tenuta al Palazzo delle Esposizioni a Roma (ottobre 2008).  Ha pubblicato decine e decine di volumi e centinaia di articoli scientifici: tra tutti vorrei ricordare almeno gli Atti Lincei della Giornata di studio I riti della morte e del culto di Monte Prama – Cabras (Roma, 21 gennaio 2015). Aveva preparato il bellissimo volume Il tempio del Sardus Pater ad Antas (Fluminimaggiore, sud Sardegna), che poi aveva affidato a Raimondo Zucca che l’ha fatto uscire nelle ultime settimane per l’ Accademia Nazionale dei Lincei. Lo presenteremo a Fluminimaggiore con tutto il nostro rimpianto, assieme agli altri autori, Giuseppina Manca di Mores, Giorgio Rocco, Monica Liviadotti, Simonetta Angiolillo, Mattia Sanna Montanelli, ricordando le sue lezioni alla Scuola di specializzazione di Oristano e le giornate di Pompei di due anni fa, quando gli avevamo offerto il volume Dialogando, a cura di Concetta Masseria ed Elisa Marroni.

Nelle conclusioni al volume Daedaleia. Le torri nuragiche oltre lʼetà del Bronzo, curato da Enrico Trudu, Giacomo Paglietti, Marco Muresu, x, ci aveva ricordato i sei anni trascorsi a Cagliari, l’interesse per la Sardegna nato per le vistose interferenze tra l’Isola e il mondo etrusco, i passi da gigante compiuti negli ultimi decenni dalla ricerca pre-protostorica sarda, le ceramiche micenee, i guerrieri di “Mont’e Prama”, che dimostrano la vitalità e l’originalità dell’età del Ferro sarda, coi grandi villaggi sorti attorno ai nuraghi defunzionalizzati. Una storia pienamente mediterranea per il profondo legame tra la società sarda dell’età del Ferro e il glorioso passato nuragico, quando la Sardegna è finita al centro di intense frequentazioni orientali ed egee, dopo la scoperta di importanti giacimenti metalliferi dell’isola. Se la fama e il prestigio della metallurgia sarda attraeva sia Fenici che Greci (e fra questi i mercanti euboici), un rapporto non secondario era anche quello esistente tra Sardi ed Etruschi: per l’antichità e la profondità di questi rapporti ricordava la tomba villanoviana della necropoli di Cavalupo a Vulci contenente un rilevante gruppo di bronzetti sardi.

Infine la statua del Sardus Pater eretta a Delfi, partendo dalla quale Pausania fornisce un articolatissimo racconto mitistorico ed etnografico della Sardegna: la complessità della vicenda mitica della Sardegna sarebbe il riflesso dell’intreccio di interessi mediterranei sin dal II millennio a.C. Giocano tuttavia nel contesto anche questioni politiche, che si andavano agitando all’epoca della conquista romana fra le classi colte delle città della Sardegna: rielaborando e ricucendo questo patrimonio dalle vesti ellenizzanti, queste élites intendevano conquistare di fronte ai nuovi padroni posizioni più solide e soprattutto autonome dai destini di Cartagine, non troppo diversamente da quanto accade nello stesso torno di tempo nella Sicilia, all’indomani della “liberazione” operata dalle legioni romane.  Lavorava ora agli ultimi giorni all’allestimento di una grande mostra su Pompei a Roma.

Il Ministro dell’Università Marco Bussetti il 5 aprile 2019 aveva deliberato il conferimento a Sassari della Laurea Magistrale honoris causa in Archeologia in base alle delibere adottate dal Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione. La cerimonia fissata per il 21 ottobre successivo era stata rinviata: rimane il rammarico per il fatto che, non certo per una nostra negligenza, non si è trovato il tempo per onorarlo davvero.

Lasciata Perugia, negli ultimi giorni mi aveva scritto da Palermo: <<Ho ormai archiviato le speranze di venire a Sassari e soprattutto di rincontrare i miei cari e valenti allievi e di tornare a rivedere i cieli tersi e i paesaggi ammalianti dell’Isola. Quando sarà, scenderò nell’Ade con il ricordo vivissimo dei miei anni sardi>>.

Attilio Mastino




Presentazione del volume L’epigrafia del Nord Africa: novità, riletture, nuove sintesi.

Presentazione del volume L’epigrafia del Nord Africa: novità, riletture, nuove sintesi, a cura d. S. Aounallah, A. Mastino, Collana Epigrafia e antichità, 45, Faenza 2020, pp. 13-14

È davvero un onore per noi presentare questo volume dedicato a «L’epigrafia del Nord Africa: novità, riletture, nuove sintesi», all’interno della collana “Epigrafia e antichità”: lo facciamo con emozione e gratitudine ricordando Angela Donati,  Christine Hamdoune e Enrique Gozalbes Cravioto e tornando indietro fino a quel lontano dicembre 1983 quando si svolse il primo dei convegni de “L’Africa Romana” fortemente voluti da Giancarlo Susini, Marcel Le Glay, Hédi Slim.

Avevano partecipato a quel primo incontro anche Giorgio Bejor, Naidé Ferchiou, Ammar Mahjoubi, Sandro Schipani, Latifa Slim, Giovanna Sotgiu, Cinzia Vismara, Raimondo Zucca e tanti altri, molti colleghi delle Soprintendenze e i nostri studenti. Negli anni successivi, si sarebbero aggiunti tutti i più illustri maestri dell’archeologia nord-africana, con il diretto coinvolgimento di tante prestigiose istituzioni.

Ora, arrivati alla XXI edizione (svoltasi a Tunisi tra il 6 e il 9 dicembre 2018 con il contributo della Fondazione di Sardegna, grazie all’impegno dell’Institut National du Patrimoine e dell’Agence de Mise en Valeur du Patrimoine et de Promotion Culturelle), possiamo dire di aver raggiunto risultati allora impensabili, di aver aperto tante strade, di aver creato una rete di rapporti tra le due sponde del Mediterraneo che riguardano certo l’archeologia, la storia antica, l’epigrafia ma anche in profondità toccano i temi politici della fase post-coloniale del Maghreb, le rivoluzioni arabe, le prospettive di un futuro diverso fondato sul rispetto reciproco, il rifiuto di un’egemonia culturale dell’Occidente, la profonda ammirazione per il mondo arabo, con tanti segnali e momenti di incontro che si sono svolti nelle aule congressuali, più ancora nei siti archeologici, negli scavi, nei musei, nelle esposizioni internazionali, nella vita reale, grazie alla collaborazione di tanti soggetti diversi, Università, Enti di tutela del Patrimonio e di ricerca. Con curiosità e interesse veri.

Questo volume tocca il tema dell’urbanizzazione del Nord Africa, dello stato giuridico delle città e delle nationes africane partendo dai più recenti risultati delle grandi imprese internazionali in corso da Lepcis in Tripolitania fino alla Volubilis nella Mauretania atlantica; dell’epigrafia storica, giuridica e militare, della ricostruzione prosopografica di intere famiglie di senatori e cavalieri, dell’aristocrazia autoctona, della vita religiosa, del culto imperiale, con la tradizionale attenzione verso altre realtà provinciali e verso il mondo tardo antico; infine i musei, il radicale aggiornamento della storia degli studi, l’epigrafia digitale, con oltre cento relazioni e posters presentati dai nostri Maestri (penso a M’hamed Fantar, Ginette Di Vita Evrard, Louis Maurin, Mustapha Khanoussi) e da tanti giovani allievi, provenienti dalla Libia, dalla Tunisia, dall’Algeria, dal Marocco, dall’Italia, dalla Francia, dalla Danimarca, dalla Spagna, dalla Germania, dalla Finlandia, dal Canada, dagli Stati Uniti. I posters, trasformati in saggi, e molti altri testi brevi sono stati in parte pubblicati sulla rivista della Scuola archeologica italiana di Cartagine “Caster”  diretta da Antonio Corda.

In questa sede abbiamo voluto raccogliere un discorso unitario che aspira a rappresentare una formula nuova per i risultati dei nostri incontri, con una sintesi integrata del confronto internazionale che è stato serrato, pieno di idee, spesso anche ricco di conflitti e di polemiche, sempre però indirizzato verso una fase nuova, che vuole superare le stracche e ripetitive monografie che spesso circolano nel nostro ambiente per restituire la freschezza della scoperta (pensiamo alla lex Hadriana de agris rudibus), le emozioni, le curiosità profonde, il successo di tante équipes di ricerca e di singoli studiosi, in un orizzonte nel quale l’archeologia, il patrimonio e i beni culturali finiscono per essere anche strumento di incontro; e ciò in un momento nel quale il Mediterraneo conosce la crudeltà di un implacabile confronto che non sa fare altro che abbattere ponti e innalzare muri. Noi respingiamo questa visione della vita fondata sulla prevaricazione, viziata dalla paura, animata dall’odio e dalla violenza; riteniamo un dovere comune quello di accettare la sfida, ascoltare le ragioni di tutti, riconoscere che debbono muoversi in piena unità di intenti tutti gli “intellettuali” (“coloro che hanno intelletto”, per usare l’espressione di Giovanni Lilliu) per denunciare i rischi e soprattutto mettere in evidenza le potenzialità inespresse di tante forme di collaborazione che non possono che arricchire tutti, partendo dalla diversità di ciascuno.

Il convegno è strato aperto da Paola Ruggeri, direttrice del Centro di Studi Interdisciplinari sulle Province Romane e da Marco Milanese direttore del Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione dell’Università di Sassari, da  Daouda Shaw per il direttore generale dell’Agence de Mise en Valeur du Patrimoine et de Promotion Culturelle, da Faouzi Mahfoudh, direttore generale dell’Institut National du Patrimoine, da  Lorenzo Fanara, Ambasciatore d’Italia a Tunisi, da Angela Mameli vice presidente della Fondazione di Sardegna.
Abbiamo ricordato alcune figure di eminenti studiosi e presentato molti volumi e intere riviste (come gli ultimi cinque numeri di “Libya antiqua”), che testimoniano la vivacità dei nostri studi e l’incredibile quantità di nuove scoperte, anche nei momenti di guerra.

Licenziando quest’opera, accolta dal Comitato Scientifico della Collana “Epigrafia e Antichità” delle Edizioni Lega di Faenza con il contributo Fondazione di Sardegna grazie all’impegno di Maria Bastiana Cocco, vogliamo dire solo che questa è una tappa di un percorso più lungo, che certamente verrà proseguito in futuro con nuovo entusiasmo e con uno spirito sempre più aperto alla collaborazione scientifica, all’amicizia, al confronto internazionale.

Tunisi, 30 ottobre 2019.

Samir Aounallah                                                    Attilio Mastino

Institut National du Patrimoine Tunisi                    Università degli Studi di Sassari

P.S. Quando questo volume era ormai in stampa ci ha raggiunto la notizia della scomparsa, avvenuta il 12 maggio 2019 in Marocco, sui monti dell’Atlante, di Christine Hamdoune, che aveva consegnato per questo volume (nella sezione tardo-antica) l’articolo «Sur quelques inscriptions chrétiennes des Maurétanies», rivisto per la stampa dall’amica Monique Dondin Payre. La piangiamo con tutti gli amici colpiti da questa incredibile tragedia avvenuta nei luoghi che tanto ha amato.

Il I dicembre 2019 è scomparso anche il nostro Maestro e amico René Rebuffat: anche a Lui dedichiamo questo libro, perché non dimentichiamo la sua amicizia, il suo insegnamento democratico, il suo impegno di studioso appassionato e colto.

Tunisi, 31 dicembre 2019




60° edizione del Premio Letterario città di Ozieri.

60° edizione del Premio Letterario città di Ozieri
Ozieri, 29 febbraio 2020
Saluto di Attilio Mastino, Presidente della Giuria

Questa performance della Banda della Brigata Sassari, queste note meravigliose ci ricordano come la Brigata Sassari sia patrimonio comune della Sardegna, e come la storia di questo reparto militare così caratterizzato sia intrecciata con la storia delle famiglie e di ciascuno di noi, cioè con la storia dei Sardi e dell’intera Isola. La Brigata ha conservato un rapporto profondo con le persone, con le famiglie, con le istituzioni della Sardegna ed eredita oggi un patrimonio di sentimenti e di affetti che non si perdono. La banda testimonia questo senso di appartenenza, il valore identitario, il contenuto di relazioni e di rapporti, le radici profonde, una simpatia davvero unica e una vicinanza.

L’Identità diventa un concetto fondamentale nel mondo che ci è dato di vivere e di conoscere, Identità come un valore positivo fatto non di chiusure su noi stessi verso una realtà tribale ripiegata sul proprio ombelico ma esattamente al contrario, facendo leva proprio sulla consapevolezza della ricchezza della nostra storia e sull’esigenza dell’incontro con l’altro.  Anche attraverso i dati sulla composizione della truppa e sull’origine geografica degli ufficiali della Brigata Sassari emerge questo straordinario radicamento nel territorio.

Vorrei dire che sentiamo molto questo legame  e che abbiamo apprezzato la Brigata per gli interventi operativi, umanitari e militari sul campo, che abbiamo letto tante cose su di essa e che, soprattutto, sono stati riferiti tanti episodi di eroismo riguardanti non decenni lontani, ma avvenimenti molto più vicini a noi. Penso ai luoghi italiani in Afghanistan, che visitai qualche anno fa: Bala Morghab, Herat, Farah, Campo Arena. Conosciamo gli altri impegni della Brigata, in Sardegna e fuori della Sardegna, in tanti altri teatri operativi. E credo che l’occasione di oggi ponga un interrogativo: il senso di questo impegno e il futuro di questo impegno.

Il futuro dell’impegno della Brigata, per quei territori nei quali la Brigata ha speso risorse e ha pagato anche in qualche caso con il sangue, un impegno, a favore delle popolazioni che si trovano in difficoltà e che non vorremmo abbandonare. Perché riprenda il volo degli aquiloni nel cielo di Kabul, dopo un periodo lunghissimo di guerra e di devastazione. Vorrei veramente cogliere l’occasione per evidenziare l’attenzione con la quale la Sardegna segue le attività della Brigata, ricordare i sentimenti di simpatia e di affetto: dunque, grazie per essere qui, grazie per quanto avete fatto, grazie per quanto farete, soprattutto in quelle zone dove vi impegnate per costruire un futuro diverso a favore dei paesi nei quali voi siete impegnati. Il riconoscimento che oggi il Comitato del Premio ha assegnato alla Brigata rappresentata dal gen. Andrea di Stasio vuole ricordare una storia lunga che inizia con i dimonios arruolati a Tempio Pausania, a Sinnai, a Ozieri nel 1915, prosegue sull’Isonzo, sull’altopiano di Asiago, sul Piave, poi con il movimento dei Combattenti quando la storia della Brigata s’incrocia con la nascita del Partito Sardo d’Azione, con le figure di Emilio Lussu, Camillo Bellieni, Pietro Mastino, a partire dal congresso di Macomer del 14 settembre 1919, un secolo fa.

Sul fusto del candeliere in pietra collocato in Piazza Castello ed inaugurato nei giorni scorsi dal Sottosegretario Giulio Calvisi c’è una scritta:   Forza Paris.

Oggi è però un giorno dedicato soprattutto alla poesia: allora Sos benénnidos siedas poetes a Otieri.

Nel volume pubblicato nel 1992 per la 35° edizione del nostro premio, Nicola Tanda allargava il suo sguardo verso un orizzonte vasto, sul piano internazionale, e scriveva che <<il messaggio dei poeti non è mai un messaggio ottimistico, è semmai un messaggio di speranza. I poeti sono esperti del dolore ma anche dei labirinti del cuore umano, depositari di un sapere antropologico che è poi quello che riguarda l’esistenza. Occorre confrontare questo sapere con quello di tutti, con quello popolare-religioso e con quello della scienza, perché sia un sapere in grado di mobilitare le coscienze e di restituirci come dice Pietro Mura “i figli fatti fiori”. I poeti operano e hanno sempre operato in tempi lunghi e in ogni società e in ogni gruppo umano, perché si possa produrre nelle coscienze la sola rivoluzione possibile, quella pacifica e silenziosa della formazione e dell’educazione al bene>>.

Aprendo oggi solennemente questa 60° edizione del Premio, fortemente voluta dal Presidente Vittorio Ledda, dal Segretario Antonio Canalis, dalla Giuria, dal Sindaco di Ozieri Marco Murgia, dall’Assessore regionale Andrea Biancareddu, quelle parole relative al ruolo  che i poeti possono svolgere per promuovere <<la sola rivoluzione possibile>> in Sardegna mi sembrano profetiche, richiamano la responsabilità di tutti noi, impegnano gli uomini di buona volontà in una battaglia contro l’ignoranza, l’intolleranza, l’odio, perché il deserto possa rifiorire; chiedono che, dopo gli abbandoni, pensiamo ora ai ritorni; ci invitano a guardare i nostri  luoghi a partire da quel che resta; ci ricordano che occorre saper finalmente ascoltare, prendendoci cura della nostra terra e della nostra gente, ma senza localismi e chiusure, con uno sguardo che si spinge lontano con più ottimismo.

Abbiamo fatto molta strada da quando nel lontano 1956 Tonino Ledda decise di istituire la prima edizione del Premio Ozieri di poesia e letteratura Sarda: qui sono passate generazioni di poeti ma anche di studiosi dentro e fuori l’Accademia, con uno spirito di collaborazione e un entusiasmo che non è mai venuto meno grazie al sostegno del pubblico appassionato e colto che ci ha accompagnato e continua ad accompagnarci. Le opere pervenute per le tre sezioni di quest’anno intestate ad Antoni Sanna, Angelo Dettori e Antoni Cubeddu rendono bene la ricchezza di questa edizione. Desideriamo ringraziare la giuria composta anche da Francesco Cossu, Clara Farina, Dino Manca, Anna Cristina Serra, Salvatore Tola, Antonio Canalis. Li ho visti all’opera con competenza e profonda consapevolezza del proprio compito alto.

Quanta strada sia stata percorsa ce lo ricorda in questi giorni il volume di Paolo Pillonca, O bella musa ove sei tu? Viaggio nel mistero della gara poetica. Testo italiano e sardo, che presenteremo nei prossimi giorni ad Orgosolo a due anni dalla scomparsa dell’autore con l’emozione di tornare a recitare un rosario di versi conosciuti e ritrovare una serie di parole che ci sono care e che ci emozionano; soprattutto per incontrare di nuovo un amico perduto, per metterci in sintonia con il suo carattere riflessivo, rispettoso, generoso, pacato, positivo. Noi che abbiamo avuto il privilegio di conoscerlo e di averlo avuto come amico possiamo ora percorrere con lui un lungo viaggio nel mistero della gara poetica attraverso immagini, aneddoti e ricordi di un passato che amiamo. E allora dobbiamo partire proprio da Ozieri, da quel 15 settembre 1896 che vide il geniale Antoni Cubeddu promuovere la prima gara poetica in piazza, invitando solo buoni poeti, omines intreos, ai quali si assegnava la corona del successo. Il volume di Paolo completa l’analisi contenuta in Chent’annos – Cantadores a lughe ’e luna, pubblicato da Soter nel 1996, che già tracciava quella strada originale dalla quale nasce il miracolo della creazione improvvisata del verso logudorese, <<una caminera ‘e virtude pro su tempus benidore ‘e unu pòpulu chi leat alénu dae s’istoria sua pro poder atopare a cara franca cun ateros pòpulos de su mundu>>.  Questo è ora l’ultimo contributo dell’autore allo studio della poesia orale: dalla magia della creazione all’analisi dei tempi di esecuzione, dal ruolo delle donne illustrato nel primo capitolo (in principio era la poesia delle donne) a quello della critica, fino ad arrivare alle difficoltà degli ultimi tempi che, a causa del profondo cambiamento della società sarda, ne mettono a rischio la stessa esistenza.

Oggi facciamo tesoro di tante riflessioni che sono sintetizzate già nel titolo dell’opera che, con la bella Musa virgiliana, richiama la cultura classica di cui Paolo Pillonca era orgoglioso: questo volume e questa occasione mi hanno fatto venire in mente Sebastiano Satta e la gita dei goliardi sassaresi che si trattennero tre giorni a Nuoro e deposero una corona d’alloro davanti alla lapide dedicata a Giorgio Asproni dalla Società operaia. Siamo nell’aprile 1903 e il poeta di Bosa Giovanni Nurchi scriveva Unu saludu a Nuoro, giungendo in bicicletta ai piedi di quell’Ortobene ue musas ed abbas de Ippocrene / generant melodia tra sas venas. Ma gli studenti erano interessati soprattutto alle ragazze nuoresi: sas feminas sun ladras in Nuòro / ca cun s’oju nos furant mente e coro. E l’Ippocrene è la sorgente sul Monte Elicona, scaturita nel punto dove Pegaso, il cavallo alato uscito meravigliosamente dal collo della Medusa, il mostro mitologico dei mari tra la Sardegna e la Corsica, aveva colpito con uno zoccolo la roccia. Intorno a questa fonte si riunivano proprio le Muse per cantare e danzare. Tra le Muse figlie della Memoria: Talia, è la musa della poesia pastorale, Eràto, la musa della poesia d’amore, Euterpe, la protettrice della poesia lirica e della musica, Calliope la musa della poesia epica. Donne, perché Sa Poesia de sas Fèminas – ha scritto Piera Cilla – è una componente fondamentale della creazione poetica, come testimonia anche l’edizione di quest’anno del Premio.

Oggi però guardiamo al futuro, facendo tesoro di tante cose che partono dalla cultura classica ma toccano tutti noi; penso all’attentato del 18 marzo 2015 al Museo del Bardo a Tunisi con lo sfregio al Mosaico di Sousse che rappresenta Virgilio tra le Muse (Clio col rotolo della storia e Talia con la maschera comica).  Apparentemente il male che trionfa sul bene.   Ma sarebbe un’impressione sbagliata: noi tutti abbiamo reagito e siamo in campo con energia e voglia di fare. Del resto come non richiamare il ruolo che il nostro Premio ha svolto e può ancora svolgere per l’incredibile sviluppo che ha avuto negli ultimi anni la poesia al femminile in Sardegna ?  O per la promozione della lingua, della cultura e della storia della nostra isola ? Per una politica linguistica nuova, per uniformare le regole della scrittura, con le prime norme proposte dalla commissione composta da Antonio Sanna, Enzo Espa e Massimo Pittau, che ci ha lasciato qualche settimana fa.  Per dare dignità e dimensione alta al talento dei poeti ? Oppure come non pensare al fatto che il Premio, i tanti premi letterari che ne sono derivati  hanno favorito mille incontri tra tante storie diverse, tra tanti luoghi meravigliosi, tra tanta gente che non conosce la solitudine ? Che è pronta a spendersi e ad amare ?  Penso ai due poeti Cicitu Masala (presidente della Giuria nel nostro Premio negli anni 70) e Benvenuto Lobina (primo vincitore del premio Ozieri nel 1964 in lingua campidanese), poeti che Giulio Angioni poneva al vertice della poesia moderna.  Ma lasciatemi ricordare anche Nardo Sole, vice presidente della Giuria negli anni 80, i miei amici cagliaritani Aquilino Cannas, Fernando Pilia e tanti altri. Premiare i poeti ad Ozieri significa allora laurearli, riconoscerli, consegnar loro idealmente una corona, come diceva Antoni Cubeddu a Pitanu Morete di Tresnuraghes, bravo ma troppo orgoglioso di se:

Cando ti ‘antas mezus de ognunu

Faghes in modu chi de te si rian.

Pro chi avalorados bene sian

Sos meritos che in te connotos sunu

Iseta chi a tempus oportunu

Sa corona sos ateros ti dian.

Si ti la tessis tue pagu durat:

su ‘entu dae testa ti la furat.

Se questo è tempo di bilanci, è anche tempo di sciogliere gli ormeggi e di imbarcarci verso un futuro che vorremmo più positivo e più felice: con una forte saldatura con le nostre radici più profonde e insieme con la speranza che la sensibilità dei poeti possa domare le fiere e soffocare l’odio. Così raccontano due altri mosaici romani trovati in Sardegna, quello scoperto a Cagliari alla fine dell’età spagnola al tempo di Filippo V ed ora conservato a Torino oppure quello di Porto Torres, venuto alla luce di recente e che compare sulla retrocopertina del nostro volumetto, che ci ricordano il mito di Orfeo (figlio della musa Calliope) e il suo amore per Euridice, la sua dolce sposa,  morta per il morso di un serpente in un prato mentre correva tentando di sottrarsi alle attenzioni del pastore Aristeo, il figlio di Apollo e della ninfa Cirene, il mitico colonizzatore della Sardegna. Orfeo, disperato, allora intonò canzoni così cariche di disperazione che tutte le ninfe e gli dei ne furono commossi. Gli fu consigliato di scendere nel regno dei morti per tentare di convincere Ade e Persefone a far tornare in vita la sua amata. Da allora le sue canzoni riuscirono ad addolcire le bestie, a far piangere le Erinni.

I poeti hanno questo dono speciale, hanno sensibilità e cuore, suscitano emozioni, spingono le persone ad agire per obiettivi alti e positivi: il nostro Premio vuole soprattutto raccogliere queste eredità e riuscire a darci emozioni e sentimenti.

Ozieri, 29 febbraio 2020.




Convegno internazionale “La Sardegna e il Mediterraneo: dall’archeologia alla società”

Convegno internazionale “La Sardegna e il Mediterraneo: dall’archeologia alla società”.
Studi e ricerche in memoria di Ercole Contu
Sassari, 17-18 Gennaio 2020, Aula Magna, Piazza Università 21
Attilio Mastino, Ossi. Eracle e le Esperidi: le ninfe della Sardegna nell’Occidente
Mediterraneo mitico

In questa sede, partendo dal culto di Eracle ben documentato in tutta la Sardegna (da Antas a Tharros, da Olbia a Posada, da Cagliari a Serri, infine Padria), ci concentreremo su un aspetto circoscritto, il mito delle Esperidi figlie di Forco re della Sardegna e della Corsica, riprendendo in mano il bronzetto scoperto  ad Ossi nel 1938 in località Monte Mammas, sulla piana di Bilikennor presso le rovine romane di età imperiale e il successivo insediamento medioevale: il cimelio  <<raffigurante Ercole, alto cm . 7,2 in ottimo stato di conservazione, di accurata fattura e di notevole valore artistico>> fu donato da Michele Macis nel 1956 al Museo Nazionale Sanna in Sassari.

Il bronzetto, che raffigura il figlio di Giove e di Alcmena, il fratellastro di Ificle figlio legittimo di Anfitrione, fu studiato in maniera magistrale da Ercole Contu su “Archeologia Classica” del 1960, con un sguardo sui possibili modelli, forse con qualche eccesso spaziando da Policleto a Lisippo, da Prassitele a Scopas e così via; articolo ripreso e commentato nel 1981 da Robert J. Rowlad jr.. e più recentemente discusso da Pina Derudas e da Maria Pieranna Masala, soprattutto da Rubens d’Oriano nel catalogo del volume curato da Paolo Bernardini e Raimondo Zucca, Il Mediterraneo di Herakles. Da ultimo Giovanni Azzena e Enrico Petruzzi hanno rilanciato il tema della localizzazione di Ad Herculem nella Sardegna nord-occidentale, richiamando l’attenzione sulla lastra marmorea rinvenuta all’inizio dell’Ottocento nel sito dove sarebbe sorto il Palazzo di Città a Sassari, con la raffigurazione di Eracle che doma le cavalle antropofaghe di Diomede (VIII fatica).

Se torniamo al nostro bronzetto di Ossi, la descrizione di Contu è quanto mai vivace e gli ampi confronti con la statuaria classica non sono tutti pienamente giustificati, se non altro per il fatto che la piccola bronzistica ha forme, linguaggi e dettagli del tutto originali e autonomi, in rapporto ai centri di produzione : <<L’Eroe, del tipo barbuto, è rappresentano stante con la mano destra che si appoggia alla nodosa clava, mentre nella sinistra, protesa in avanti con tutto l’avambraccio, regge i pomi del Giardino delle Esperidi; dall’avambraccio sinistro pende la pelle del leone Nemeo>>. Si tratta della undicesima fatica di Eracle, ma il richiamo al leone nemeo riguarda la prima fatica, che si localizza a Nemea immediatamente a Sud dell’istmo di Corinto, su ordine del re di Tirinto Euristeo. Come è noto, in precedenza, i 50 tespiadi colonizzatori della Sardegna erano stati concepiti da Eracle e dalle 50 figlie del re Tespio durante la caccia ad un altro leone sul Monte Citerone nei pressi di Tebe. <<La testa presenta folta capigliatura, che con larghe basette si congiunge alla barba, ed è fasciata da una larga tenia, annodata sulla nuca e con lunghi capi ricadenti ciascuno su una spalla. La tenia è ornata da tre dischetti, uno per tempia ed uno più in alto della fronte. I dischetti sono divisi da una incisione a croce, il che indica trattarsi di fiori con quattro petali>>. Ulteriori dettagli riguardano i capelli quasi dimenticati entro il cerchio della tenia; la clava con nodi e spaccature; i numerosi particolari della pelle leonina; la postura del semidio nudo che grava sulla gamba destra, mentre la sinistra è notevolmente flessa, con un movimento che Contu ricollega al modello greco, lisippeo, del IV secolo a.C., anche se non pochi elementi rimandano ad una produzione pienamente romano-italica, riferibile al I secolo d.C. e ad età giulio-claudia; epoca che non sarebbe troppo distante da quella del bronzetto di Aristeo col corpo coperto di api ad Oliena. Su tale cronologia non concorda Rubens d’Oriano che pensa sì ad una produzione probabilmente italica, ma del III-II secolo a.C., penso anche alla luce dei numerosi confronti possibili con bronzetti conosciuti nel Mediterraneo e in particolare in Sardegna, ad iniziare dall’Ercole di Posada-Feronia, concordemente datato ai primi decenni del IV secolo a.C., riferito a una produzione campana oschizzata, ma collegata alla fondazione di Feronia. Tale cronologa appare francamente troppo risalente e del resto Pina Derudas mi informa che la data di fine repubblica sarebbe da preferirsi: pur non essendosi occupata degli aspetti stilistici, ha potuto citare in passato il bronzetto nell’ambito di studi territoriali in comune di Ossi: nell’areale contiguo è chiaramente attestata la frequentazione (o meglio l’occupazione) dal I al III d.C. come testimoniano sia la celeberrima necropoli romana di Sant’Antonio (più a sud del sito di rinvenimento della statuetta), scavata da Fulvia Lo Schiavo e Alberto Moravetti, sia i ritrovamenti noti dello scavo di un impianto produttivo a nord presso il nuraghe Tresnuraghes (scavo Bedello, mai pubblicato).

Un mondo ricco, vivace, colto pullula dietro la nostra statuina bronzea di Ossi, Ercole riscoperto da Ercole Contu, classicista e allievo di Ranuccio Bianchi Bandinelli relatore della tesi discussa nel 1948 a Cagliari, alla scoperta del Sarcidano, Barbagia di Seulo e Trexenta. Del resto molti di noi l’hanno  visto all’opera a Turris Libisonis, per l’altare di Bubastis, a Balai, per i mosaici funerari policromi di Dionisius e Septimia Musa, il ritratto di Faustina Minore rinvenuto presso l’ara di Cuspius, il lingotto Cerdo dall’Argentiera, le tombe romane di Capo Testa, l’epitafio di Aelia Victoria Longonensis, il sarcofago di Santu Antine a Torralba. Infine le stele inscritte romane di Valledoria, di Castelsardo e di Viddalba, una scuola di artigianato popolare che sintetizza antiche tradizioni locali ma che è aperta – secondo Sabatino Moscati – alla circolazione dei modelli e degli artigiani nell’area mediterranea e soprattutto alle suggestioni africane nella Sardegna romana.

Una lettura dell’articolo pubblicato su “Archeologia Classica” conferma se ce ne fosse bisogno la formazione di Contu come archeologo classico, con confronti amplissimi che – se oggi appaiono eccessivi per la statuaria – risultano puntuali nell’arte minore, negli stessi bronzetti come l’esemplare di Marsiglia, opera provinciale italica, dove Eracle compare imberbe e con la pelle leonina che copre il braccio e l’avambraccio sinistro; i confronti arrivano ad Aquileia, Veleia, Parma, Villa Albani, Ostia, Roma Museo dei Conservatori, Palermo, Italica in Betica, musei di Monaco di Baviera e Boston. Il bronzetto di Ossi andrebbe collocato <<fra le opere del classicismo tardo-ellenistico o addirittura imperiale romano; non privo però di influssi provinciali, come parrebbe potersi dedurre dalla testa relativamente grande>>. Se l’ambito cronologico potrebbe portarci – cosa che oggi appare possibile – da Augusto all’età dei Severi, <<la rigidità, e la frontalità in cui uno schema figurativo così comune si manifesta nell’Ercole di Ossi parrebbe suggerirci una datazione ad età giulio-claudia>>. Epoca comunque preferita da Raimondo Zucca nella mostra su L’isola di Heraklés, Oristano 2004, p. 59, per quanto non dobbiamo dimenticare le osservazioni di Contu sul sapore greco-ellenistico della postura del dio.

Abbastanza inconsueto ma non sconosciuto in Sardegna è il fatto che Eracle tenga nella mano sinistra almeno un pomo d’oro raccolto nel Giardino delle Esperidi, il che rimanda al ritorno dell’eroe – scrive D’Oriano (p. 294 cat. 50) – potnios theròn, il signore delle fiere, dalle terre dove Helios declina; il cimelio comunque richiama i viaggi dell’eroe verso l’estremo occidente, non senza un riferimento alla caratterizzazione occidentale della Sardegna e della Corsica, che appare evidente nelle fonti più antiche.

La stessa scena del bronzetto di Ossi compare sulla celebre lucerna di Turris Libisonis, che in età augustea riproduce Eracle circondato dagli alberi del giardino delle Esperidi (I secolo a.C. – I secolo d.C.), in lotta col serpente custode, Ladone fratello delle Esperidi e figlio di Forco (D’Oriano, pp. 293 s. cat. 49): nella descrizione di Roberta Sulis <<Esemplare tipo Loeschcke IV, con corpo circolare tronco-conico, spalla costituita da un modesto bordo, disco concavo a cerchi digradanti concentrici e becco ogivale le cui ampie volute coprono parte della sua superficie. Nel disco è raffigurato Eracle barbato, con indosso la leontè. L’eroe, nel giardino delle Esperidi, brandisce la clava con la mano destra per abbattere il mostro serpentiforme, che tiene per il collo con la mano sinistra. La coda del mostro è avvolta, in una duplice spirale, intorno alla caviglia di Eracle. A destra è l’albero dei pomi d’oro>>.

Le testimonianze dell’XI fatica di Eracle nella Sardegna romana non ci debbono sorprendere, forse con qualche connessione con la rotta ormai in età storica studiata da Posidonio e da Plinio, che calcolavano 1250 miglia, poco meno di 2000 km, per la rotta che da Carales raggiungeva Gades sull’Atlantico. E Atlante, fratello di Prometeo, uccisore di Forco, è uno dei protagonisti del confronto con Eracle nel giardino delle Esperidi.

Il viaggio di Eracle a Sud della Sardegna verso le colonne va ben distinto dal passaggio delle Bocche di Bonifacio, l’antico Taphros, luogo nel quale si concentrano i miti greci più arcaici, alcuni pre-olimpici. Le leggende greche di fondazione immaginano un originario regno di Sardegna e Corsica, affidato a Forco, figlio di Ponto e di Gea o secondo un’altra versione di Oceano e di Teti, sposo di Keto, padre delle Gorgoni dell’estremo occidente (Medusa, Stenno ed Euriale) e delle Forcidi, divinità e mostri marini, oppure delle Sirene, di Echidna, delle Esperidi, tutte leggendarie figlie di Forco-Tirreno; infine padre del serpente Ladone custode del Giardino delle Esperidi. Secondo Servio, che riferisce una versione antichissima ma distinta dalla vulgata greca: Rex fuit (Phorcus) Corsicae et Sardiniae, qui cum ab Atlante rege navali certamine cum magna exercitus parte fuisset victus et obrutus, finxerunt socii eius eum in deum marinum esse conversum. Re della Corsica e della Sardegna è stato una volta Forco, il quale, dopo esser stato annientato in una battaglia navale e poi mandato in rovina da Atlante con gran parte del suo esercito, venne ricordato dai suoi compagni come trasformato in una divinità marina (SERV. ad Aen. V, 824. 9). Il riferimento greco alla tragedia della battaglia navale nel Mare sardo per il controllo di Alalia non è scontato. Il passo dell’Eneide commentato da Servio è relativo al viaggio di Enea nel Tirreno al largo della Campania: Venere prega Nettuno di concedere una navigazione tranquilla e questi lo rassicura dicendo che esigerà una sola vittima, avviandosi poi verso il mare Tirreno, da Ischia-Pitecussa (l’isola delle scimmie) in direzione di Capo Palinuro, dove assistiamo alla morte del timoniere di Enea, evidentemente l’unica vittima sacrificata agli dei per raggiungere l’Ausonia. E non dimentichiamo che tutta la vicenda di Forco è localizzata nel Mare Tirreno, dove si sarebbe svolta la battaglia navale vinta da Atlante, che Eracle conobbe nel Giardino delle Esperidi.

Il primo elemento fin qui trascurato è che Forco, indicato come re della Sardegna e della Corsica in età pre-olimpica, è il padre del serpente Ladone (il mostro incaricato di custodire i pomi del giardino delle Esperidi tra Creta, lo Chott el Djerid e la Mauretania atlantica, con una suggestione finale legata all’andamento sinuoso del fiume Loukkos in Marocco); Forco era anche il padre delle Esperidi (le ninfe più occidentali già per la Teogonia di Esiodo, ‛Εσπερίδες): tra esse la ninfa di Gades Erizia, sposa di Ermes, madre di Norace, il fondatore di Nora.

Il punto più occidentale della Sardegna là dove la terra finisce e il mare comincia per Tolomeo è marcato dalla Nunfaia nesos (Foradada) a 29° e 45’; sulla terra ferma il punto più occidentale e più vicino all’Iberia era invece il Capo Marrargiu, l’Hernaion akron a nord delle foci del Temo. Decisamente più all’interno il Porto Conte, cioè il golfo delle ninfe marine, protettrici della pesca e della navigazione, Numkaion limén. Nelle vicinanze, Tolomeo conosce l’isola di Eracle, l’Asinara, sulla rotta verso occidente; una variante alternativa era la rotta che Eracle avrebbe seguito a Sud della Sardegna, toccando il Portus Herculis a 32° di longitudine, Capo Malfatano (questa è l’unica rotta conosciuta da Plinio tra Carales e Gades). La ninfa Erizia nata da Gerione è ricordata indirettamente con lo sposo Ermes a Capo Marrargiu, sull’Hermaion Acron: il dio Ermes e la Esperide Erizia sono i genitori di Norace, il fondatore di Nora, il cui nome ricorda la Nurra, i Nurritani, i nuraghi. Se confrontiamo le diverse longitudini con partenza dalle Isole Fortunate, il Gorditanum, promontorium Capo Falcone Stintino ha 29° 50’: 5 primi a oriente dell’Isola Foradada, Porto Ninfeo 30° e 10’, Hermaeum promontorium 30°, Temou potamou ekbolai 30° 15’, Coracodes 30’ 20, come Tharros. Dunque la percezione è quella che Capo Marrragiu era più ad Occidente del Porto Ninfeo e che l’Herculis Insula con longitudine di 29° 20’ era più ad occidente del promontorio Gordititanum-Capo Falcone-Stintino. L’oscura denominazione Gorditanum, che troviamo anche nella Naturalis Historia di Plinio III 84, ed in Marziano Cappella, VI 645, pare difficilmente possa essere connessa con Gorgò o Gorgàs, nel senso di “testa di Medusa”, anche se appare ampiamente provato che il mito della Medusa vada inizialmente circoscritto al mare tra la Sardegna e la Corsica.

Nella sua opera In Sardiniae Chorographiam lo storico Giovanni Francesco Fara, alla fine del XVI secolo, parlando della costa a Nord di Bosa rilevava che Capo Marrargiu, noto nell’antichità come Capo Ermeo, collocato a sei miglia a Nord di Torre Argentina, è il primo promontorio della Sardegna ad essere avvistato da chi giunge per mare dalla Spagna toccando le Baleari (VI millia passuum ad prontorium Hermaeo a Polomemaeo Marrargium vulgo dictum, quod adnavigantibus ex Hispania primum omnium apparet).

Le altre Esperidi erano poi Egle, Espere, Aretusas, Esperetusa (o Esperia). Una Esperide era anche Medusa, confusa anche con le Gorgoni: con Stenno e Euriale, immortali. Tra esse (Esperidi o Gorgoni) Medusa, fu decapitata da Perseo, che vide il cavallo alato Pegaso e il gigante Crisaore uscire con violenza dalla ferita insanguinata. La testa di Medusa mantenne la capacità malefica di pietrificare i nemici con lo sguardo, come le Bithie della Sardegna; il suo sangue si trasformò in corallo. Pindaro ed Esichio di Alessandria nel V secolo a.C. sono i primi a riferire il particolare mitico secondo cui lo sguardo della Gorgone tramutava in pietra, con una forza magica che rimase intatta alla testa recisa dal corpo anche in mano a Perseo o sul petto di Athena. Questo spiega la sorte di Atlante uccisore di Forco dopo la battaglia navale nel Mare Tirreno; egli a sua volta fu trasformato in pietra.

Le Gorgoni abitavano l’estremo occidente, nelle vicinanze del regno dei morti, secondo una tradizione che risale già all’Odissea. Il mito di Forco, dio dell’Oceano nelle isole tirreniche, era già conosciuto nel III sec. a.C. da Palefato, autore di un’operetta intitolata Storie incredibili, in cui si riprendevano una serie di miti vedendo nei loro nuclei fatti veramente accaduti. È in ogni caso difficile stabilire quanto si possa ricavare di storico dal mito di Forco, re di Corsica e Sardegna per ciò riguarda i contatti fra le due isole. Indubbiamente fu la loro vicinanza geografica a suggerirne una trattazione comune anche nel mito, come d’altra parte dimostrano i nomi con cui i Greci denominavano la Sardegna e la Corsica: Kyrnos e Sardò, due dei figli di Heracles.

L’immagine di Medusa nel mito appare saldamente radicata a osservazioni naturalistiche effettuate dai marinai greci nell’area marina dello stretto di Taphros, a Nord di Ichnusa e a sud della Corsica, dove erano certamente presenti le pericolose meduse che presentano l’immagine di un polpo rovesciato con tentacoli (Cnidari o Celenterati): nell’immaginario collettivo erano associate anche a veri e propri mostri marini che abitavano il mare tra Sardegna e Corsica, a oriente della Punta Falcone: antiche leggende marinare parlavano di mostri marini, i favolosi thalattoi krioi, identificati oggi con l’orca gladiator che secondo Claudio Eliano trascorrevano l’inverno nei paraggi del braccio di mare della Corsica e della Sardegna, accompagnati da delfini di straordinarie dimensioni (Ael., Sulla natura degli animali 15.2).

Le numerose protomi femminili che risalgono ai primi decenni dell’occupazione romana (come quelle dello stagno di Santa Gilla), fissano un ramo significativo del mito di Medusa proprio in Sardegna. Gli Oracula Sibyllina annunciavano per Cyrno e per la Sardegna uno stesso destino tragico, una sorta di apocalisse incombente, “sia a cagione di grandi procelle invernali, sia per le sciagure inflitte dal supremo dio, quando le due isole nel profondo del pelago penetreranno, sotto i flutti marini” (Orac. Sib., 477-479). Sardegna e Corsica erano collocate al buio, nell’estremo occidente, in un mondo pieno di mistero, oltre prima o dopo quelle colonne che Ercole per i marinai greci indicavano il confine più estremo per la navigazione.

Secondo Raimondo Zucca <<l’isola di Hercules della Sardegna [l’Asinara] appare connessa ad una serie di toponimi sparsi nel Mediterraneo occidentale (cui partecipano anche le isole di Herakles presso Cartagena e Huelva) lungo la via Eraclea che segnano, lungo il mare, le tappe dei miti relativi al viaggio di Herakles in Occidente, alla conquista delle mandrie di buoi di Gerione e all’acquisto dei pomi d’oro nel giardino delle Esperidi. A dire il vero secondo gli antichi, Herakles non sarebbe passato in Sardegna, ma vi avrebbe inviato una colonia costituita dai suoi cinquanta figli, nati dalle cinquanta figlie di Tespio, re di Tespie in Beozia. A capo della colonia l’eroe pose Iolaos, che avrebbe fondato in Sardegna Olbia e altre città greche. Secondo una tradizione lo stesso Herakles avrebbe condotto degli Olbiesi, forse proprio quelli di Sardegna, sino in Mauretania. A sostegno indiretto di una rotta eraclea che avrebbe toccato anche la Sardegna possiamo citare l’epitome liviana che conosce un Baleo, eponimo delle insulae Baliares, compagno di Hercules abbandonato in quelle isole, allorquando l’eroe si dirigeva in nave verso Tartesso, la terra di Gerione. La rotta Sardegna-Baleari-Spagna sarebbe dunque stata seguita da Hercules secondo la versione principale del mito. Le fonti mitografiche antiche avevano coscienza della complessità della figura di Herakles nella sua proiezione occidentale, giungendo a teorizzare l’esistenza di due Herakles, uno tirio, l’altro tebano. Tuttavia le profonde relazioni tra l’elemento euboico e quello levantino avevano prodotto un vero e proprio sincretismo tra Melqart (l’Herakles tirio) e l’Herakles tebano, così da proiettare la saga dell’Herakles tirio anche nel Mediterraneo orientale e nella stessa Grecia continentale, in Beozia e a Delfi, mentre l’Herakles tebano partecipava ad avventure di ambito occidentale, fino a divenire l’Heraklés gaditano. Osserviamo in filigrana nei racconti mitografici relativi all’Herakles tirio in Grecia la connessione tra i Phoinikes e gli Eubei storicamente documentata in Oriente e in Occidente tra IX e VIII secolo a.C. Questa liaison è stata autorevolmente affermata da Laura Breglia Pulci Doria in riferimento all’apoikia dei Tespiadi, figli di Herakles, in Sardegna, ma è ora limpidamente confermata da una documentazione archeologica cospicua nel Mediterraneo centrale (compresa la Sardegna) e occidentale e nell’Atlantico, dove a Huelva, in particolare, i rinvenimenti archeologici più recenti illustrano il rapporto tra Fenici, Euboici, Sardi e Villanoviani>>.

Per Paolo Bernardini <<La mitologia è racconto dell’inizio dei tempi e insieme ideologia e trasfigurazione del presente: le imprese di Melqart-Heraklès in Occidente legittimano, per i marinai e i mercanti che seguono le loro tracce, il loro diritto a stanziarsi in quelle terre per loro conquistate dal dio. Nel mito e nelle storie che legano Melqart a Heraklès, dalle colonne che segnano i confini del mondo – ma che aprono in realtà un mondo nuovo, le frontiere atlantiche, agli scambi e ai traffici dei Fenici e dei Greci – alla conquista dei pomi delle Esperidi o al ratto delle mandrie di Gerione, traspare una storia reale di interrelazioni e di contatti che legano ai Fenici i primi intraprendenti naviganti greci dell’Occidente: i marinai dell’isola di Eubea; gli empori fenici mediterranei si aprono volentieri all’apporto ellenico e la mescolanza etnica sulle nuove frontiere dell’Ovest è un fenomeno ormai ben documentato dall’archeologia: che siano i Greci che risiedono a Cartagine o i nuclei levantini residenti nell’emporio di Pitecusa o, sulla frontiera sarda, le tracce di una loro presenza, accanto ai Fenici e agli indigeni, negli avamposti commerciali impiantati sulle coste>>.

Naturalmente il mito confonde le Esperidi con altre divinità, ninfe o comunque dee della navigazione e delle acque: possiamo tentare un elenco relativo ai miti femminili sulla colonizzazione della Sardegna.

Cirene, Euridice, Autonoe.

Aristeo fu generato in Libia da Cirene e da Apollo, nelle grotte calcaree del Djebel Akdar in Cirenaica; egli avrebbe amato Euridice così come lo sconsolato Orfeo dei mosaici di Cagliari o di Turris; Aristeo sposò poi Autonoe, madre di Charmo e Callicarpo, nati in Sardegna dopo la tragedia di Atteone: il ragazzo era stato allevato dal Centauro Chirone, lo stesso della IV fatica di Eracle.

Medusa: madre di Pegaso, figlio di Poseidone oppure di Pasifae o Perseide.

La “visione a volo d’uccello” della Sardegna Ichnussa-Sandaliotis descritta con la forma di un piede o di un sandalo dove l’alluce è rappresentato dall’Isola di Eracle, richiama il volo mitico di Pegaso figlio di Medusa e Posidone. Oppure il volo di Dedalo profugo dal labirnto cretese e da Kokalos in Sicilia  (secondo una versione del mito sposo di Pasifae, figlia di Elios e della ninfa oceanina Perseide); infine il volo dell’automa bronzeo Talos figlio di Vulcano.

Sardò

Altri filoni del mito rimandano a Sardò, sposa di Tirreno, se stiamo ad uno Scolio al Timeo di Platone, che colloca il nome “l’isola dalle vene d’argento” abbandonato a favore di “Sardò”, con l’arrivo della sposa del dio tirreno, eponimo degli Etruschi.

Altre ninfe

L’elenco delle ninfe della Sardegna è più ampio: basi pensare alle Ninfe salutari, alle Ninfe Augute, ai Numina delle Ninfe, delle Aquae Hipsitanae collegate al culto di Esculapio oppure alle Aquae Lesitanae.

I collegamenti onomastici sono numerosi: le 50 Tespiadi amate da Eracle si confrontano coi nomi delle Amazzoni, delle Nereidi, delle Ninfe, delle Muse, delle Menadi, delle Esperidi, delle Oceanine, delle figlie di Pelope, del ciclo troiano, delle eroine ateniesi o della Beozia.

 

Bibliografia minima

AA.VV. L’isola di Herakles, a cura di P.G. Spanu, R. Zucca, R. D’Oriano, Mythos iniziative, 2004

A.VV., Il Mediterraneo di Herakles. Studi e ricerche. Atti del Convegno di studi (Sassari, 26 marzo 2004; Oristano, 27-28 marzo 2004), a cura di: Paolo Bernardini, Raimondo Zucca, Carocci, Roma 2005

 

G. Azzena, A. Mastino, E. Petruzzi, Dalla Colonia Iulia Turris Libisonis al Comune di Sassari. Eredità, persistenze e trasformazioni, in G. Azzena, A. Mastino, E. Petruzzi, D. Rovina, Alle origini di Sassari, dal volume I Settecento anni degli Statuti di Sassari, A. Mattone, P. Simbula edd., Sassari, 24-26 novembre 2016, Delfino editore, Sassari 2018, pp. 9-33

E. Contu, Ercole e le Esperidi in un bronzetto da Ossi, “Archeologia Classica”, XII, 1960, pp. 96-99

M. Derudas, Ossi, storia, arte, cultura, Sassari 2013

P. M. Derudas, La necropoli di Mesu ‘e Montes (Ossi), Sassari 2005

P.M. Derudas, Necropoli ipogeiche di s’Adde ‘è Asile e Noeddale (Ossi), Sassari 2005

M. Madau, Immaginario del potere e mostri marini. Mito, storia, paesaggi culturali, L’Africa Romana XIX, Roma 2012, pp. 1693-1704

M.P. A. Masala, Il culto di Ercole in Sardegna. Identità e geografia di un Mito, Cargeghe 2008

A.Mastino, I miti classici e l’isola felice, in Logos peri tes Sardous, Le fonti classiche e la Sardegna, a cura di Raimondo Zucca, Carocci, Roma 2004, pp. 11-26

A.Mastino, La Sardegna arcaica tra mito e storiografia: gli eroi e le fonti, in Corpora delle antichità della Sardegna, La Sardegna fenicia e punica, Storia e materiali, a cura di M. Guirguis, Poliedro, Nuoro 2017, pp. 19-29