L’Università di Sassari per la lingua sarda

L’Università di Sassari per la lingua sarda.[1]
di Attilio Mastino

Atti del convegno su Lingua e Cultura Sarda
Uri, 9 e 10 Settembre 2011

Come prima cosa, desidero ringraziare Arvada per l’occasione di dibattito che ci offre, i Sindaci presenti, tutti i Comuni (Codrongianos, Cargeghe, Florinas, Ploaghe, Muros, Tissi, Ossi, Usini, Uri, Olmedo, Putifigari), il Presidente della Provincia Alessandra Giudici, che ho visto ieri sera e mi ha pregato di portare il suo saluto, e Smeralda Consulting, per questo incontro.

L’occasione odierna cade propizia, perché siamo reduci da una lunga polemica, la ‘guerra’ estiva che abbiamo dovuto sostenere sui mezzi di comunicazione e anche sui blog intorno al tema della cultura e della lingua sarda: vorrei allora profittare per parlare proprio delle critiche mosse all’Università riguardo a tali questioni.

Sono orgoglioso del fatto che nel corso del dibattito che abbiamo avviato a partire da gennaio intorno al nuovo statuto dell’Università, in attuazione della Legge 240 (la ‘legge Gelmini’), siamo riusciti a inserire un articolo (n. 58) che riguarda proprio la lingua e la cultura sarda: «L’Ateneo [di Sassari] promuove la tutela e la conoscenza dei beni e delle fonti dell’identità locale, con particolare riferimento alle lingue delle minoranze e alla lingua sarda nelle sua articolazioni territoriali, alle risorse naturali, ai beni storici, culturali, ambientali, paesaggistici e architettonici, ai saperi e alle tradizioni locali».

Come si vede bene, nel nuovo statuto che sta per entrare in vigore – dovrebbe essere approvato dal Ministero intorno al mese di novembre – e che comporterà l’abolizione delle Facoltà e l’istituzione di Dipartimenti che avranno funzioni di ricerca e di didattica, la ricchezza linguistica della Sardegna è indistintamente riconosciuta come un bene meritevole della più ampia salvaguardia.

Voglio perciò ribadire anche in quest’occasione che l’Università di Sassari è fortemente impegnata per la difesa della lingua sarda come lingua dell’oggi e del domani, come segno di identità e come elemento distintivo per le culture della Sardegna. Le polemiche di questi giorni rendono necessario un chiarimento sulle posizioni assunte dalla Commissione lingua sarda dell’Università di Sassari, dalla università nel suo complesso: e mi consentono di ribadire che l’Ateneo prende l’impegno per difendere e qualificare l’insegnamento delle lingue minoritarie e della lingua sarda nel nostro Ateneo al servizio della scuola sarda.

Nell’incontro che è avvenuto nei giorni scorsi con l’Assessore Milia e alcuni funzionari dell’Assessorato, credo che le preesistenti difficoltà di dialogo siano state superate. Oggi desidero cogliere l’occasione della presenza di Maria Antonietta Mongiu, l’assessore che ha scritto il primo piano triennale sulla lingua sarda, per affermare con chiarezza che l’Università non si sottrae all’impegno e alle responsabilità che si è assunta votando nell’Osservatorio il piano triennale, ma naturalmente chiede che la Regione abbia la piena consapevolezza della complessità dei problemi e dello specifico apporto dell’Università, che impone un metodo scientifico, una competenza, un’accertata autorevolezza ma anche una passione e un interesse forte. Sullo sfondo mi sembra che il problema vada ben oltre la lingua e la cultura della Sardegna, c’è il tema della sovranità della Sardegna, una sovranità che non può che partire dalla difesa e dalla valorizzazione del patrimonio culturale, in particolare delle lingue delle minoranze che raccontano, specie il sardo, di una millenaria tradizione linguistica che parte dall’età romana, attraversa l’età bizantina, l’età giudicale, l’età catalano‑aragonese, l’età spagnola per arrivare ai giorni nostri: con moltissimi problemi e anche, se mi consentite, con un progressivo impoverimento interno e con un ampliamento della complessità dei rapporti con le altre lingue che si sono succedute in Sardegna e con quelle che fanno parte del nostro bagaglio di uomini di oggi. La lingua sarda è stata pensiero, riflessione, strumento per intendere la realtà, per entrare in comunicazione con gli altri sardi, in una comunicazione orizzontale profonda.

Ci hanno preceduto gli studi di Max Leopold Wagner, di Antonio Sanna, di Massimo Pittau, di Giovanni Lilliu, di Nicola Tanda, di Giulio Paulis, di Eduardo Blasco Ferrer, fino ad arrivare ai risultati più recenti della ricerca scientifica nelle Università di Cagliari e di Sassari, e credo che in questa sede Dino Manca e Giovanni Lupinu esprimano questa realtà nuova della ricerca scientifica nelle Università. Tali competenze non possono essere avulse da una realtà viva, dalla variegata presenza di specialisti e di appassionati che in tante occasioni (ad es. nei premi letterari) testimoniano la specificità della Sardegna rispetto ad altre regioni e costruiscono, dunque, delle competenze diffuse sulle quali si deve costruire una politica linguistica per il futuro. Per quanto concerne le posizioni scientifiche sulle quali l’Università di Sassari si sta attestando, sono convinto che non siano di retroguardia, tutt’altro: penso anzi che il lavoro linguistico che si è fatto in Sardegna in questi anni ci metta ai primi posti in Europa come laboratorio di soluzioni fondate sulla problematicità del territorio. Occorre quindi partire dall’orgoglio per il livello fin qui raggiunto dagli studi universitari, ma anche dalla riflessione di taluni appassionati, nel campo della tutela delle lingue minoritarie. Questo anche grazie anche all’attività della Regione, che pure è arrivata in ritardo a confrontarsi su questi temi.

Credo che si debba riconoscere e apprezzare anche il ruolo che hanno avuto e hanno i premi letterari per la raccolta di documenti preziosi, che debbono costituire la base per le modalità espressive del futuro: pochi giorni fa ero a Padria per il premio ‘Gavino Delunas’, ma ho seguito tanti altri premi come quelli intitolati a Jorzi Pinna a Pozzomaggiore (per i poeti improvvisatori in lingua sarda), a Remundu Piras a Villanova, a Pittanu Moretti a Tresnuraghes, senza trascurare naturalmente il premio Ozieri e, senza volerli menzionare tutti, i tanti altri straordinari premi letterari della Sardegna, scuola di scrittura creativa per i sardi. Le lingue dei sardi possono essere un elemento distintivo dell’autonomia, della sovranità del Popolo Sardo, però solo a patto di difendere le radici culturali profonde di queste lingue, di conservarle come specchio di un mondo che ci appartiene e che in esse si riflette con immediatezza: se riusciremo a pensare sempre più in sardo (o in sassarese, gallurese, algherese, tabarchino), rendendoci conto criticamente, come diceva Michelangelo Pira ne La rivolta dell’oggetto, che ci sono differenze tra città e campagna, tra città e paese, tra paese e paese e in molti casi la lingua materna non è più il sardo ma è l’italiano. Sono problemi dei quali bisogna tenere conto. L’obiettivo è, certo, che le nuove generazioni coltivino maggiormente il plurilinguismo rispetto al passato e, in particolare, la prevalenza schiacciante dell’italiano venga progressivamente ridimensionata, senza tuttavia nascondere i problemi che oggi esistono per una lingua sarda che non sia relegata in ambito familiare o amicale. Dunque non si discute della possibilità astratta del sardo di esprimere tutto lo scibile umano, cosa che sarebbe oziosa dopo che i linguisti ci hanno da tempo insegnato che l’onniformatività è una proprietà fondamentale del linguaggio umano, e dunque di tutte le lingue (salvo poi dover fare i conti col concreto percorso storico di ognuna di esse): l’Università di Sassari non ha mai inteso, dunque, porre una simile questione. A livello personale, ricordo anche che io, come Maria Antonietta Mongiu, sono allievo di Giovanni Lilliu e ho sempre presente quella sua pagina in cui sostiene che la lingua sarda è grado di comunicare a livello locale, ma è anche «in grado di tradurre per iscritto qualunque pensiero o qualunque esperienza della realtà del mondo in cui viviamo. Dunque lingua, in effetti, quella sarda, per natura, è lingua perché è ampiamente espressiva».

Ciò su cui invece intendevamo porre l’accento è che il sardo, come le altre lingue minoritarie della Sardegna, ha un suo percorso storico che lo ha mantenuto sostanzialmente estraneo rispetto al mondo dell’istruzione, dell’amministrazione, della politica: se per un verso le richieste dei cittadini per mutare un simile quadro si sono lentamente affermate, per altro verso va anche rilevato che la Regione è intervenuta in ritardo in questa materia. Basti pensare che la Facoltà di Lettere di Cagliari sollevava il problema con due delibere del 1971 e 1974 (e nel 1977 nella stessa direzione andava una relazione della Scuola in Studi Sardi scritta anche da me), ma la nota legge regionale 26 è stata approvata soltanto nel 1997, con venti anni di ritardo. Una delibera del Consiglio Comunale di Bosa del 1976, che ho distribuito agli amici, sta poi a dimostrare che il dibattito odierno non è affatto nuovo, si ripetono cose già dette in passato anche da me, forse persino in maniera più violenta e radicale. Pertanto, il Consiglio Regionale ha adottato tardivamente delle politiche linguistiche con la legge regionale 26/97, che pure è più avanzata rispetto alla legge nazionale 482/99, non riconoscendo quest’ultima per il sassarese, il gallurese e il tabarchino alcuna tutela, cosa che invece avviene nella formulazione più democratica della legge 26, in cui le lingue delle minoranze interne sono esplicitamente protette accanto al sardo.

Arriviamo quindi abbastanza in ritardo a trattare l’argomento, e non nego che possano esserci anche responsabilità dell’Università, pure dell’Università di Sassari: questo tema vorrei affrontarlo, perché c’è stata una polemica sulle cattedre bandite, in fase di avvio, negli ultimi anni con fondi regionali. L’Università ha inteso radicare, nei propri corsi di studio, molte discipline di ambito sardistico: ad esempio, abbiamo attivato, negli ultimi anni, cattedre di Storia medievale della Sardegna, Etnografia della Sardegna, Storia dell’arte della Sardegna. Lo dico perché qualcuno ha ironizzato su questa molteplicità di approcci che non si limitano all’aspetto linguistico, ma sono andati ben oltre: Demografia della Sardegna, Ecologia vegetale della Sardegna, Ecologia forestale della Sardegna, Glottologia e linguistica della Sardegna, Geografia della Sardegna, Storia della filosofia morale, Storia della Sardegna e Preistoria e protostoria della Sardegna. Intanto occorre precisare che la Regione ha finanziato le cattedre solo per i primi due o tre anni, dopo di che è subentrata l’Università. Del resto, melius abundare quam deficere. L’Ateneo ha dunque allargato enormemente, non direi troppo, la propria attenzione in questo fondamentale settore di studi, e lo sta facendo investendo risorse proprie, salvo che in una fase iniziale. Per questa politica vorremmo ricevere elogi e riconoscimenti e non già rimproveri.

Per quanto concerne il ruolo dell’Osservatorio della Lingua Sarda, dove siamo stati rappresentati prima dal Prof. Meloni, poi dal Prof. Castellaccio, ritengo debba essere potenziato in modo soddisfacente, nel senso che vorremmo l’Osservatorio più presente sul territorio, più capace di approfondire i problemi e anche di scrivere i piani triennali confrontandosi in spirito di apertura corale con le Università e la società civile, avviando reali percorsi di valutazione esterna e obiettiva dei risultati ottenuti in termini di efficacia nel perseguimento degli obiettivi.

Per arrivare al cuore del problema, la discussione di questi mesi è incentrata sulle modalità di realizzazione di corsi di formazione per insegnanti di ogni ordine e grado, finanziati dalla Regione (750.000 euro per tre annualità): uno dei nodi da affrontare è quello del richiesto impiego veicolare del sardo in almeno il 50% delle lezioni. Abbiamo chiarito che l’uso veicolare delle lingue minoritarie della Sardegna (dunque, in linea con la L.R. 26/97: non solo del sardo) verrà assicurato nei termini quantitativi previsti, ossia con lezioni frontali in cui l’attenzione dei frequentanti sarà spostata su temi per i quali, a giudizio dei docenti, già si dispone di un patrimonio lessicale adeguato. Ciò che non accettiamo, e il nostro chiarimento è stato recepito dall’Assessorato competente, è che ci venga imposto dall’oggi al domani di impartire lezioni di storia, etnologia, linguistica ecc. in lingua sarda, nella convinzione che sia la cosa più naturale di questo mondo e, al contrario, non si necessiti di una qualche gradualità e sperimentazione, da effettuarsi nella piena libertà dei docenti coinvolti.

Questo è solo il primo aspetto. Più in generale, per noi è essenziale che la lingua sarda, così come ogni altra lingua storico‑naturale, sia usata e ampliata nel rispetto del suo retroterra culturale, senza far violenza a quei fondamentali presupposti sorti nel corso della storia e per i quali i parlanti si identificano con essa. La questione della lingua standard sviluppata dalla Regione, la cosiddetta limba sarda comuna, è strettamente connessa: pur non negando una sua qualche utilità se mantenuta nei limiti per i quali è stata ‘progettata’, tuttavia preoccupa che in modo più o meno velato, in taluni documenti regionali, si punti a promuoverla a lingua di tutti i sardi, anche se inzialmente la Regione era assai più cauta sull’argomento. Non comprendo come facciano a ergersi a difensori della lingua sarda (per non dire delle altre lingue minoritarie del territorio) coloro che predicano la nascita di una lingua comune, che non nasce dalla cultura e dalla storia della Sardegna, rispetto a coloro che, come avviene nell’Università di Sassari, vogliono difendere le varietà locali nel loro radicamento sul territorio, assumendo che tutte le varietà locali concorrono, per volontà dei parlanti, alla costruzione della lingua sarda e nessuna di esse si pone al di sopra delle altre, men che meno una varietà non storica. Questo radicamento è il valore aggiunto vero e lo si deve sempre tenere come stella polare, senza banalizzare la lingua sarda, che deve mantenere una freschezza e una capacità espressiva che innanzi tutto sia in rapporto con un luogo, con una geografia, con un ambiente naturale ed umano. Ho letto alcune pubblicazioni in LSC e, anche se qualcuno potrà offendersi, le trovo sciatte, povere, poco espressive, avulse dalla realtà vera: si rompe il legame tra lingua e vita, tra lingua e verità. Trovo che ci sia un abbassamento della qualità e dell’efficacia della comunicazione e che, viceversa occorra tenersi più agganciati alla lingua popolare che si pratica quotidianamente nel territorio, senza dimenticare le altre minoranze linguistiche della Sardegna. Ci sono naturalmente delle posizioni differenti, che noi rispettiamo; di più, ammettiamo serenamente di poterci sbagliare. Quello che però non sopportiamo è  il metodo del confronto: non si capisce perché quando non si entra nel gregge e si esprimono dei dubbi, delle perplessità, delle proposte concrete sul futuro della lingua sarda (e magari quando si ricorda il tema delle minoranze interne), ci sia l’inveterata abitudine in Sardegna di demonizzare gli avversari. Perciò, stigmatizzo il comportamento di alcuni ‘protagonisti’ del dibattito in corso: alcuni studiosi sono stati anche attaccati pesantemente per le loro legittime opinioni, per giunta da persone che continuano regolarmente a usare l’italiano e che non parlano mai in sardo, che attaccano le persone (non le idee) senza avere la capacità di approfondire davvero il discorso sul piano scientifico. Si ama la Sardegna anche attraverso un profondo rispetto nei confronti dei singoli cittadini sardi.

Anche il tentativo di rappresentare i sardi come pocos, locos e malunidos è un modo gravissimo di svalutare la cultura della Sardegna che dobbiamo assolutamente abbandonare. Dobbiamo dunque partire dal rispetto per i sardi, dal rispetto per le persone, pronti a confrontarci con chiunque, senza rinunciare però al valore aggiunto che ha l’Università, soprattutto un Ateneo storico come il nostro, che compie quest’anno 450 anni di vita e che si mette al servizio dei sardi.

Vorrei porre anche un altro elemento di riflessione. Tutti abbiamo presente la scena di Giovanni Spano che, arrivando a Sassari da Ploaghe,  a scuola non capisce una parola di italiano, conosce soltanto il sardo, sua lingua materna. Penso che la formazione culturale di Vittorio Angius fosse analoga. Dunque, sicuramente parlavano il sardo meglio di noi: se però noi andiamo a leggere gli scritti di entrambi incontriamo parecchie sorprese. Recentemente Luciano Carta ha pubblicato il primo volume delle lettere di Giovanni Spano e dei suoi corrispondenti, per il decennio che va dal 1832 al 1842: in particolare, ha reso disponibile il carteggio con Vittorio Angius, in cui naturalmente ricorre il tema dell’importanza della lingua sarda, «sa bella limba patria». Vi si racconta, per esempio, di un incontro a Torino con un amico: «sa die chi veneit a mi visitare» (questo mio amico è venuto a visitarmi), «li intesit cudda cantone chi est in Sa Biblioteca Sarda e l’at intesa casi tota senza suggestione» ha capito quella canzone senza traduzione. «O sa bella e maestosa limba, esclamesit» questo amico esclama «oh, la bella e maestosa lingua sarda», e io ho risposto: «sa mesus cosa respondesi, chi abet sa poera Sardinia», è la cosa migliore che ha la povera Sardegna. Allora la competenza dell’Angius in sardo, non è in discussione. L’Angius come sapete è l’autore delle voci del Dizionario del Casalis, e c’è una lettera del 28 dicembre 1840 nella quale scrive: «Eo dia a cherrer faghere una litterona gasi manna cantu viat sa tua» avrei voluto scrivere una lettera grande quanto è stata la tua lettera, «questa mattina non ho però lo spirito sardo ed è per la precipitazione con cui scrivo». Dunque per scrivere il sardo non ci vuole precipitazione, bisogna riflettere più che in italiano. Ancora, il 14 ottobre 1841, «per troppa fretta, amico carissimo, oggi scrivo in lingua non sarda e dico poche parole, per troppa fretta». Ancora «Isto iscriende e non bido sas lineas, su sonnu mi aggrada sa palpebras, amigu de coro». Ancora: «ho mandato la copia di una operetta poetica madrigale, in realtà non sono riuscito a scriverlo in sardo e l’ho scritto in italiano». «Spero tu abbia ricevuto sa copia de sos versos mios pro sa regale isposa chi eo intendia dedicare in sardu e chi pro sat dificultate, appo debitu dare in sa limba de s’Italia». Quindi c’era una difficoltà. Potrei citare altri casi del genere: insomma, la sostanza è che per l’Angius ci sono aspetti di efficacia che sono legati chiaramente al sardo, perché il sardo sicuramente è più efficace dell’italiano per coloro che l’hanno utilizzato come lingua materna. Ma ci sono problemi anche diversi, di politica linguistica, che emergono ad esempio nel colloquio con Pietro Giovanni Cubeddu, Logudorese, che viene chiamato su mannu maesturadore de sa limba. C’è dunque una preoccupazione che è quella di tener conto delle diverse varietà linguistiche sul territorio, cioè che non è assolutamente il caso di costruire artificialmente una lingua che sia un minestrone tra lingue diverse.

Oggi sono in corso iniziative positive che puntano a un uso ‘normale’ del sardo nei diversi settori della vita sociale: sono nate, ad esempio, alcune riviste (ricordo, fra le altre, Logosardigna e Làcanas) che cercano di inaugurare una linea nuova e si trovano ad affrontare in modo sperimentale complessi problemi relativi alla terminologia, ovviamente alla ricerca di un equilibrio tra rischi opposti: quello di un riversamento massiccio di lessico italiano in un guscio fonetico sardo e quello uno sperimentalismo individuale, sicuramente positivo, che difficilmente può approdare a una costruzione a livello di langue. Tutto questo va visto anche dal punto di vista dei lettori: qui i rischi sono quello di una sensazione di freddezza ed estraneità oppure di incomprensibilità. Per scrivere in sardo di ogni materia serve dunque un’elaborazione sociale, una gradualità che parta da una reale domanda in tal senso, e che non prevede il ricorso ai demiurghi della lingua. L’Università ha il compito di elaborare criticamente le risposte alla domanda di lingua minoritaria che viene dalla società, preoccupandosi in primo luogo di rispettare le attese dei parlanti. È in quest’ottica che l’Ateneo di Sassari aderisce al progetto della Regione: chiede però il giusto livello di gradualità e sperimentazione, oltre alla necessaria autonomia scientifica. Dobbiamo assolutamente trovare un’intesa con l’Università di Cagliari, che anch’essa ha aderito al progetto regionale, per fare dei passi decisivi in avanti, in quello che è il momento di massima debolezza del sardo ma anche di maggiore consapevolezza del valore di una lingua che è anche una risorsa fondamentale per l’isola.

Credo di essermi spinto un tantino oltre i limiti del mio intervento. Innanzitutto, prima di concludere, desidero fare un richiamo a concetti evocati più volte in questo dibattito. C’è un libro recente di Bachisio Bandinu, Lettera ad un giovane sardo, dove in sostanza si dice che esistono due anime profonde per ciascuno di noi: naturalmente le cose variano da persona a persona, da luogo a luogo, da città a paese e così via. Da un lato c’è l’appartenenza, di ciascuno di noi, alla cultura locale, al villaggio locale, un luogo nel quale esiste un genius loci, una cultura profonda; poi c’è l’adesione a uno spazio più largo che è quello delle autostrade telematiche, della lingua inglese e di un internazionalismo più ampio che non può essere di maniera. Dunque ci sono due livelli. Il processo di rimozione della cultura sarda non è positivo, perché nel villaggio globale, che tende per certi versi a omologare, è necessario per altri versi valorizzare le differenze. La differenza può essere una ricchezza e una risorsa, nel senso che il fatto che la Sardegna sia così differente rispetto ad altri territori può essere un valore aggiunto. La nostra Università può essere veramente il luogo in cui il mondo locale dialoga col mondo globale.

Nei giorni scorsi c’è stato un dibattito a Castelsardo, con alcuni rappresentanti anche della Rai, a proposito di localismo e globalizzazione: è emersa una divisione sostanzialmente tra due partiti, quello di chi diceva che andiamo attraverso internet a omogeneizzare tutta la cultura, e quello di chi, come me, viceversa diceva che anche internet può essere un modo per valorizzare la cultura della Sardegna, la diversità della Sardegna, per diffondere una visione del mondo fondata su una forte identità originale e senza paragoni in Europa. Si può affrontare il momento storico guardando non soltanto in che direzione ci si muove, ma anche da dove si proviene: i luoghi, la storia, le lingue.

Il mercato certamente tende all’omologazione, ma nel contempo sollecita la diversità come fattore che apporta qualità e, più materialmente, consente di diversificare i consumi: la biodiversità, pertanto, è un valore sotto molti punti di vista, come in campo ambientale. Dobbiamo partire dal fatto che nella sua centralità mediterranea, la nostra isola si presenta con una fisionomia e con una specificità marcate: sono molto attento a questo tema. Occorre dunque aprirsi agli altri senza perdere noi stessi, proiettarsi verso gli altri senza cancellare la nostra alterità e la nostra originalità.

Chiudo davvero. C’è stata una frase in un nostro scritto polemico in sardo di questa estate che ho suggerito io stesso, una frase che secondo me è un concentrato di filosofia pura, nella lingua di Bosa: «“a dognunu s’arte sua”, naraiat cuddu chi crastaiat tilipilches». In altri termini, a me sembra che i problemi che noi abbiamo di fronte sono assai complessi e richiedono responsabilità diverse. Non è in atto alcun tentativo dei baroni universitari di escludere chicchessia da questo dibattito: è il desiderio di puntualizzare con chiarezza che, pur con il dovere di ascoltare tutti, gli studiosi, gli specialisti e i linguisti in particolare hanno una responsabilità grande e un ruolo specifico al quale non possono sottrarsi. Una responsabilità della quale giustamente ci si chiederà conto.

 


[1] Il testo mantiene il carattere discorsivo dell’occasione per la quale è stato preparato.




Orlando Biddau

Attilio Mastino
Orlando Biddau

Modolo, 21 ottobre 2011

Stasera in questa sala c’è una sedia vuota ed è la sedia di Orlando Biddau, che in queste ore sta soffrendo, per questo suo eterno male di vivere che lo divora, per questa ferita sulla quale (Elegia):  è lo stesso dolore di un altro poeta di Modolo, Peppino Deriu:  (Sonetto al compagno Cicittu Deriu).

Ed è anche il dolore di Anna Cossu, che riesce nel dolore ad intravedere una stella che spende alla fine del tunnel: (Trina): è la stella che Peppino Deriu augura possa sorgere anche per Orlando: (A Orlando Biddau).

Eppure, nell’assenza che sanguina, è possibile oggi ritrovare tra noi Orlando Biddau, questo poeta difficile e scontroso, grazie a chi ha voluto quest’incontro, grazie a Ilenia Ruggiu, ad Omar Chessa, ai nostri relatori di oggi, a Clara Farina che ringrazio tutti per essersi associati in questa riflessione.

Orlando Biddau è innanzi tutto un poeta “scomodo”, un grande poeta dalla sensibilità acutissima, le cui opere sono state fin qui trascurate, a prescindere dai riconoscimenti ufficiali attribuiti all’autore.

Lui stesso mi ha scritto nei giorni scorsi, nascondendosi dietro le parole di Eugenio Montale, per raccontare le sue sette diverse raccolte, le prime tre delle quali sono contenute nei volumi di cui curai io stesso la pubblicazione nel 1991 quando mi trovavo ad essere assessore nella Provincia di Nuoro presso l’Editore Chiarella, combattendo insieme con il poeta e con l’anziano signor Bruno:   L’anima degli animali, Le verdi vigilie e L’inverno inconsolabile.

Le verdi vigilie, dove sarebbe contenuta la . Per il mio amico Marco Manotta si tratta di una.

Poi L’anima degli animali, che . Qui per Manotta.

E poi L’inverno inconsolabile, per lo stesso poeta.

Ancora Una fame di vento, , assieme a Il gufo cieco,: è l’ultimo libro (Una fame di vento ed il Gufo cieco) pubblicato da Nicola Tanda presso la EDES, presentato da Paola Ruggeri alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Sassari tre anni fa.

E poi due raccolte che non ho mai letto, Sale d’acqua e di grano. Infine la settima raccolta, Nostalgia della memoria.

Accanto alla poesia, un’opera in prosa, il duro romanzo autobiografico Predestinazione ambientato in parte in Sardegna ed in parte in una clinica psichiatrica,  imperniato sulla figura di un prete odiato ed amato, don Angelo Chessa, parroco di Modolo in Planargia. Come non pensare alla polemica del parroco con i suoi compaesani, che ritroviamo pari pari oggi nella poesia di Peppino Deriu, Sos oppressores modolesos ? Un legame di amore e di odio con quei cittadini definiti serpes sine ulla affectione, che ritorna nelle poesie di Orlando, alimentando una sofferenza che è anche un modo per tentare di capire gli altri, di essere di nuovo accolto in pace dal parroco e dalla comunità.

Forse allora occorre partire dalla tormentata biografia del personaggio. Orlando Biddau nacque da genitori sardi a Fiume nel 1938: un trauma vivissimo furono per lui, dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale e la fine del Fascismo, il viaggio in nave (un piroscafo nero, dall’aspetto terrificante che vediamo sulle immagini in bianco e nero di quegli anni su History Channel), il forzato rientro in Sardegna, la fame, l’angoscia della madre per l’assenza del padre ancora in guerra.

Modolo, il paese di origine della famiglia, ha rappresentato in quegli anni un piccolo universo, un paradiso di pace in un mondo sconvolto dalla guerra, e questo non solo per la famiglia Biddau e per gli altri sfollati. E anche per i soldati lontani, come Peppino Deriu che nel 1943 continuava a guardare a Modolo da Palau con nostalgia e rimpianto in tre bellissime cartoline galluresi.

Sono stato recentemente a Tripoli, alla Scuola musulmana di arti e mestieri un tempo diretta da Melkiorre Melis, all’epoca di Italo Balbo: il grande artista, in fuga dalla Libia occupata dagli inglesi, a Modolo si rifugiò nel 1944 per interrompere una fuga lunga e dolorosa.  Il pittore ci ha lasciato una straordinaria testimonianza di quegli anni nel dipinto Ultime luci a Modolo che cattura l’immagine di una donna vestita di nero, che torna a casa portando sulla testa un’anfora d’acqua, accompagnata da una bambina. La vita a Modolo conserva ancora un sapore antico, di cui la brocca per l’acqua da bere è un po’ il simbolo, come nel  Racconto d’estate di Orlando Biddau, quando la brocca di creta e l’anfora d’argilla diventano un assillo, per la paura dell’acqua sparsa, per gli immaginari sortilegi, per le atmosfere al crepuscolo.

E poi il rientro del padre dalla guerra sfortunata, la rabbia, la povertà: «giunse l’uomo spezzato dalla guerra, / faceva vino cattivo, era intrattabile: / un pomeriggio di settembre la sua donna / se lo trascinò in vigna con i bambini. / Il rigoglio dei tralci, la brezza più dolce / della carezza materna compirono il miracolo: / la ricomposta famiglia si sentì felice / quale mai sarebbe più stata». Ma la felicità è di breve durata e c’è un prezzo da pagare, tanto che la vigna dopo qualche tempo va definitivamente in malora.

Quella di Biddau fu un’adolescenza inquieta e difficile: «Mi trascino dall’età della ragione / una memoria dilaniata dalla fame / e l’insonnia scavate dentro grembo / nero della madre come incontro al supplizio».

E poi, crescendo il lavoro pesante, da manovale muratore, interrotto da poche settimane d’estate, quando correva a perdifiato «per stancarmi / e rimediare qualche sogno la notte / che mi facesse trasecolare al risveglio; quando si dava nuova lena alla / corsa col cerchio lungo tutte le strade / polverose della contrada … / sporchi e sudati ci si bagnava nudi / al ruscello, tra i fichi e i cotogni / della valle ed il declivio dei vitigni».

Quasi costretto dal parroco, si iscrive poi al Seminario diocesano (dove pure trova degli amici, come Antonio Francesco Spada) e svolge  gli studi superiori a Bosa, la città ancora oggi cara alla memoria, con il suo fiume, con l’isola alla foce del Temo, con i suoi gabbiani incantati, ma anche con la gente che festeggia un carnevale trasgressivo, che a Biddau appare violenta e rissosa, quasi allucinata. Con questa violenza nei confronti di un somarello subissato di colpi e dei cani inseguiti dai monelli.

E poi Cagliari, Genova, nel 1967 la grande occasione, la laurea in Lettere alla Sorbonne di Parigi, il riconoscimento ad Ozieri per le sue poesie in lingua sarda; infine gli studi ad Urbino, alla scuola del rettore Carlo Bo, la tesi di laurea in Lingue straniere.

Un’esperienza, questa di Urbino, interrotta nel 1970, allorché Biddau sceglie il ritorno in Sardegna e l’insegnamento ad Oristano: questa strada però si rivela impossibile: l’insegnamento è una vita che non fa per lui. Nascono i problemi di salute, le difficoltà, si impone il ritorno nel paese della sua infanzia, Modolo, dove da allora si dedica alla letteratura ed agli studi prediletti, soprattutto ai suoi animali.

La lirica di Orlando Biddau è ricca di stimoli letterari, ma la sua originalità è rappresentata dal ruolo degli animali, visti nelle loro sofferenze, nelle loro angosce, nei loro sentimenti che li avvicinano in modo impressionante agli uomini: «Sono il gufo cieco che non trova / riparo alla bufera notturna». C’è un episodio della sua infanzia che lo condiziona, la morte dell’agnellino che gli era stato regalato da bambino, qui in questi viottoli di Modolo: «giocavo con l’agnello della mia verde infanzia / fu sgozzato per pasqua: interminabile pomeriggio / in cui digiuno girovagai per i campi / tra i miei mesti olivi e lo stormire del vento».

Da allora il demone lo assale e la notte del poeta è ormai popolata da incubi, da rimorsi, dalla disperazione, dall’angoscia, quando si affollano i pensieri di morte, che sono come il lamento del cardellino accecato: «non ho che i miei occhi da cavare, perché la vita è spietata / e l’innocente muore col cuore nel fango».

Il rigoglio della primavera aggiunge angoscia ad angoscia: «Son condannato alla mola dei giorni / e il cavallo cieco non ricorda la strada». E allora la solitudine, il tedio, lo sconforto per quello che non è stato: «Sperperai le mie primavere / in un sonno malsano, e al risveglio, / non avevo che il silenzio del gufo, / ed un verme nel cuore».

La sua disperazione è innanzi tutto una malattia, l’«inadeguatezza a vivere», che lo segna «come i tatuaggi indelebili della gente di mare o di carcere». I ricordi lo tormentano, perché nulla è lacerante come la memoria, che sanguina a toccarla.

C’è un episodio che ha segnato la sua adolescenza, una svolta, un momento tragico, la morte della madre, una donna semplice e triste, che ha lasciato in lui un’impronta profonda: «Sempre più arduo, solitario e smarrito / è il mio sentiero dacché tu non sei più / a consolarmi con le tue mani diafane / e la voce trepida e apprensiva / di chi timida visse in silenzio / un’attesa di lunghi anni d’infamia / e di condanna sognando di visitare di notte una tomba / col mio nome infangato e infranto / che ripulivi con furtive lacrime». E l’infamia è il ricovero del padre e di lui stesso in un ospedale psichiatrico, disposto dalle autorità implacabili e vendicative.  E quando ritrova la memoria si dispera: «T’ho trovato, madre, nel buio / miele d’una lunga insonne notte / d’inverno. Il focolare spento, e il vento ramingo ululava con la gola / nera e insondabile della malaventura, dal camino deserto».

C’è poi un altro personaggio, nelle poesie di Orlando Biddau, ed è Anna, sua moglie, poetessa anch’essa, «una ragazza / minuta e spaurita, permalosa / e imprevedibile, dai capelli corvini / e gli occhi fondi d’apprensione / selvaggia, quasi in essi si dibattesse / una lucertola colta al laccio»: «strana ragazza, che veleno sprizzi a ogni tua / impronta». È lei, con il suo morso di murena, con la sua unghiata di predace, la sola che ha avuto comprensione per il poeta «depresso da idee persistenti di morte», la sola con la quale il poeta può vivere, perché «è meglio la tua scossa di torpedine / insabbiata in un dolore torbido e bieco / che la felicità d’un insano mortorio». È lei, questo «scricciolo spaurito dalla furia delle intemperie», che riesce a donare la gioia nei momenti di abbandono. È lei che consente al poeta di trovare «la mia porzione di cielo e una stella fissa nel nero notturno che m’avvolge»; è lei che rimette in moto un cuore guasto da anni.

L’uno e l’altra si sorreggono a vicenda contro «la facile pietà, i mormorii e gli sguardi / obliqui» della gente; eppure «per noi non c’è posto al banchetto, / si chiude la porta che dà nella sala». Del resto la convivenza tra i due sfortunati è difficile: «Se il comune sentiero dovesse biforcare, / l’incubo della tua assenza s’addolcirà / nel tempo come sorba o dattero o corbezzolo, / solo per il calore assicurato a una casa».

Alle volte si cerca insieme la fine del tormento: «Solo una morte precoce potrà assicurarci il riscatto e il riposo sotto un unico cippo»; e allora «la tua garrula voce di tordo s’incupirà / subitanea, il tuo riso arguto si rannuvolerà, / e moriremo affiancati in un sonno comune».

C’è nell’opera di Biddau la spiegazione del suo ripiegarsi su se stesso, del suo ritorno alle radici ed all’infanzia, del suo chiudersi nel paesaggio amato della sua valle e del suo piccolo paese, Modolo: nei suoi viaggi all’estero ha sempre cercato i paesaggi che gli ricordassero la sua terra, la sua dimensione vera di vita, quasi come un bimbo che torna nel grembo materno. Così in Spagna: «a Siviglia consumai la mia inquietudine, per ritrovare all’Alhambra / di Granada e nei vicoletti e piazzuole della Cattedrale / il filo conduttore che mi avrebbe riportato al mio paesaggio».

Solo a Modolo, però, può «aspirare l’antico odore d’infanzia, / può rinascere lieve l’illusione, / rinverdire la formula, l’idillio / che schiuda l’incantesimo».

E qui fioriscono i ricordi che lo rasserenano, come i ricordi della casa della sua infanzia: «il granaio con la frutta appesa ad essiccare e i mazzi d’aglio e di cipolle / le ghirlande di sorbe, i grappoli / d’uva, le noci e le mandorle / le grosse collane di fichi, / le pere e le melagrane / e le melerose, odorose / di tutte le primavere di mia nonna ». Le gioie che ancora prova sono quelle legate alle vendemmie, alle mietiture, ai pascoli, alla raccolta delle olive, ma sempre con una punta di disperazione.

Con le sue straordinarie poesie, Orlando Biddau riesce a condurci per mano a toccare le profondità inquietanti di un’esistenza smarrita, di un abisso di pena che è anche fatto di consapevolezza, di vigile osservazione di se stesso, di simpatia e di partecipazione per il dolore del mondo.




CONVEGNO NUOVE ALLEANZE. DIRITTO ED ECONOMIA PER LA CULTURA E L’ ARTE

CONVEGNO NUOVE ALLEANZE. DIRITTO ED ECONOMIA PER LA CULTURA E L’ ARTE
NUORO 14-15 ottobre 2011

ATTILIO MASTINO

LEGISLAZIONE NAZIONALE E LEGISLAZIONE REGIONALE DELLA SARDEGNA. IL CASO DEI MUSEI: UN’OCCASIONE (PERDUTA?) PER LO SVILUPPO ECONOMICO?

Gli Atenei della Sardegna, quello di Cagliari e il nostro di Sassari, partecipano da decenni al processo di alta formazione degli operatori dei Beni Culturali.

Attualmente l’ Università di Sassari  così come l’Università di Cagliari propongono nei rispettivi Manifesti degli Studi  un corso di Laurea Triennale in Scienze dei Beni Culturali e un corso di Laurea Magistrale in Archeologia.

Si aggiungano le Scuole di Specializzazione in Beni Culturali dei Due Atenei sardi, il cui Diploma è indispensabile per la partecipazione ai concorsi statali, regionali e degli Enti Locali per le professioni culturali.

In particolare da quest’ anno l’ Università di Sassari attiva a Nuoro le due Scuole di Specializzazione in Beni Demoetno antropologici e in Beni Archivistici, mentre è attiva dallo scorso anno in Oristano la Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici, denominata Nesiotikà, aperta in particolare all’ Archeologia delle isole del Mare Nostrum e del Mare externum  ed all’ Archeologia subacquea e dei paesaggi costieri.

A fronte di questa  didattica universitaria le possibilità di inserimento dei nostri giovani Laureati e Specializzati nei luoghi di cultura della Sardegna sono limitate a causa di un profondo gap fra le gestioni attuali dei beni culturali  degli Enti Locali  in Sardegna  e le auspicate gestioni future che, di necessità, accolgano le figurte professionali da noi formate.

La nostra analisi deve partire dalla L. R. 15 ottobre 1997, n. 26 dettante norme sulla Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna  con la quale vengono individuati  gli strumenti operativi in leggi di settore che dovranno disciplinare :(omissis)

b) il sistema museale e monumentale della Sardegna che: 1) cura la valorizzazione, la crescita e la fruizione, diffuse e coordinate, dei musei e delle pinacoteche, nonchè dei beni storici, archeologici, antropologici, artistici architettonici, paesaggistici ed ambientali, meritevoli di tutela e di memoria collettiva esistenti in Sardegna, anche favorendo la nascita di nuove raccolte espositive.

È stato necessario attendere la Deliberazione di G.R. 36 / 5 del 26 luglio 2005, contenente il Documento d’indirizzo politico-amministrativo sul “Sistema regionale dei musei. Piano di razionalizzazione e sviluppo”,  per disporre per la prima volta di una organica proposta sul sistema museale della Sardegna, cui seguì  il 
Disegno di legge concernente “Norme in materia di beni culturali, istituti e luoghi della cultura” approvato con deliberazione di G. R. 10 / 4  del 14 marzo 2006, trasformato dal Consiglio Regionale nella L. R. 20 settembre 2006, n. 14, attualmente vigente, seppure con varie modifiche.

La Legge Regionale 14 / 2006 è uno strumento normativo di notevole interesse e portata giuridica, che si inserisce nella cornice della legislazione nazionale del Codice deio Beni Culturali e del Paesaggio[1] e, per quanto concerne i Musei, nel solco dei riferimenti normativi e tecnico-scientifici dell’ Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei  (art. 150, comma 6, del D.L. n. 112 del 1998) contenuto nel D.M. 10 Maggio 2001 del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

Nella L.R. 14 / 2006 il sintagma Sistemi museali possiede 13 citazioni, negli articoli 5, 6, 7, 12 (dedicato integralmente ai Sistemi Museali) e 21.

La  Sardegna giungeva così con notevole ritardo rispetto al resto d’ Italia e d’ Europa a concepire un Sistema Regionale Museale con una rete di sottosistemi provinciali, nei quali integrare gli Istituti museali e le Raccolte museali comunali.

Purtroppo la L. R. 14 / 2006 giungeva in un momento storico ritardato in cui le istanze culturali ed identitarie dei singoli Comuni, spesso in assenza di rigorosi presupposti museologici e museografici, avevano ottenuto corposi finanziamenti soprattutto Regionali, determinanti nella  creazione di una pletora di «Musei» locali, privi in molteplici casi delle indispensabili figure professionali al funzionamento culturale e sociale dei sedicenti «Musei».

Può essere interessante notare che l’ Isola conobbe la Fondazione di Musei a partire dall’ Ottocento con i Musei Universitari di Cagliari (1806) e di Sassari (1878), trasformati in Musei Archeologicio Nazionali, mentre  solamente negli Anni Trenta del XX secolo furono istituiti i primi musei locali della Sardegna: la Galleria comunale d’ Arte di Cagliari (1933) e l’ Antiquarium Arborense di Oristano (1938). Non a caso la Galleria d’ Arte cagliaritana condivide  esclusivamente con l’ Antiquarium Arborense il rango di museo di ente locale ex lege 1080 / 1960 e la classificazione ex d.m. (Ministero degli Interni e Ministero della Pubblica Istruzione) del 15 settembre 1965, rispettivamente di museo medio e museo minore.

Il capoluogo di provincia Nuoro ebbe la istituzione  del Museo del Costume sul Colle S. Onofrio ai primi anni Sessanta del XX secolo, poi integrato nell’ Istituto Superiore Regionale Etnografico, dotato anche del Museo Deleddiano il il 5 marzo 1983, mentre  il 23 ottobre 1978, in occasione della XXII Riunione dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, fu inaugurato a Nuoro il Museo Civico Speleo-Archeologico, divenuto infine Museo Archeologico Nazionale. Per i Musei Locali dobbiamo attendere il 1982 con la istituzione del Museo civico di Villanovaforru: erano passati  44 anni dalla nascita dell’ Antiquarium Arborense. Da quel momento iniziò una gara municipalistica fra le Amministrazioni Comunali dell’ Isola  per creare il proprio Museo Archeologico e / o Demo Etno Antropologico, inquadrando in ambito pubblico anche lodevolissime iniziative private.

Solo gli Enti ecclesiastici si salvarono da questo clima di “ musealizzazione” a tappe forzate della Sardegna e forti della conservazione del proprio secolare patrimonio diedero luogo ad importanti iniziative museali prevalentemente a livello Diocesano.

Il quadro dei Musei della Sardegna nel primo decennio del XXI secolo  è ricco di chiaroscuro, da una parte con musei affermati, connessi con il proprio territorio,  oggetto di costante attività di ricerca scientifica e di esposizioni temporanee, fra i quali citiamo, fra gli altri,  i Musei Archeologici Nazionali di Cagliari, Nuoro, Sassari- Porto Torres, la Pinacoteca Nazionale di Cagliari e il Museo Canopoleno di Sassari,  la Galleria Comunale d’ Arte di Cagliari, il Museo di Palazzo Zapata di Barumini, il Museo Ferruccio Barreca di Sant’ Antioco, il Museo Civico di Villanovaforru, il Museo di Cabras, il Museo di Casa Atzori di Paulilatino, il Museo Civico di Ozieri, il Museo di Perfugas, i Musei dell’ ISRE ed il MAN di Nuoro, dall’ altra con  «musei » ripetitivi, privi di ordinamento scientifico, non dotati di operatori tecnico-scientifici.  Questi ultimi sono certamente in maggior numero rispetto ai primi.

La chiave di volta per una rivoluzione nel sistema museale della Sardegna (comprendendo in questo termini, ai sensi della L. R. 14 / 2006 «le raccolte museali, comprese quelle relative ai temi dell’emigrazione, le aree e i parchi archeologici, i complessi monumentali, gli ecomusei, i siti di interesse naturalistico e i beni mobili e immobili, di proprietà pubblica e privata, che rivestono particolare interesse e che possono essere funzionalmente integrati nell’organizzazione museale regionale» sarà in una rigorosa applicazione della stessa Legge Regionale sui Beni Culturali attrtaverso la costruzione di un consenso delle comunità locali che rinunzino all’ ottusità delle guerre di campanile.

A fronte di un panorama di gestione dei Beni museali della Sardegna limitato fino agli anni Settanta del XX secolo agli operatori delle Soprintendenze competenti per quanto attiene i Musei archeologici nazionali di Cagliari e Sassari, la Pinacoteca nazionale di Cagliari, il Compendio Garibaldino di Caprera, ed agli «assuntori di custodia» di alcune aree archeologiche come Nora e Tharros, alla Direzione ed al personale dei Musei dell’ ISRE a Nuoro, ed ai Direttori della Galleria d’ Arte di Cagliari e dell’ Antiquarium Arborense di Oristano, sta la «rivoluzione gestionale» dei Musei indotta da un lato dalla costituzione in pianta organica di alcuni Comuni, in primis quello di Villanovaforru, di curatori museali e di  altro personale museale, dall’ altro e soprattutto dalla legislazione regionale con l’ art. 11 della Legge Regionale 7 giugno 1984, n. 28, recante Provvedimenti urgenti per favorire l’occupazione:

Contributi in favore di Comuni, Province e Comunità montane

I Comuni, singoli o associati, le Province e le Comunità montane che promuovano la realizzazione di attività nel settore dei servizi sociali e nei settori della tutela e valorizzazione dei beni ambientali e culturali, da affidare in convenzione alle cooperative o società giovanili costituite ai sensi dell’articolo 1, possono beneficiare di un contributo a valere sulla presente legge pari al 70 per cento dei costi dell’attività affidata dai suddetti enti.

La quota di cofinanziamento regionale fu elevata  al 90 per cento dei costi dell’ attività nei settori della tutela e valorizzazione dei beni ambientali e culturali dall’ art. 38 della  L.R. 20 aprile 2000, n. 4.

L’ impatto della L.R. 28 /84 sulla gestione dei Beni Culturali della Sardegna fu fondamentale, poiché, restringendoci ai Beni Museali  ed ai siti archeologici, si poté assicurare una gestione indiretta, tramite affidamento a società giovanili,  di tali beni  da parte degli Enti pubblici territoriali nei cui ambiti ricadevano musei e siti archeologici, benché sul piano giuridico facesse difetto spesso agli stessi Enti Pubblici Territoriali la pertinenza dei Beni, per lo più demaniali ex art. 822 C.C. o pertinenti al patrimonio indisponibile dello Stato ex art. 826 C.C.

A fronte di questo risultato positivo si è riscontrata la generale scarsità di figure professionali specifiche dell’ attività museale, in considerazione della bassissima percentuale di personale laureato (circa  4 %) tra gli operatori museali inquadrati come soci o personale dipendente delle società che avevano ottenuto in appalto i servizi museali ed, inoltre, la pervicace volontà della maggior parte degli Enti Pubbici Territoriali a rivendicare l’ autonomia nella gestione dei Beni Culturali ad essi pertinenti a discapito di forme effettivamente sistemiche, che pure si sono in qualche caso affermate, come ad esempio nel Consorzio Sa Corona Arrubia o nel caso dei Celeberrimi populi Anglona- Goceano-Monte Acuto.

L’ abrogazione dell’ art. 38 della  L.R. 20 aprile 2000, n. 4 dal co. 1 p dell’ art 23 della L. R. 14 / 2006  ha posto le premesse per una nuova «rivoluzione copernicana» della gestione dei Beni Culturali in ambito di sistemi museali, con il raggiungimento dei requisiti minimi di qualità e di personale in parallelo con la normativa nazionale.

Deve, con rammarico, considerarsi una occasione perduta la mancata approvazione, nelle forme stabilite dalla L.R. 14 / 2006, del Piano regionale triennale per i beni culturali, gli istituti e i luoghi di cultura 2008-2010, unico strumento secondo la suddetta L.R. 14 / 2006, capace di dettare criteri e principi anche per la gestione dei beni culturali.

In realtà, dopo il D. Lgs 42 / 2004  (Codice Urbani) ed in coerenza con esso, la Regione Sardegna volle adottare una disciplina sulla gestione dei servizi pubblici locali privi di rilevanza economica, fra i quali in primis la dottrina e la giurisprudenza hanno riconosciuto i servizi culturali ed in specie quelli museali.

Il Codice Urbani  ha ispirato alla Regione Sarda, che possiede potestà legislativa primaria nel campo dei Musei locali, la normativa costituita dai commi 7-9 dell’ art. 37 della L. R. 7 / 2005, non ancora abrogati, sulla gestione dei Beni Culturali, compresi tra i “servizi pubblici locali privi di rilevanza economica”:

7. Gli enti pubblici territoriali della Sardegna sono autorizzati a gestire in forma indiretta o diretta i servizi pubblici locali privi di rilevanza economica.
8. La gestione in forma indiretta può attuarsi tramite concessione a terzi, in conformità alle vigenti norme in materia di scelta del contraente, ovvero mediante affidamenti diretti a soggetti costituiti o partecipati, in misura prevalente, dall’ente pubblico territoriale interessato. Il rapporto tra l’ente pubblico territoriale titolare dell’attività e l’affidatario o il concessionario è regolato con contratto di servizio, nel quale sono specificati, tra l’altro, gli indirizzi e le modalità di controllo spettanti all’ente pubblico, la durata dell’affidamento, i livelli qualitativi d’erogazione e di professionalità degli addetti.
9. La forma diretta può essere utilizzata quando, per le modeste dimensioni del servizio o per le caratteristiche dell’attività, non sia opportuno procedere con l’affidamento di cui al comma 8.

Come si può osservare dal confronto tra la primitiva formulazione dell’ art. 115 del Codice Urbani e i commi 7-9 dell’ art. 37 della L. R. 7 / 2005 questi derivano la disciplina regionale dal testo nazionale con una sostanziale differenza:  gli Enti Pubblici Territoriali della Sardegna possono ricorrere alla concessione a terzi per la gestione dei Beni culturali, mentre tale gestione era riservata dal Codice Urbani esclusivamente allo Stato e alle Regioni. La Regione Sarda ha normato, dunque, la piena legittimità sia della gestione diretta, sia della gestione indiretta dei Beni Culturali degli Enti Pubblici Territoriali, risultando in capo agli Enti Locali la scelta motivata di uno dei due sistemi di gestione. La Regione Sardegna volle darsi una norma sulla gestione dei Beni Culturali poiché la dottrina aveva immediatamente censurato la formulazione dell’ art. 115 del Codice Urbani in quanto considerata compressiva dell’ autonomia delle Regioni, tanto più che la sentenza della Corte Costituzionale 13 luglio 2004, n. 272 aveva dichiarato l’ illegittimità del comma 3 dell’ art. 113 bis del T. U. degli Enti Locali, introdotto dall’ art. 35, comma 15 della L. 28 dicembre 2001, n. 448, dichiarante “Gli Enti Locali possono procedere all’ affidamento diretto dei servizi culturali e del tempo libero anche ad associazioni e fondazioni da loro costituite o partecipate” “proprio sulla base della considerazione che, non sussistendo in materia  esigenze di tutela della liberta di concorrenza” la disciplina di dettaglio “si configura come illegittima compressione dell’ autonomia regionale e locale”. A complicare il quadro, tuttavia, si è posta la Giurisprudenza europea che ha suggerito  una profonda modifica dell’ art. 115 del Codice dei Beni Culturali, inerente la forma di gestione. Il D. Lgs. 156 / 2006 ha riscritto l’ art. 115 del Codice Urbani, lasciando vigente nella forma del Codice Urbani l’ art. 117: il nuovo articolo 115 contempla la gestione diretta o indiretta ed esclude gli affidamenti diretti a soggetti costituiti o partecipati, in misura prevalente, dall’ente pubblico territoriale interessato. È scomparsa, dunque, dalla legislazione nazionale, impegnativa per lo Stato, le Regioni e gli altri enti pubblici territoriali, la possibilità di affidamento diretto della gestione dei Beni Culturali a società pubblico-private partecipate in maniera prevalente dall’ Ente Pubblico, poiché l’ affidamento diretto a tale società avrebbe leso la libertà di concorrenza.

Attualmente in base al comma 8 della L.R. 7 /2005 sarebbe, invece,  ancora vigente per gli Enti Pubblici Territoriali della Sardegna la possibilità di ricorrere all’ affidamento diretto della gestione dei Beni Culturali a società pubblico-private partecipate in maniera prevalente dall’ Ente Pubblico, possibilità esclusa tassativamente dalla nuova disciplina della gestione dei BB.CC. stabilita dal D. Lgs. 156 / 2006 e successive modifiche.

Una soluzione ai problemi interpretativi del nuovo art. 115 del Codice Urbani è venuta dalla Dottrina immediatamente successiva alla promulgazione del D. Lgs. 156 / 2006.

Il più articolato contributo è quello di Girolamo Sciullo:

è da pensare che la formulazione dell’ art. 115, comma 2, disciplinante le ipotesi di gestione diretta, sia da reputarsi non tassativa e perciò tale da non escludere una sua interpretazione estensiva in grado di comprendere anche il caso in cui alle Fondazioni (e in genere ai soggetti costituiti ex art. 112, comma 5 “lo stato, le regioni egli altri enti pubblici territoriali  possono costituire appositi soggetti giuridici ‘ ad. Es. le fondazioni.”) sia stato conferito in uso il bene della cui valorizzazione si tratta.

La situazione è mutata ancora per quanto attiene la normativa sulla gestione dei Beni Culturali: abbiamo l’ art. 14 della  Legge 29 novembre 2007, n. 222, relativo alla Razionalizzazione dei servizi aggiuntivi – Beni culturali, che ha determinato La nuova disciplina dei servizi aggiuntivi dei musei statali: il D.M. 29 gennaio 2008: Modalità di affidamento a privati e di gestione integrata 
dei servizi aggiuntivi presso istituti e luoghi della cultura.

Questo D. M. può estendere la propria efficacia sia in termini di modello per i servizi integrati  di Musei e altri Istituti non statali, inoltre, all’ art. 3, comma 6, si stabilisce che

che la disciplina del Decreto  può trovare applicazione anche nei confronti di musei delle regioni e degli enti locali se coinvolti in una gestione integrata, tramite l’accordo di cooperazione istituzionale, stipulato tra amministrazione statale e amministrazioni regionali e locali ai sensi dell’art. 112, commi 4 e 6,  del d.lgs. 42/2004.

I modelli gestionali del suddetto decreto sono  la gestione diretta e la gestione integrata delle attività museali, la cui scelta discende dalla valutazione delle Istituzioni.

La gestione diretta potrà attuarsi in presenza di mezzi economici, finanziari e del personale necessario. L’ esternalizzazione impone la gestione integratas delle attività da assegnare ad un’ impresa tramite procedura concorsuale.

Attualmente sono vigenti, con il loro potere di indirizzo e di cornice anche per le legislazioni regionali, gli articoli 115 e 117 del codice Urbani così come riformulati dal d.lgs. n. 62 del 26 marzo 2008, che fra l’ altro adopera il sintagma di “servizi per il pubblico” al posto di “servizi aggiuntivi.

Tuttavia,  nonostante le previsioni normative della L. R. 14 / 2006, sulla gestione dei Musei e dei Sistemi museali, il quadro gestionale sardo non è mutato rispetto alla situazione ante legem.

A fronte di questo quadro normativo estremamente complesso  può auspicarsi che la Regione Sardegna, in forza della propria potestà legislativa primaria nel campo dei Musei locali, possa formulare, con la  revisione della L.R. 14 / 2006 in coerenza con la rilevata cornice legislativa nazionale, una norma di gestione dei Beni Culturali che consacri definitivamente l’ opzione di un sistema museale regionale, suddiviso in sistemi provinciali, assicurando le risorse finanziarie esclusivamente agli Enti Pubblici Territoriali inseriti nei Sistemi museali, previa verifica positiva del raggiungimento degli standard tecnico-scientifici di qualità dei musei pertinenti a ciascun sistema museale.

In questa prospettiva nuova dovranno trovare luogo le sinergie  interistituzionali tra i fondamentali Istituti Museali statali, i Musei Regionali di antica e nuova istituzione, fra cui il Museo dell’Identità di Nuoro ed il Museo della Sardegna Giudicale di Oristano-Sanluri in corso di  costituzione, i Musei degli Enti Locali, i Musei Ecclesiastici, i parchi archeologici, le aree archeologiche, i beni monumentali etc.

Il Sistema Museale della Sardegna è il Sistema identitario di tutto il popolo sardo e di tutti gli attori istituzionali (statali, regionali, provinciali, comunali, ecclesiastici, universitari) che cooperano per il comune obiettivo della conservazione, valorizzazione e fruizione del Patrimonio Culturale.


[1] D.Lgs 42 /2004 e successive modifiche dei D. Lgs. 156 e 157 / 2006 e D. Lgs. 62 /2008.




NUR: dal passato il futuro tra visioni e “mal di Sardegna”

Invito alla Gente di Sardegna al convegno:

NUR: dal passato il futuro

tra visioni e “mal di Sardegna”

che si terrà a Siligo (SS) sabato 1 ottobre 2011 alle ore 17.30 presso il Centro di Aggregazione Sociale  in Piazza Maria Carta.

 

Relatori:

 

Attilio Mastino

Rettore dell’Università di Sassari

Vindice Lecis

Giornalista del Gruppo Espresso, scrittore

Gavino Maieli

Direttore della Rivista NUR

Interverranno:

M. Antonietta Seu Deiana

Condirettore della Rivista NUR

Enrico Fanni

Presidente dell’Associazione Microstoria Sardegna

Moderatore:

Tonino Oppes

Giornalista RAI, scrittore

Nell’occasione verrà presentato il Numero Zero della nuova edizione di NUR




II Conferenza regionale per la ricerca e l’innovazione.

Attilio Mastino, Rettore Università degli Studi di Sassari
II Conferenza regionale per la ricerca e l’innovazione
Cagliari, 13 settembre 2011

Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet;
multa saeculis tunc futuris,
cum memoria nostra exoleverit, reservantur:

pusilla res mundus est, nisi in illo quod quaerat omnis mundus habeat.

Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalla generazione futura;
molte cose sono riservate a generazioni ancora più lontane nel tempo,
quando di noi anche il ricordo sarà svanito:
il mondo sarebbe una ben piccola cosa se l’umanità non vi trovasse materia per fare ricerche.

Seneca, Questioni naturali, VII,30,5

Porto il cordialissimo saluto dei ricercatori, del personale e degli studenti della Università di Sassari, a questa II Conferenza regionale per la ricerca e la innovazione voluta dall’Assessore Giorgio La Spisa, dopo quella dell’anno scorso. Due giornate che si stanno concentrando intorno al tema delle sfide in atto, alle nuove politiche regionali, al capitale umano, alla formazione dei giovani, all’internazionalizzazione, alla valutazione, alle piattaforme tecnologiche, alla innovazione in Sardegna e nel Mezzogiorno: un evento con contenuti non scontrati, un fatto nuovo, una occasione che testimonia la complessità dei problemi, delle questioni che noi abbiamo di fronte e con le quali giorno per giorno dobbiamo confrontarci.

Siamo veramente orgogliosi di prendere parte come Università a questa II Conferenza, che non è stata e non sarà una semplice celebrazione con l’enunciazione di buoni propositi e il rituale logoro di annunci che non saranno accompagnati dai fatti, ma che può veramente entrare nei problemi e segnalare tante criticità, tanti elementi di riflessione, tanti obiettivi da perseguire con rigore e senso di responsabilità che ci sono imposti dalla crisi economica e anche culturale che il paese sta attraversando. Le Università stanno profondamente cambiando ed abbiamo trascorso gli ultimi 6 mesi a riflettere sul nuovo statuto ed a dare esecuzione alla legge 240 voluta dal Ministro Gelmini, una legge che avremmo voluto più generosa e meno punitiva ma che ora dobbiamo applicare cogliendo tutti gli spazi di democrazia e di partecipazione, ribadendo i principi delle pari opportunità, del diritto allo studio, della dignità del lavoro e del contrasto al precariato, della promozione del merito e delle competenze, della programmazione e della valutazione, della trasparenza. Vorremmo raggiungere un obiettivo ambizioso,  aumentare la produttività, innalzare il numero degli iscritti, dunque il numero dei laureati specie nelle discipline scientifiche, degli specializzati, dei dottori di ricerca.  Ridurre il numero dei falsi studenti, promuovere l’internazionalizzazione, gli scambi Erasmus, la mobilità, lo sviluppo dell’ITC, la conoscenza delle lingue straniere, combattere nuove forme di analfabetismo e introdurre una formazione più lunga. Soprattutto sostenere la ricerca di eccellenza capace di introdurre innovazioni nei diversi campi del sapere.  Il quadro disegnato dalla legge Gelmini alla ricerca dell’efficienza degli Atenei si dovrà comunque confrontare con la capacità di coinvolgimento delle persone, con la adozione partecipata degli obiettivi prioritari da raggiungere, con politiche di sussidiarietà e di integrazione che correggano il modello centralistico di base che ci preoccupa non poco.

C’è un compito che ci aspetta e ritardi che si sono accumulati specialmente in un Ateneo come il nostro che quest’anno celebrerà i suoi 450 anni di vita, rivendicando una dimensione internazionale originaria.

Nel richiamare le proprie radici storiche, l’Ateneo sta avviando un percorso di rifondazione come Università pubblica, all’interno di un sistema internazionale più competitivo e globale, ispirandosi ai principi di autonomia e di responsabilità; è consapevole della ricchezza e complessità delle tradizioni accademiche e del valore delle diverse identità. Si dà un ordinamento stabile, afferma il metodo democratico nella elezione degli organi, si dichiara attento al tema della formazione delle giovani generazioni e alle esigenze del diritto allo studio; colloca lo studente al centro delle politiche accademiche e promuove la cultura come bene comune. Rivendica i valori costituzionali, previsti per le «istituzioni di alta cultura», della libertà di scelta degli studi, di ricerca e di insegnamento, assicurando tutte le condizioni adeguate e necessarie per renderla effettiva. Si impegna a promuovere, d’intesa con le altre istituzioni autonomistiche, lo sviluppo sostenibile della Sardegna e a trasferire le conoscenze nel territorio, operando per il progresso culturale, civile, economico e sociale.

C’è un articolo nel nuovo statuto dedicato alla promozione del progresso, al libero confronto delle idee e alla diffusione dei risultati scientifici, favorendo lo sviluppo sostenibile e la tutela dell’ambiente, inteso come sistema di risorse naturali, sociali ed economiche. L’Ateneo ritiene che la conoscenza sia un bene comune e ne favorisce pertanto libera circolazione e la più ampia diffusione.

In particolare, si candida a partecipare alla definizione delle politiche pubbliche e delle scelte fondamentali relative allo sviluppo territoriale e può agire in accordo con gli operatori economici, il mondo produttivo, gli ordini professionali, i sindacati e le altre espressioni del mondo della cooperazione, del volontariato e del terzo settore.

L’art.7 dedicato alla ricerca precisa che l’Ateneo promuove e organizza la ricerca libera e orientata nei diversi ambiti disciplinari, contribuendo all’avanzamento culturale, scientifico, sociale ed economico locale, nazionale e internazionale.

A tale fine, in particolare:

– riconosce il libero movimento dei ricercatori e concorre alla crescita dello Spazio Europeo della Ricerca attraverso la selezione e la valorizzazione del proprio potenziale di ricerca;

– favorisce la collaborazione fra le diverse aree del sapere, l’integrazione e l’interdisciplinarità, per rispondere alle esigenze della società e rafforzare la propria competitività;

– promuove l’integrazione fra scienza e tecnologia per contribuire alla crescita e all’innovazione del sistema produttivo attraverso la valorizzazione e il trasferimento dei risultati della ricerca scientifica;

– orienta l’evoluzione della ricerca e l’aggiornamento delle tematiche di studio, favorendo l’interdipendenza fra ricerca e didattica.

La legge Gelmini crea positivamente una cellula di base, uno spazio nel quale ricerca e alta formazione si toccano, il dipartimento, che organizza e promuove le attività di ricerca scientifica, favorendo la collaborazione fra le diverse aree del sapere e l’interdisciplinarità, adottando il piano complessivo di sviluppo della ricerca e della didattica, approvando i programmi di ricerca interdipartimentali. E insieme organizzando le attività didattiche, i corsi di studio, i dottorati di ricerca come palestra per le nuove generazioni. All’interno dei dipartimenti verrà costituto un Comitato per la ricerca che svolgerà attività di coordinamento, di promozione e di reperimento di finanziamenti, elaborerà il piano di sviluppo della ricerca fissando gli obiettivi strategici e operativi, svolgendo la funzione di monitoraggio delle performance, presenterà una relazione sulle attività svolte, da sottoporre al Consiglio del Dipartimento.

L’articolo 58 dello statuto fissa i rapporti con la Regione Sardegna  allo scopo di inserire l’attività universitaria nei processi di sviluppo operando per il progresso culturale, civile, economico e sociale della Regione e per diffondere nel territorio le conoscenze scientifiche e le esperienze didattiche più avanzate a livello internazionale. L’Ateneo stipula con la Regione un’intesa triennale che consenta di interagire positivamente con le politiche regionali e di indirizzare gli investimenti sugli obiettivi strategici di medio e lungo termine nel campo dell’alta formazione, della ricerca, del trasferimento tecnologico, dell’assistenza, con definizione di meccanismi competitivi e di forme di premialità. Segue un comma di cui siamo particolarmente orgogliosi, che non può essere interpretato negativamente in senso localistico: l’Ateneo promuove la tutela e la conoscenza dei beni e delle fonti dell’identità locale, con particolare riferimento alle lingue delle minoranze e alla lingua sarda nelle sue articolazioni territoriali, alle risorse naturali, ai beni storici, culturali, ambientali, paesaggistici e architettonici, ai saperi e alle tradizioni locali, elementi distintivi di una identità e di un’appartenenza preziose in un mondo sempre più globalizzato e omologato.

Questa conferenza cade in un momento di profonda trasformazione per il paese e per la Sardegna, ma anche in un momento in cui si discutono, anche negativamente, il prestigio, il ruolo della scuola e dell’università pubblica, spesso incapaci di inserirsi in una dimensione sovrannazionale non sempre in grado di adeguarsi al velocissimo  progresso tecnologico, alle nuove tecnologie informatiche, alle recenti dinamiche economiche finanziarie, al mutamento delle professioni, alla innovazione continua che richiede una formazione continua.

La responsabilità dunque dell’università e della scuola in Italia, e particolarmente nel Mezzogiorno, è rilevante perché gli interventi innovativi in conoscenza avranno sicuramente riflessi positivi sull’intera società. C’è veramente però l’esigenza di far emergere nell’università le zone d’ombra, le incapacità di cogliere il nuovo, i ritardi, le difficoltà che dobbiamo affrontare con più consapevolezza. L’università arriva certamente in ritardo a confrontarsi con l’innovazione e ciò soprattutto in Sardegna eppure nei tempi del federalismo il punto di partenza contro ogni appiattimento e contro ogni omologazione deve essere quello del riconoscimento del valore e della diversità  dei territori che diventa capitale culturale, prezioso valore aggiunto se l’articolo 33 della Costituzione riconosce il significato straordinario dell’autonomia universitaria. Noi ci portiamo dietro delle tradizioni di studi che fanno parte della nostra identità di uomini di oggi e che possono costituire il lievito e la componente originale per il nostro entrare nel mondo delle nuove tecnologie.

L’università svolgerà un ruolo strategico di protagonista in Sardegna e nel Mediterraneo soprattutto se saprà stabilire rapporti e sinergie con grandi centri di eccellenza, a livello europeo, senza rinunciare ad una cooperazione però con la riva sud del Mediterraneo che favorisca un confronto culturale, che abbatta vecchi e nuovi steccati, che combatta la divaricazione che quasi inesorabilmente il mondo sta drammaticamente vivendo ancora oggi ad un decennio dall’11  settembre, con tante speranze come quelle alimentate dalle primavere arabe e dalla imbarazzante fuga di quegli esponenti che sono stati i più alti e osannati rappresentanti delle élites autoproclamatesi nel Maghreb dopo la fine del colonialismo europeo.

In questo quadro i giovani hanno diritto di ricevere dalle due università sarde non soltanto una formazione che consenta loro di confrontarsi ad armi pari in Europa con i loro coetanei, ma soprattutto devono ricevere stimoli, suggestioni, curiosità,  passioni che motivino il loro impegno futuro. Essi devono essere in grado di declinare con originalità e consapevolezza i grandi temi dei nostri giorni, la globalizzazione, il confronto tra culture, le identità plurali del Mediterraneo, partendo dalla nostra forte significativa e originale appartenenza sarda .

Raccogliendo una mia sollecitazione dell’anno scorso, l’Assessore Giorgio La Spisa ha voluto che una sezione dei nostri lavori fosse dedicata oggi alla ricerca umanistica, alla ricerca di base, ai valori diffusi, ai beni culturali, archeologici e ambientali, alla valorizzazione scientifica ed economica, sempre con l’occhio rivolto allo sviluppo della società locale, con una riscoperta dell’identità della Sardegna, con una valorizzazione delle appartenenze e del patrimonio. A me sembra che il tema del patrimonio richiamando la lezione di Giovanni Lilliu, debba entrare sempre più profondamente nelle politiche regionali, perché le competenze in materia di beni culturali sono costituzionalmente affidate alla Repubblica nelle sue articolazioni territoriali, dunque non soltanto allo Stato, ma anche alla Regione, alla Provincia, al Comune, insomma al sistema completo delle autonomie, e ciò a maggior ragione in Sardegna, regione a statuto speciale. Noi siamo per il trasferimento delle competenze in materia di beni culturali dallo Stato alla Regione, nei tempi del federalismo, perché il patrimonio culturale è un insieme di risorse umane e ambientali capaci di produrre una domanda sociale. Le ultime decisioni della Consulta per la ricerca e della Giunta Regionale vanno decisamente in questa direzione e mi sembra doveroso oggi darne atto pubblicamente, perché non possiamo non constatare che viene data attuazione alla legge 7 ed agli altri strumenti di programmazione con intelligenza e con la voglia di rispondere alle nuove sfide ed ai nuovi orizzonti alti che la Sardegna deve porsi per il suo futuro.

Naturalmente non ci nascondiamo i problemi, qualche volta i ritardi ed anche ne nostre incapacità: guardando un pochino dall’alto la ricerca, in Sardegna esistono dei problemi gravissimi che la classe politica si dovrebbe porre, innanzitutto esiste una forte esigenza di riequilibrio territoriale; la concentrazione degli investimenti soltanto in alcune realtà indebolisce fortemente il quadro regionale. C’è da lavorare veramente per censire, verificare, creare sinergie, con riferimento alle attività e tutti i soggetti, quindi CNR università, enti regionali. L’Università non contesta gli investimenti a favore degli altri Enti di ricerca, sostiene le politiche dei parchi, apprezza il nuovo corso di Porto Conte Ricerche, ma chiede che venga superata l’attuale  polarizzazione nella Sardegna meridionale, chiede sinergie e politiche di convergenza con Sardegna ricerche, anche attraverso una presenza dei due Atenei nel Comitato tecnico scientifico, richiede una compensazione territoriale con altri investimenti di AGRIS, di Porto Conte Ricerche, di Laore, di altri enti regionali che sviluppano attività di ricerca, in altri territori, nel cuore della Barbagia: erano inizialmente previsti nodi di Sardegna ricerche anche nel Nuorese, nell’Oristanese, nel Sassarese.

Devo dire che poi è evidente a tutti la debolezza di alcuni settori della ricerca e soprattutto è necessario creare massa critica legando i due atenei con un patto federativo più forte, dobbiamo costruire delle reti ed abbiamo dei settori da sviluppare. Stiamo iniziando a discutere i contenuti dell’intesa federale che stipuleremo all’indomani del varo dei nuovi statuti universitari.

Infine il tema della valutazione che peserà sempre di più come abbiamo visto ieri sul fondo di funzionamento ordinario degli Atenei. La nascita dell’ANVUR che sostituisce a tutti gli effetti il CIVR, i nuovi criteri di valutazione, i nuovi indicatori, richiedono un costante aggiornamento delle politiche universitarie ed il coinvolgimento del CNR degli enti di ricerca regionali, Sardegna ricerche, Porto Conte Ricerche, il CRS4, che non si possono sottrarre ad una valutazione dei costi e dei benefici e delle ricadute territoriali dei consistenti investimenti ottenuti. Dunque vorremmo che vengano in piena trasparenza valutati i prodotti della ricerca, le pubblicazioni, i brevetti, la gestione della proprietà individuale della ricerca, la nascita di nuove imprese, lo start up di nuove imprese innovative, alcuni spin off, l’organizzazione di progetti, di convegni, di altre attività, il trasferimento tecnologico.

In chiusura voglio ricordare l’esigenza di arrivare alla firma dell’intesa triennale che le due Università debbono ancora sottoscrivere spero in questo mese di settembre per gli anni 2011, 2012, 2013 con gli Assessori alla Programmazione ed alla Cultura: credo che l’appuntamento che noi abbiamo davanti sia una occasione preziosa per ridisegnare i rapporti tra il sistema universitario regionale articolato nei suoi due poli storici e la Regione Sarda, che insieme intendono definire un progetto ambizioso, con obiettivi condivisi, priorità, sistemi di valutazione e che insieme debbono rispondere alle recenti preoccupazioni della Corte dei conti, con il senso crescente di una responsabilità alta di fronte ai cittadini.

Mi sembra doveroso dare atto dell’impegno crescente della Regione negli ultimi anni a favore delle due Università della Sardegna in particolare sul fondo unico, la cui consistenza è stata notevolmente incrementata grazie all’impegno della Commissione cultura, della Commissione bilancio, presidenti Attilio Dedoni e Paolo Manichedda,  della Giunta, del Presidente Cappellacci, degli Assessori che si sono succeduti, da ultimo Giorgio La Spisa e Sergio Milia, di tutto il Consiglio Regionale. Il fondo unico deve assolutamente mantenere per i prossimi anni il livello del 2011, se vogliamo compensare i tagli disastrosi effettuati a danno degli Atenei sul fondo di funzionamento ordinario nazionale e se vogliamo evitare che i due Atenei della Sardegna vedano compromesso lo sforzo di crescita, siano condannati al blocco del turn over e costretti ad aumentare le tasse studentesche. E poi i tanti altri risultati ottenuti, i fondi per le sedi gemmate e l’Università diffusa, la mobilità studentesca che ha raggiunto risultati certamente straordinari, i visiting professors (nell’ultimo anno l’Università di Sassari ha ospitato quasi 200 docenti stranieri), il rientro dei cervelli che vi garantisco l’Ateneo ha gestito con trasparenza e rigore; i premi di produttività, la premialità per i progetti di ricerca. E poi i finanziamenti europei, il fondo europeo di sviluppo regionale, non solo, che ha consentito di finanziare dottorati di ricerca, sempre più vicini e calibrati sul mondo delle imprese, ha finanziato i progetti dei giovani ricercatori, i bandi della legge 7 per progetti di ricerca di base e orientati, i posti di ricercatore a tempo determinato. E poi i finanziamenti del settimo programma quadro, del Marittimo, dell’ENPI, la biblioteca scientifica regionale e infine la nuova anagrafe della ricerca che rende trasparente la ricerca universitaria. A tutto ciò si sommano gli investimenti che le due università hanno effettuato con fondi propri. Dunque ci sono molti passi in avanti significativi per rendere la Sardegna l’isola della ricerca, un modello anche per altre regioni per una nuova economia della ricerca, per aprirci, per creare reti, per aprire la Sardegna verso l’esterno, per essere capaci di accogliere e non di respingere al centro del Mediterraneo, per evitare di essere chiusi e ripiegati su noi stessi. Dunque si segnalano alcuni grandi temi sui quali si sta investendo. Consentitemi di rivendicare con orgoglio i risultati raggiunti, lepunte di eccellenza, il concentrarsi di nuclei di ricercatori.  Guardiamo con speranza verso la la bio medicina, le neuroscienze, l’agroalimentare, le nanotecnologie, l’ICT, le biotecnologie, l’energia verde, i nuovi materiali. Voglio ricordare la chimica verde anche con riferimento all’impegno che le università assumono nei confronti del territorio per valutare se alcune iniziative industriali sono velleitarie o se meritano viceversa attenzione da parte degli amministratori pubblici.  In Sardegna la ricerca scientifica è insieme espressione di una tradizione di studi secolare, di reti di rapporti stabiliti nel tempo, ma anche si inserisce sempre di più in una grande comunità europea internazionale, costituisce le fondamenta per quella che è ormai la terza missione dell’università: il servizio a favore del territorio sul piano assistenziale sanitario, ma anche sul piano ambientale, sul piano economico, sul piano sociale, sul piano industriale, ma anche sul piano del trasferimento tecnologico a favore delle aziende.

Cari amici,

consentitemi in chiusura di dare atto al Rettore dell’Università di Cagliari Giovanni Melis  ed ai suoi Prorettori in particolare per la ricerca a Francesco Pigliaru di un impegno generoso per costruire una piattaforma comune, per sviluppare sinergie e forme di collaborazione tra i due Atenei. Con un poco di emozione e gratitudine vorrei ricordare l’amicizia e le attenzioni di cui mi sono sentito circondato ad esempio il giorno dell’elezione del nuovo Presidente della Conferenza dei Rettori. Un momento critico che ha rivelato fino in fondo un’amicizia e una sensibilità disinteressata davvero, la voglia della Sardegna di contare in un panorama nazionale, le attese che intorno alle due Università della Sardegna possono ancora concentrarsi, l’orizzonte vasto internazionale nel quale davvero possiamo inserirci grazie all’impegno, alla passione, alle curiosità dei nostri ricercatori.

Il sogno che abbiamo è che alle due Università, che presto godranno (lo speriamo) dei nuovi investimenti con i fondi FAS nell’edilizia, nell’informatica, nelle nuove tecnologie, si uniscano tutti gli altri soggetti che possono concorrere allo sviluppo della ricerca in Sardegna, partendo dal mondo delle imprese e dalle Agenzie Regionali che debbono entrare in rete, fare sistema, confrontarsi in modo sempre più competitivo ed aperto. Con speranze e ambizioni alte.

Con senso di responsabilità e consapevolezza delle attese che ora ci accompagnano. Col dovere di rispondere alla fiducia accordataci. Anche con orgoglio e rivendicando una storia, una tradizione scientifica di eccellenza, una nostra cifra originale.




El uso politico de la Historia romana (después de Maquiavelo)

Asuncion, 19 settembre 2011, El Cabildo.
Attilio Mastino, Rettore dell’Università di Sassari
El uso politico de la Historia romana (después de Maquiavelo)

1. La secessione della plebe al Monte Sacro nella lettura di Simón Bolivar

Tito Livio, parlando della secessione della Plebe a Roma sul Monte Sacro 2500 anni fa di fronte alle violenze del patriziato, racconta come Menenio Agrippa fosse riuscito a placare l’ira della Plebe raccontando un apologo col primitivo e rozzo modo di parlare di quell’epoca lontana, prisco illo dicendi et horrido modo: nel tempo in cui nell’uomo le membra non erano tutte in piena armonia, come ora, ma ogni membro aveva una sua facoltà di parlare e di pensare, le altre parti del corpo fecero una congiura contro il ventre, decidendo che le mani non portassero il cibo alla bocca, la bocca non lo ricevesse, i denti non lo masticassero. Ridussero così il corpo intero ad un’estrema consunzione, totum corpus ad extremam tabem venisse: era un modo rozzo ma efficace per indicare che tutte le componenti di una società sono ugualmente necessarie e solidali.

Sono stati recentemente celebrati a Roma i 2500 anni dalla secessione della plebe al Monte Sacro e dalla nascita del potere negativo dei tribuni della plebe, proprio a margine dell’episodio di Menenio Agrippa. Come è noto, ripensando alle radici romane della Res Publica, riflettendo sui rapporto tra Populus e singolo Civis, due concetti riletti durante la rivoluzione francese dai giacobini, in particolare da Robespierre sulle tracce di Rousseau, il 15 agosto 1805 a Roma sul Monte Sacro Simón Bolivar pronunciò un solenne giuramento che rinnovava l’impegno dei rivoluzionari per la libertà della grande patria iberoamericana. Nella lettera di Simón Bolivar a Simón Rodríguez del 19 gennaio 1824 il Libertador  parlava di un juramento profético pronunciato in quella <>.

2. La perfezione della repubblica per Nicolò Machiavelli: il tribunato

Se torniamo indietro nel tempo, le origini di questa rivalutazione della storia arcaica di Roma e dell’idea imperiale romana si collocano nel 500 in coincidenza con la nascita delle grandi monarchie europee: fu Nicolò Machiavelli il precursore di questa impostazione e l’immagine evocata da Menenio Agrippa è stata ripresa da M. e poi più volte fino ai giacobini per suggerire la necessità che la res publica ideale sia fondata su una collaborazione tra le diverse classi sociali, soprattutto che le nuove forme costituzionali debbano in qualche modo misurarsi con il modello romano di res publica: l’equilibrio rappresentato dalle diverse magistrature, il consolato, la dittatura, la censura, lo spazio di espressione della volontà popolare  attraverso i comizi, il ruolo del Senato, le diverse forme di partecipazione e di rappresentatività politica tanto avanzate.  In realtà la magistratura romana che a M. appare quasi connaturata alla repubblica è il tribunato della plebe, come ricorda il titolo del capitolo III del I libro dei Discorsi: Quali accidenti facessono creare in Roma i tribuni della plebe, il che fecie la republica più perfetta. I critici ritengono che la grande importanza attribuita al tribunato della plebe da parte di M. risieda nel fatto che tale magistratura abbia rappresentato ai suoi occhi lo strumento privilegiato della mikté, della mescolanza fra i diversi ordines, presupposta dalla costituzione mista teorizzata da Polibio. I tribuni pur essendo una magistratura «di parte» esercitano una funzione di mediazione, diretta a favorire la discussione e eventualmente a correggere le proposte del senato «E quegli (i tribuni) ordinarono con tante preminenzie (ad esempio la sacrosanctitas) e tanta riputazione, che poterono essere sempre di poi mezi intra la plebe et il senato, et obviare alla insolenzia de’ nobili».

In un libro recente, Sergio Roda si è chiesto la ragione del lungo e duraturo successo della vicenda storica della repubblica imperiale romana, in funzione della sua capacità di unificare e organizzare l’ecumene, assimilando popoli e culture diverse, attraverso la comunanza del diritto, della lingua, dell’autonomia cittadina, nonché l’attitudine di Roma ad offrire ai popoli conquistati, diversi per cultura, civiltà, tradizioni, usanze, credenze e religioni una qualità di vita e valori di riferimento collettivi universalmente apprezzati.

Nonostante le preoccupazioni sul possibile uso strumentale della storia romana piegata ai fini di una polemica politica contemporanea, la vicenda storica della città eterna rimane ancora oggi <>.

3. Antiquaria e attualità della lotta politica: la polemica di Guicciardini

Fu Nicolò Machiavelli a concepire nei Discorsi (come, del resto, anche nel Principe) il modello di Roma, dei suoi uomini illustri e delle sue vicende storiche, come un costante exemplum per leggere, interpretare ed indirizzare l’attualità: e ciò in un senso così accentuato, che il Guicciardini, nelle Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli sopra la prima Deca di Tito Livio, rivolge proprio a questo aspetto la sua critica, sostenendo che l’onnipresenza del modello romano non soltanto non contribuisce ad un approccio diretto alla realtà storica contemporanea, ma addirittura lo svisa, dirottando il punto di vista su situazioni e personaggi non confrontabili con il “particulare” che deve essere decodificato e condotto ad un esito “utile”, cioè funzionale allo status politico, sociale, economico attuale.

Eppure il discorso di M. non è antiquario, ma fortemente contemporaneo.  Dopo l’esecuzione di Gerolamo Savonarola, il 19 giugno del 1498, Niccolò Machiavelli divenne segretario della seconda Cancelleria della Repubblica fiorentina e dopo una serie di missioni diplomatiche che lo portarono anche in Francia, nel 1502 si trovò a svolgere il suo incarico sotto la guida del gonfaloniere Piero Soderini. Nel 1512 a seguito della sconfitta, inferta a Prato da parte del papa Giulio II e di un esercito spagnolo, cadde la Repubblica fiorentina e il M. fu rimosso dall’incarico di Cancelliere e condannato ad un anno di confino. A partire dalla fine forzata della sua attività politica, Niccolò M. iniziò a scrivere in esilio i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, interrompendone la stesura per comporre, probabilmente di getto, Il Principe e ultimando lentamente i Discorsi nel 1517. I Discorsi ripercorrono criticamente alcuni eventi della Storia romana repubblicana che costituivano il contenuto dei primi dieci libri dell’opera Ab urbe condita di Livio, nel clima della restaurazione augustea. Un tema particolarmente sentito dall’autore in quanto gli consentiva un parallelismo interpretativo con gli eventi della Repubblica fiorentina, ai quali aveva partecipato in prima persona, è rappresentato dalla nascita della Repubblica romana: «Volendo adunque discorrere quali furono li ordini della città di Roma e quali accidenti a la sua perfettione la condussero; dico come alcuni che hanno scritto delle repubbliche dicono essere in quelle uno de’ tre stati chiamati da loro principato, optimati e popolare; e come coloro che ordinano una città debbono volgersi ad uno di questi, secondo pare loro più a proposito». La repubblica romana nacque per M. da “accidenti” ossia dal caso o meglio dalla casualità complessa del corso della storia. Pur essendole mancato un legislatore unico come Licurgo che assicurò a Sparta con le sue leggi ottocento anni di libertà, per Roma «nondimeno furo tanti gli accidenti che in quella nacquero per la disunione che era intra la plebe e il senato, che quello che non aveva fatto uno ordinatore lo fece il caso».

4. I l modello della repubblica romana nei Discorsi

In una recente monografia sul M., Francesco Bausi, (Machiavelli, Roma, Salerno Editrice, 2005), nella parte dedicata ai Discorsi, ritorna sul modello romano riscoperto dal M.. Di grande interesse è il contributo di Gennaro Sasso, Machiavelli e i detrattori antichi e nuovi di Roma. Per l’interpretazione di Discorsi I 4, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1978 (poi raccolto in Machiavelli e gli antichi e altri saggi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1987-1997).

Fu proprio M. a spiegare che per garantire la fortuna della res publica non è sufficiente la virtù del Principe, ma che occorre lavorare per garantire la virtù delle membra, dunque del popolo, anzi al fianco della virtù degli uomini singoli o delle folle risalta una virtù completamente spersonalizzata, quella delle leggi, dell’educazione, della religione – sempre considerata in funzione del suo valore politico e sociale. La vita dello Stato è pervasa da un soffio ampio e possente, è costituita da una molteplicità di forze del tutto sconosciute in precedenza. La res publica effigiata nei Discorsi non ha il carattere antropomorfico di cui si era rivestita nel Principe, ma non è più un organismo che vive tutto della virtù umana del suo capo, ma un organismo che vive soprattutto nei suoi ordini, di vita robusta se questi sono efficienti, in dipendenza di un largo fluire di virtù nel popolo, soprattutto in rapporto ad un ordinamento costituzionale che garantisce tutti i cittadini. Lo Stato appare ora come un corpo misto, che nasce, cresce, giunge a pieno sviluppo, si corrompe e muore, come un qualsiasi altro organismo naturale, per esempio lo stesso corpo umano, spesso preso a termine di raffronto con un processo circolare, quindi, di avvicendamento tra vita e morte, fra prosperità e decadenza, più rapido e disordinato per gli stati non bene ordinati e che non sanno a tempo rimediare ai mali, più lento per gli stati ben ordinati e che sanno provvedere a tempo. Il modo sicuro anzi unico di provvedere è rinnovarsi, ridursi ai principi, cioè ritornare alla primitiva vitalità e sanità, riprendere l’osservanza dei buoni costumi che erano all’inizio e che poi si sono guastati. Lo Stato che non si rinnova in tal modo è destinato a perire.

Un elemento fondamentale alla base della repubblica romana era rappresentato per il politico rinascimentale dal  principio di fondo che la monarchia aveva prodotto «molte e buone leggi» che costituirono una sorta di base per i futuri aggiustamenti e aggiornamenti costituzionali ma poiché lo scopo dei re era stato quello di «fondare uno regno e non una repubblica, quando quella città rimase libera vi mancavano molte cose che era necessario ordinare in favore della libertà, le quali non erano state da quelli re ordinate».

5. La teoria dei governi ripresa da Polibio

Il riferimento politico di tipo teorico risulta costituito per M. dalla costruzione polibiana della costituzione mista enunciata dallo storico greco nel VI libro delle Istoríai, articolata secondo il politico fiorentino in sei “governi”, prima definiti impropriamente “stati” di cui tre, “il principato”, “gli optimati” e “quello popolare” “buoni” nei loro principi e peraltro “facili a corrompersi in tre “governi pessimi”: «e ciascuno d’essi è in modo simile a quello che gli è propinquo, che facilmente saltano da l’uno a l’altro; perché il principato diventa tirannico, gli optimati con facilità diventano stato di pochi, il popolare sanza difficultà in licenzioso si converte». Certo l’aderenza a Polibio non è strettamente osservata da M. in ragione di una forte attualizzazione che lega l’autore alle vicende contemporanee; del resto i critici sottolineano con una certa unanimità come venga meno l’impostazione deterministica e naturalistica dell’autore greco, in particolare per ciò che concerne l’anacyclosis, -ciò che M. definisce il «cerchio nel quale girando tutte le repubbliche si sono governate e governano»- di fronte al ruolo della virtù umana, capace di incidere nel corso della storia per modificare gli eventi.

6. Il principium costitutivo della res publica, contro ogni provvidenzialismo

C’era un momento della storia dell’uomo che era esemplare, un modello anche per M., che non pensava alla perfezione della chiesa delle origini, né al momento cristiano della Rivelazione, ma al momento pagano di Roma antica, punto fermo della storia universale, al quale occorre sempre rifarsi per fare come gli arcieri prudenti ; così sussisteva la fiducia nel ridursi al principio, nel rifarsi indietro, o espressamente al modello romano o, genericamente, al <> da cui uno stato è sorto e che secondo il M., deve aver per forza alcun bene in sé.  Come non ricordare le parole di Gaio, che ricostruisce  il populi Romani ius fin dalla fondazione di Roma perché id perfectum esse, quod ex omnibus  partibus constaret: et certe cuiusque rei potissima pars principium est.

Sandro Schipani, introducendo a Sassari il III Convegno de L’Africa Romana, ha osservato che Roma ha capovolto il flusso funzionale della tradizionale città mesopotamica, da centripeto lo ha fatto diventare centrifugo. Non più dalla campagna alla città, ma ora dalla città alla campagna (o al mondo). Si tratta di espansione civica. L’urbs, per quanto cresciuta e fuoriuscita dalla cerchia muraria originale, resta contenuta in uno spazio relativamente piccolo; ciò che invece non è più contenibile in questo spazio è la civitas, potenzialmente liberata di ogni vincolo etnico e geografico. Si poté essere romani anche se etnicamente etruschi o sanniti o galli o greci o africani … anche se nati e restati per tutta la vita a migliaia di chilometri da Roma. In questo senso, la romanità si è diffusa senza cancellare le identità particolari e aggiungendo una nuova dimensione: occorre sottolineare l’importanza “costitutiva” del diritto, di questa ars, di questa scientia che non è l’espressione della forza del più forte, ma anche questa subordina, tanto che detta regole anche per i momenti più drammatici del suo manifestarsi, e distingue: <<hostes hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus; ceteri latrones aut predones sunt>> (D. 50,16,118).

7. Roma repubblica tumultuaria ?

Si spiega in questo quadro la polemica di M. con Polibio e Tito Livio in nel IV capitolo del I libro dei Discorsi a proposito dei tumulti che si svilupparono a Roma <>, recentemente commentata da Gennaro Sasso che erroneamente crede di poter arrivare fino ai Gracchi per un quadro che in  realtà è tutto di V secolo a.C.: e ciò a proposito delle opinioni di molti che dicono <>. Non è rilevante osservare in questa sede che il M. non ritenga la pace politica e sociale, l’omonoia,  il fondamento del buon governo, ma semmai alla rovescia proprio i tumulti, la lotta, il contrasto che animano le città libere, che rendono vitale il confronto politico nella repubblica, che garantiscono la libertà dei cives. Le lotte sociali come le prime contese tra i patrizi ed i plebei hanno una funzione positiva per l’edificazione della libertà e della potenza, la libertà nasce dalle disunioni, coincide con esse, si alimenta di esse, perché le lotte del popolo sono indirizzate in favore della libertà e della concordia. La stessa uccisione di Remo da parte di Romolo è un servizio reso alla res publica. Dunque i tumulti vanno lodati e non condannati, presentati come l’anima e la vita stessa della repubblica. Chi parla di scandalose violenze nelle lotte tra patrizie e plebei assume un atteggiamento antiromano, che M. condanna.  Solo le armi conquistano <>; e le armi debbono essere quali a lui piacevano, <>, non mercenarie. Ma questo è solo un aspetto.

8. Le ragioni del successo della repubblica: virtù militare, fortuna, equilibrio fra poteri nella costituzione

Né la virtù militare né la buona fortuna da sole spiegano il successo di Roma; la fortuna non è dea capricciosa e cieca, ma invece il segno visibile di un’elezione, che solo una virtù eticamente costituita può sul serio meritare, al di là del capriccio della sorte o del valore degli eserciti: in questo senso M. non può apprezzare <>.

Anche se fraintendendo in parte le sue fonti  dalle quali è separato da un vero e proprio abisso cronologico ma anche categoriale, M. non attribuisce alla fortuna o all’astratto valore dei soldati e dei capi militari il successo dell’invictum Romanum imperium, bensì invece alla qualità della sua organizzazione politica, ordini, leggi e armi, perché <>. Come testimonia l’invettiva machiavellica in Caesarem atque imperatores,  M. dopo il Principe ci appare come un militante “repubblicano”,  nel senso che interpreta una concezione repubblicana della storia di Roma, assumendo un atteggiamento fortemente critico sull’età imperiale. La stessa periodizzazione proposta, repubblicana, umanistica e anticesariana dell’opera, ne è una testimonianza.

9. La libertà dei cittadini nella repubblica

Il lascito più alto e profondo della repubblica romana risulta essere quello della libertà, la monarchia aveva fallito perché non era stata capace di intervenire a colmare vuoti “costituzionali” «che era necessario ordinare in favore della libertà». Nel V capitolo del I libro dei Discorsi, già nel titolo si fa riferimento ad un tema che a partire dalla riflessione rinascimentale giunge addirittura al pensiero politico contemporaneo per ciò che concerne la salvaguardia delle democrazie e l’equilibrio dei poteri, quello di «dove più sicuramente si ponga la guardia della libertà o nel popolo o ne’ grandi; e quali hanno maggiore cagione di tumultuare o chi ne vuole acquistare o chi vuole mantenere». Per M. la libertas repubblicana è sinonimo di “vivere libero” ossia del diritto dell’individuo di godere dei diritti civili e politici e ciò può realizzarsi soltanto all’interno della forma di governo repubblicana. Certo vi è una oscillazione tra la scelta di prediligere una repubblica aristocratica sul modello di Sparta o su quello della Repubblica Serenissima possibile modello di Firenze piuttosto che una repubblica di stampo popolare sul modello di quella romana: M. sembra accordare una preferenza ad uno sbilanciamento della repubblica verso la componente popolare perché coloro che detengono il potere economico «possedendo molto, possono con maggior potenza e maggior moto fare alterazione (cambiare tipo di governo)». M. pronuncia un giudizio estremamente critico sui leaders della pars popularis dai Gracchi a Mario considerati come causa dell’inizio del disfacimento repubblicano per giungere sino a Cesare «Né sia alcuno che s’inganni per la gloria di Cesare sentendolo massime celebrare dagli scrittori; perché quegli che lo laudano sono corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lungheza dello imperio, il quale (reggendosi sotto quel nome) non permetteva che gli scrittori parlassono liberamente di lui»: Vi è da sottolineare che l’anti-cesarismo, un filone tradizionale nella riflessione umanistica fiorentina, in M. assume maggiore vis polemica allorché il pensiero dell’autore corre alle tentazioni autoritarie di Lorenzo de’ Medici il giovane. Del resto all’opposto dell’equilibrio di poteri o del buon governo che si deve esercitare attraverso le istituzioni repubblicane risiedono per M. la tirannide e il tiranno che soffocano la libertà, accentuano le diseguaglianze sociali e deviano da un principio-base dell’ordinamento repubblicano quello del perseguimento del “bene commune”: «Sono pel contrario infami e detestabili li uomini distruttori delle religioni, dissipatori de’ regni e delle repubbliche, inimici della virtù, delle lettere, e d’ogni altra arte che arrechi utilità e onore alla umana generazione; come sono gl’inpii, i violenti, gl’ignoranti dapochi, gli oziosi, i vili… Nientedimeno di poi quasi tutti, ingannati da uno falso bene e da una falsa gloria si lasciono andare…e potendo fare con perpetuo loro onore o una repubblica o uno regno, si volgono alla tirannide».

10. Anticesarismo e imperialismo

Eppure M. non è certo un detrattore dell’imperalismo e della conquista, una necessità dettata dalla realtà delle cose.  M. osserva la storia di Roma vedendo certo l’insuccesso della caduta dell’impero, la decadenza, il dubbio sull’aeternitas imperiale, e su questo piano sarà seguito da Montesquieu per il quale Roma <>, quando <>. Del resto l’organismo imperiale cominciò a declinare quando la sua <> fu <> e trasferita in Oriente a Costantinopoli.

M. ritiene che nella più bella fra le imprese umane .- l’impero di Roma – fortuna e virtù avevano collaborato insieme nel superiore disegno del Romaion megas daimon del De Romanorum fortuna di Plutarco: l’impero fu dunque l’espressione culminante di una maturità dei tempi, immiserita certo nel presente, ma pur destinata a ricostituirsi, di necessità, nel tempo storico degli stati moderni, ad una sola condizione, empirica e determinata, che un’altra città riesca ad organizzare se medesima nelle stesse forme politiche, costituzionali, militari, in cui quella si era, ai suoi tempi, <>.  E ciò a prescindere dalla provvidenzialità classica o cristiana della Fortuna e dalla esemplarità della storia di Roma, paradigma dell’eccellenza politica, costituzionale e militare, evento irripetibile nella vicenda umana, specie grazie alla virtù dei padri. M. non parla della virtù frugale delle origini, senso religioso della vita, assenza di rapacità e di libido, senso del limite, modestia, moderazione; intende invece parlare della forza della costituzione, della virtù dei cittadini, del coraggio dei soldati. Gennaro Sasso ha tentato di identificare i destinatari della polemica di M., i detrattori dell’idea di Roma, coloro che hanno enfatizzato i disordini della repubblica dopo la morte dei re, i certamina civilia; tra gli antichi, primo tra tutti Sallustio e poi S. Agostino, e tra  moderni, specie in ambiente veneziano filoaristocratico e antiromano in materia di politica e di storia: tra tutti Bernardo Rucellai, che in realtà non fu il portatore di un’opinio antiromana.

11. Gli sviluppi successivi: la constitutio Antoniniana

Questa posizione di M. alla fine del 500 è riflessa nei quattro libri dell’umanista e filologo fiammingo Iustus Lipsius, Admiranda, sive De magnitudine romana, della grandezza di Roma, pubblicato nel 1598, tematiche riprese nel 1625 dal filosofo britannico Francis Bacon, nel saggio Of the True Greatness of Kingdoms and Estates, dove si teorizza che è necessario evitare di ridurre la massa della popolazione in condizioni di totale asservimento a pochi nobili. Attraverso la concessione della cittadinanza, i Romani riuscirono ad allargare la classe dirigente, con una politica di inclusione degli stranieri che inizia in età regia con l’arrivo a Roma dei sabini di Atta Clausus, per proseguire in età repubblicane e svilupparsi in età imperiale: momenti significativi erano già per Lipsius, il discorso dell’imperatore Claudio in Senato, conservatoci da Tacito e dalla tabula claudiana per la concessione della civica agli abitanti della Gallia Comata e la  costituzione di Caracalla del 212, la constitutio antoniniana de civitate, che sostanzialmente cancellava la categoria dei peregrini, istituendo una realtà unitaria, quella dei cittadini che superava le nationes e le gentes, lasciandosi alle spalle anche quella dicotomia denunciata da Elio Aristide tra cives-politai e sudditi, upekoi, che ancora nell’età degli Antonini rappresentava una realtà di fatto quasi insuperabile. Oggi possiamo dire che risolvendo tale aporia dando dignità e voce ai provinciali, alle popolazioni locali, a tutti i gruppi che l’avevano portato al potere, Caracalla dimostrava più grande degli altri Antonini, fondava un nuovo secolo aureo, realizzava per primo un impero universale aperto a tutti gli uomini.

12. Gli illuministi

La lezione di M. fu pienamente raccolta dagli Illuministi un secolo dopo Bacone, se nell’Esprit des lois Montesquieu nel 1748 ribadiva che la Res publica Romana, malgrado la presenza di limiti oligarchici, poteva essere considerata sinonimo di libertà, autodeterminazione e partecipazione dei cittadini.  Il dispotismo dell’imperium fondato da Augusto limitò le libertà e impose dall’alto leggi che <>.  Montesquieu non apprezzava la concezione di cittadinanza, ma riconosceva che i Romani costruirono un meccanismo che consentì di non ridurre il numero dei cittadini nonostante le continue guerre. Nelle Consideratons sur les causes de la grandeur des Romains e de leur décandence pubblicata quindici anni prima, Montesquieu aveva distinto le buone leggi adottate da Roma, capaci di far grande un popolo o una piccola repubblica, ma assolutamente inadatte a governare: la decadenza dell’età imperiale è legata alla perdita della libertà ed alla fine della repubblica, che decadde perché Roma concluse troppo presto la sua opera. Temi ripresi da David Hume e da Edward Gibbon e che hanno in qualche modo un’eco nella dichiarazione d’indipendenza dei tredici Stati Uniti d’America, che proclamano l’uguaglianza fra gli uomini e i diritti inalienabili alla vita, alla libertà ed anche alla ricerca della felicità.

Scrivendo nel 1773, Condillac ricostruiva per il Principe di Parma le vicende della Roma repubblicana, che fu capace di garantire la libertà del cittadino chiamato in prima persona a gestire il potere, prima della degenerazione imperiale e dell’affermarsi dell’assolutismo e del <>.

Naturalmente ci sono molti altri protagonisti di un dibattito che si infiammò già con il Contratto Sociale di Rousseau, per il quale la sovranità è indivisibile e inalienabile e risiede essenzialmente in tutti i membri del corpo, operando attraverso le leggi. Sullo sfondo c’è ancora Menenio Agrippa, con la consapevolezza che nella res publica l’individuo rinuncia al suo sfrenato arbitrio, alla sua indipendenza naturale, ma per farsi persona, per conquistare la vera libertà, la quale consiste nell’unione di tutti nella legge.

13. L’idea di Roma in José Gaspar Rodriguez Francia e nella costituzione del Paraguay

La lezione del M., filtrata attraverso l’esperienza rivoluzionaria giacobina, compare nitidamente nel pensiero giuridico e storico dei padri fondatori della Repubblica del Paraguay e nella esperienza di codificazione del diritto, così come è stata recentemente tracciata da Pierangelo Catalano, soprattutto con riferimento alla proclamazione del triumvitato del 1811, poi della nomina dei due consoli con giurisdizione e autorità identica José Gaspar Rodriguez Francia e Fulgencio Yegros, all’indomani del secondo Congresso del I ottobre 1813, dopo la vittoria sull’argentino Manuel Belgrano: lasciando un anno dopo la suprema potestas in occasione del terzo congresso tenutosi il 15 maggio 1814, i due consoli resero ampiamente conto del loro operato e proposero al popolo la nomina di un magistrato titolare del potere esecutivo unico, come rimedio imposto dalle circostanze gravi che si stavano attraversando, un dittatore per salvare la patria dagli intrighi degli stranieri, spagnoli ed argentini. Da qui la nomina del dott. Francia prima come  dittatore temporaneo per tre anni, poi nel congresso del 1817 fino alla morte nel 1840 come dittatore perpetuo, il titolo che era stato di Giulio Cesare. Il plenipotenziario del governo di Buenos Aires Nicolás De Herrera già nel 1813 aveva accusato il dott. Francia i essere un <>.  Noi non sappiamo se il dottor Francia avesse letto direttamente M., è certo che tra i libri della sua biblioteca studiati da Josefina Pla, accanto a moltissimi autori classici ellenistici e romani, c’era la Histoire romaine di Charles Rollin, nell’edizione stampata dal 1738 e il compendio in lingua spagnola Historia romana di Juan de Haller del 1735.

Il modello romano mediato dall’interpretazione rousseauiana non fu abbandonato, se l’anno dopo la morte del dittatore perpetuo furono nominati prima un triumvirato provvisorio poi due consoli per un triennio Mariano Roque Alonso e Carlos Antonio López, quest’ultimo poi primo Presidente della repubblica del Paraguay a partire dal 1844. L’esperimento del dott. Francia, per quanto frainteso e travisato, non sarebbe stato completamente abbandonato ma anzi ripensato con riferimento al popolo romano modello di tutti i popoli liberi.

Al di là del giudizio storico, interessa in questa sede andare alla ricerca delle ragioni per le quali il modello repubblicano romano fu assunto prima dai giacobini e poi in iberoamerica come capace di ispirare un sistema costituzionale di un paese come il Paraguay in una situazione di emergenza militare. Temi che hanno un’eco nella riflessione politica di Giuseppe Garibaldi che traspare nelle Memorie, a partire dai tempi di Rio de Janeiro e di Montevideo a difesa delle repubbliche del Rio Grande nella rivolta dei farrapos e dell’Uruguay (1835-46), e poi soprattutto a difesa della repubblica romana nel 1849.




Tata Carboni, A piedi scalzi.

Tata Carboni, A piedi scalzi

di Attilio Mastino

A piedi scalzi non è semplicemente un romanzo singolare, ma è molto di più, un lungo saggio – scritto in parte in italiano ed in parte in sardo – che tenta di ricostruire nei particolari più minuti, con grande tenerezza, la vita di tutti i giorni, i rapporti all’interno di una famiglia poverissima, che vive nel quartiere medievale di Bosa, a “Sa Costa”, negli anni a cavallo dell’ultima guerra.

Un’opera come questa è l’espressione di quattro generazioni successive, di quattro donne forti, che hanno saputo trasmettere l’una all’altra valori e sentimenti: la nonna Veronica, la madre Peppina e la piccola Tetta “masciu”, protagonista quest’ultima di una storia straordinaria e commovente, piena di sorprese e di colpi di scena; ma anche Tata Carboni, ultima discendente di questa famiglia ed autrice alla sua opera prima: attraverso i ricordi della madre, ha saputo raccontare in modo impareggiabile e con delicatezza la fatica delle donne, il lavoro dei conciatori, la mietitura, i momenti di festa, i giochi infantili, i canti, la devozione popolare, la povertà, l’emigrazione, il dramma della fame e della guerra.

Ne scaturisce un affresco a tutto campo, che va ben oltre le tradizionali immagini patinate della valle del Temo: il paesaggio amato, il fiume, il castello, la marina rimangono sullo sfondo di una storia talvolta anche molto ruvida, che racconta l’infanzia difficile e l’educazione di una bambina che vive in un mondo ristretto ed arretrato, ma non infelice. Una storia inusuale, sul filo dei ricordi più struggenti, attraverso una prospettiva inattesa, che ci porta all’interno di una comunità mite ed indifesa, vista con gli occhi scanzonati di una bambina di otto anni, erede di una saggezza antica; ambientata in una città in cui le divisioni sociali erano cristallizzate da secoli e testimoniate anche dalla topografia urbana. E poi questo rapporto singolare con la nonna Veronica, una donna rude e forte, ma che si scopre generosa, fino al sacrificio di sé: la sua morte segna per la protagonista il passaggio dall’infanzia all’età adulta, in un momento in cui anche la città, chiusa da sempre su sé stessa, con i suoi miti e con le sue tradizioni, si apre ad un mondo nuovo, verso orizzonti più sereni.




Salvatore Sechi, La stazione dei sogni.

Salvatore Sechi, La stazione dei sogni

di Attilio Mastino

Ho letto tutto d’un fiato La stazione dei sogni di Salvatore Sechi, in una sera di pioggia a Bosa, senza riuscire a staccarmi da quelle pagine.

Mi è sembrato di trovare la chiave di tutta la storia in quel sogno terribile che conduce il protagonista tra le tombe di un cimitero, tra le croci seminate entro un bosco di betulle sferzate dalla pioggia ed illuminate dai fulmini, entro una foresta inquietante e silenziosa, bagnata dalle lacrime senza tempo.

Quasi atterrito, alla fine della storia, Dario scopre che per assurdo una forza ineluttabile lo ha condotto a ripercorrere gli stessi sentieri percorsi dal fratello Bachis, un gigante buono che calzava stivali lucidi, scomparso quaranta anni prima in guerra, ma accolto dall’ospitalità caritatevole dei monaci, divenuto per tutti un esempio di umanità e di fede.

Le pagine più belle del romanzo sono sicuramente quelle ambientate all’interno del monastero francese in Argonne, non diverso dal Cistercium fondato da Roberto di Champagne in Borgogna, dove il protagonista riesce a ritrovare l’equilibrio perduto: anche qui le suggestioni di Umberto Eco, il labirinto dell’abbazia de Il nome della rosa, sono solo un’eco lontana, anche se vitalissima.

Ma Salvatore Sechi ha origini sindiesi e coltiva dentro di sé fin da ragazzo un mito straordinario ed originale, quello di un Medioevo animato dalle colonizzazioni dei monaci cistercensi, delle grandi abbazie collegate tra loro in rete, al di là del mare ed al di là dei confini degli stati nazionali: quello della suggestione dei riti religiosi che ipnotizzano e che conducono alla verità, quella delle grandi cattedrali gotiche, con le loro guglie che cercano Dio svettando a pinnacolo nella profondità del cielo, costruite da architetti che devono essere penetrati nel mistero del trascendente. Sindia è uno di quei luoghi dove più forte è la memoria e più chiaro è il significato della presenza dell’ordine cistercense in Sardegna alla fine del Medioevo: Sindia conserva due degli otto insediamenti cistercensi documentati in Sardegna ed una delle due chiese con dignità abbaziale, Sancta Maria capitis aquarum, dedicata in un sito particolarmente fertile e ricco di sorgenti d’acqua. Opere attribuite dalla tradizione alla pietà della giudicessa Marcusa de Gunale, a suo figlio il giudice Gonario di Torrres ed a San Bernardo di Chiaravalle, espressione di un gusto raffinato e di una sensibilità artistica senza confronti in un territorio, quello della Planargia, fortemente condizionato da una generale situazione di povertà e di sottosviluppo, che non sempre ha permesso l’affermazione di una capacità architettonica ed artistica evoluta ed autonoma. È in questo lembo dell’antica diocesi di Bosa che si concentrò maggiormente la presenza di un ordine monastico che si andò specializzando nel lavoro manuale, nella bonifica e nella messa a coltura dei terreni abbandonati e delle aree acquitrinose e malariche, nel favorire l’insediamento agricolo là dove si era svolto in precedenza un fenomeno di spopolamento e di desertificazione.

Su questi insediamenti monastici da sempre sono fiorite leggende popolari, che ci conservano un sapore antico: in una novella di Pietro Casu, Il tesoro di Pedrasenta, è narrata la tragedia dei monaci di Sindia, costretti con l’inganno dal re di Ardara a lasciare il monastero ed a nascondere i loro tesori nei sotterranei segreti del convento di Pedrasenta, Sant’Ippolito di Sirone a Suni, dove ancora oggi sarebbero protetti da una bestiaccia immonda, un cane demoniaco, pronto ad addentare gli incauti visitatori.

Ma Salvatore Sechi con questo romanzo ci riporta alla Sardegna di oggi, a questo caro paese di provincia, Domomentis, battuto dal vento, dove l’autore ambienta una storia che ci conserva gli odori ed i colori dell’isola del sole, gli stridi dei rapaci, i canti dell’allodola, l’aroma della ferula, i profumi del maestrale che agita le fronde delle vecchie querce, il suono delle campane, le feste come per la tosatura delle pecore. Domomentis è il paese attraversato dal vento della fanciullezza, dove il protagonista ha conosciuto il silenzio dei meriggi estivi, lo scorrere del torrente domato dalla veemenza del sole. Un paese popolato da vecchi saggi, forse analfabeti, ma che hanno appreso l’arte magica dell’affabulazione alla nobile scuola dei narratori aedi.

Il protagonista inquieto cerca sentieri ignoti, abbandona le vie conosciute ed agevoli, perché c’è un Ulisse dentro ognuno di noi. Ma le radici rimangono tanto forti da non poter essere spezzate neppure dal tempo, dall’odio, dalla tragedia, dall’angoscia, dal dolore senza fine, come quello che prova un padre per la morte del figlio, un cucciolo cresciuto che vuole imprudentemente esplorare e guardarsi intorno, che vuole sfidare la morte. Le radici non significano solo ritrovare la tomba del fratello oppure riportare a casa la salma di un figlio; significano lasciarsi coinvolgere in una faida apparentemente estranea, pagare per le colpe dei padri, accettare con naturalezza il sacrificio di chi ci ama.

Salvatore Sechi reinterpreta efficacemente in chiave moderna tante prevenzioni arcaiche della società sarda, riesce a valorizzarle e qualche volta anche a farle apprezzare: emerge la diffidenza atavica per la Giustizia, per alcuni magistrati prepotenti ed incapaci; emerge l’insofferenza e l’intolleranza di chi pensa di essere accusato ingiustamente. L’esempio che viene proposto al lettore è quello di un pubblico ministero esaltato che si sente giustiziere, impegnato allo spasimo contro i sequestratori sardi, quasi uno specialista nel suo campo; oppure quello della dottoressa Conigliani, un magistrato implacabile ma insieme, ipocritamente, una “pia donna”, che si dedica ad opere di carità, che frequenta gli alti prelati: un giudice che non cerca la verità ma che si accontenta dei capri espiatori, per dare un esempio e per fare carriera. Salvatore Sechi accoglie il punto di vista dell’innocente perseguitato ed offeso, tanto da finire per deformare i fatti e da identificare il magistrato con l’assassino. In questa sua intolleranza di fronte all’ingiustizia l’autore ci appare veramente in sintonia con la sua terra, ma talvolta anche capace di razionalizzare, di leggere e di giudicare con occhi moderni, di combattere i moralismi e le ipocrisie.

Dalla tradizione viene a Salvatore Sechi anche l’orrore per la perdita dell’identità, per l’alienazione del carcere e dell’ospedale, dove i pazienti vengono intruppati e smarriscono la loro personalità, diventando solo un numero, disprezzati o derisi da medici ed infermieri incapaci, stolidamente collusi con amministratori semianalfabeti ed inetti.  Eppure proprio nelle corsie di un ospedale fiorisce l’amore tra il protagonista e la sua donna, quando la storia di Dario finisce per intersecarsi con il dramma di Eleonora, il medico al quale il protagonista deve la sua guarigione e la stessa libertà.

E ancora l’ammirazione per la saggezza dei vecchi, il fatalismo, la forza d’animo, l’orgoglio, la solidarietà tra conoscenti, tutti valori della tradizione sarda, che Dario riesce ad apprezzare nella lontana Parigi.

Ma anche la prevenzione nei confronti di quei sacerdoti che vendono fumo, nei confronti dei bigotti privi di elasticità mentale, la bestemmia pronunciata nel dolore lancinante oppure la razionale presa di distanza dalla fede di un intellettuale inquieto, che è innanzi tutto alla ricerca di se stesso.

E infine il giudizio severo per il modello sociale corrotto che va affermandosi, per il mondo nuovo e inquietante della droga, che incombe e che disgrega.

Eppure, attraverso la sofferenza e l’incubo, Dario riesce a combattere l’odio e riesce a perdonare e a riemergere per tornare alla tenerezza dei sentimenti, alla passione per una donna: supera il suo agnosticismo razionalistico, perviene alla tolleranza nei confronti degli altri, combatte il fatalismo ancestrale.

Se è vero che le radici contano in questo volume, è anche vero che Salvatore Sechi ha ormai superato i confini, con espressione latina i termini antichi del suo paese della sua città della sua isola. Il suo ambiente è il mondo, sia che si muova in Sardegna, sia che visiti da intenditore con la competenza di un archeologo e di un epigrafista il foro romano, sia che raggiunga Milano o Zurigo o Parigi o le Ardenne. Parigi soprattutto è la città del cuore, dove Dario incontra la solidarietà del vecchio mezzadro Antonio Carrela, la città della liberazione e della svolta, così vicina per tanti versi alla triste Parigi descritta dal poeta di Modolo, Orlando Biddau, nel suo desolato romanzo Predestinazione: una città dove è bello smarrirsi sino a dimenticarsi, anche se per Salvatore Sechi non è più vero che alla fine c’è solo – sono versi del Biddau – «la sala d’attesa d’una vecchia stazione / a termine d’un binario morto».

Questa di Salvatore Sechi è un’altra stazione: la stazione dei sogni, una stazione vivace, con infiniti scambi ferroviari, dove i sogni si rincorrono tra memoria e immaginazione. Un luogo forse simile alla «stazione degli eucalipti» di Orlando Biddau, qui a Bosa, lungo il viale o dalla città alla marina, dove il poeta si scuote dall’incoscienza, «grazie al sole che scioglie l’inerzia ed al singulto del vento».

Del resto c’è in entrambi gli autori, Sechi e Biddau, questo strano esperimento, questo cavalcare tra l’affascinante vita turbolenta di una grande città ed il solitario paesaggio amato del microscopico villaggio avito, che riporta all’indietro, dove solo – sono versi di Orlando Biddau – si può «aspirare l’antico odore d’infanzia, / può rinascere lieve l’illusione, / rinverdire la formula, l’idillio / che schiuda l’incantesimo».

Questo esperimento, che rende in qualche modo simili i due scrittori tanto diversi tra loro ma anche tanto diversi dagli altri romanzieri sardi, c’era già stato nell’opera prima di Salvatore Sechi, il bellissimo romanzo Fuga nella memoria, ambientato per la metà in Sardegna e per la metà a Roma. Anche qui la faida tradizionale sconvolge la vita del protagonista, Giosuè Funeseda, che perde in una notte terribile lo Zio Giacomo, le vacche, tutto il gregge nella tanca, tra gli olmi e le acacie; una tragedia che segna e distrugge un’intera famiglia. Eppure anche in quella vicenda c’è un fratello, Samuele, che indica la strada per arrivare alla verità, tornando in sogno dalla dimensione dei morti; anche lì il distacco temporaneo, l’allontanamento dall’ambiente, l’amore per una donna, gli interessi nuovi coltivati con passione consentono al protagonista di raggiungere la serenità, di guardare e meditare per comprendere e per capire, di assaggiare tutti i sapori dell’esistenza, – mi perdonerete la citazione un poco frivola – di mordere quello che Robin William nel film «L’attimo sfuggente» ha chiamato «il midollo della vita».

Eppure anche a Parigi, anche nel cuore della metropoli tentacolare, anche nel solitario monastero di Janua coeli, si possono cogliere profumi antichi; hanno un peso ed una dimensione l’introspezione ed i drammi tutti interni degli emigrati.

C’è in questo romanzo una sorta di dissidio tra eventi, mentalità, culture ancestrali che rimangono come pietrificati nel cuore di ognuno e la capacità che hanno i protagonisti di costruire, di adattarsi ai tempi nuovi, con la forza della saggezza e del dolore. C’è il dissidio quasi schizofrenico della Sardegna di oggi tra un passato che continua ad essere vitale e che continua a pulsare violento nelle vene ed un presente, quello del villaggio globale, nel quale le culture egemoni minacciano di soffocare e di omologare gli individui, di travolgere le identità, di eliminare la comunicazione e il dialogo. L’autore è uomo di oggi, che però rivaluta la cultura antica, che non conosceva la solitudine; esprime ammirazione per la saggezza del vecchio monaco, il Padre Pierre, che lo invita a percorrere fino in fondo la strada della comprensione e del perdono, una volta conosciute le proprie radici, rivalutato il proprio passato, accettandolo con le inevitabili passioni, le oscurità, le incertezze.

Questa storia finisce drammaticamente per essere anche un’alternativa tra cultura laica e fede cristana, tra scienza e fede. E anche chi non è fortunato e non riesce a raggiungere come Dario una fede rocciosa, trasmessagli per vie misteriose dal fratello Bachis, anche per lui è possibile la felicità.




Saluto di Attilio Mastino, Rettore dell’Università di Sassari.

Saluto di Attilio Mastino,

Rettore dell’Università di Sassari.

Mentre scrivo questa nota per presentare gli Atti del Convegno “Stintino tra terra e mare”, svoltosi l’anno scorso, sollecitato dall’amichevole insistenza dell’amico Salvatore Rubino, contemporaneamente rileggo per l’ennesima volta il testo del nuovo statuto dell’Università di Sassari, che tra breve sarà sottoposto all’approvazione definitiva del Senato Accademico, con tante speranze e  tante emozioni: il nostro Ateneo dichiara che intende promuovere il libero confronto delle idee e la diffusione dei risultati scientifici anche allo scopo di contribuire al progresso culturale, civile, sociale ed economico della Sardegna, favorendo lo sviluppo sostenibile e la tutela dell’ambiente, inteso come sistema di risorse naturali, sociali ed economiche. L’Ateneo ritiene che la conoscenza sia un bene comune e favorisce  la più ampia diffusione delle informazioni e delle pubblicazioni. Partecipa alla definizione delle politiche pubbliche e delle scelte fondamentali relative allo sviluppo territoriale e agisce in accordo con gli operatori economici, il mondo produttivo, gli ordini professionali, i sindacati e le altre espressioni del mondo della cooperazione, del volontariato e del terzo settore.

Credo che l’Università debba sostenere lo sviluppo di relazioni con il territorio e promuovere il dialogo, l’interazione e la collaborazione con gli interlocutori locali, con specifico riferimento al contesto regionale. Le attività cui l’Ateneo vuol dare impulso prioritario sono finalizzate all’innovazione e allo sviluppo locale potenziando così la funzione di servizio dell’Università rispetto al territorio.

In questa direzione si colloca l’attiva collaborazione con il “Centro Studi sulla Civiltà del mare e per la Valorizzazione del Golfo e del Parco dell’Asinara” e il Comune di Stintino, a cominciare proprio dal Convegno “Stintino tra terra e mare”: con la pubblicazione di questi Atti,  il Centro Studi e il Comune riaffermano la volontà di valorizzare il patrimonio paesaggistico, storico e identitario, materiale e immateriale, suscitando un rinnovato interesse per Stintino, quale “laboratorio” privilegiato per iniziative di carattere scientifico e culturale.

Attraverso una serie di contributi, frutto di un rigoroso lavoro scientifico, suddivisi in differenti aree tematiche, molti dei quali redatti da studiosi della nostra Università, il volume traccia un percorso “tra terra e mare” che ci consegna una visione inedita del paese di Stintino non più inteso nella sua dimensione da brochure turistica di luogo marino di svago o di stereotipato “paese di pescatori” ma inserito in un contesto socio culturale e territoriale ben preciso e nella più vasta dimensione del suo entroterra: la Nurra.

Le pagine che seguono tracciano un percorso tra storia, archeologia, antropologia, archivistica e modelli di sviluppo economici legati all’offerta culturale del territorio: attraverso un itinerario avvincente tra emergenze archeologiche nascoste e documenti d’archivio, in parte sconosciuti, questo territorio scopre di avere un’anima antica e una storia più che millenaria che ben si inserisce nel contesto socio culturale e nella memoria del paese di pescatori e di tonnarotti, memoria che sino a oggi ha trovato la sua massima espressione nel Museo della Tonnara.

Con questi atti si pongono le basi storiche e scientifiche che porteranno alla delineazione di un progetto multidisciplinare in grado di qualificare al meglio anche quell’offerta turistica che costituisce uno degli obiettivi strategici dello sviluppo del nostro territorio e apre la strada alla realizzazione del Nuovo Museo di Stintino, che sarà testimone attivo del rapporto della collettività con la propria eredità culturale e della valorizzazione dell’identità del territorio ma anche centro di ricerca, formazione e promozione culturale, economica e produttiva.

L’Università ci sarà e tenterà di dare un contributo costruttivo e convinto.




Mario Scampuddu

Presentazione

Ho conosciuto il dott. Mario Scampuddu come attivissimo sindaco di Luogosanto, impegnato nella ricerca delle origini medioevali di un paese straordinario, collocato sulle pittoresche alture granitiche della Gallura verso le quali la Madonna avrebbe indirizzato i primi francescani giunti in Sardegna dalla Terra Santa già nel XIII secolo. Ho potuto ammirare il suo dinamismo, la voglia forte di cambiare  e di costruire, il senso profondo di una ospitalità e di una generosità senza pari.

Non lo conoscevo come studioso e debbo dire di esser rimasto sbalordito per questa ricerca sull’albero genealogico della famiglia Iscampuddu-Casarachu, condotta in tanti archivi con l’impegno di un ricercatore vero e con la curiosità di un detective arguto e interessato, che non si ferma di fronte alle difficoltà, che supera gli ostacoli, che osserva le traccie lasciate da antenati lontani, che ora scopriamo di avere in comune. Scorrono in queste pagine personaggi del passato che affiorano attraverso documenti scritti in catalano o in castigliano, ma anche in latino, in logudorese, in italiano: la vita degli stazzi, San Lorenzo presso le sorgenti di Tempio, la pianura di Padulo, con Li Littareddi e Lu Calabresu.

Nella mia famiglia, per parte di madre, mi sono sempre ritenuto un poco gallurese, figlio di Anna Latina Scampuddu, un’insegnante prematuramente scomparsa quando frequentavo la terza elementare, lasciando 5 figli orfani: ricordo le sue lezioni all’Avviamento a Bosa, sul colle dei Cappuccini, dove mi portava spesso con sé, trattato dagli alunni, ragazzi più grandi, quasi come un principe. La gioia di una cavalcata nella campagna di Nigolosu, poi la malattia, una gita alla diga in costruzione sul Temo, le mani ferite e ormai annerite, con le quali aveva raccolto un sasso aguzzo per bloccare la giardinetta di mio padre Ottorino Mastino che rischiava di precipitare nel fondovalle. Infine la tomba bianchissima al cimitero, a fianco delle epigrafi che ricordano i nonni Tommaso e Caterina, Britannico, l’arguto poeta dialettale Giovanni Nurchi, tanti altri personaggi che sono un pezzo della storia della scuola di Bosa.

Sua sorella, Vincenza, la seconda moglie di mio padre, aveva mantenuto un rapporto strettissimo con quelli che abbiamo sempre considerato i parenti veri,  Umberto, il fratello di mio nonno; a Sassari sua figlia Vittoria, a Bono ed a Cagliari zio Martino, il vero nume tutelare della famiglia. E’ stato lui ad aver costruito la tomba degli Scampuddu a Bosa. A lui si deve tra l’altro l’adozione di una bambina cilena che ci è cara.

Ora, attraverso questa indagine accuratissima,  scopriamo che la famiglia non è gallurese, ma è  di origine corsa: vorrei ringraziare Mario Scampuddu per questo suo impegno, per questa scoperta, per questo risultato, che ha il fresco sapore di una novità vera, che ci lega all’isola vicina con un saldissimo vincolo di sangue. Al di là del dato filologico, le emozioni che la lettura di questo libro porta con se ci fanno comprendere che qualcosa di noi è andato perduto per sempre. Forse possiamo iniziare proprio da questo senso doloroso della perdita irreparabile per tentare di ritrovare noi stessi, per dare più valore alle minute testimonianze del passato, per avviare un processo di riscoperta di un patrimonio costruito sulle solidarietà e sulle relazioni umane che oggi ci manca davvero, per presentarci più forti di fronte alle sfide che una modernità positiva e promettente ci propone tutti i giorni. Sulla strada ci sono ora tanti altri personaggi, che non sono solo consanguinei, ma più ancora, amici veri e compagni di strada che ora abbiamo ritrovato per sempre.

Sassari, 25 giugno 2011

Attilio Mastino