Convegno “La cittadinanza, MDCCC Anniversario della Constitutio Antoniniana”

Attilio Mastino (Sassari)
Constitutio antoniniana: la politica della cittadinanza di un imperatore africano
Roma 17 dicembre 2012
Convegno “La cittadinanza, MDCCC Anniversario della Constitutio Antoniniana

A milleottocento anni di distanza dalla emanazione, la Constitutio antoniniana de civitate continua ad essere un tema storico giuridico di grandissima rilevanza: anche se ci pare di conoscere quasi ogni dettaglio, in realtà il provvedimento imperiale di Antonino Magno, alias Lucio Settimio Bassiano alias Caracalla si caratterizza quasi per un’aura di mistero che noi storici e giuristi non riusciamo a disvelare, perché ancora oggi è davvero difficile tracciare un quadro complessivo degli effetti concreti della portata del provvedimento, forse ispirato dal grande Settimio Severo. Si discute se si sia trattato di una norma che metteva ordine in una situazione eterogenea di accesso alla cittadinanza, o se piuttosto rispondesse alle esigenze di rimpinguare le casse imperiali con l’imposizione della tassazione al maggior numero di cittadini possibile.

Oggi celebriamo questa ricorrenza qui in Campidoglio presso il tabularium, il più antico edificio arrivato fino a noi della Roma repubblicana e più precisamente dalla dittatura legibus scribundis di Silla, per quanto la dedica sia stata effettuata due anni dopo, hoc solum felicitati eius negatum.

Veniamo ai fatti così come ce li presentano gli autori che vissero ed ebbero contatti con la corte severiana, Cassio Dione ad esempio e successivamente gli autori di epoca tardo-antica e cristiana che offrono una lettura meno materialistica e con maggiori accenti ecumenici dell’editto de civitate.

Nella primavera del 212 l’imperatore Caracalla, ormai unico Augusto dopo aver eliminato qualche mese prima il fratello Geta, con un editto stabilì che tutti coloro che erano all’interno dell’Impero avessero accesso alla cittadinanza, in orbe romano qui sunt ex constitutione imperatoris Antonini cives Romani effecti sunt recita il commentario edittale di Ulpiano (Dig. 1. 5. 1). In realtà Ulpiano dà conto di una situazione già profondamente trasformata grazie al recente provvedimento di Caracalla già divenuto prassi in quanto nell’ecumene romana tutti erano divenuti cittadini romani. La storiografia contemporanea si è generalmente mossa su un filone critico tendente a valorizzare il lato “rivoluzionario” del provvedimento che riguardò migliaia o centinaia di migliaia di peregrini, cioè di stranieri che fino a quel momento avevano vissuto entro l’impero romano fianco a fianco dei cives Romani.

L’elemento discrepante, rilevato dalla maggior parte degli storici e dei giuristi, il lato oscuro della vicenda va ricercato nella modesta eco che l’editto trovò nelle fonti storico-giuriche, anche in quelle contemporanee. Lo storico filosenatorio Dione Cassio, testimone diretto degli avvenimenti, ostile alla memoria di Caracalla, interpretò riduttivamente ed in chiave fiscale l’editto: se ufficialmente Antonino Magno avrebbe inteso onorare gli abitanti dell’orbis romanus con l’estensione della cittadinanza, in realtà il suo obbiettivo concreto sarebbe stato quello di incrementare il gettito tributario, gravando anche i novi cives delle imposte sulle manomissioni e sulle successioni, di recente da lui raddoppiate, per far fronte alle spese militari e per stipendia e donativi a legionari e pretoriani che com’è noto costituivano la principale base di consenso non solo dell’imperatore in carica ma dell’intera dinastia severiana. Nell’opera di Erodiano, anch’egli contemporaneo di Caracalla e personaggio di spicco della burocrazia imperiale che scrive all’epoca di Filippo l’Arabo, negli scritti del giurista Paolo come pure nella più tarda Historia Augusta, non vi è traccia di riferimenti al provvedimento. Come si è detto il solo Ulpiano fa un cenno nel commentario edittale che trova spazio nel Digesto mentre è frequente la confusione e l’imprecisione circa l’attribuzione della Constitutio ad altri imperatori diversi da Caracalla: in una novella di Giustiniano del 539 l’editto è per errore attribuito ad Antonino Pio, ma la cosa non sorprende a causa della somiglianza nella titolatura imperiale con il figlio di Settimio Severo; analoghi errori si riscontrano anche in Aurelio Vittore ed in Giovanni Crisostomo che fanno risalire l’editto rispettivamente a Marco Aurelio e ad Adriano.

Certo è che le fonti più tarde, in particolare quelle cristiane, con maggior distacco rispetto a Dione Cassio scelgono come parametro di giudizio l’ecumenismo del provvedimento sottolineando, nel caso di Agostino, come esso rispondesse ad un principio di umanità e partecipazione ad un bene comune, se così vogliamo definire la cittadinanza, che precedentemente era riservato a pochi.

Prudenzio si spinge oltre istituendo un vincolo diretto tra Dio e la cittadinanza romana: «Dio insegnò a tutti i popoli a piegare il capo sotto le medesime leggi e a diventare tutti romani» contra Symmachum vv.601-602: …Deus, undique gentes/inclinare caput docuit sub/legiuis iisdem, Romanosque omnes fieri e afferma con decisione che: «Gli abitanti di regioni lontane le une dalle altre e di rive opposte del mare si incontrano ora nell’unico foro comune per ottemperare alla promessa di comparire in giudizio, ora a una fiera assai frequentata dove scambiano i prodotti delle loro attività, ora a stringere vincoli nuziali con pieno diritto di nozze straniere; infatti si va creando una stirpe sola di sangue misto, da popoli che si incrociano». X vv. 612-618: Distantes regiones plagae divisaque ponto/Littora conveniunt nunc per vadimonia ad unum/Et commune forum nunc per commercia et artes/Ad coetum celebrem nunc per geniala fulcra/Externi ad ius connubii: nam sanguine mixto/Texitur alternis ex gentibus una propago.

Le più recenti sintesi di carattere storico-giuridico come quella recentissima assai accurata di Valerio Marotta continuano a rilevare la «totale mancanza di epigrafi e di conii celebrativi». Permettetemi a questo punto una nota di dissenso e una precisazione che avanzo da studioso, ormai purtroppo in anni giovanili e lontani, delle titolature relative a tutti i documenti epigrafici di Caracalla e di suo fratello Geta.

Credo che la celebrazione, contemporanea agli eventi, della Constitutio sia sotto gli occhi di tutti: nell’adozione forse sin dal 212 da parte dell’imperatore del titolo di Magnus, nell’ideologia cosmocratica attestata dal titolo cosmocrátor che avvicinava Caracalla a Serapide, divinità cara ai ceti popolari. In tutto ciò si può leggere un coerente e ampio disegno propagandistico, teso ad affermare il principio di una monarchia estesa a tutta l’oikouméne, finalizzata a distribuire pace e felicità a tutti gli uomini. Del resto tale filone propagandistico si individua in altri elementi della titolatura dell’imperatore, gli epiteti di rector orbis e di pacator orbis frequenti sulle emissioni monetali. Come già ebbi modo di scrivere, lo sviluppo dell’ideologia cosmocratica e la titolatura conseguente va messa in relazione con la Constitutio antoniniana de civitate del 212 d.C., comunque tempo prima della vcittoria germanica del 213, ed è questo il riflesso nella documentazione epigrafica che ci è rimasto di quel provvedimento. Sullo sfondo il modello ideale di Alessandro Magno al quale Caracalla si è certamente ispirato – l’assunzione del titolo di Magnus rientra appieno in questa prospettiva – con il suo militarismo, la politica di universalismo e di sincretismo religioso.

In passato ho potuto dimostrare che il titolo di Magnus, adottato ufficialmente da Caracalla fin dal 212, può essere collegato con l’emanazione della constitutio Antoniniana de civitate e contribuisce comunque a chiarire l’ambiente politico e culturale nel quale è maturato il provvedimento, che realizzava per la prima volta un impero universale aperto a tutti gli uomini. Dedicando a Caracalla la sua opera sulla caccia, Oppiano nel 212 impiegava già un modello propagandistico, che avrebbe avuto immediato successo: parlando del principe, poteva scrivere che Giulia Domna aveva generato Antonino Magno per Settimio Severo Magno.

A tale ricostruzione ha aderito a suo tempo già André Chastagnol che ha denunciato l’innovazione introdotta da Caracalla accettando la data del 211, ben prima della spedizione germanica: «d’autre part, que, depuis 211, Maximus a souvent été remplacé par Magnus, qui ne paraissait pas auparavant et est devenu pour l’empereur un véritable cognomen distinctif, certes moins reluisant à première vue que son superlatif, mais adopté dans le désir de prendre modèle sur Alexandre». È sicuro il collegamento, attraverso il titolo di Magnus, con la figura di Alessandro Magno, un modello riproposto proprio in quegli anni dallo Pseudo Callistene; nell’Epitome de Caesaribus, lo Pseudo-Aurelio Vittore sembra legarne l’assunzione al periodo immediatamente successivo alla morte di Geta.

L’aspirazione, almeno teorica, ad allargare i confini dell’Impero fino a comprendere territori poco romanizzati e fino ad abbracciare potenzialmente tutte le terre conosciute, è confermata anche dal rarissimo epiteto kosmokratwr, ripetutamente portato da Caracalla filosarapij, così come dal dio Serapide comes e conservator dell’Augusto, definito a sua volta mevga” come il principe.

Gli aspetti spaziali di questa teoria di governo sono sottolineati ed acquistano significato nel richiamo ad Eracle (che assieme a Libero era uno dei due dii patrii della città di Lepcis Magna, città di origine di Settimio Severo), il dio che aveva fissato i confini occidentali del mondo; fu allora valorizzato il culto dello stesso Dioniso e si tentò un collegamento del nevo” Diovnuso” con il trionfo indiano del dio.

I riferimenti all’orbis (pacator orbis, propagator orbis, rector orbis), frequenti nelle iscrizioni e nelle monete, sono ripresi significativamente anche dalla titolatura greca, dove con maggiore enfasi si esalta l’ oijkoumevnh, l’impero universale che comprende la terra ed il mare (gh kai; qalassa), il kosmoj, di cui il principe è di volta in volta despothj, euergethj, kurioj, swthr.. È un altro aspetto di un coerente ed ampio disegno politico-religioso-giuridico, che si manifestò pienamente non appena Caracalla rimase solo al potere: in una iscrizione alessandrina dell’8 novembre 212 l’imperatore è esaltato come o swthr thj olhj oikoumenhj, un’espressione che certamente dev’essere collegata all’emanazione della constitutio Antoniniana de civitate, dato che il dedicante riconoscente è un M. Aurhlioj Melaj che senza dubbio intendeva così ringraziare Caracalla per avergli concesso la cittadinanza romana.

I richiami all’impero universale, l’esaltazione del principe che distribuisce pace e felicità a tutto il genere umano (pan anqrwpwn genoj), lo stesso titolo di Magnus, già portato da Pompeo, che era stato ugualmente un ammiratore di Alessandro, vanno collegati non tanto alle vittorie militari di Caracalla, quanto piuttosto all’entusiasmo che certo in alcuni ambienti provinciali dovette suscitare l’emanazione della constitutio Antoniniana de civitate, un provvedimento che tendeva all’uguaglianza di tutti gli uomini liberi nel quadro dell’unico ius Romanum, fondando una realtà sovrannazionale che superava ormai ogni divisione di razza e di lingua.

In questo senso Caracalla fu più grande di Augusto (maior Aug(usto) lo chiamavano già il 17 maggio 213 i Fratres Arvales) e più grande anche di Alessandro, che secondo Elio Aristide era stato piuttosto un conquistatore che un sovrano («kthsanenw basileian mallon eoiken h basileusanti»). Nell’Encomio ”A Roma”, pronunciato forse il 21 aprile 148, in occasione dei festeggiamenti per i novecento anni dalla fondazione di Roma, Elio Aristide aveva esaltato l’impero degli Antonini, sostenendo che era superiore a qualunque altro precedente storico; non reggevano al confronto né l’impero persiano, né quello di Alessandro e a maggior ragione neppure la modesta ajrchv fondata dalle città greche, in particolare da Sparta e da Atene. I Romani erano infatti riusciti a stabilire una « koinh; thj ghj dhmokratia, uf’eni; tw aristw arconti kai; kosmhth », che era caratterizzata dal fatto che un’unica città si era estesa fino a comprendere tutto il mondo.

Distinguendosi da tutti i suoi predecessori, Caracalla riusciva ora a superare anche quel contrasto tra politai ed uphkoi, che lo stesso Elio Aristide alcuni decenni prima aveva segnalato come una realtà di fatto che pareva quasi insuperabile; risolvendo una tale aporia, dando dignità e voce ai provinciali ed a tutti i gruppi che l’avevano portato al potere, Caracalla si dimostrava più grande degli altri Antonini, fondava un nuovo secolo aureo, realizzava per primo un impero universale aperto a tutti gli uomini. Con un tono enfatico e con qualche ingenuità, il [corpus piscatorum] et urinatorum del Tevere avrebbe allora festeggiato il suo genetliaco salutandolo per aver allargato i confini dell’impero e concesso la pace al mondo: il 4 aprile 211 il principe era invocato come deus, sideribu[s in terram delapsus], e ancora [t]onitrator Aug(ustus), orbis terrarum [propagator, dominus] maximus, poiché ha ampliato l’impero e garantito la pace: providens imperi sui mai[estatem finesque eius] ampliavit, largam gloriam pac[e data auxit; coronavit la]urea dextra manu signum Victor[iae quae loco veneratu]r curiae sacro urbis, ut in aeternum [illi laus esset], secondo l’edizione di Geza Alföldy.

Il contenuto effettivo della Constitutio Antoniniana de civitate è tutt’oggi incerto, in quanto problematica, nonostante l’ampiezza degli studi in proposito, è la tradizione testuale ad essa relativa. La maggior parte degli studiosi ritiene che il testo in lingua greca dell’editto di Caracalla sia contenuto in un papiro, scoperto nei dintorni di Heptacomia- Apollonopolite in Egitto, poco più a sud di Licopolis, nella Tebaide e custodito nella biblioteca di Giessen, in Germania più precisamente nell’Assia (Papiro n. 40). Esso venne pubblicato per la prima volta nel 1910 dal Kornemann e dal Meyer; si tratta di un testo nel complesso molto lacunoso, scritto sulla prima colonna del papiro che contiene, su una seconda colonna, altri due provvedimenti attribuibili a Caracalla, un’amnistia e un’ordinanza di espulsione degli Egizii da Alessandria, risalenti rispettivamente al luglio 212 e al gennaio 213 e che costituiscono una sorta di terminus ante quem per la pubblicazione dell’editto de civitate che risale perlomeno a data antecedente al luglio 212.

Secondo le integrazioni proposte già dai primi editori, le linee 7-9 rappresentano il dispositivo del provvedimento, relativo alla concessione della cittadinanza da parte dell’imperatore: dídomi toij sumpá[sin xénoij toij katá t]hn oikouménhn p[olei]teían Romaíwn cioè concedo a tutti gli stranieri che si trovano nell’ecumene la cittadinanza dei romani. In realtà il testo greco parla di oikouménen parola quasi sicuramente corrispondente al termine originale latino orbis: l’uno e l’altro, pur riferendosi allo spazio dell’impero romano in ambito mediterraneo, non escludono però la pretesa imperiale di un’estensione verso un’area geografica più ampia che forse arrivava ad oltrepassare teoricamente i confini dell’impero. Del resto tale ampliamento è testimoniato dall’interesse di Caracalla verso l’area orientale e non solo quella del vicino oriente antico ma anche verso i luoghi della spedizione indiana di Alessandro, sulle tracce di Dioniso del trionfo indiano del dio.

Alla linea 9 del Papiro di Giessen sembrerebbe comparire una clausola di salvaguardia di difficile interpretazione introdotta dal participio [m]énontoj usato nella forma transitiva che farebbe riferimento ad una generale concessione della cittadinanza a ciascun ceto sociale, tranne che ai dediticii ([m]énontoj [tou dorou pan ghénoj tagmátwn] cor[íj] twn [de]deitikíwn). Sull’identificazione dei dediticii come gruppo sociale, se questa integrazione fosse giusta, ad oggi non vi è una risposta univoca e viene da domandarsi chi fossero e perché nell’ambito di un provvedimento a così forte pregnanza universalistica siano stati esclusi. L’autorità del Mommsenn (che altresì non vide il papiro perché morì sette anni prima della sua pubblicazione) e quella dei primi editori Kornemann e Meyer hanno lasciato la loro impronta su numerosi studi successivi e il quadro che ne è scaturito è stato di una esclusione dagli effetti dell’editto de civitate delle masse contadine tributarie (da identificarsi con i dediticii?) mentre i beneficiari sarebbero stati gli abitanti delle città dell’impero, cives o polítai.

Di recente è stata proposta un’altra possibile integrazione alternativa a [de]deitikíwn, ossia [ad]deitikíwn con riferimento agli additicia, nel senso di vantaggi addizionali come immunità e privilegi attribuiti a comunità o singoli individui. A questo punto, secondo la critica più recente entra in gioco il confronto con la clausola di salvaguardia contenuta in un importante documento epigrafico dell’età di Marco Aurelio, la tabula Banasitana.

Pubblicato oltre trent’anni fa, esso sembra costituire, per alcuni aspetti l’antecedente diretto della Constitutio Antoniniana. Rinvenuta a Banasa, colonia augustea in Mauretania Tingitana, la tabula contiene le copie (exempla) di due epistulae inviate ai governatori provinciali rispettivamente da Marco Aurelio e Lucio Vero nel 168 e Marco Aurelio e Commodo nel 177: gli imperatori concedevano, su istanza del governatore, la cittadinanza ad alcuni notabili del popolo degli Zegrensi, prima a Iulianus e alla moglie Ziddina; più tardi alla famiglia di Aurelius Iulianus, più precisamente alla moglie Faggura ed ai quattro figli. Il secondo personaggio, Aurelius Iulianus, figlio probabilmente dell’omonimo che ha avuto per primo la cittadinanza, compare addirittura come princeps gentium Zegrensium. Si tratta di un esponente di primo piano, appartenente all’élite di un popolo barbaro, stanziato nell’attuale Marocco. Il suo orgoglio per la cittadinanza romana concessa ai suoi figli e per il loro nuovo status di cittadini spiega anche la ragione della trascrizione su una tabula di bronzo, che fu sicuramente esposta al pubblico, probabilmente presso la residenza familiare.

L’elemento che permette di accostare il dettato della tabula e quello della successiva Constitutio riguarda la cosiddetta clausola di salvaguardia indicata nel rescritto imperiale: la cittadinanza veniva concessa salvo iure gentis, a condizione cioè che potesse essere rispettato il ius gentium, ma anche che non venisse pregiudicato il pagamento dei tributi dovuti all’erario ed al fisco (sine diminutione tributorum et vectigalium populi et fisci); dunque una possibile ricostruzione per le linee 8-9 del Papiro di Giessen 40 sempre secondo la critica più recente potrebbe essere: [«fatto salvo il diritto delle comunità politiche (esistenti) tranne …»] (ménontoj tou nómou (o dikaíou) ton politeumáton coríj twn

La Tabula Banasitana, potrebbe documentare la persistenza di obblighi nei confronti della comunità d’origine: Aurelius Iulianus, civis Romanus è contemporaneamente un princeps gentis, la gens degli Zegrenses, un princeps constitutus dall’autorità romana, interessata a che egli mantenga ben vivo il legame con la realtà locale anche per ragioni di ordine pubblico: le tribù locali del Nord Africa spesso daranno vita a sommovimenti e rivolte contro l’autorità romana sino alla grande rivolta delle tribù maure del IV secolo, capeggiata dal principe Firmo della tribù degli Iubaleni. In ogni caso è plausibile che la clausola salvo iure gentis possa riferirirsi ad un diritto delle singole gentes o nationes, che sopravvive al fianco del diritto romano senza peraltro pregiudicare gli obblighi nei confronti della communis patria, Roma; tale sopravvivenza viene anzi sentita come necessaria soprattutto ai fini dell’integrazione delle aristocrazie locali e non solo.

Del resto sia nelle aree orientali sia in quelle occidentali dell’impero a partire dall’età antonina, come testimonia almeno la Tabula Banasitana, e con un costante incremento a partire dall’età severiana si assiste ad una particolare forma di adattamento dei diritti locali consuetudinari o meglio di quelle che a livello giuridico vengono definite consuetudini provinciali al diritto romano e viceversa. Tutto ciò si presta a particolari approfondimenti per l’Egitto e per il vicino oriente antico a causa delle importanti e recenti scoperte papiracee. Del resto si è detto di quel processo che progressivamente spostò l’asse dell’interesse imperiale verso oriente. In questo senso si possono leggere ad esempio la persistenza delle unioni endogamiche e dei matrimoni adelfici in Egitto (assolutamente vietati ai cittadini romani), perlomeno sino ad una costituzione di Diocleziano e Massimiano del maggio 295 che intervenne a vietarli; e d’altra parte i nuovi cittadini dopo la Constitutio antoniniana utilizzarono schemi contrattuali propri del diritto romano (emptio, venditio e fidepromissio) a loro più favorevoli, come attestano i papiri in greco del medio Eufrate di recente pubblicazione. Per quanto riguarda l’Occidente il piano di lettura sembra essere apparentemente meno complesso in quanto il diritto romano non pare concorrere con istituti e modelli negoziali di natura locale ma è bene sottolineare come forme di diritto arcaico e consuetudinario abbiano continuato a sopravvivere, come l’ordalia, strumento di giudizio legato al mondo magico-popolare pagano almeno sino al IV secolo d.C. in aree decentrate come la Britannia e la Sardegna.

Con l’accesso alla cittadinanza di centinaia di migliaia di nuovi cittadini dovettero essere adottati una serie di meccanismi per decentrare presso sedi locali l’attività di registrazione che poté essere facilitata dalla pratica quinquennale dei censimenti cittadini; ciò in primo luogo per contenere il pericolo di frequenti usurpazioni della cittadinanza che già a partire dal periodo precedente si era tentato di arginare attraverso una rigida procedura. Dalla Tabula Banasitana sappiamo che l’editto imperiale veniva trascritto, seguendo la procedura in uso, sul Commentarius civitate Romana donatorum, il registro custodito nell’archivio imperiale a Roma, presso il tabularium principis sul Palatino, ciò dopo l’emanazione della Constitutio avrebbe creato seri problemi di ricezione e conservazione dei documenti, all’interno della sola sede romana, per quanto possa ammettersi un ruolo anche per il nostro tabularium senatorio.

Il rapporto documentario abbastanza solido tra la clausola di salvaguardia del Papiro di Giessen 40 e quella della Tabula Banasitana pone con decisione il tema della doppia cittadinanza, la contemporanea appartenenza alla patria d’origine (soprattutto se essa era una civitas peregrina), ed alla communis patria, Roma. D’altro canto il provvedimento di Caracalla, che chiude l’età degli Antonini e che nella visione già di Settimio Severo doveva aprire un nuovo secolo d’oro, si inserisce all’interno di un quadro sociale e politico assai complesso e dominato da una varietà di situazioni: rapporti tra Roma e le comunità locali, risvolti amministrativi e giuridici che ne derivavano, autonomia municipale, ruolo delle élites locali, organizzazione interna di alcune gentes, differenze culturali nella ricezione del potere tra province occidentali e orientali.

Due scuole di pensiero si sono fronteggiate su questo tema, quella di Mitteis, Arangio-Ruiz e Luzzatto che hanno interpretato la Constitutio antoniana nel senso di una affermazione totale e pervasiva del diritto romano sui diritti nazionali che erano destinati inevitabilmente a soccombere. “Il vigore ufficialmente esclusivo del diritto romano – scriveva Arangio-Ruiz – risulta chiaro dagli sforzi che tutto sommato le persone dei documenti fanno per richiamarvisi e adeguarvisi”. Ciò per certi versi è pur vero ma oggi tale interpretazione appare eccessivamente rigida e formale, anche perché non tiene conto della pluralità di situazioni geografiche, culturali, sociali sulle quali la generalizzazione della civitas romana andava ad incidere; del resto la romanizzazione non assunse ovunque le stesse caratteristiche, ma cercò localmente un equilibrio con i livelli di organizzazione politica coi quali si trovò a confrontarsi. Uno degli aspetti più significativi della romanizzazione fu l’estrema flessibilità, il tentativo di rispondere ad esigenze culturali particolari, frutto di tradizioni stratificatesi nel tempo, come nel caso dell’Egitto e delle province orientali. Occorre sottolineare che anche in Africa, la provincia che aveva dato i natali a Settimio Severo, si manifestò l’esigenza di mediare il rapporto tra peregrini e cives, tra comunità romane e comunità peregrine, ancora all’indomani della Constitutio Antononiana.

Di contro studiosi come Segrè, Schoenbauer, seguiti dal De Visscher dal Wenger ed in parte dal Taubenschlag hanno prospettato, con il conforto dei documenti papiracei il persistere, soprattutto nelle provincie orientali, dei politeumata locali accanto al diritto romano. Il Modrzejewski ha sfumato i termini della disputa escludendo l’equazione: civitas romana-civitas peregrina, diritto romano-diritto privato; in realtà la sopravvivenza di alcune consuetudini locali gli appare un fatto innegabile, che però non si tradusse né in un conflitto né in una giustapposizione con il diritto romano; a suo giudizio “le tradizioni locali di origine peregrina si mantengono in quanto diritto sussidiario di portata limitata, con la riserva della priorità accordata al ius civile romano”. Del resto su questa linea si pongono gli studi più recenti come quello di Marotta per il quale: «l’esistenza della doppia cittadinanza, prima della Constitutio Antoniniana è un dato empirico solitamente accettato dagli studiosi: sicuramente più difficile, al contrario, fornire un’adeguata spiegazione di questo fenomeno sul piano giuridico», allo stesso tempo lo studioso insiste sullo sviluppo del concetto di communis patria, passato a designare dall’ambito chiuso dell’urbs di epoca repubblicana la comunanza di ruolo e di diritti tra le singole civitates e l’urbs, in rapporto con l’orbis; egli dedica un intero capitolo al rapporto tra diritto imperiale e diritti locali.

Credo sia questo poi il senso della formula civitas augescens, di quel processo di progressivo ampliamento dell’area romana e del tentativo di equilibrare il rapporto tra cives e peregrini valorizzando il senso di comunità, di orbis, di oikouméne. Del resto Dione Cassio in epoca severiana retrodatava almeno fino all’età di Augusto il tema della civitas e della communis patria: se fa pronunciare a Mecenate il discorso sul definitivo tramonto dell’istituto monarchico nel quale il consigliere suggerisce ad Augusto di concedere la cittadinanza a tutti i sudditi, in modo che essi si sentano veramente parte di un’unica urbs, Roma. Il tema è ovviamente quello dell‘Encomio a Roma di Elio Aristide, che raffigura sul piano ideologico un impero universale alla cui unità e stabilità tutti dovevano concorrere. L’era di pace e di prosperità realizzata dagli Antonini rappresenta forse il momento più alto del mondo antico, per quanto l’equilibrio raggiunto ci appaia solo apparente: con l’anarchia militare del III secolo la stabilità dell’organizzazione sociale ed economica, fondata su un ceto di governo assai ristretto, sarebbe esplosa con drammatica evidenza.

Possiamo solo percepire vagamente la complessità della problematica e la ricchezza delle diverse realtà provinciali. Per l’Egitto il Segré notava che il diritto romano applicato agli Egiziani dopo la Constitutio non era il diritto romano vero: il diritto dei novi cives delle provincie ellenistiche constava di leggi romane, di leggi romane modificate dall’influenza delle leggi ellenistiche e di leggi ellenistiche vere e proprie. A parte la specificità egiziana, anche nelle altre province il provvedimento di Caracalla non chiude una volta per tutte il problema della doppia cittadinanza, se è vero che nel IV e nel V secolo continuò l’uso di concedere alle popolazioni barbariche stanziate all’interno dell’impero di vivere secondo il proprio diritto: è ad esempio il caso dei Visigoti nell’età di Teodosio.

Ma senza arrivare ad età così bassa, c’è da osservare che un indizio della sopravvivenza di comunità di peregrini all’interno di province di antica romanizzazione potrebbe essere documentato negli anni immediatamente successivi all’editto dalla pratica di concedere a puro titolo onorifico il titolo di municipio o di colonia di cittadini romani a città indigene. I casi sarebbero moltissimi e in questa sede mi limiterò a citare l’esempio di Uchi Maius (l’attuale Henchir Douamis in Tunisia), dove si svolgono attualmente le ricerche epigrafiche dell’Università di Sassari e dell’Institut National du Patrimoine di Tunisi da me dirette assiene a Mustapha Khanoussi. Circa vent’anni dopo la Constitutio Antoniniana de civitate, in occasione dei decennali di Severo Alessandro, la città numida di Uchi Maius continuava a vivere il problema dei rapporti tra cittadini romani e peregrini, dato che solo nel 230 d.C. si svolse la deductio della colonia di cittadini romani, ad opera di [L.] Caesonius Luc[illus] (Macer Rufinianus) legato e vicario del proconsole d’Africa: non si sarebbe trattato di una vera e propria deduzione coloniaria, ma di una semplificazione istituzionale, che avrebbe portato gli Uchitani indigeni (ormai tutti o quasi tutti cives) allo stesso livello degli eredi della colonizzazione mariana ed augustea, privilegiati almeno sul piano fiscale.

Il caso di Uchi è dunque paradigmatico dello sviluppo nel tempo dei rapporti tra indigeni ed immigrati, ma più ancora tra peregrini e cives, con una tendenza ad un progressivo ampliamento della categoria dei cittadini, aperta anche al contributo delle élites locali dal castellum numida al pagus ciuvium romanoum e alla colonia. Al di là delle regole teoriche e delle formule giuridiche, appare evidente come nei fatti la situazione fosse alquanto più complessa e variabile, a seconda delle località e dei periodi. Un vero e proprio equilibrio tra peregrini e cittadini non fu mai raggiunto definitivamente, ma fu sempre soggetto ad un lento processo di adeguamento e di integrazione.

Ed ecco allora che dalla communis patria intesa con significato quasi restrittivo da parte di Cicerone nella difesa di Cornelio Balbo di Gades accusato di aver usurpato la cittadinanza, nell’ultimo secolo della repubblica: Duarum civitatum civis noster esse iure civili nemo potest”, ed ancora: “sed nos non possumus et huius esse civitatis et cuiusvis praeterea” si passa progressivamente, già al principio dell’età imperiale, al tema di una communis patria diffusa, una sorta di villaggio globale dell’antichità. Ciò naturalmente senza voler banalizzare mutamenti che furono difficili e dolorosi. Il senso di appartenenza del civis romanus e la consapevolezza di possedere un diritto, la civitas, reso prezioso dalla sua esclusività è elemento capace di caratterizzare antropologicamente il romano e ciò per tutta l’epoca repubblicana: si prendevano provvedimenti ad personam per insignire della civitas romana personaggi di spicco del mondo culturale e politico locale, cittadini di città magnogreche come ad esempio il poeta Archia. Tale modo di procedere proseguì con Augusto che pur essendo, secondo la testimonianza di Svetonio, assai prudente in tema di concessione della cittadinanza attribui la civitas romana optimo iure optimaque lege, sulla base della legge Munatia Aemilia del 42 a.C., al navarca Seleuco, già cittadino di Rodi, a sua moglie, ai genitori, ai figli e ai discendenti che vennero esentati da prestazioni gravanti sui loro beni, dal servizio militare, da liturgie pubbliche ed inoltre potevano rivestire, se volevano, cariche e sacerdozi locali.

Non è certamente un caso, anche se alcuni studiosi tendono ingiustamente a confinare tale aspetto, che il superamento di una prassi giuridica restrittiva in tema di accesso alla civitas si debba ad un imperatore africano con ascendenze siriache per parte di madre, abituato a girare l’orbis allora conosciuto con le sue legioni composte da soldati provenienti da diverse province dell’impero, ossia un perfetto romano cosmopolita del suo tempo, abituato sin da piccolo a spostarsi tra Roma e le provincie.

In una prospettiva più storica ritengo allora che si debba considerare il quadro complessivo della formazione di Antonino Caracalla la sua raffinata educazione letteraria con le lezioni di Filostrato, filosofica con Antipatro di Ierapoli e giuridica con Papiniano, maestri che la madre Giulia Domna aveva scelto come precettori per i figli e i nipoti. Del resto gli interessi intellettuali di Giulia Domna, fecero della corte severiana un centro culturale di grande vivacità, dove gravitavano anche scrittori naturalisti del calibro di Eliano e probabilmente lo stesso Galeno. Ciò che fa più riflettere è la presenza a corte, nel ruolo istituzionale di prefetto del pretorio dei giuristi Papiniano e del suo successore Ulpiano; non escluderemmo che in qualche misura abbiano avuto un ruolo nell’elaborazione, soprattutto Ulpiano, dell’editto de civitate per la parte che riguarda l’ispirazione relativa alla prospettiva fiscale del provvedimento che si rendeva necessaria nell’ottica imperiale e del consilium principis come pure nell’ottica di Giulia Domna -da sempre molto legata al figlio- per sopperire alla penuria di risorse e alle spese militari. D’altra parte la critica troppo partigiana di Dione Cassio dimostrerebbe proprio in virtù della sua unidirezionalità che oltre la politica fiscale dovettero esservi altre ragioni di tipo ideale alla base della concezione della Constitutio, prima fra tutte la volontà di Antonino Caracalla di portare a termine il progetto paterno di valorizzare le province e di allargare la base di consenso con l’immissione nella cittadinanza dei nuovi Aurelii.

La Constitutio Antoniniana fu dunque la risposta che uno degli imperatori africani ritenne di dover dare alle istanze dei provinciali, cioè dei gruppi che lo avevano portato al potere, un primo importante passo verso l’eguaglianza nei diritti e nei doveri che costituisce il nucleo di ogni cittadinanza antica e moderna. Certo i problemi di convivenza tra cittadinanze di antica tradizione e nuove cittadinanze continuarono a persistere ma mi piace concludere ricordando che la straordinaria risposta che in antico venne data al problema della cittadinanza con l’emanazione della Constitutio antoniniana de civitate del 212 d.C. e la concessione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero potrebbe servire a suscitare una riflessione nel nostro paese a proposito di una legislazione sui migranti che deve mettersi al passo con i tempi: il primo problema giuridico da risolversi pare quello dell’attribuzione della cittadinanza ai figli degli immigrati, nati in Italia, sulla base dello ius soli.




Inaugurazione del 451° Anno Accademico dell’Università di Sassari

Inaugurazione del 451° Anno Accademico, Sassari, 9 novembre 2012
Relazione del Rettore prof. Attilio Mastino
Bilancio di mandato 2009-2012

Senza l’Università non c’è futuro per la Sardegna e per il Paese

Luciano di Samosata nella sua arguta opera Come si deve scrivere la storia (che non dimostra i suoi duemila anni) racconta con un po’ di riprovazione e di aristocratico distacco la celebre pazzia degli abitanti di Abdera, una città della Tracia: <<Dicono che durante il regno di Lisimaco, una malattia colpì gli Abderiti: dopo esser andati a teatro e aver sentito l’attore tragico Archelao che recitava l’Andromeda di Euripide, dapprincipio tutti in massa presero la febbre, forte e persistente; poi, intorno al settimo giorno, alcuni versarono abbondante sangue dal naso, altri si coprirono di sudore, che li liberò dalla febbre. Ridussero però le loro menti in uno stato pietoso.

Tutti infatti deliravano per la tragedia, facevano risuonare giambi e levavano alte grida. E la città era piena di questi tragedi del settimo giorno, pallidi e smagriti, che a gran voce urlavano dei versi. E questo per molto tempo, fino a quando l’inverno sopraggiunto con gran freddo li fece cessare dal loro impazzimento>>.

Il morbo abderitico fu una sorta di epidemia artistica, che colpì tutti i cittadini fino a quando non cambiò il vento. Non vi sembri offensivo se ho pensato di collegare questo morbo con l’improvvisa passione e l’entusiasmo che negli ultimi mesi ha travolto i professori universitari, i ricercatori e persino gli studenti, tutti assieme oggi come ipnotizzati e affaccendati nell’attuazione della Grande Riforma, seguendo la moda della Valutazione, della Meritocrazia, della Produttività aziendale, del Risultato, della Competizione fondata sulle molto zoppicanti ed eterogenee mediane, delle nuove rigide Regole che stabiliscono le Premialità.

Al di là della celia, l’Università cambierà davvero se la Riforma non sarà una moda passeggera abbandonata quando cambierà il vento, ma un’occasione di modernizzazione e innovazione, partendo dalla necessità di pesare le differenze e anche gli specifici svantaggi che esistono tra le aree del paese, tra i territori, tra le discipline, tra i ceti sociali, tra i giovani, consolidando i punti di forza ma anche eliminando i punti deboli di partenza. Non citerò il nostro amico autore del recente volume Contro la meritocrazia, ma siamo anche noi per un’Università delle capacità, dei talenti, delle differenze, delle relazioni, della cura (e dei meriti). Del resto cinquanta anni fa Michael Young pensando alle pari opportunità pubblicò il libro profetico The Rise of the Meritocracy, proiettandosi fino al 2033, tenendo presente il rischio che minoranze arroganti e piene di sé travolgano maggioranze che pure abbiano talento e impegno.

E ciò senza riuscire a garantire un più veloce progresso nella scala sociale ma al contrario dilatando le differenze di partenza. La meritocrazia rischia di diventare un implacabile strumento di legittimazione morale di nuove prepotenze, perché le élites auto-proclamatesi finiscono per diventare così sicure di se stesse che non ci sarà ostacolo ai premi che esse potranno arrogarsi. In campo universitario, ciò significa che poche Università si possono sentire autorizzate ad auto-proclamarsi le migliori, disprezzando le altre, creando un deserto che non promette nulla di buono per nessuno, in un quadro di risorse sempre più limitate. Pochi cattedratici capaci di superare i controversi indicatori potrebbero schiacciare tutti, decidere sui concorsi, assumere atteggiamenti ingiusti, soffocare non solo gli allievi ma anche i ricercatori e gli associati.

Per evitare equivoci, mi preme sottolineare che molti di noi hanno superato trionfalmente l’asticella ministeriale, abbattendola anche per 5 volte, dunque collocandosi ben oltre l’ultimo percentile. Del resto continuano i prestigiosi riconoscimenti ottenuti dai ricercatori dell’Università di Sassari a livello nazionale e internazionale, ma è assurdo pesare l’efficienza degli Atenei sulla effettiva occupazione dei laureati a un anno dalla laurea: si utilizzano indicatori che misurano non l’efficienza degli Atenei ma la ricchezza del territorio nel quale l’Università è inserita. Non ci rassegniamo ad essere un’università di seconda scelta e non mitizziamo classifiche e graduatorie che pure ci vedono ai primi posti in Italia, per quanto siamo decisi a migliorare le nostre performances.

Nella sezione dedicata ai diciassette medi atenei delle classifiche CENSIS Repubblica, la nostra Università si classifica al quarto posto, dopo Siena, Trento e Trieste. Sulla classifica di tutti i 57 atenei italiani ci piazziamo al sesto posto.  Il buon risultato è stato ottenuto grazie ad una valutazione positiva dei servizi erogati, delle strutture, delle borse di studio, del sito web di ateneo, dell’internazionalizzazione.  La situazione è in deciso miglioramento a livello di singole facoltà, laddove tutte tranne una mantengono la loro posizione o la migliorano. Architettura rimane stabile al secondo posto. Agraria passa dall’ottavo al sesto posto. Economia dal ventisettesimo al ventiquattresimo posto, Farmacia passa dal quattordicesimo al settimo posto; Giurisprudenza dal ventiquattresimo al quattordicesimo. Lettere e Filosofia dal trentatreesimo al ventinovesimo posto. Lingue dal quindicesimo al tredicesimo posto. Medicina e chirurgia dal ventiseiesimo al venticinquesimo posto. Scienze politiche ha il risultato migliore, passando dal diciottesimo all’undicesimo posto su 29 facoltà.

Abbiamo dimostrato il nostro impegno in questi ultimi mesi anche con le celebrazioni del 450° anno, alle radici della laboriosa formazione del nostro Ateneo, partendo dall’inaugurazione dell’anno accademico il 16 gennaio con la presentazione a tempo di record dei nuovi direttori di Dipartimento immediatamente dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del nuovo statuto: un testo che abbiamo poi applicato attraverso un’ampia adozione di regolamenti che tendono a difendere diritti e autonomia. L’Alma in Sardinia mater studiorum può vantare una storia secolare come pochi altri Atenei nel Mezzogiorno; in questi mesi ha potuto ricostruire attraverso i documenti un passato ricco, articolato, complesso, la profondità della sua storia, un patrimonio secolare che ereditiamo nella sua ricchezza di contenuti umani e scientifici, dal quale possiamo partire per costruire un Ateneo nuovo, capace di misurarsi in un confronto internazionale ma fortemente ancorato a un’identità e a una storia speciale.

Il peso della nostra storia ci è stato ricordato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 21 febbraio scorso quando ha sottolineato con emozione <>, riconoscendo il senso di una storia lunga, di un vero e proprio <>. Anche l’on. Gianfranco Fini il 24 marzo, ha partecipato alla giornata celebrativa che è partita dai talenti che abbiamo ricevuto, dalle tradizioni accademiche, dal patrimonio di cultura che appartiene a tutto il popolo sardo.

Nel quadro delle celebrazione centenarie, è avvenuta la premiazione dei nostri 53 migliori studiosi, i 36 “top scientists” delle Scienze Sperimentali in campo nazionale e i 17 individuati dai dipartimenti per le Scienze Umane e Sociali.

Il Convegno internazionale su <<Le origini dello Studio Generale sassarese>> (22 marzo 2012) ha rappresentato un momento alto di dibattito, promosso in accordo con il CISUI nell’ambito delle celebrazioni per i 450 anni dell’Ateneo e per i 150 anni dall’Unità d’Italia, chiuse a Caprera con l’inaugurazione del Museo del Risorgimento ad Arbuticci alla presenza del Presidente della Repubblica il 3 luglio.

Ci lasciamo alle spalle un anno intenso di manifestazioni, promosse in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti, il Conservatorio, il CUS, il CRUS, le Associazioni studentesche. Ci hanno aiutato finanziariamente la Fondazione Banco di Sardegna, il Banco di Sardegna, la Banca di Sassari, l’ERSU, le istituzioni locali.

Voglio ricordare la premiazione dei 450 studenti più meritevoli; la giornata sulla valutazione della ricerca, la laurea honoris causa a Pasqual Maragall, la consegna del sigillo storico ai dipendenti in pensione, la Messa solenne a San Giuseppe celebrata da Mons. Arcivescovo, la chiusura dei vecchi 25 dipartimenti, l’inaugurazione dell’ anno accademico con la presentazione dei 13 nuovi direttori di Dipartimento e del Teatro Comunale, la giornata celebrativa per i 450 anni al Teatro Verdi con la partecipazione del Presidente della CRUI Marco Mancini, la emozionante Lezione-Esibizione dei Tenores di Bitti, la Pasqua dell’Università, le giornate dell’Orientamento, la manifestazione nazionale Start up dell’anno 2012, il concerto degli Universitari in Piazza, l’incontro con il Commissario Europeo Hahn e con il Ministro Barca, l’intervento a Cagliari al Convegno Nazionale su “Il nuovo sistema sanitario per la Sardegna”, la visita degli Ambasciatori del Giappone Kohno, del Venezuela Rodríguez Díaz, della Cina Ding Wei, l’Erasmus Welcome Day, l’arrivo di tante delegazioni come quella oggi  dei Rettori della Rete delle Università Catalane o, a luglio, quella dell’Università di Pavia, le iniziative in tema di disabilità, i concerti, gli incontri scientifici, le presentazioni di libri, le inaugurazioni, le mostre, le manifestazioni sportive, musicali, del tempo libero che sempre di più entrano nella formazione degli studenti, i viaggi del Rettore e dei Delegati orientati a creare nuovi rapporti, stringere nuove alleanze, definire concreti progetti di ricerca, fino in Vietnam a Hué. La mobilità internazionale dei nostri studenti, che spezza un isolamento e si apre al mondo. La nostra è una università viva, piena di idee, di progetti, di speranze.

La consegna del candeliere d’oro speciale all’Università il 13 agosto ha sottolineato le radici, il rapporto forte, intenso identitario che lega l’Università alla città di Sassari e al territorio, nel ricordo di storie parallele che risalgono al Cinquecento spagnolo e di quel legame sotterraneo con i gremi, espressione delle categorie produttive di una città che ancora vuole crescere. Di quel giorno, tra le cose che mi sono più care conservo una lettera scritta dai goliardi che hanno assistito emozionati a quell’evento, con le feluche nascoste dietro la schiena: <>.

Eppure non sono mancati anche momenti di preoccupazione, come quando abbiamo dovuto far fronte ad un’indagine del Ministero dell’Economia che colpiva al cuore il nostro Ateneo. O quando abbiamo dovuto ritoccare le tasse dei nostri studenti prendendo atto del drammatico calo delle risorse statali. O quando si è concretamente prospettata la chiusura dei corsi in sede gemmata a Nuoro e ad Oristano ma anche ad Olbia, un patrimonio che intendiamo difendere per costruire nuovi saperi, alleanze per far crescere la Sardegna. Del resto anche ad Alghero abbiamo conosciuto ritardi e umiliazioni. Il Comune sta ora compiendo un passo importante destinando al Dipartimento di Architettura gli spazi di Santa Chiara, e per questo merita il nostro ringraziamento. L’immagine dell’ex convento delle Isabelline sul mare per questa cerimonia vuole sottolineare che la scelta di Alghero non è reversibile, ma rappresenta un valore aggiunto per il Dipartimento e per l’Ateneo. Il radicamento ad  Alghero, all’interno del borgo medioevale e della città murata, è destinata ad esaltare la proiezione internazionale del nostro Ateneo, l’orizzonte mediterraneo, i rapporti con il mondo catalano oggi testimoniati dal Presidente della Xarxa Vives e dall’intervento di Marc Mayer consigliere di amministrazione del nostro Ateneo

Infine, le amarezze per la riduzione ai minimi termini del turn over nel momento in cui stanno per svolgersi le abilitazioni nazionali, per il taglio del FFO, per i ritardi che si accumulano a causa di una burocrazia che interpreta in modo restrittivo la sua missione in una regione come la nostra che ha necessità di recuperare ritardi e disfunzioni. Per non restare sul generico penso in particolare all’edilizia sanitaria come nel caso della clinica neurologica. Penso ai ritardi nelle concessioni edilizie e negli allacci della luce elettrica  alle nuove strutture.

Più in generale il deserto produttivo che avanza in Sardegna, causato dal fallimento del progetto industriale messo in campo con il Piano di Rinascita e dall’aumento delle tariffe dell’energia e dei trasporti: il quadro ha finito per toccare drammaticamente i giovani cassintegrati della Vinyls che ci vengono strappati in questi giorni con la rottamazione degli impianti dopo anni di lotta disperata, mentre le bonifiche restano un lontano miraggio. Si tratta di un bollettino di guerra, che documenta lo sterminio industriale dell’isola e la fine di un orizzonte di sviluppo, ma che incide profondamente anche sul benessere e la solidità delle famiglie.

Il Rapporto della Banca d’Italia 2012 ed il 19° Rapporto sull’Economia della Sardegna pubblicato dal nostro Crenos fotografano un sistema economico sempre più debole, una contrazione del reddito delle famiglie e del PIL, il progressivo calo della ricchezza prodotta, le difficoltà delle imprese nell’investimento per l’incertezza economica e i vincoli del credito, con riflessi sulla qualità dei servizi pubblici in particolare dei servizi sanitari. Gli alti livelli della disoccupazione giovanile e il catastrofico andamento del mercato del lavoro in Sardegna annunciano prospettive difficili. Il Rapporto Crenos riconosce un ruolo decisivo tra i fattori di crescita e sviluppo dell’economia regionale al capitale umano, al livello di istruzione della popolazione adulta, al numero degli studenti universitari e dei laureati, alla formazione permanente degli adulti, agli investimenti in ricerca e sviluppo, ai brevetti, all’occupazione nei settori high-tech, al grado di diffusione della banda larga. La Sardegna deve migliorare la sua propensione all’innovazione tecnologica superando ritardi storici causati dalle ridotte dimensioni medie delle imprese.

Su questa nuova frontiera la responsabilità dell’Università finisce per essere determinante; non può essere solo valore aggiunto, ma deve proporsi come motore di innovazione e modernizzazione, a condizione che tutti noi perseguiamo l’obiettivo di premiare non l’appartenenza ma la competenza. Il nuovo Statuto dell’Autonomia ci impone obiettivi alti, dichiara la conoscenza come bene comune, promuove il confronto delle idee e la diffusione dei risultati scientifici anche allo scopo di contribuire al progresso culturale, civile, sociale ed economico e allo sviluppo sostenibile del territorio.

L’Università si trova oggi ad affrontare una situazione molto diversa rispetto al passato, che presenta aspetti di forte instabilità e segnali di ulteriore evoluzione. La complessità organizzativa che ne scaturisce va ricondotta al presentarsi (contemporaneo) di almeno sei condizioni:

– Autonomia gestionale, in ragione di una profonda rivisitazione dell’assetto della governance, in relazione all’attuazione della Legge 240, a cui si lega, un progressivo processo di accentramento decisionale da parte del Governo.

– Risorse tendenzialmente sempre meno disponibili (fondo di funzionamento ordinario, edilizia), legate ad un sistema di valutazione sempre più stringente, con una conseguente maggiore tensione sull’allocazione delle risorse, che rende necessario attivare fonti di finanziamento straordinarie, in particolare regionali e comunitarie.

– Richiesta di servizi qualitativamente più elevati nei settori strategici, come in quelli di supporto, collegabile ad una maggiore consapevolezza della domanda, che spinge verso un progressivo processo di decentramento, che implica, tuttavia, ingenti investimenti in tecnologia e risorse umane.

– Competizione nel settore della ricerca, anche in relazione ad una più stretta collaborazione con la comunità economica e delle imprese.

– Concorrenza sul mercato nazionale ed internazionale della formazione universitaria, che spinge, insieme alla normativa sull’accreditamento periodico delle sedi e dei corsi, a ridefinire le strategie e a riprogettare i percorsi di studio.

– Nuove opportunità, anche in relazione al ruolo dell’Università nel territorio quale fondamentale leva di sviluppo sociale, economico e culturale: innovazione, energie alternative, fruibilità dei beni paesaggistici e architettonici, turismo culturale legato al patrimonio identitario e alle tradizioni locali.

Il nostro Ateneo, dopo una serrata fase costituente, ha progettato e reso operativo il nuovo modello istituzionale di Università secondo gli indirizzi ministeriali, interpretati in senso molto innovativo, sulla base dei principi di autonomia, autogoverno, democrazia, equità, equilibrio dei poteri, collegialità, responsabilizzazione e rendicontazione.

Il nuovo modello deve stimolare processi virtuosi e far crescere l’Ateneo, tenendo conto della sua storia secolare, della sua complessità, della sua ricchezza di contenuti umani e scientifici: un Ateneo europeo proiettato anche nel Mediterraneo, di qualità, capace di misurarsi in un confronto internazionale, ma fortemente radicato nell’isola.

L’evidente necessità di cambiamento legata al mutato contesto di riferimento trova significativi ostacoli, in quanto le organizzazioni tendono naturalmente ad un’inerzia strutturale, di processi e di cultura interna. Altri vincoli sono determinati dal fatto che l’Università si trova oggi in una situazione di forte pressione sui risultati e, stante la riduzione delle risorse economiche, fatica a destinare ai processi di cambiamento l’attenzione che sarebbe necessaria.

Abbiamo in questi anni cercato di sostenere le persone che operano nella nostra Università nell’affrontare le incertezze, nell’assunto che il cambiamento non deve essere vissuto come elemento negativo, ma come sfida positiva. Abbiamo richiesto all’organizzazione uno sforzo e un impegno sostenibili.  Siamo convinti che il cambiamento deve essere attuato con le persone e non sulle persone, in modo da costruire un Ateneo in cui tutti gli attori ricoprano un ruolo significativo, ai diversi livelli, nel perseguimento degli obiettivi e nell’attuazione della missione istituzionale. Il processo è anzitutto un cambiamento culturale, in quanto riguarda in primis i valori e gli orientamenti; questo implica una maggiore consapevolezza da parte di tutti gli attori impegnati nella didattica, nella ricerca, nelle attività direzionali e in quelle tecniche e amministrative. Le partite, da sempre, si vincono facendo gioco di squadra.

Vorremmo ora cogliere questa occasione per guardare al futuro, pensando a come dobbiamo completare la rifondazione del nostro Ateneo, in esecuzione di una riforma universitaria che non vogliamo espressione del mito dell’aziendalizzazione delle Università e del valore commerciale del sapere. Eppure, anche se è il frutto di una tendenza iper-regolatrice ed essenzialmente autoritaria, superficiale e penalizzante, la legge 240 paradossalmente oggi deve diventare la nuova frontiera per difendere l’autonomia universitaria protetta dall’articolo 33 della Costituzione. Presto potremo intervenire con ulteriori modifiche statutarie per allargare le sfere di libertà, riconoscere i diritti, aprire nuove prospettive, come in tema di pari opportunità, di rappresentanza, di strutture di raccordo.

Siamo consapevoli che verremo giudicati per quello che non saremo stati capaci di fare, soprattutto se non affronteremo alcuni problemi centrali e alcune minacce: la spaventosa diminuzione delle risorse fino alla spending review che rischia di avere gravi ricadute sul sistema socio-economico specie nel Mezzogiorno allargando lo spread educativo e demotivando tanti protagonisti; la caotica riprogettazione dell’intera struttura degli Atenei e la ricomposizione dei Dipartimenti su nuove basi, la riduzione delle rappresentanze, l’impoverimento dei momenti di democrazia e di confronto interno, l’ulteriore precarizzazione dei ricercatori dopo anni di duro apprendistato; elementi che richiedono politiche di integrazione che correggano il modello centralistico di base e combattano il rischio di un’ulteriore stretta oligarchica, confermata dalla rimozione dei ricercatori e dei professori associati dalle commissioni di concorso.

Dobbiamo ora concentrarci sugli sbocchi occupazionali e sul rapporto tra formazione e lavoro, lo stiamo facendo efficacemente con i tanti progetti dedicati all’Orientamento, il che non significa sposare la letale ideologia della professionalizzazione dentro i corsi di laurea universitari più selettivi.

In Sardegna, caduto il mito della Rinascita, assistiamo ad una desertificazione produttiva e sociale che colpisce innanzi tutto il Capo di Sopra, non più difeso dopo lo smantellamento delle aree programma che in qualche modo garantivano i territori e perseguivano un riequilibrio nell’attribuzione delle risorse.   Tutto ciò si verifica all’indomani dell’adozione da parte dei due Governi che si sono succeduti di severe misure per il risanamento del bilancio dello Stato che hanno bloccato gli aumenti retributivi del personale; per non parlare delle limitazioni al turn over, del prolungato blocco dei concorsi con la conseguente riduzione dell’organico (siamo passati nel triennio da  731 docenti a 660; il personale tecnico amministrativo è passato da 635 a 575 unità). Incombe del resto all’orizzonte la prospettiva drammatica di circa un centinaio di prossime cessazioni dal servizio, l’aumento del numero degli studenti per singolo docente, il taglio del fondo di finanziamento ordinario degli Atenei con la minaccia dell’introduzione del penalizzante costo standard per studente, la possibile cancellazione del valore legale dei titoli di studio per la selezione della classe dirigente, che metterebbe definitivamente in crisi l’impianto del sistema universitario pubblico e colpirebbe pesantemente il nostro Ateneo; ancora la nuova formula dei Progetti di ricerca PRIN che privilegia le università specialistiche e i grandi gruppi di ricerca e mette insieme un farraginoso meccanismo di valutazione in sede locale con criteri che sono nettamente in contrasto con quelli adottati nella successiva valutazione nazionale. Eppure il risultato ottenuto nell’ultima tornata non è da disprezzare.

Nessuno riuscirà a convincerci che per innalzare la qualità del sistema universitario italiano sia necessario tagliare in tre anni del 13% le risorse, già spaventosamente insufficienti, mentre il Fondo di Funzionamento Ordinario dell’Università di Sassari è passato nel triennio da 82 a 72 milioni di euro. Vogliamo lavorare per garantire nel tempo la sostenibilità di bilancio, condizionata dalla costanza delle spese per il personale e dalla progressiva inutilizzabilità dell’avanzo degli esercizi precedenti, ancora molto alto (purtroppo cresciuto negli ultimi tre anni dai 45 ai 58 milioni di euro), prudentemente vincolato al fine di garantire eventi imprevisti e rischi da contenziosi e assicurare l’anticipo del pagamento delle indennità assistenziali al personale sanitario dovute da oltre un decennio. Le risorse aggiuntive ottenute con i fondi FAS hanno in questi giorni liberato quasi 6 milioni di euro destinati all’avanzo libero, ma non ci nascondiamo alcune criticità, in particolare il fatto che il FFO non riesce a coprire le retribuzioni del personale di ruolo.

Abbiamo avviato perciò alcune azioni prioritarie, perseguendo obiettivi di risparmio e buona amministrazione assolutamente necessari di fronte alla crisi:

– vogliamo migliorare gli indicatori di performances che vengono utilizzati per ripartire le risorse statali da parte delle strutture di didattica e di ricerca;

–          intendiamo favorire con tutte le azioni possibili l’attrattività di risorse esterne, in particolare quelle europee attraverso il programma Marittimo, l’ENPI il VII Programma Quadro e Horizon 2020 e la cooperazione con i paesi in via di sviluppo;

– siamo costretti ad affinare le politiche di reclutamento del personale di ruolo e a tempo determinato ponendo particolare attenzione agli equilibri di bilancio;

– è necessario valutare l’impatto finanziario relativo alla gestione ordinaria di tutte le strutture edilizie “a regime” e rispettare il programma di dismissioni deliberato dal Consiglio di Amministrazione;

– dobbiamo individuare ulteriori azioni volte al contenimento delle spese legate alla gestione ordinaria negli esercizi futuri, operando sul piano di programmi e progetti.

– occorre accelerare la spesa per l’edilizia su fondi di avanzo vincolati.

Deve essere chiaro che la riduzione delle risorse in questo tempo di crisi è una minaccia per quegli Atenei che, come il nostro, intendono recuperare situazioni di svantaggio e che non possono utilizzare la leva della tassazione studentesca in una regione nella quale garantire il diritto allo studio significa innanzi tutto prendere atto delle distanze fisiche e delle debolezze economiche delle comunità locali. Il gettito complessivo delle tasse studentesche tende a ridursi, anche in rapporto col calo del numero degli studenti (più contenuto rispetto alla media nazionale), passati da 17401 a 14811, a causa del processo di spopolamento che la Sardegna sta vivendo.

Gli studenti sono ripartiti nei 52 corsi di studio, 28 triennali, 18 magistrali, 6 a ciclo unico, con un salutare calo di dieci corsi nell’ultimo triennio. Immaginiamo un’ulteriore riduzione dell’offerta formativa per il prossimo futuro, in rapporto alla contrazione degli organici. Si riduce il numero dei fuori corso, mentre il numero degli immatricolati è stabile sulle 2124 unità. Gli iscritti alle scuole di specializzazione sono 730, di cui 438 ai 58 corsi di area medica. Le 11 scuole di dottorato profondamente riformate hanno 402 iscritti, 257 dei quali con borsa e 131 immatricolati. I master aumentano di numero grazie all’impegno dell’Assessorato regionale al lavoro che finanzierà anche corsi di alta formazione. I tirocini e gli stage coinvolgono ormai gran parte di nostri studenti con moltissime convenzioni in atto. Il Centro Linguistico si impegna con l’attivazione di corsi di lingua straniera, mentre vengono potenziati dappertutto i laboratori infornatici e progettiamo il rilancio di Unitel Sardegna.

L’Ateneo continua ad aprirsi agli scambi internazionali, lancia programmi di mobilità per studio, per ricerche, per tirocini all’estero, continua a scalare le graduatorie nazionali e insiste ad investire nell’ERASMUS, anche in un momento nel quale dall’Unione Europea non arrivano messaggi rassicuranti in materia di borse.

I dati sulla mobilità internazionale studentesca sono in crescita. Gli studenti in mobilità ERASMUS per studio saranno più di 400 per il secondo semestre, con quasi 3000 mensilità finanziate. Gli studenti in mobilità per tirocinio hanno sommato 645 mensilità. L’Ulisse, il programma di Ateneo per la mobilità extraeuropea, ha coinvolto 58 studenti, quadruplicando il numero delle mensilità. Complessivamente sono stati 531 gli studenti in mobilità all’estero per studio e per tirocinio, e 59 i docenti e le unità del personale tecnico-amministrativo. Gli Erasmus incoming sono stati 180, facendo registrare un incremento di quasi il 30% rispetto ai flussi dell’anno precedente.

A decorrere dalla istituzione del programma nel 2007 i docenti stranieri impegnati a Sassari nel programma Visiting professors per didattica e ricerca sono arrivati a un totale di 627, con evidenti positivi riflessi anche sulla produzione scientifica dei nostri colleghi.

L’Ateneo aderisce a reti interuniversitarie e ottiene straordinari risultati nel campo della ricerca scientifica: ma accanto al reperimento di nuove risorse e di nuove fonti di finanziamento anche dall’UE, assistiamo a un avanzamento in campo regionale e nazionale, grazie ai progetti presentati, ai nuovi laboratori, al riconoscimento di competenze, talenti e opportunità, come se tutti possiamo godere di una libertà nuova di proposta e di progetto, partendo dai più giovani, assegnisti, dottorandi, ricercatori a tempo determinato. In questo campo la legge regionale n. 7 del 2007 ha aperto veramente nuove strade anche nel settore del trasferimento tecnologico. La nascita del Centro Servizi grandi attrezzature di Ateneo per la ricerca, del Centro sulle tecnologie per i beni culturali, del Centro sulla nautica con Pisa e Genova e di una serie di altri Centri anche in collaborazione con il CNR, segna un momento di importante modernizzazione delle strutture di ricerca, che si accompagna oggi all’inaugurazione del Centro Elaborazione Dati in Via Rockfeller, nel quadro dei programmi rinnovati per l’Università digitale. In questo senso vanno le iniziative condotte dai delegati per il Museo Scientifico di Ateneo, l’Orto Botanico e il Sistema bibliotecario di Ateneo, reso autonomo e profondamente rinnovato grazie all’impegno pluriennale di Elisabetta Pilia.

In collaborazione con il Direttore Generale dell’AOU, la medicina universitaria si trasforma profondamente, in un orizzonte di programmazione e di risparmio. È stato iniziato un efficace percorso di integrazione con la nascita dei tre Dipartimenti Universitari di area medica e della Struttura di Raccordo. La prossima istituzione dell’Organo di Indirizzo, l’emanazione dell’Atto Aziendale, le riunioni del tavolo tecnico, gli investimenti proposti attraverso i Fondi FAS e le nuove attrezzature dalla PET alla TAC consentiranno all’AOU di Sassari di essere percepita come Azienda di riferimento per le attività assistenziali essenziali allo svolgimento delle funzioni istituzionali della Facoltà di Medicina e Chirurgia. L’integrazione sinergica passerà attraverso l’articolazione di strutture semplici, di strutture complesse e dei Dipartimenti assistenziali integrati.

Un evento importante per l’intero territorio del Sassarese è stata la acquisizione dei fondi FAS 2007/2013 per un importo totale di 182 milioni di euro a favore di Università, AOU, Accademia delle belle Arti, ERSU.

Dopo l’incontro del 9 marzo 2011, con i Ministri Fitto e Gelmini sul Piano per il Sud, con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 21 gennaio 2012 della delibera CIPE, si è arrivati alla attribuzione dei Fondi FAS, definita in questi giorni con la trasmissione delle schede di cantierabilità, per un importo totale pari a 80 milioni di euro, di cui 17 milioni di cofinanziamento con fondi universitari.

I macrointerventi previsti sono relativi al Dipartimento di Agraria, al Polo Agrario Veterinario, all’Orto botanico e alla realizzazione Area Bionaturalistica. Poi la nuova sede del Dipartimento Chimico farmaceutico in Via Vienna, la realizzazione del nuovo Polo Umanistico di via Roma ed ex Istituto dei ciechi, la ristrutturazione dei palazzi dell’Amministrazione centrale in piazza Università; la ristrutturazione in Via Muroni dei dipartimenti di Giurisprudenza, Scienze Economiche e Aziendali e Scienze Politiche.

L’inaugurazione avvenuta stamane del nuovo Ospedale Veterinario testimonia l’impegno dei delegati e del nostro Ufficio tecnico. Ci prepariamo così nel migliore dei modi alla visita della Commissione EAEVE, recentemente nominata, che nel 2013 valuterà il Dipartimento di Medicina Veterinaria, che può ora contare anche su una nuova Azienda zootecnica.

Quello che presentiamo oggi è innanzi tutto un bilancio di mandato del Rettore, incarico che sono stato chiamato a ricoprire per un triennio in occasione delle elezioni del maggio 2009: prorogato ora per due anni, sento il dovere di rendere conto di quanto è stato fatto in un periodo che è stato intenso, caratterizzato da un’attività quasi frenetica dei delegati, degli uffici, di tutto il corpo accademico, che ha affrontato la riforma con spirito critico ma costruttivo, in un orizzonte di rinnovamento e di impegno. Cerchiamo ora la collaborazione delle istituzioni, in particolare della Regione, dei Comuni, dei Consorzi, dell’ERSU, impegnato sul versante del campus universitario e del contenimento delle tariffe studentesche.

La convenzione triennale 2012-14 tra la Regione Sardegna e le due Università sarde, firmata lo scorso 25 luglio con gli Assessori regionali alla Programmazione Giorgio La Spisa e alla Pubblica Istruzione Sergio Milia, fissa il quadro di obiettivi comuni in attuazione della legge regionale 26, mobilitando già per il 2011 un finanziamento per i due Atenei superiore ai 25 milioni di euro, una vera e propria boccata di ossigeno di cui siamo grati, anche se il patto di stabilità ha fin qui congelato oltre 50 milioni.

L’accordo con la Regione è collegato alla recente firma dell’intesa di federazione tra le Università di Cagliari e di Sassari per un processo di integrazione federativa dei due Atenei attraverso la formalizzazione delle attività svolte in collaborazione in settori strategici per lo sviluppo culturale, sociale ed economico della Sardegna, anche attraverso forme di mobilità incrociata. Con l’amico Rettore Giovanni Melis programmiamo  iniziative di interesse comune nell’ambito delle aree della didattica e dei servizi agli studenti, della ricerca e dei rapporti con il territorio, delle relazioni internazionali e dei servizi, delle opere pubbliche e della gestione finanziaria. Nasce il Sistema universitario regionale, che parte dal rispetto assoluto per l’identità e l’autonomia irrinunciabile di ciascun Ateneo storico.

Con la città di Sassari abbiamo cercato di ascoltare, di cogliere le ragioni della crisi, di affermare valori condivisi, di perseguire la sostenibilità delle risorse economiche e naturali, di combattere i fenomeni di disagio giovanile, di lavorare per un nuovo modello di sviluppo urbano virtuoso. Già in occasione dell’approvazione del piano strategico le rappresentanze più significative dell’economia e delle istituzioni locali, Comune, Provincia, Camera di Commercio e Confindustria, avevano sottolineato, in modo corale, la necessità di conoscenza tecnologica e informatica diffusa, più in generale avevano sollecitato un maggior interesse per le discipline dell’area tecnologica. Crediamo che l’Ateneo debba dare risposte a questa richiesta, riappropriandosi di funzioni di programmazione ed indirizzo che sono solo sue. La prolusione di Andrea Cereatti oggi va in questa direzione.

Dunque, dopo tre anni di attività, sentiamo ancora più forte il dovere di un impegno ulteriore, ancora più determinato e serrato, indirizzato a chiudere progetti ed a indicare prospettive e indirizzi per chi, a partire dal I novembre 2014, sarà chiamato a sostituirci senza soluzioni di continuità.

Cari amici, non sono mancati in questi ultimi tre anni momenti esaltanti, durante i quali tutti insieme abbiamo sentito solidarietà e amicizie vere intorno a noi. Mi preme ringraziare coloro che ci sono stati vicini, che si sono spesi insieme con noi, in primis i componenti vecchi e nuovi della Giunta. E poi il Prorettore Vicario Laura Manca e il Direttore Generale Guido Croci, i nuovi Prorettori, per un impegno che non ha conosciuto soste né pentimenti, soprattutto per un’amicizia che costituisce l’aspetto più gratificante dei tre anni appena trascorsi che, per quanto mi riguarda, sono stati difficili da affrontare ma pieni di curiosità, di passioni, di desideri da realizzare. Con identico sentimento di gratitudine rivolgo un sentito ringraziamento ai Presidi, ai vecchi e nuovi direttori dei Dipartimenti, ai membri del Senato, del Consiglio di Amministrazione, degli organi accademici, ai dirigenti; tra questi, Sonia Caffù, assunta in corso d’anno e trasferita a Sassari dal Miur; ai capi ufficio, agli impiegati, ai tecnici, ai bibliotecari, agli amici del Rettorato e della Direzione Amministrativa, soprattutto ai nostri studenti che – riuniti nelle tante associazioni fino ad ALAUNISS e all’ADI -, costituiscono l’“oggetto” più importante della nostra attività di insegnanti e sui quali abbiamo l’ambizione di trasferire, nella staffetta della vita, il testimone delle nostre ricerche e dei nostri studi.

A conclusione di questa cerimonia scopriremo una targa per ricordare i 450 anni dell’Ateneo e la visita del Presidente Napolitano e aggiorneremo l’elenco dei benefattori, ai quali ci legano vincoli di gratitudine profonda.

C’è un brano della Bibbia che mi è molto caro, quando Isaia immagina nell’Idumea sul Monte Seir nel silenzio angoscioso della notte, un passante che chiede alla vedetta collocata sulla torre più alta: «Sentinella, quanto resta della notte ?>>. La sentinella, quasi un oracolo benefico, risponde dall’alto della sua postazione: <>.

La notte nera in cui si trova attualmente il nostro Paese, la recessione, la crisi profonda fatta di omissioni, di pigrizie, di interessi personali speriamo stia per finire, il baratro finanziario, il malessere economico e culturale possono ormai essere alle spalle, e l’alba si annuncia con tutte le sue speranze: abbiamo superato questa fase drammatica della nostra storia qui a Sassari credo con dignità e rispetto per le persone, cercando di rispondere alle attese, di sentire il parere di tutti, di collegare tra loro i terrori e le esperienze della Sardegna. Il nostro è stato e continuerà ad essere un Ateneo sano, un’Università in crescita continua, una realtà viva, dinamica, positiva. Da domani spetta a noi, in particolare ai nostri giovani, vigilare perché la luce dell’alba del giorno nuovo illumini un futuro di serenità e di impegno.




Seminario Cooperazione Civile Militare in Afghanistan.


Seminario Cooperazione Civile Militare in Afghanistan
Esperienze dell’Università di Sassari e della Brigata Sassari

Mercoledì 6 giugno 2012. Ore 9. Aula Magna dell’Ateneo
Piazza Università 21, Sassari

Apertura dei lavori e saluti

ATTILIO MASTINO

Magnifico Rettore Università di Sassari

Desidero dire due parole con grande affetto, con grande amicizia, ai militari rientrati recentemente dall’Afghanistan e in particolare al nostro carissimo generale Luciano Portolano.

Voglio ricordare l’emozione  vera che abbiamo provato in piazza Italia qualche settimana fa in occasione della cerimonia che ha accompagnato il rientro della Brigata Sassari, dopo questo periodo operativo particolarmente difficile e gravoso in Afghanistan. E devo dire che abbiamo sentito tutti l’entusiasmo di chi rientrava dopo aver portato a termine una missione impegnativa, di chi era convinto di aver svolto fino in fondo –  come lo siamo tutti – il proprio dovere in Afghanistan per aiutare la popolazione civile a ritornare ad un periodo di tranquillità e di pace, ma soprattutto di chi sa di aver servito la propria patria con l’onore e con il rispetto soprattutto manifestato da parte dei soldati di tante altre nazionalità impegnati in quel campo.

E nelle parole, in particolare, del Presidente della regione on.le Ugo Cappellacci abbiamo sentito l’emozione forte, la simpatia, il legame che lo unisce con i militari che ha visto all’opera in Afghanistan.

Noi abbiamo voluto questo seminario, promosso dal professor Sergio Vacca, del Dipartimento di Scienze della Natura e del Territorio, che volevo ringraziare in apertura, per l’impegno e per l’attenzione che ha manifestato per questo tema non soltanto oggi ma anche più ancora negli anni precedenti.

Abbiamo voluto questo incontro sulla Cooperazione civile e militare in Afghanistan per presentare le esperienze dell’Università di Sassari e della Brigata Sassari, in particolare a Herat.

I lavori saranno coordinati dal professor Paolo Puddinu.

Volevo veramente soltanto salutare i nostri ospiti, in particolare i generali presenti, il generale Natalino Madeddu, che consideriamo un amico vero della nostra Università e il generale Carta che ha diretto la Brigata Sassari in passato con un grandissimo successo.

Ma questo seminario, e poi la tavola rotonda che seguirà, saranno due momenti per approfondire anche il tema del ruolo internazionale dell’Università, le Azioni che l’Ateneo può concretamente promuovere d’intesa con il territorio e in particolare d’intesa con gli Ordini Professionali e con le strutture dipartimentali, le sue articolazioni interne, quelle dell’università, che in qualche modo sono impegnate in una politica di internazionalizzazione a favore della pace.

Noi abbiamo previsto già da alcuni anni delle borse di studio per studenti stranieri. Ci sono attualmente tre studenti, tre nostri dottorandi che frequentano il nostro Dottorato di Ricerca, la Scuola di dottorato in Scienze e Biotecnologie dei Sistemi Agrari e Forestali e delle Produzioni Alimentari, diretta dal professor Antonino Spanu e i nostri allievi sono Mohammad Alam Ghoryar, Mohammad Osman Karimi e Addullah Halim, che hanno in questi due anni circa frequentato a Nuoro e a Sassari la Scuola di Dottorato.

Ma al di là di questo volevo dire anche la gratitudine dell’Ateneo nei confronti di chi ha reso possibile questa collaborazione e che speriamo possa estendersi in futuro dando una dimensione internazionale e ulteriore al nostro Ateneo, e in particolare al Presidente dell’Ersu, Gianni Poggiu, per risolvere definitivamente i problemi dell’internazionalizzazione dell’Università che passano attraverso anche le figure che vengono formate; dirigenti, manager, persone destinate a svolgere un ruolo molto attivo nel proprio paese al loro rientro, soprattutto in alcuni campi come l’agroalimentare e non solo. Credo che noi abbiamo assolutamente l’esigenza di collaborare con l’Ersu per trovare soluzioni concrete, così come a Nuoro con il Consorzio per la promozione dello sviluppo universitario nel Nuorese, che oggi è rappresentato dalla Presidente Loi.

Volevo anche dire che le nostre Scuole di Dottorato hanno una quota rilevante di studenti stranieri. Io sono stato recentemente in Vietnam, perché abbiamo parecchi dottorandi e dottori di ricerca Vietnamiti. Complessivamente al momento sono circa trentacinque gli studenti che frequentano i nostri dottorati e sono provenienti da paesi extraeuropei.

Ci sono in questa giornata tante storie che si incrociano, tante questioni in discussione, tante competenze che siamo riusciti a raccogliere, e in particolare volevo ringraziare i colleghi dell’Università di Milano, Marco Lombardi, del Ministero degli Affari Esteri, Alberto Bortolan, i professori che hanno accompagnato in Afghanistan i nostri allievi, in particolare Chiara Rosnati e Gianni Battacone, tutti coloro che insomma hanno contribuito a portare avanti questa esperienza che cambia profondamente anche i nostri dipartimenti, i nostri laboratori e il nostro Ateneo.

Nella tavola rotonda si discuterà assieme agli Ordini Professionali, assieme ad alcuni direttori dei dipartimenti e alcuni ricercatori, il problema del ruolo di Organismi di Formazione e degli Ordini Professionali nella formazione permanente nei paesi in via di sviluppo. Io credo questa sia la nuova frontiera. Sono stato recentemente in Tunisia, a Djerba, per un progetto di cooperazione del Nucleo Ricerca Desertificazione nella regione di Tataouine e Matmatma, e in Algeria nella regione di Batna.

Ci sono dei finanziamenti concessi dal Ministero per gli Affari Esteri per la Cooperazione Internazionale che sono gestiti direttamente dal nostro Ateneo e che in qualche modo qualificano anche l’attività di ricerca che si svolge nei paesi in via di sviluppo.

Voglio dire il ruolo e il significato alto di una cooperazione a livello internazionale che deve estendersi e che, nel caso dell’Afghanistan, si appoggia fortemente anche su un rapporto profondo di stima, di rispetto con i nostri militari e in particolare con la Brigata Sassari.

Ecco, io volevo semplicemente dare atto di questo, ringraziare il generale Luciano Portolano per l’attenzione che ha avuto nei confronti delle nostre piccole iniziative e dire che l’Università c’è, ci sarà ancora e spera di poter contribuire a una politica di pacificazione in quel paese con l’obiettivo soprattutto di stabilizzare una situazione difficile e di combattere il terrorismo con le armi della pace e della cultura.

Grazie e buon lavoro.




San Sperate. All’origine dei murales.

San Sperate di Attilio Mastino.

La lunga primavera di San Sperate è iniziata quaranta anni fa, nel 1968, all’indomani del viaggio di Pinuccio Sciola in Spagna e poi nella Parigi sconvolta dal vento della contestazione del maggio studentesco e poi in Messico, alla ricerca di una dimensione mitica immaginata e desiderata a lungo: con questo volume curato da Ottavio Olita siamo condotti per mano attraverso le interviste dei tanti protagonisti di allora a riscoprire le ragioni per le quali il paese contadino del Campidano è uscito da un sonno millenario, quando i suoi abitanti tutti all’improvviso si sono appassionati di arte, hanno scelto la rivoluzione del sorriso, hanno compiuto un percorso culturale che è stato anche un’esperienza collettiva che possiamo riconoscere ormai entrata nella storia della Sardegna.

Le immagini in bianco e nero di Nanni Pes raccontano più delle parole con una profondità di campo che impressiona, fanno rivivere i tempi lontani del grigio paese di fango dall’aspetto spettrale che all’improvviso è diventato candido, ha riscoperto i colori, le figure, le emozioni, ha condiviso la passione, le curiosità, i desideri di un ragazzo come tanti, chiamato a guidare tutta la sua gente, che non è rimasta a guardare ma si è fatta incantare e quasi sedurre, ha vissuto e sofferto quasi una malattia o meglio un’epidemia.

Leggendo queste pagine mi è venuta in mente la vicenda straordinaria raccontata da Luciano di Samosata nel suo arguto volume Come si deve scrivere la storia che non dimostra i suoi quasi duemila anni: <>.

Il morbo abderitico, questa sorta di epidemia artistica, si era diffuso ai tempi di Luciano quando tutti si misero a scrivere la storia e non vi sembri offensivo se ho pensato di collegarlo con l’improvvisa passione e l’entusiasmo che ha colpito in un colpo gli abitanti di San Sperate, come ipnotizzati  tutti assieme e coinvolti nella passione per la pittura e per l’arte.

Questo volume conserva memoria delle controverse fasi della trasformazione dell’antico paese contadino, tormentato in continuazione dalle alluvioni dei due fiumi, il Rio Mannu-Flumini ed il Bonarba, caratterizzato da tradizioni quasi preistoriche, da un’economia di baratto e di sopravvivenza basata sulle antiche professioni, sul trasporto animale a dorso d’asino, sul frumento impiantato in età romana in un’isola che fu uno per Cicerone uno dei tria frumentaria subsidia rei publicae.

Un paese che poi ha recepito il canto di sirena del mito, un messaggio di armonia, pace e cultura, portato dagli artisti provenienti da tutto il mondo come Eugenio Barba col suo Odin Teatret, i tedeschi Elke Reuter, Rainer Pfnurr, l’olandese Meiner Jansen, lo svizzero Otto Melcher, tra i sardi Foiso Fois, Giorgio Princivalle, Gaetano Brundu, Giovanni Thermes, questi ultimi caratterizzati da un forte astrattismo e simbolismo: allora i muri vengono dipinti di bianco, vengono intonacati i mattoni di fango, i caratteristici ladiris che ricordano una tecnica edilizia documentata in Sardegna dallo scrittore Palladio nel VI secolo d.C., i mattoni di argilla e di paglia prodotti in primavera ed descritti nel de lateribus faciendis. Arrivano i murales astratti, simbolisti, neorealisti,  espressionisti, che parlano di un mondo più grande attraverso immagini schematiche spesso spiegate con didascalie, una forma nuova di epigrafia popolare destinata a durare per poco tempo. Ma l’obiettivo non è quello di rendere bello un paese brutto, è soprattutto quello di trovare un pretesto per un grande momento di partecipazione comunitaria e di dibattito intorno all’arte popolare.  Contemporaneamente l’Ente Flumendosa bonificava il territorio comunale ed avviava le canalizzazioni che ancora oggi consentono l’irrigazione di una campagna destinata a fiorire in modo straordinario, con i suoi frutteti.

Questa non è però un’opera celebrativa perché in realtà Ottavio Olita è riuscito a restituire il senso delle polemiche di allora, i contrasti tra artisti, la durezza di uno scontro che ha appassionato e diviso il paese, tanto che c’è qualcuno che rimpiange i tempi nei quali l’amministrazione comunale di destra era ostile ai murales ed all’arte. Ho trovato straordinariamente intelligenti le riflessioni di Amalia Schirru e di tanti altri intervistati, capaci di dare una lettura non convenzionale di una vicenda artistica che è stata per anni al centro dell’attenzione dei media e che ha contagiato tanti altri paesi da Serramanna con Antonio Ledda e Ferdinando Medda, a Villasor, ad Orgosolo con Francesco Dal Casino, alla stessa Nuoro, ad Oliena, ad Ozieri, fino ad arrivare oggi a Tinnura in Planargia.

Il ruolo della stampa nella scoperta di questo evento, della primavera di San Sperate è stato rilevante, come testimoniano Vittorino Fiori, Ottavio Olita, Gianni Perrotti, lo scontroso Romolo Concas.

Giganteggia in queste pagine la figura carismatica di Pinuccio Sciola, accanto ai suoi maestri e mecenati, Foiso Fois, Guido Vascellari, a Salisburgo Emilio Vedova: nelle parole di chi l’ha conosciuto ragazzino, Pinuccio compare senza neppure le scarpe ai piedi, ma già circondato da affetto, stima, speranza, affezionato alla vita del paese che si sviluppa con una straordinaria socialità nelle cantine e nelle cucine, integrata nella campagna, ma insieme pieno di curiosità, desideroso di lasciare una traccia di sé su quella pietra che raramente si incontra nelle campagne campidanesi: dunque innanzi tutto la raccolta delle macine sparse in campagna, chiamate a decorare le piazze, poi il lavoro con gli amici, le tante idee bizzarre.   Innanzi tutto i viaggi, a Firenze, nella Madrid franchista, a Barcelona, poi a Parigi, a Salisburgo, nel lontano Messico alla scuola di Davide Alfaro Siqueiros grazie all’intervento di Alberto Boscolo.

Nominato ispettore archeologo della Soprintendenza, Pinuccio fu in rapporto con i più qualificati studiosi sardi, come Giovanni Lilliu, Alberto Boscolo, e Salvatore Naitza, di cui ci rimangono in queste pagine due preziosissime testimonianze di rara profondità: io personalmente ricordo l’amicizia di Pinuccio con Renata Serra e con Giovanna Sotgiu, che mi ha fruttato in occasione del mio matrimonio  il dono di una scultura in legno di olivo di una madre e di un bimbo e insieme un dipinto a tempera sullo stesso soggetto, quasi un murale con le mani ed i piedi deformati come in un manifesto. E poi più di recente una pietra musicale, che conservo gelosamente tra Bosa e Sassari.

E ancora Gianfranco Pintore, direttore del periodico bilingue Sa Sardigna, espressione della cooperativa ed i tanti artisti coinvolti a San Sperate, come Aligi Sassu, innamorato del paese dipinto, come lo chiamava, ma criticato per i suoi cavalli dai ragazzi del paese, pronti a mobilitarsi per testimoniare come si deve veramente dipingere. Del resto passarono per San Sperate persone come Arnoldo Foà o Dario Fo.

Pinuccio fu il motore della trasformazione del suo paese, che ben presto diventa il paese museo, con il parco megalitico, i murales, il cineforum, il teatro, la musica come il jazz di Alberto Rodriguez, in un vulcanico e magmatico succedersi di proposte contraddittorie e confuse, alcune portate avanti e poi accantonate, facendo leva sulle piccole occasioni di incontro, una processione, la sagra delle pesche, le scoperte archeologiche. Dunque la nascita della cooperative, il paese che si apre, le case che iniziano ad ospitare gli artisti, i cortili, l’impegno per difendere la fisionomia di un centro storico povero ma pieno di significati e di memorie, le resistenze degli amministratori ottusi ed incompetenti.

C’è del resto veramente lo scontro con le autorità locali e nel 1975 con la giunta municipale di destra, con il duro intervento delle forze di polizia e dei carabinieri, le perquisizioni e le intimidazioni, il processo davanti al pretore di Decimomannu, che segnò anche il riconoscimento del valore morale e culturale delle iniziative e l’impegno per difendere tutte le forme di espressione artistica, continuamente tormentata da scritte offensive, dai piccoli interessi di bottega, da invidie locali. Infine il lento pendio che porta Pinuccio ad abbandonare la politica attiva sia pure moderata e sardista ed a distinguersi sempre più nettamente dalle amicizie compromettenti, dall’arrivo di  amici delle brigate rosse, dagli assistenti di Toni Negri che in quegli anni circolavano in Sardegna, dalle strumentalizzazioni politiche, nelle quali era rimasto invischiato – scrivono Antonio Sciola e Nanni Pes – per la sua eccessiva ingenuità, per il suo candore, per la sua fiducia negli altri. Lui stesso scrive oggi di aver rischiato di finire in galera come uno scemo, senza rendersi conto dei pericoli che correva. Ma più mi hanno sorpreso la durezza dei giudizi di Primo Pantoli su Pinuccio, accusato di essere politicamente una nullità, un istintivo che si è abbandonato ad una grande ingenuità.

Non trovo giusto però quello che scrive Primo Pantoli con parole di fuoco sul fatto che Pinuccio avrebbe sempre rifiutato il mondo della cultura assumendo una posizione ambigua, accettando in nome della demagogia anche espressioni d’arte popolare decisamente brutte e scadenti, rinunciando al compito degli intellettuali che sarebbe quello di selezionare e di conservare. Soprattutto non mi è piaciuta l’accusa di anti accademico. Voglio ricordare i riconoscimenti accademici di Pinuccio, che sembrano sottovalutati se si pensa alla rete di amicizie che ha coltivato e se io stesso dieci anni fa come preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Sassari avevo avuto modo di proporlo per un contratto di insegnamento al fianco di Aldo Sari e Gino Kalby, un’occasione per far entrare aria nuova nel mondo dell’Università che su L’Unione Sarda era stata apprezzata da Antonangelo Liori.

Al di là di Sciola, che comunque emerge per la forza dell’esempio e della testimonianza, si coglie da queste pagine il senso di una ampia partecipazione popolare, il senso di un percorso corale, di una ribellione e di un’istanza politica profonda, come se si fossero risvegliate forze sopite ma vitalissime, un gruppo di “militanti” decisi ad affermare una visione nuova della vita e del mondo.

Rimane irrisolto il nocciolo duro di questo libro, la domanda inespressa, se gli artisti che hanno colorato i muri di San Sperate tentassero di riscoprire una tradizione locale oppure volessero travolgere e violare l’antica cultura isolana, se i murales dei primi tempi avessero qualcosa a che fare con l’identità sarda oppure se viceversa volessero rompere quell’appartenenza ad una cultura che si vorrebbe fatta di silenzi e di grigiore.

Primo Pantoli non ritiene che in Pinuccio Sciola ci sia qualcosa di sardo e trova banale osservare che la lavorazione della pietra possa esser stata scelta come forma d’arte allo scopo di condurre l’artista sulla scia degli eroici costruttori dei nuraghes. C’è dietro queste osservazioni la vecchia e stantia polemica dell’esistenza di un’arte sarda, per il fatto che anche la Sardegna interna sarebbe stata interessata da una rete di relazioni e di influenze arrivate dall’esterno, senza una forma autonoma e originale di cultura. C’è anche un giudizio clamoroso sull’Accademia d’arte di Sassari, che sarebbe una specie di aborto, mentre d’ora in poi non si dovrebbe più parlare di arte Sarda ma di arte in Sardegna, secondo un’espressione che a me non appare così intelligente di Vittorino Fiori.

C’è il pregiudizio che l’arte protosarda sia stata iconoclasta, aniconica, complessivamente opaca e povera, comunque con un gusto estetico ben diverso da quello del muralismo contemporaneo, carico di vivacità di contrasti tanto da avvicinarlo al fumetto. Lo spessore dell’interesse degli artisti di San Sperate per la Sardegna profonda in realtà non può essere messa in discussione: basterebbero le foto degli artisti che si confrontano con i bambini, le relazioni sociali, l’anonimato o meglio il collettivo delle opere, i modi dell’esprimersi. Si parte sempre dal riconoscimento della lingua sarda, adottata ad esempio a Laconi nel 1979 in occasione del processo per la realizzazione di un murale abusivo. Ma sono le strutture della società sarda che emergono e si confrontano  sui muri, come se il valore della scelta di ambientare i dipinti in questo paese, come più tardi ad Orgosolo, volesse far partire ogni discorso dal riconoscimento di un’autoctonia e di un’identità come valori assoluti, ai quali associare la comunità con una partecipazione democratica, fondata sull’antimilitarismo come a Pratobello e sulla pace. Dunque i temi prescelti, il lavoro, il riposo, la festa, gli animali, una forma forte e  collettiva di arte, un laboratorio figurativo dell’identità contadina, scoperta e valorizzata perché portatrice di un patrimonio culturale fin là non compreso. La Sardegna dunque come polo prezioso di un rapporto con il cosmopolitismo degli artisti e dei soggetti coinvolti,  come espressione dell’arte popolaresca in rapporto ai grandi professionisti.

Oggi San Sperate conserva poche tracce di quella stagione straordinaria, anche se  il fiorire di Bed & breakfast, la nascita dell’ufficio turistico gestito dalla cooperativa Fentanas, lo sviluppo del sistema cooperativo, rappresentano uno degli effetti di una crescita che è stata anche economica, ma soprattutto culturale, fondata sull’orgoglio di appartenenza ad una comunità che si è messa in sintonia con la vicina capitale Cagliari, che è stato il polo di riferimento lontano sempre sullo sfondo, la misura del rapporto tra la periferia e il centro, tra la campagna e la città.

Mi ha commosso la testimonianza di Cenzo Porcu, orgoglioso per le parole del figlio che ha scoperto qualcosa del padre in ogni angolo di San Sperate, un paese che conserva il senso di una lunga primavera, che ha saputo costruire – scrive Ottavio Olita – una coscienza, la voglia di riscatto, il bisogno di essere protagonista della propria storia.

In questi giorni Pablo Volta ha pubblicato per la Ilisso il volume Sardegna come l’Odissea: un’opera straordinaria scritta a San Sperate, dove il celebre fotografo italo argentino ha scelto di vivere dal 1987. Un’opera che conferma come proprio l’incanto della Sardegna abbia toccato il cuore degli artisti di allora.

NO ?

Nel capitolo Un paese ignorato dalla storia, Ottavio ricostruisce attraverso le parole di Enrico Milesi su La grotta della vipera la lenta evoluzione della piccola villa medievale di Ortixedru, l’orto del cedro, divenuto San Sperate già prima del XV secolo: il nuovo nome è stato un poco superficialmente collegato all’asparago, su sparau. Più credibile è il collegamento  col  martire africano Speratus, il capo dei famosissimi martiri scillitani uccisi a Cartagine alla fine del regno di Marco Aurelio: le sue reliquie sarebbero state trasportate in Sardegna da uno dei vescovi esiliati dal re vandalo Trasamondo all’inizio del VI secolo, mentre a Cagliariu era vescovo il pio Brumasio, se è vero che il paese campidanese ha preso il nome da questo santo. Un bambino Speratus morto a 14 anni è ricordato a Cagliari nel VI secolo ed un presbitero Isperate è menzionato nel con daghe di San Pietro di Silki attorno al 1200, come se i fedeli sardi avessero assunto il nome del venerato martire africano.

Molti dubbi possono avanzarsi invece sull’autenticità della lapide un tempo conservata nella parrocchiale di San Sperate, trascritta nel Seicento, che attribuiva al vescovo Brumasio la traslazione delle reliquie:

hic sunt reliquiae sancti Sperati et aliorum mi— martiribus a Brumasio episcopo.

Come è noto Brumasio potrebbe essere lo stesso vescovo di Cagliari Brumasius Primasius che accolse Fulgenzio e gli altri vescovi esiliati da Trasamondo in Sardegna (vita Fulgentii 24). Ricordato in tre Sermoni cartaginesi di Sant’Agostino, Sperato ed i suoi compagni hanno forse ispirato Pinuccio Sciola per la statua di Sant’Agostino collocata nel quartiere della Marina a Cagliari per volontà di don Vincevo Fois e della comunità parrocchiale, presso l’antica chiesa che ricorda la traslazione in Sardegna del corpo del vescovo di Ippona.




III Conferenza regionale per la ricerca e l’innovazione.

Saluto del Rettore dell’Università di Sassari alla
III Conferenza regionale su ricerca e innovazione
Cagliari, 14 settembre 2012.

Cari amici,

porto il cordialissimo saluto dei ricercatori, del personale e degli studenti della Università di Sassari, a questa III Conferenza regionale per la ricerca e la innovazione voluta dal Vice Presidente Giorgio La Spisa.  Due giornate che si stanno concentrando intorno alle sfide in atto, alle nuove politiche regionali di fronte alla strategia europea Horizon 2020, al capitale umano, alla formazione dei giovani anche attraverso le summer school, all’internazionalizzazione, alla valutazione, al trasferimento tecnologico, alla innovazione come prezioso strumento di competitività del territorio in Sardegna e nel Mezzogiorno nei tempi della crisi globale.

Quello di oggi  è un evento con contenuti non scontrati, un fatto nuovo, una occasione che testimonia la complessità dei problemi, delle questioni che noi abbiamo di fronte e con le quali giorno per giorno dobbiamo confrontarci. Non posso non apprezzare le sessioni tematiche dedicate ai Beni culturali tra innovazione e valorizzazione e alla Radioastronomia in Sardegna, all’indomani dell’assegnazione del premio Navicella di Castelsardo a Simona Murgia, professore associato di astrofisica all’Università di Stanford.

L’Università arriva a questo appuntamento dopo un difficile percorso di riforma che ha profondamente inciso sulla struttura stessa degli Atenei attraverso i nuovi statuti, la nascita dei nuovi dipartimenti, il rinnovo di tutti gli organi accademici e che ora giunge a toccare il cuore stesso del sistema, i singoli ricercatori, valutati nel momento in cui chiedono di accedere all’abilitazione nazionale come candidati o come commissari: i controversi giudizi in questi giorni espressi sulla produttività scientifica di tanti colleghi professori ordinari aspiranti a entrare nelle commissioni di abilitazione risultano spesso basati su indicatori discutibili rispetto alle mediane, ma indubbiamente pongono per la prima volta il problema di metodo, per una valutazione dell’impegno di ciascuno di noi, soprattutto per misurare il ruolo che ogni singola università può aspirare a ricoprire in un contesto competitivo come quello italiano ed europeo.

Questa conferenza cade in un momento di profonda trasformazione per il paese e per la Sardegna, ma anche in un momento in cui si discutono, anche negativamente, il prestigio, il ruolo della scuola e dell’università pubblica, spesso incapaci di inserirsi in una dimensione sovrannazionale, non sempre in grado di adeguarsi al velocissimo  progresso tecnologico, alle nuove tecnologie informatiche, alle recenti dinamiche economiche finanziarie, al mutamento delle professioni, alla innovazione continua che richiede una formazione continua.

La responsabilità dunque dell’università e della scuola in Italia, e particolarmente nel Mezzogiorno, è rilevante perché gli interventi innovativi in conoscenza avranno sicuramente riflessi positivi sull’intera società. C’è veramente però l’esigenza di far emergere nell’università le zone d’ombra, le incapacità di cogliere il nuovo, le difficoltà. L’università arriva certamente in ritardo a confrontarsi con l’innovazione e ciò soprattutto in Sardegna eppure nei tempi del federalismo il punto di partenza contro ogni omologazione deve essere quello del riconoscimento del valore e della diversità  dei territori che diventa capitale culturale, prezioso valore aggiunto se l’articolo 33 della Costituzione riconosce il significato straordinario dell’autonomia universitaria. Noi ci portiamo dietro delle tradizioni di studi che fanno parte della nostra identità di uomini di oggi e che possono costituire il lievito e la componente originale per il nostro entrare nel mondo delle nuove tecnologie.

L’università svolgerà un ruolo strategico di protagonista in Sardegna e nel Mediterraneo, recupererà prestigio e considerazione soprattutto se saprà stabilire rapporti e sinergie con grandi centri di eccellenza, a livello europeo, senza rinunciare ad una cooperazione però con la riva sud del Mediterraneo che favorisca un confronto culturale, che abbatta vecchi e nuovi steccati, che combatta la divaricazione che quasi inesorabilmente il mondo sta drammaticamente vivendo ancora oggi, con tante speranze come quelle alimentate dalle primavere arabe. Occorre innanzi tutto scrollarsi di dosso le politiche coloniali europee verso la riva Sud del Mediterraneo, perché il Mare nostrum è veramente il nostro mare. Erroneamente Franco Cassano nel Pensiero Meridiano considera <<L’espressione latina mare nostrum, odiosa per il suo senso proprietario>>, visto che  in realtà si tratta di una definizione che non è originariamente romana, ma fu coniata in ambiente greco già con Platone, comunque molti secoli prima  delle conquiste orientali di Roma, par’emin thalasse. Per Paolo Fedeli, questo è un chiaro esempio ancora una volta della mediazione effettuata dai Latini di fronte all’eredità culturale dei Greci. Eppure possiamo concordare con Cassano che Mare Nostrum è un’espressione che  <<oggi può essere pronunziata solo se si accetta uno slittamento del suo significato. Il soggetto proprietario di quell’aggettivo non è, non deve essere, un popolo imperiale che si espande risucchiando l’altro al suo interno, ma il <<noi>> mediterraneo. Quell’espressione non sarà ingannevole solo se sarà detta con convinzione e contemporaneamente in più lingue>>.

Dunque mi aspetto che questa terza Conferenza non sia una semplice celebrazione con l’enunciazione di buoni propositi ma possa veramente entrare nei problemi e segnalare tante criticità, tanti elementi di riflessione, tanti obiettivi da perseguire con rigore e senso di responsabilità che ci sono imposti dalla crisi economica e anche culturale che il paese sta attraversando. La crisi in Sardegna si sta estendendo ad una miriade di aziende e di imprese, dalla Vinyls di Porto Torres all’Alcoa di Portovesme, dalle miniere di Nuraxi Figus ad Ottana e alla cementeria di Scala di Giocca.  Al di là della frammentazione della crisi che promette ai nostri giovani un futuro nero per i prossimi anni, appare evidente che i problemi si concentrano in Sardegna intorno a due elementi fondamentali, il costo dell’energia ed ai trasporti:  su entrambi questi temi (e non solo) la ricerca universitaria può dare un contributo ed è per questo che abbiamo aderito in questi giorni al tavolo tecnico sulla chimica verde promosso dall’Assessore all’Agricoltura Oscar Cherchi. Ma siamo veramente impegnati su tanti altri fronti, perché l’innovazione in Sardegna passa attraverso le due Università, a condizione che sappiamo metterci al servizio della società civile, senza sprecare risorse, perseguendo la promozione del merito e delle competenze, la valutazione vera, l’internazionalizzazione, l’innovazione. Vorremmo raggiungere un obiettivo ambizioso,  aumentare la produttività, innalzare il numero dei laureati specie nelle discipline scientifiche, degli specializzati, dei dottori di ricerca, cogliendo le opportunità dei nuovi master internazionali voluti dall’Assessore Antonello Liori, un passo avanti rispetto al Master and back.  Vorremmo ridurre il numero dei falsi studenti, promuovere gli scambi Erasmus, la mobilità, lo sviluppo dell’informatica e dell’ITC, la conoscenza delle lingue straniere, combattere nuove forme di analfabetismo e introdurre una formazione più lunga. Soprattutto sostenere la ricerca di eccellenza capace di introdurre innovazioni nei diversi campi del sapere.

C’è un compito che ci aspetta e dobbiamo riconoscere i tanti ritardi che si sono accumulati specialmente in un Ateneo come il nostro che quest’anno ha celebrato i 450 anni di vita dalla nascita del Collegio Gesuitico, rivendicando una dimensione internazionale originaria. Nel richiamare le proprie radici storiche, l’Ateneo ha intrapreso un percorso di rifondazione come Università pubblica, all’interno di un sistema internazionale più competitivo e globale, ispirandosi ai principi di autonomia e di responsabilità; è consapevole della ricchezza delle tradizioni accademiche e del valore delle diverse identità. Si dà un ordinamento stabile, afferma il metodo democratico nella elezione degli organi, si dichiara attento al tema della formazione delle giovani generazioni e alle esigenze del diritto allo studio; colloca lo studente al centro delle politiche accademiche e promuove la cultura come bene comune. Rivendica i valori costituzionali, previsti per le «istituzioni di alta cultura», della libertà di scelta degli studi, di ricerca e di insegnamento, assicurando tutte le condizioni adeguate e necessarie per renderla effettiva. Si impegna a promuovere, d’intesa con le altre istituzioni autonomistiche, lo sviluppo sostenibile della Sardegna e a trasferire le conoscenze nel territorio, operando per il progresso culturale, civile, economico e sociale. C’è un articolo nel nuovo statuto dedicato alla promozione del progresso, al libero confronto delle idee e alla diffusione dei risultati scientifici, favorendo lo sviluppo sostenibile e la tutela dell’ambiente, inteso come sistema di risorse naturali, sociali ed economiche. L’Ateneo si candida a partecipare alla definizione delle politiche pubbliche e delle scelte fondamentali relative allo sviluppo territoriale e può agire in accordo con gli operatori economici, il mondo produttivo, gli ordini professionali, i sindacati e le altre espressioni del mondo della cooperazione, del volontariato e del terzo settore.

L’art.7 dedicato alla ricerca precisa che l’Ateneo promuove e organizza la ricerca libera e orientata nei diversi ambiti disciplinari, contribuendo all’avanzamento culturale, scientifico, sociale ed economico locale, nazionale e internazionale. A tale fine, riconosce il libero movimento dei ricercatori e concorre alla crescita dello Spazio Europeo della Ricerca attraverso la selezione e la valorizzazione del proprio potenziale di ricerca; favorisce la collaborazione fra le diverse aree del sapere, l’integrazione e l’interdisciplinarità, per rispondere alle esigenze della società e rafforzare la propria competitività; promuove l’integrazione fra scienza e tecnologia per contribuire alla crescita e all’innovazione del sistema produttivo attraverso la valorizzazione e il trasferimento dei risultati della ricerca scientifica; orienta l’evoluzione della ricerca e l’aggiornamento delle tematiche di studio, favorendo l’interdipendenza fra ricerca e didattica.

La riforma crea positivamente una cellula di base, uno spazio nel quale ricerca e alta formazione si toccano, il dipartimento, che organizza e promuove le attività di ricerca scientifica, favorendo la collaborazione fra le diverse aree del sapere e l’interdisciplinarità, adottando il piano complessivo di sviluppo della ricerca e della didattica, approvando i programmi di ricerca interdipartimentali. I dipartimenti organizzano le attività didattiche, i corsi di studio, i dottorati di ricerca come palestra per le nuove generazioni. All’interno dei dipartimenti verrà costituto un Comitato per la ricerca che svolgerà attività di coordinamento, di promozione e di reperimento di finanziamenti, elaborerà il piano di sviluppo della ricerca fissando gli obiettivi strategici e operativi, svolgendo la funzione di monitoraggio delle performance, presenterà una relazione sulle attività svolte, da sottoporre al Consiglio del Dipartimento.

L’articolo 58 dello statuto fissa i rapporti con la Regione Sardegna  allo scopo di inserire l’attività universitaria nei processi di sviluppo operando per il progresso culturale, civile, economico e sociale della Regione e per diffondere nel territorio le conoscenze scientifiche e le esperienze didattiche più avanzate a livello internazionale.  L’Ateneo ha stipulato con la Regione nelle scorse settimane un’intesa triennale che consentirà di interagire positivamente con le politiche regionali e di indirizzare gli investimenti sugli obiettivi strategici di medio e lungo termine nel campo dell’alta formazione, della ricerca, del trasferimento tecnologico, dell’assistenza, con definizione di meccanismi competitivi e di forme di premialità, come quelle emerse a Sassari in occasione della visita del Presidente Fini con i 50 migliori ricercatori dell’Ateneo.  Abbiamo trovato con gli Assessori La Spisa e Milia una piena sintonia e una convergenza sugli obiettivi strategici: la Regione sta investendo in modo consistente a favore del sistema universitario sardo, che si presenta con una nuova fisionomia dopo la firma dell’accordo di federazione tra i due Atenei stipulata nel giugno scorso.

Il Piano strategico del nostro Ateneo indica per il prossimo triennio  alcuni obiettivi strategici e alcuni obiettivi operativi riconoscendo che <<L’eccellenza nella ricerca proiettata sempre più nella prospettiva internazionale costituisce una dimensione basilare per  costruire un Ateneo di qualità in grado di confrontarsi con gli altri sul piano nazionale e sviluppare politiche di attrazione di studenti anche da contesti territoriali non isolani>>.

Intendiamo migliorare il posizionamento dell’Ateneo nella ricerca scientifica e aumentare la quantità/qualità dei progetti, consolidare ed ampliare in campo internazionale le reti di collaborazione per la ricerca scientifica,  migliorare gli strumenti a supporto della gestione e rendicontazione dei progetti, migliorare la terza missione dell’Ateneo attraverso la valorizzazione e la diffusione del trasferimento tecnologico, migliorare gli strumenti di premialità al fine dell’attribuzione delle risorse.

Il piano strategico definisce i seguenti obiettivi operativi per il triennio:

– Migliorare il posizionamento nei Progetti di Interesse Nazionale (PRIN) e dei progetti in Futuro e Ricerca (FIRB), attraverso un accrescimento del tasso di partecipazione e di successo

– Facilitare la partecipazione e il successo sui progetti finanziati dalla Regione Autonoma della Sardegna sulla programmazione regionale e nell’ambito dei finanziamenti indiretti (FSE – FESR) e sul POR 2007-2013

– Facilitare il tasso di partecipazione e di successo sui progetti finanziati dall’Unione Europea nell’ambito del FP7 – FP8 e di altri programmi dell’UE, nonché da parte di altri soggetti internazionali

– Aumentare la qualità/quantità della produzione scientifica svolta con la collaborazione dei Visiting

– Implementare un sistema informatico centralizzato ed unitario per la gestione e rendicontazione di tutte le tipologie progettuali

– Integrare il sistema della ricerca e il sistema produttivo

– Disciplinare la premialità di Ateneo relativa alle Scuole di dottorato

– Attribuire le risorse alle Scuole di Dottorato anche in base alla logica premiale

Per restare alla legge regionale 7 del 2007, nel triennio abbiamo potuto assegnare oltre 200 premi per circa 2 milioni di euro per la premialità regionale destinata ai migliori ricercatori. Presso il nostro Ateneo risultano finanziati 130 progetti di ricerca per oltre 15 milioni di euro. È stato finanziato il Centro servizi di Ateneo per la ricerca CeSARSS con un investimento sul piano tecnologico superiore ai 4 milioni. Nasce il Centro universitario di ricerca di tecnologie per i BBCC il CIRTEBEC, con 1,5 milioni di euro suddivisi tra i due Atenei. Lascio da parte i consistenti finanziamenti del progetto INNOVARE, che sarà presentato dai Prorettori, ma ricordo gli investimenti del FSE in tema di dottorati di ricerca con l’attivazione di 117 borse con un costo di oltre 9 milioni; e poi gli assegni di ricerca ed i contratti di ricerca triennali per un totale di 6,7 milioni ancora del FSE, con un capitolo specifico sui BBCC. Infine il FESR che finanzia i nuovi laboratori didattici e di ricerca per oltre 4 milioni di euro.

Mi sembra doveroso dare atto dell’impegno crescente della Regione negli ultimi anni a favore delle due Università della Sardegna in particolare sul fondo unico, la cui consistenza è stata notevolmente incrementata grazie all’impegno della Commissione cultura, della Commissione bilancio, della Giunta, del Presidente Cappellacci, degli Assessori che si sono succeduti, di tutto il Consiglio Regionale. Il fondo unico deve assolutamente mantenere per i prossimi anni il livello del 2012, se vogliamo compensare i tagli disastrosi effettuati dal Governo a danno degli Atenei sul fondo di funzionamento ordinario nazionale (Sassari è crollata da 83 a 72 milioni di Euro in tre anni) e se vogliamo evitare che i due Atenei della Sardegna vedano compromesso lo sforzo di crescita, siano condannati al blocco del turn over e costretti ad aumentare le tasse studentesche.

Spiace dover ricordare che il patto di stabilità ha notevolmente ritardato i trasferimenti a favore degli Atenei e specialmente a favore dei consorzi universitari per le sedi gemmate. Molti nostri docenti, non pagati da anni per supplenze e contratti svolte a Nuoro e Oristano, rifiutano quest’anno di continuare a garantire il loro apporto didattico.

Eppure sono tanti i risultati ottenuti, la mobilità studentesca che ha raggiunto risultati certamente straordinari, i visiting professors (nell’ultimo anno l’Università di Sassari ha ospitato quasi 200 docenti stranieri), il rientro dei cervelli che l’Ateneo ha gestito con trasparenza e rigore; i premi di produttività, la premialità per i progetti di ricerca. E poi i finanziamenti europei, il settimo programma quadro, il Marittimo, l’ENPI, la biblioteca scientifica regionale e infine la nuova anagrafe della ricerca che rende trasparente la ricerca universitaria. A tutto ciò si sommano gli investimenti che le due università hanno effettuato con fondi propri. Dunque ci sono molti passi in avanti significativi per rendere la Sardegna l’isola della ricerca, un modello anche per altre regioni per una nuova economia della ricerca, per creare reti, per aprire la Sardegna verso l’esterno, per essere capaci di accogliere e non di respingere al centro del Mediterraneo, per evitare di essere chiusi e ripiegati su noi stessi. Dunque si segnalano alcuni grandi temi sui quali si sta investendo. Consentitemi di rivendicare con orgoglio i risultati raggiunti, le punte di eccellenza, il concentrarsi di nuclei di ricercatori.  Guardiamo con speranza verso la bio medicina, le neuroscienze, l’agroalimentare, le nanotecnologie, l’ICT, le biotecnologie, l’energia verde, i nuovi materiali. Voglio ricordare la chimica verde anche con riferimento all’impegno che le università assumono nei confronti del territorio per valutare se alcune iniziative industriali sono velleitarie o se meritano viceversa attenzione da parte degli amministratori pubblici.  In Sardegna la ricerca scientifica è insieme espressione di una tradizione di studi secolare, di reti di rapporti stabiliti nel tempo, ma anche si inserisce sempre di più in una grande comunità europea internazionale, costituisce le fondamenta per quella che è ormai la terza missione dell’università: il servizio a favore del territorio sul piano assistenziale sanitario, ma anche sul piano ambientale, sul piano economico, sul piano sociale, sul piano industriale, ma anche sul piano del trasferimento tecnologico a favore delle aziende.

Le università stanno cambiando, nascono nuove infrastrutture di ricerca, nuovi gruppi di ricercatori che fanno massa critica, nuove collaborazioni tra umanisti, medici e scienziati di più atenei. Ma proprio le dimensioni dell’investimento regionale in controtendenza in questo momento di crisi ci impongono una responsabilità e un’attenzione più alta, l’impegno a non creare false illusioni, la necessità di contrastare il diffuso precariato che ormai affligge gli Atenei italiani a danno di giovani che hanno curricula di tutto rispetto, titoli accademici certamente superiori a quelli che a suo tempo i ricercatori della mia generazione riuscivano a mettere insieme.

In questo quadro i giovani hanno diritto di ricevere dalle due università sarde non soltanto una formazione che consenta loro di confrontarsi ad armi pari in Europa con i loro coetanei, ma soprattutto devono ricevere stimoli, suggestioni, curiosità,  passioni che motivino il loro impegno futuro. Essi devono essere in grado di declinare con originalità e consapevolezza i grandi temi dei nostri giorni, la globalizzazione, il confronto tra culture, le identità plurali del Mediterraneo, partendo dalla nostra forte significativa e originale appartenenza sarda.

Naturalmente non ci nascondiamo i problemi, qualche volta i ritardi ed anche ne nostre incapacità: guardando un pochino dall’alto la ricerca, in Sardegna esistono dei problemi gravissimi che la classe politica si dovrebbe porre, innanzitutto esiste una forte esigenza di riequilibrio territoriale; la concentrazione degli investimenti soltanto in alcune realtà indebolisce fortemente il quadro regionale. C’è da lavorare veramente per censire, verificare, creare sinergie, con riferimento alle attività di tutti i soggetti, quindi CNR università, enti regionali. L’Università non contesta gli investimenti a favore degli altri Enti di ricerca, sostiene le politiche dei parchi, apprezza il nuovo corso di Porto Conte Ricerche, prende l’impegno di ricontrattare il protocollo d’intesa entro il prossimo anno, chiede sinergie e politiche di convergenza con Sardegna ricerche, anche attraverso una presenza dei due Atenei nel Comitato tecnico scientifico, richiede una compensazione territoriale con altri investimenti di AGRIS, di Porto Conte Ricerche, di Laore, di altri enti regionali che sviluppano attività di ricerca, in altri territori, fin nel cuore della Barbagia.

Devo dire che poi è evidente a tutti la debolezza di alcuni settori della ricerca e soprattutto è necessario creare massa critica perché dobbiamo costruire delle reti ed abbiamo dei settori da sviluppare.

Infine il tema della valutazione che peserà sempre di più sul fondo di funzionamento ordinario degli Atenei. Le Mediane e i nuovi indicatori ANVUR richiedono un costante aggiornamento delle politiche universitarie e pongono il problema della sinergia con gli Enti Regionali, con il CNR, con una valutazione dei costi e dei benefici e delle ricadute territoriali dei consistenti investimenti ottenuti da ciascuno. Nelle ultime riunioni sulla legge 7 e sul trasferimento tecnologico abbiamo insistito sul fatto che dobbiamo concentrarci sul Sistema regionale della ricerca, con l’obiettivo generale e la messa in rete delle strutture scientifiche e di ricerca. Anche  la Biblioteca scientifica regionale (sviluppata da Sardegna Ricerche) o gli altri sportelli aperti da SR per  la progettazione europea o per il supporto alla brevettazione non saranno un prodotto di SR ma del Sistema regionale con punti di consultazione/consulenza  sul territorio.

Dunque vorremmo che vengano in piena trasparenza valutati i prodotti della ricerca, le pubblicazioni, i brevetti, la gestione della proprietà individuale della ricerca, la nascita di nuove imprese, lo start up di nuove imprese innovative, alcuni spin off, l’organizzazione di progetti, di convegni, di altre attività, il trasferimento tecnologico.

Rispetto alla tradizionale missione formativa e di ricerca dell’università italiana, si è sviluppata negli ultimi anni la nuova vocazione, quella del trasferimento delle conoscenze: si è iniziato a considerare importante che le università si dotino anche di strutture, personale, strategie, strumenti per valorizzare i  propri  laureati  (placement)  ed  i  risultati  delle  proprie  ricerche  (trasferimento  di conoscenza o trasferimento tecnologico). In Sardegna ed in particolare nell’Ateneo sassarese questo processo è iniziato nel 2006 anno in cui il finanziamento MIUR ha permesso di avviare le attività di trasferimento tecnologico e successivamente la creazione di un vero e proprio ufficio dedicato.

Questo periodo è stato caratterizzato, per quanto riguarda la valorizzazione della ricerca e il trasferimento tecnologico, da alcuni avvenimenti: il nuovo codice italiano sulla Proprietà Industriale sui brevetti che ha stabilito la titolarità dei brevetti della ricerca in capo agli inventori, il finanziamento MIUR per la costituzione e il rafforzamento di Liaison Office, al quale il nostro Ateneo ha partecipato, insieme a Cagliari, Genova e Milano Bicocca con il progetto ILONET e di consolidarlo attraverso i finanziamenti regionali ILON@ Sardegna e l’attuale Innova.Re, la nascita e lo sviluppo di Netval (l’associazione nazionale degli uffici di trasferimento tecnologico) e del  Premio Nazionale per l’Innovazione (vinto nel 2009 dalla spin off Bioecopest) con le Start Cup Competition, i nuovi statuti delle università che indicano il trasferimento tecnologico fra i propri compiti istituzionali, la grande crisi economica e industriale con le sue conseguenze evidenti, la riduzione del finanziamento pubblico agli Atenei e agli Enti Pubblici di Ricerca.

Tali avvenimenti hanno avuto ruoli fondamentali nel creare le condizioni per l’assunzione di responsabilità della ricerca pubblica nel valorizzare i risultati a favore della comunità. È ora evidente una straordinaria vitalità della ricerca pubblica sul fronte del trasferimento, o quanto meno sull’investimento  nei  principali  strumenti:  aumentano  i  brevetti  e  aumentano  gli  spin-off  della ricerca che ancora poco impattano sulla economia regionale e sulla sua competitività industriale.

Oltre i risultati quantitativi, dobbiamo impegnarci per il prossimo decennio. Ci sono ancora molte criticità e considerazioni da fare: il panorama italiano risulta molto disomogeneo e le università a specializzazione scientifica detengono gran parte dei risultati, il sistema industriale è caratterizzato da piccolissime imprese distanti dalla ricerca (ancor più nella nostra regione), il trasferimento tecnologico viene da molti ancora scambiato con la consulenza tecnologica o scientifica, le collaborazioni pubblico/private sono ancora insufficienti, la crisi è ancora molto forte e limita gli investimenti industriali di medio/lungo periodo, manca ancora una chiara strategia nazionale che leghi la politica industriale con quella della ricerca.

È infatti indubbio che il riferimento al trasferimento tecnologico spesso viene rappresentato come limitato alle scienze fisiche e chimiche, all’ingegneria, alla medicina e alle biotecnologie, all’ambito agroalimentare e all’ambiente, mai alle discipline letterarie, economiche, giuridiche, artistiche. Come se la cultura propriamente detta non avesse prospettive di ricadute economiche.

Sarebbe opportuno, invece, considerare tutta la ricerca pubblica nel suo insieme, come valore potenziale da cui ottenere benefici per la società, attraverso l’integrazione delle discipline. Lo sviluppo di una economia, di una industria, di una società che si basa su nuova conoscenza è un valore irrinunciabile per garantire il progresso del Paese.

Oggi gli Uffici di Trasferimento Tecnologico delle università sono pronti ad evolvere e dare il proprio contributo per cambiare, in meglio, l’ecosistema dell’innovazione nel suo complesso.

Tuttavia è necessario ricordare che i processi di trasferimento tecnologico richiedono anni prima di iniziare a dare frutti rilevanti. Neanche le migliori esperienze internazionali hanno iniziato a dare risultati tangibili nel breve termine. Si tratta piuttosto di processi che necessitano di periodi di stratificazione, di cultura che si diffonde, di network che si consolidano, di mercati che maturano, ecc. Non si può quindi pensare che spin-off di successo e licenze di importi stratosferici possano maturare a pochi anni di distanza dalla nascita di un UTT.

Di contro non possiamo affermare che “è solo una questione di tempo e di maturazione del sistema” ma è anche doveroso domandarsi in quale direzione dovrebbe evolvere il sistema dell’innovazione nel suo complesso e quale potrebbe essere il contributo delle università in tal senso. Da questo punto di vista ben si inserisce il progetto Innova.Re che coinvolge ed aggrega i partner territoriali (gli atenei, la Regione Sardegna e Sardegna Ricerche) aumentando l’impegno in maniera coordinata e con crescente professionalità. Diverse forme organizzative sono possibili per la governance dell’innovazione a livello regionale che saranno sperimentate, anche facendo tesoro delle esperienze in corso a livello nazionale ed europeo.

Per concludere, nella consapevolezza che l’ecosistema dell’innovazione in Italia si è strutturato nel tempo in un certo modo, sarebbe necessario: avere un maggior numero di grandi imprese impegnate nel far crescere a loro volta le piccole imprese innovative; un settore pubblico più allineato alle tempistiche delle imprese e del mercato; imprenditori più orientati al rischio e investitori più rapidi nel prendere decisioni di investimento; cambiamenti anche nelle università, più agili e incisive nell’investire su filoni di ricerca innovativi e più vicini alle esigenze dell’economia e del mercato del lavoro, senza dipendere eccessivamente dalle scelte compiute nel passato. Tutto ciò faciliterebbe non poco i processi di valorizzazione dei risultati della ricerca pubblica al di là di un miglioramento incrementale della performance degli UTT.

Cari amici, consentitemi in chiusura di evocare il futuro che avanza: le due Università federate presto godranno (lo speriamo) dei nuovi investimenti con i fondi FAS nell’edilizia. Colgo l’occasione per chiedere al Presidente Cappellacci una chiara certificazione delle somme disponibili e dei tempi di spesa. Ulteriori risorse perverranno nell’informatica, nelle nuove tecnologie, nella ricerca. Chiediamo che a noi si uniscano tutti gli altri soggetti che possono concorrere allo sviluppo della ricerca in Sardegna, partendo dal mondo delle imprese e dalle Agenzie Regionali che debbono entrare in rete, fare sistema, confrontarsi in modo sempre più competitivo ed aperto, raccogliendo la sfida e creando ricchezza. Con speranze e ambizioni alte. Con senso di responsabilità e consapevolezza delle attese che ora ci accompagnano. Col dovere di rispondere alla fiducia accordataci. Anche con orgoglio e rivendicando una storia, una tradizione scientifica di eccellenza, una nostra cifra originale.




Il futuro sospeso di Ottavio Olita. CUEC.

Attilio Mastino
Il futuro sospeso di Ottavio Olita
CUEC

Questo romanzo di Ottavio Olita è soprattutto una storia vera di vita e di amore. Amore innanzi tutto per la Sardegna, per la città del sole, Cagliari, per il suo lavoro, per la famiglia, per i figli, specialmente  per la nuova donna, la Gaia del romanzo, alla quale è legato da un rapporto dolce e amaro, fatto di intesa profonda ed ora anche di riconoscenza senza confini.

Il futuro sospeso racconta con delicatezza e incanto il percorso seguito per riemergere dalle macerie della vita e della malattia, segna una pausa di riflessione prima di ricominciare a vivere, per indagare su se stesso, con tanti sentimenti contrastanti, con una capacità nuova di compatirsi  per l’ingiustizia  del dolore e insieme con la speranza per i tempi nuovi che si annunciano.

C’è infine in queste pagine uno sforzo di analisi sul mondo della sanità, il desiderio che ha sempre animato la vita di Ottavio, di guardare alla realtà con spirito critico, di schierarsi dalla parte dei più deboli, di proporre strade nuove per l’impegno civile e per la militanza politica.

Così quaranta anni fa a San Sperate, all’indomani del viaggio di Pinuccio Sciola in Spagna e poi nella Parigi sconvolta dal vento della contestazione del maggio studentesco, alla ricerca di una dimensione mitica immaginata e desiderata a lungo, per scoprire le ragioni per le quali il paese contadino del Campidano in una primavera straordinaria è uscito da un sonno millenario, quando i suoi abitanti tutti all’improvviso si sono appassionati di arte, hanno scelto la rivoluzione del sorriso, hanno compiuto un percorso culturale che è stato anche un’esperienza collettiva che possiamo riconoscere ormai entrata nella storia della Sardegna. Quando il grigio paese di fango all’improvviso è diventato candido, ha riscoperto i colori, le figure, le emozioni, ha condiviso la passione, le curiosità, i desideri di un ragazzo come tanti, chiamato a guidare tutta la sua gente, che non è rimasta a guardare ma si è fatta incantare e quasi sedurre.

Per un singolare gioco beffardo del destino, mentre Ottavio esce dall’angoscia della malattia, l’amico di sempre Pinuccio Sciola scopre in parallelo di avere un tumore,  racconta sulla stampa la diagnosi e la sentenza dei medici, l’operazione che ha rimosso lo stomaco, la stanchezza estenuante che ora lo tormenta. Ma anche lui riprende a vivere ed a sognare.

A me sembra che ci sia in questo destino parallelo il sapore vero di un romanzo, quello del giornalista Antonio Maglietta, che in realtà è soprattutto una sanguinane autobiografia, come testimonia anche la preziosa fotografia di copertina con Mimma, i fratelli, il padre, lo zio e il nipotino, tre generazioni approdate a Cagliari dalla Basilicata con aspettative, speranze e sogni.

Ottavio-Antonio riesce ora a raccontarsi senza pudori, riesce a commuoversi ed a commuovere, riesce a ripensare  la storia lunga della sua poverissima famiglia lucana con nostalgia, con rimpianto, con ammirazione, perché ormai il ricordo del padre coraggioso si è addolcito nel tempo, per usare le parole di Orlando Biddau, come sorba o dattero o corbezzolo.

La malattia ha addolcito Ottavio, lo ha reso meno intollerante, lo ha riportato veramente all’amore dei figli, degli amici e della famiglia: e insieme gli ha consentito di leggere la realtà con una lucidità nuova, con una prospettiva  che scavalca la sua storia e si incrocia con le storie di tanti altri malati drammaticamente senza voce.

Questo non è il primo romanzo che descrive la condizione psicologica e affettiva di un malato di tumore: io stesso ho recentemente commentato il volume di una ricercatrice dell’Istituto italiano dei tumori di Milano Silvie Ménard, che ha scoperto di avere il cancro e che  ne ha parlato qualche settimana fa a Sassari presentando il volume Si può curare.

Olita fa qui un passo in avanti, entra con la capacità di un indagatore professionista e di un ricercatore attento all’interno di un mondo, quello della sanità, che spesso è opaco, poco trasparente, chiuso, insensibile. Presenta storie di malcostume e storie luminose di impegno e dedizione; ci fa conoscere medici e pazienti impegnati insieme con determinazione nella lotta contro un male che ora davvero può essere sconfitto, innanzi tutto nel cuore dei pazienti.  Testimonia i ritardi tecnologici della sanità in Sardegna ed esemplifica il tema dei viaggi della speranza.

Soprattutto in questo romanzo, parlando in terza persona, Ottavio riesce a  sciogliere un gomitolo aggrovigliato, riesce a ritrovare se stesso superando il disordine che lo circonda, riesce a ricostruire le opinioni degli altri, ritrovando innanzi tutto le ragioni dello stare insieme che lo legano a Gaia-Sandra, ad iniziare da quel lontano episodio presso una cabina telefonica, rivissuto con dolcezza ed ironia. E poi lentamente, il gomitolo si sfila ritrovando un rapporto con i figli, ad iniziare dalla deliziosa Giulia-Giovanna; e poi anche il rapporto con gli amici veri, pronti a sacrificarsi; la inedita la convivenza dentro la redazione del giornale, che inizia a cambiare profondamente, partendo da un rapporto finalmente disteso con i colleghi, in particolare con i giovani apprendisti; infine la riscoperta delle radici, le sorelle, i genitori, il viaggio del padre in America alla ricerca del benessere,  infine l’ideale ritorno a casa con il gemellaggio tra Ollolai e Pignola, il paesino tipico della montana lucana da cui è originaria la famiglia: questa è davvero l’occasione per riscoprire antichi rapporti familiari, ritrovare i parenti, ritornare a ritroso nel tempo alla ricerca delle radici vere, fino a Rossano calabro, il borgo che fu la capitale dell’impero  bizantino in Italia.  In queste pagine, via via che il gomitolo si dipana, la memoria restituisce anche i sapori, i profumi, gli accenti di una terra amata e lontana, ad iniziare dalle poesie dei poveri contadini lucani, come quella di Francullicchio, che riemerge miracolosamente dalla memoria.

Eppure per riemergere dal dolore c’è un percorso sicuro che parte dalle certezze – l’amore per Gaia – per ritrovare strade non più praticate, superando  il dolore dei fallimenti e dei tradimenti, ritrovando l’ironia, la capacità di ridere di se stesso, di compatirsi e di accettare le proprie debolezze e quelle degli altri.

Del resto io stesso ho ritrovato qua e là, dietro la nebbia del romanzo, anche frammenti di vicende che conoscevo e persone che mi sono care davvero, storie che in parte mi hanno sfiorato e che continuano ad emozionarmi.

A segnare il tempo nuovo che ora si annuncia, l’autore immagina una lunga passeggiata rigenerante tra le vie di Cagliari, alla riscoperta dei colori della primavera che cambiano la città del sole tra gli alberi di Viale Dante: qui veramente a me sembra di leggere un filo rosso che lega tutte le pagine di un libro saldamente ancorato, ma che è innanzi tutto una mappa ed un percorso per tanti altri lettori, che cercano una loro strada nella vita. Con ottimismo e voglia di combattere per se e per gli altri, facendo leva su un patrimonio che è insieme di sentimenti e di ricordi.




Consegna del Candeliere d’oro speciale all’Università di Sassari.

Trascrizione dell’intervento del Rettore dell’Università di Sassari prof. Attilio Mastino in occasione della consegna del Candeliere d’oro speciale all’Università di Sassari, 13 agosto 2012

Oggi in questa cerimonia si incontrano tre storie lunghe, tre storie parallele: la storia dell’Università, la storia del Comune di Sassari, la storia dei Gremi e dei candelieri raccolti nella pittoresca Faradda.

L’Università di Sassari rimanda le sue origini al Cinquecento e alla Sardegna spagnola: il testamento del cav. Alessio Fontana, funzionario di cancelleria dell’imperatore Carlo V, l’inizio dei corsi del Collegio Gesuitico sotto Filippo II 450 anni fa, le tappe successive del 1612 e del 1617 che hanno portato con Filippo III alla nascita dell’Università di diritto regio.

Era stato un rappresentante del Municipio al Parlamento Cardona già nel 1543 a chiedere l’istituzione in Sassari di uno Studio Generale.

Negli stessi anni i Gremi scioglievano il voto alla Madonna dopo una pestilenza e lo facevano gioiosamente, con la goliardia e lo spirito ironico sassarese, riprendendo le più antiche tradizioni pisane. Una tradizione, quella delle macchine a spalla, per la quale attendiamo il riconoscimento dell’UNESCO.

Tre storie parallele, che rimandano all’identità profonda della città di Sassari fin dentro il Cinquecento spagnolo e a quella dimensione produttiva che è sintetizzata dai Gremi e dagli artigiani (fabbri, piccadre, viandanti, contadini, falegnami, ortolani, calzolai, muratori, sarti, massai, ecc.).

Questo legame forte intenso identitario coi Gremi è simbolicamente rappresentato nell’aula magna dell’Università dalle bandiere  dei Gremi che Mario Delitala ha voluto illustrare nel dipinto centrale, che racconta la solenne cerimonia dell’annunzio della rifondazione dell’Università in occasione della Restaurazione del 1764 voluta dal Ministro Bogino.

Crazie caro Gianfranco, grazie caro Sindaco, per questo riconoscimento per l’istituzione universitaria nel giorno che precede la Faradda e che arriva dopo tanti altri riconoscimenti del candeliere speciale assegnato a professori universitari, il mio maestro Giovanni Lilliu, Licinio Contu, Manlio Brigaglia, Alessandro Maida, il nostro carissimo mons. Pietro Meloni.

Capirete perciò l’emozione per questo premio che ricevo in rappresentanza dei professori, dei ricercatori, del personale tecnico amministrativo bibliotecario e degli studenti, nell’anno in cui il candeliere d’oro speciale in edizione straordinaria è stato consegnato anche al Presidente Napolitano in occasione della sua visita all’Università.

Lasciatemi dire che l’emozione è grande e che mi sto tremando, per usare un’espressione di Pompeo Calvia mi soggu trimulendi, come fanno al vento i nastri di raso variopinti attorno ai capitelli dei nostri candelieri:

Candu li Candaleri farana in piazza
Fattu fattu li borri cu la mazza
E lu sindaggu in mezzu saluddendi

Arruglia lu tamburu di continu
E lu piffaru sona li canzoni

Qualche giorno fa, al Palazzo della Provincia, nella cerimonia voluta da Alessandra Giudici, Luca Rossi dell’Accademia di Belle Arti ha offerto una straordinaria opera d’arte che rappresenta un candeliere con i 10 Gremi e le colonne di ferro e di pietra di Ulassai che oscillano e basculano al vento, segno di un tempo nuovo, quando gli obrieri dei Gremi sapranno trasformare la festa nata 5 secoli fa in un momento di speranza pere tutti.

Chi canzoni e chi alligria
Vi so sott’a la bandera !
Pari giunta primabera

A tutti li Sassaresi prisenti e no prisenti, un carurosu a Zent’anni, si dabboi so di biù mengliu ancora.




Intervento del Rettore dell’Università di Sassari a Vic, in Catalogna.

Intervento del Rettore dell’Università di Sassari a Vic, in Catalogna
per il Consell General delle 21 università catalane raggruppate nella Xarxa Vives d’Universitats
Campus Torre de Frares, Sala Segimon Serrallonga, 13 luglio 2012

Il Rettore dell’Università di Sassari Attilio Mastino è stato a Vic in Catalogna il 13 luglio 2012 per il Consell General delle 21 università catalane raggruppate nella Xarxa Vives d’Universitats.

Nell’occasione ha firmato con il collega Carlos Pérez del Valle, Rettore dell’Universitat Abat Oliba di Barcellona un accodo di cooperazione accademica sul piano linguistico, umanistico e sociale con il Dipartimento di scienze umanistiche, promosso dal prof. Gavino Mariotti. Nell’occasione ha partecipato nell’Aula Magna (Scientiae patriaeque impendere vitam) all’Atto conclusivo dei corsi 2011-12 di tutte le Università della rete, che ha avuto come momento culminante la laudatio di Maria Antonia Canals i Tolosa (con intervento di Anna Maria Geli de Ciurana, rectora de la Universitat de Girona) e di Eliseu Climent i Corberà (con intervento dell’on.le Jordi Pujol i Soley ex Presidente della Generalitat). Alcuni rettori catalani parteciperanno a Sassari il 5 novembre all’inaugurazione dell’anno accademico 451° dell’Università di Sassari,

Caro Rettore Jordi Montaňa, Benvolguts amics,

la presència de la Universitat de Sàsser a aquesta reunió del Consell General de la Xarxa Vives d’Universitats vol expressar el fortíssim interès del meu Ateneu per trobar formes de col·laboració internacional amb una àrea, la catalana cap a la qual mirem amb simpatia, no només per un passat comú sinó també sobretot per una concreta perspectiva de desenvolupament futur.

En el meu programa, presentat amb motiu de la campanya electoral per l’elecció del nou Rector de la Universitat de Sàsser, vaig posar en relleu abans de tot un aspecte geogràfic, precisament en el moment en què s’engega l’Àrea mediterrània de lliure canvi, i es reforcen ensems els lligams amb Còrsega i les Balears, amb tota l’ àrea llatina, amb Europa i amb l’Africa del Nord.

La perspectiva d’una col·laboració de proximitat ha de ser la premissa de la Universitat de Sàsser per a una política cultural internacional que representi una fase de forta modernització i desenvolupament.

En aquesta política d’internacionalització els lligams i les relacions amb Catalunya ocupen un lloc de relleu. Per l’esdevenidor és el meu propòsit clar i  determinat  reforçar les relacions culturals amb els Països Catalans, unes relacions que considero com a característica identificativa de la Universitat de Sàsser.

En l’àmbit dels convenis existents, aprofito l’avinentesa per proposar un intercanvi entre Sàsser i qualsevol de les Universitats catalanes associades.

A més m’agrada recordar que Sàsser en la Xarxa Vives de les Universitats catalanes treballarà al costat de l’Institut de Recerques en Ciències Socials de la Universitat de Perpinyà.

Com vosaltres sabeu a Sàsser ja existeix una càtedra de llengua i literatura catalanes que compta amb un lector. És meva intenció també potenciar l’ensenyament  de la llengua catalana, tal com volem rellançar el de les llengües estrangeres.

Abans de continuar la meva intervenció en italià  vull donar-vos les gràcies per l’atenció  encara en la vostra llengua.

Il mio intervento ora continuerà in italiano, lasciando la vostra bella lingua catalana.

L’Università di Sassari celebra i suoi 450 anni di storia: dopo lo studio generale creato dai Gesuiti nell’età di Carlo V e di Filippo II, l’Università di Sassari fu costituita ufficialmente il 9 febbraio 1617 da Filippo III con le Facoltà di Arti, di Teologia, più tardi di Diritto e di Medicina. Le origini iberiche dell’Ateneo sardo si riflettono nella storia, nell’evoluzione e nelle strutture edilizie di un’istituzione che oggi conta 13 dipartimenti, compreso il Dipartimento di Archuitettura, Design e Urbanistica, nato 10 anni fa come Facoltà di Architettura mediterranea e decentrata nella splendida cornice delle fortificazioni medioevali della città catalana di L’Algué: una città che aderisce alla rete delle città storiche del mediterraneo. Voglio ricordare alcune iniziative internazionali in corso a

L’Alghé, come il corso di laurea magistrale biennale ed il master europeo in Pianificazione e politiche per l’ambiente realizzato congiuntamente con l’Università IUAV di Venezia, con l’Universidade Tecnica de Lisboa, con l’Universitat de Girona e con l’Universitat Autonoma de Barcelona.

Con i suoi 15000 studenti, i suoi circa 700 professori e ricercatori, i suoi 600 tecnici e amministrativi, l’Università di Sassari aspira ad essere riconosciuta ome una antica università europea, proiettata sempre di più in una dimensione internazionale: nell’ultimo anno abbiamo accolto oltre 100 visiting professor, aprendo il nostro Ateneo al mondo a partire dall’area catalana. Ma voglio ricordare l’esistenza di un insegnamento di catalano nel nostro Dipartimento di Scienze umanistiche, la presenza di un lettore di madre lingua collaboratore esperto linguista catalano. In futuro è mio fermo proposito rafforzare questi aspetti culturali catalani che considero una delle caratteristiche identificative dell’Università di Sassari. Nell’ambito degli accordi esistenti, colgo l’occasione per proporre un interscambio reciproco di professori con il programma regionale di visiting professors tra Sassari e ciascuna delle Università catalane associate. Consentitemi di ricordare il ruolo svolto in passato in Sardegna dal mio amico Jordi Carbonell i de Ballester che conobbi a Cagliari nel 1972 dopo la sua espulsione per motivi politici dalla Spagna franchista: una figura di filologo, di studioso, di intellettuale e di politico che amiamo e che so ha svolto in passato ruoli importanti per la Universitat catalana d’estiu e come Presidente dell’Esquerra Repubblicana de Catalunya.

Sono però oggi qui a Vic per dire che consideriamo un poco questa anche come la nostra casa; l’Università di Sassari sosterrà in futuro la rete delle Università catalane e si metterà al fianco dell’Institut d’Estudis Catalans, dell’Institut Català de Recerques en Ciènces Socials e dell’Università di Perpignan per allargare forme di collaborazione e di interscambio, in particolare in campo linguistico per la difesa del catalano di Alghero in accordo con la Ramon Llull. Ricordo gli studi di Andreu Bosch sul catalano di L’Algué. Io stesso ho partecipato ad alcune edizioni dell’Universitat Catalana d’Estiu a Prada su invito dell’on.le Carlo Sechi, mentre cresce in modo esponenziale la mobilità ERASMUS con la penisola iberica. Il Prorettore Laura Manca ha partecipato a numerosi incontri della Xarxa Vives d’Universitats. In particolare a Ignasi Casadesuss i Olucha Segretario della Xarxa, al Vice Presidente Joan Viňas i Salas e all’ex Presidente Antoni Girò Roca (Rettore della Politecnica) mi lega da tempo un’affettuosa amicizia.

Colgo l’occasione per invitare i colleghi Rettori delle 21 Università a Sassari per la cerimonia di inaugurazione del 451 anno accademico il prossimo 5 novembre. Sarà previsto un intervento del prof. Marc Mayer dell’Università di Barcelona, consigliere di amministrazione dell’Università di Sassari, sul tema: Il mondo catalano e la Sardegna.




Il ruolo della scuola e dell’Università nella società della conoscenza, La Maddalena, 2011.

Atti del 54° Congresso del Rotary International,  La Maddalena, 2011
Intervento del prof. Attilio Mastino
Rettore dell’Università di Sassari

Cari amici, qualche mese fa, invitato da Luciano Di Martino, ho avuto l’onore di parlare al Forum Distrettuale sul Rotary e l’Istruzione, e ho in quell’occasione richiamato le specifiche responsabilità dell’Università che adesso Bruno Mobrici ci ricordava. Dunque, il ruolo della scuola e dell’Università nella società della conoscenza come risorsa strategica del Paese, al centro dei processi sociali e culturali, capace di creare ricchezza e sviluppo.

Centrale, del resto, nel nostro tempo è anche il tema dell’integrazione degli stranieri, dell’inclusione di fasce nuove di popolazione, di sintesi di culture e civiltà, di multiculturalità.

L’integrazione deve partire dal riconoscimento della diversità ma anche dalla disponibilità di accogliere gli altri e il ruolo dei Rotary è quello di lavorare per costruire ponti tra culture, per abbattere muri, per edificare reti di relazioni e di contatti, per costruire in sostanza un futuro diverso, iniziando dagli aspetti più propriamente culturali.

Ringrazio veramente l’amico Governatore Roberto Scambelluri per l’invito a questo incontro, che mi viene rinnovato a distanza di pochi mesi nella solenne occasione del 54° Congresso Distrettuale, al quale partecipano tante persone che ammiro e che mi sono care.

Nell’attuale fase di trasformazione del paese, secondo la Carta dei Diritti e dei Doveri delle università italiane, approvata dalla Conferenza dei Rettori qualche tempo fa, gli elementi fondamentali del nostro tempo sono: una maggiore rilevanza della dimensione sovranazionale; l’avvento della società della conoscenza e della comunicazione; un velocissimo progresso tecnologico; l’affermarsi di nuove tecnologie informatiche; la globalizzazione delle dinamiche economiche e  finanziarie; il mutamento delle professioni nuove e vecchie; l’aumento del benessere e dei consumi, ma anche la permanenza di sacche di miseria e di degrado; l’innovazione continua che richiede una formazione continua: è il tempo delle nuove produzioni, basate sul lavoro intellettuale, mentale, immateriale.

L’università non è solo il possibile motore della crescita economica in quanto è in grado di influire sui costumi, sui comportamenti, sui modi di pensare, sullo stato della cultura per combattere il provincialismo culturale. L’università deve sentire il dovere di essere sempre di più, il grande bacino nel quale vengono elaborati modelli concettuali, esperienze intellettuali, i saperi fondamentali che defluiscono nella società; dunque, la responsabilità dell’università e della scuola in Italia, in particolare nel Mezzogiorno e in Sardegna è molto rilevante, perché gli interventi innovativi nella conoscenza, soprattutto in quelle aree in Sardegna dove mancano risorse, dove manca il petrolio, dove il petrolio è rappresentato dai nostri giovani, avranno riflessi positivi sull’intera società.

L’università e la scuola non devono raccogliere solo i bisogni che emergono dalla società, ma devono essere capaci di guardare a questi bisogni con un punto di vista nuovo, contribuendo ad immaginare nuovi scenari, nuovi orizzonti per la cultura nazionale, anche per la capacità di anticipare le tendenze, anziché di inseguirle.

Il tema che abbiamo di fronte è quello di un’istruzione e di un’alta formazione nella scuola e nell’università per i nostri giovani, calibrata ai tempi nuovi che stiamo vivendo, di un rapporto diretto tra formazione e lavoro, con attenzione alle nuove professioni, alla pervasività di saperi tecnici che caratterizza il tempo che ci è dato, il che richiede una crescente flessibilità, della scuola e dell’università, appunto, per anticipare i bisogni, e insieme un grado di fantasia che sia capace di immaginare opportunità e orizzonti che si manifesteranno nei prossimi decenni.

In questo quadro, l’università arriva in ritardo a confrontarsi con l’innovazione e ciò soprattutto nel Mezzogiorno, eppure, nei tempi del Federalismo, il punto di partenza contro ogni appiattimento, e contro ogni omologazione, deve essere quello del riconoscimento del valore della diversità dei territori, che diventa capitale culturale, prezioso valore aggiunto, se l’art.33 della Costituzione riconosce il significato straordinario dell’autonomia universitaria.

Noi ci portiamo dietro tradizioni di studi secolari, che fanno parte della nostra identità di uomini di oggi, e che possono costituire il lievito, la componente originale del nostro entrare nel mondo delle nuove tecnologie; e all’interno del bacino del Mediterraneo l’università italiana può svolgere, ancora più che in passato, un ruolo da protagonista, impegnata in una cooperazione con la riva Sud, che favorisca un confronto culturale, che abbatta vecchi e nuovi steccati, che combatta la divaricazione che, quasi inesorabilmente, il mondo sta drammaticamente vivendo dopo l’11 settembre.

I giovani hanno diritto ad una formazione che consenta loro di confrontarsi ad armi pari in Europa con i loro coetanei; debbono essere in grado di declinare con originalità e consapevolezza i grandi temi dei nostri giorni, la globalizzazione, il confronto tra culture, le identità plurali del Mediterraneo.

E dunque è essenziale, in questo caso, la scelta delle facoltà universitarie, una scelta che risponda alle vocazioni dei singoli, agli interessi del paese e insieme alle possibilità occupazionali offerte dal territorio; e per ottenere questo risultato diventa assolutamente essenziale il rapporto tra scuola, università e mondo del lavoro; un dialogo che deve svilupparsi tra insegnanti, dirigenti scolastici, presidi delle università, professori, ricercatori, imprenditori.

Il momento della scelta della facoltà lega insieme università e scuola, e rappresenta un’occasione straordinaria per programmare in prospettiva non solo gli studi universitari, ma anche il futuro di una vita lavorativa che sia ricca di soddisfazione, fortemente motivata e basata su un interesse reale, in modo da rendere il lavoro non una fatica, ma un’occasione positiva per realizzare le proprie attitudini.

La scelta dell’università, della facoltà, del corso di laurea, deve rispondere innanzitutto all’esigenza di sviluppare capacità, passioni, interessi di cui ciascun giovane è portatore, consapevolmente o inconsapevolmente.

C’è dunque necessità di un orientamento, che consenta agli studenti di fare scelte consapevoli già quando si trovano al liceo, per proiettarsi nella logica dell’università, avviandosi su un percorso che caratterizzerà la loro futura vita professionale.

C’è da augurarsi, nel nostro paese, in particolare nella nostra isola che ha un basso numero di laureati rispetto al Lazio, che si arrivi ad un incremento dell’iscrizione in tutti i corsi di laurea, in particolare nei corsi di laurea scientifici, non solo per il sostegno garantito ai più bravi dalla Regione Sarda, ma anche per le opportunità che operativamente si aprono per i prossimi decenni, in Sardegna e nel Mediterraneo. Infine voglio ricordare i tanti punti di eccellenza che esistono nelle nostre facoltà, dipartimenti, istituti, laboratori.

Consentitemi di fare un breve cenno alla riforma della scuola e dell’università, che in questi giorni si dibatte: la scuola ha avuto una riforma con la legge 133/08 che entra in vigore da una settimana, l’università vede la sua riforma in questi giorni in discussione alla Camera.

La scuola e l’università sono, dunque, in mezzo al guado in attesa dell’attuazione di una doppia riforma Gelmini che presenta aspetti molto delicati e non poche criticità.

In questi giorni protestano da un lato i precari e insegnanti della scuola, e dall’altro i giovani ricercatori delle università, che si rifiutano di assumere incarichi di insegnamento mettendo a rischio l’avvio dei corsi.

I dati dell’Oxe, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, collocano la scuola italiana agli ultimi posti in tutte le graduatorie, preceduti soltanto dalla Slovacchia, mentre le università arrancano con un basso numero di laureati; gli investimenti sono bassissimi sia nella scuola che nell’università. Darò soltanto un dato: la spesa pubblica destinata alla scuola non supera in Italia il 9% del PIL, la media europea è del 13.3%, gli stipendi degli insegnanti sono bassi mentre i tagli consistenti sono effettuati soprattutto ai ricercatori e ai professori universitari.

Alcune migliaia di docenti precipitano in una condizione di povertà, con un salto sociale che toglie ossigeno alle nostre comunità, dove gli insegnanti sono sempre meno classe dirigente, il lievito per la rinascita.

Per quanto riguarda la riforma della scuola, direi che è una riforma misurata, se volete parsimoniosa, se volete in continuità con la tradizione e certamente molto meno innovativa rispetto alle riforme della Moratti, ad esempio, o di Berlinguer, che poi si sono dimostrate difficili da realizzare.

La  riforma tende, più che altro, ad una logica di  riduzione della spesa, riduce l’attuale frammentazione degli istituti: sapete che viene istituito soltanto un liceo classico, ci saranno sei tipi di licei, due tecnici, cinque professionali, eliminando i circa 500 indirizzi delle scuole precedenti.

C’è però da lavorare per motivare i docenti, per superare una didattica ancora prevalentemente basata sulle lezioni ex-cattedra, per incrementare l’approccio laboratoriale, per porre realmente l’alunno al centro degli interessi della scuola e non relegarlo al ruolo di destinatario di informazioni; infine, occorre attuare l’individualizzazione e la personalizzazione dell’insegnamento, quando nei fatti la lezione resta unica per la classe.

Un analogo processo sta conoscendo la riforma dell’università. Dirò soltanto quali sono i propositi del Ministro Gelmini, che immagina una profonda rifondazione degli atenei e una riforma universitaria che nei propositi intende ispirarsi ai principi di autonomia e di responsabilità, ma che forse avremmo voluto ancora più rispettosa dell’identità e degli specifici profili degli atenei italiani, di quelli più consapevoli della complessità delle proprie tradizioni accademiche e del valore della diversità e della differenza.

Sostanzialmente il Ministro si propone di svolgere un tentativo, senza precedenti, di riformare in profondità l’università, i cui obiettivi sono: aumentare la produttività, innalzare il numero degli iscritti e dei laureati, soprattutto nelle discipline scientifiche, di specializzati, di dottori di ricerca; contemporaneamente ridurre il numero dei corsi di laurea, delle facoltà, dei dipartimenti, dei falsi studenti, degli studenti inattivi, dei fuori corso.

Si tratta di una riforma che incide profondamente sulla formazione, sulla ricerca, sulla terza missione dell’università a favore del territorio, e che tende a innovare i processi, a restituire efficienza, a migliorare l’internazionalizzazione e la conoscenza delle lingue straniere attraverso l’Erasmus.

Eppure utilizza strumenti inadeguati, senza mettere sul piatto nuove risorse, rischiando di mettere in discussione la struttura stessa degli atenei, la sopravvivenza dei dipartimenti, delle facoltà, delle linee di ricerca e delle reti di relazione consolidate.

Il tema centrale, che credo dobbiamo avere di fronte, è quello del rapporto tra università e territorio, un rapporto che si articola su due piani: il capitale umano e  il trasferimento delle conoscenze; dunque l’opportunità di legare l’università e le  aziende, di attivare tirocini per laureandi e laureati, di finanziare borse di dottorato,  assegni di ricerca, posti di ricercatore da parte delle imprese, da parte di parchi scientifici, da parte delle fondazioni e da parte degli enti locali.

Per quanto riguarda il trasferimento delle conoscenze, capitolo importante è quello della formazione degli insegnanti, che deve essere ristudiata dopo che sono state soppresse le scuole di specializzazione per insegnanti, ora nell’ambito dei Tirocini formativi attivi.

Credo che i risultati della ricerca scientifica non debbano restare sempre più patrimonio di una ristretta cerchia di specialisti; devono invece raggiungere non occasionalmente il mondo della scuola da un lato e il mondo dell’impresa dall’altro. Dunque c’è la necessità di legare di più il mondo della ricerca dentro l’università con il mondo della scuola e con le aziende.

Con questo concetto consentitemi, in conclusione, di dire che ci sono molte novità sul piano della ricerca che si sviluppano dentro l’università, anche in ambito umanistico. E dunque mi consentirete, l’occasione è troppo ghiotta, di venire ai miei diretti interessi di ricerca, segnalando i risultati conseguiti da tanti di noi, da tanti archeologi, da tanti storici, in questi anni in campo umanistico, in un settore della ricerca che non è statico ma che può rivitalizzare l’insegnamento, restituendo “carne e sangue” a un passato presentato da tanti insegnanti nelle scuole come immobile e troppo spesso mummificato.

Voglio limitarmi appena a un lampo, partendo dall’immaginario collettivo degli antichi che guardavano a questi paesaggi, fuori dalle nostre vetrate, con occhi incantati.

Qui sull’isola della Maddalena, come non riportarvi oggi ai miti e alle leggende recuperate di recente dalla ricerca, frugando nella letteratura greca e latina, sulle isole dello stretto di Taphros, battuto da mostri marini e da delfini di straordinarie dimensioni?

Il Fretum Gallicum che andava dall’Ilva Insula, l’isola che oggi ci ospita, all’isola di Eracle, l’Asinara; dall’Ermea Insula, Tavolara, che si vorrebbe collegare al mito dei Feaci, di Ulisse e di Nausicaa, all’isola dei lavacri di Era (gli Heras lutras), dove Giunone riacquistava la sua verginità, per arrivare infine alle Cunicularie e a Caprera, l’isola del naufragio di Fintone, Phintonis Nesos, ricordato da Tolomeo, naufragio cantato nel IV sec. a.C. in un celebre epitaffio in distici elegiaci del poeta viaggiatore Leonida, originario della colonia dorica di Taranto.

Il marinaio che toccava questi lidi si chiedeva: “Di chi sono le spoglie che sono protette da questo cenotafio collocato sulla spiaggia, chi era suo padre ?”. E il poeta rispondeva: “Questa tomba ricorda Fintone il marinaio di Ermione, figlio di Baticle. Esposto alla furia della costellazione di Arturo, al Maestrale, il pelago l’uccise”. Un’altra tomba, a due passi da qui ricorda quel colonnello inglese Richard Collins di Moneta sepolto a Maddalena che aveva preso parte alla “feroce pugna navale di Trafalgar”. Ma lasciatemi concludere guardando ad un’altra tomba, sull’isola amata e sul mare battuto dal maestrale, quella dell’eroe di tutti noi, il generale Giuseppe Garibaldi.




Il nuovo Museo Nazionale Garibaldino di Arbuticci a Caprera.

Il nuovo Museo Nazionale Garibaldino di Arbuticci a Caprera
Attilio Mastino
La Maddalena, 3 luglio 2012

Mi sono chiesto che senso può avere oggi l’inaugurazione del nuovo museo nazionale garibaldino nella fortezza di Arbuticci, a Caprera, proprio di fronte alle Bocche di Bonifacio: la nuova struttura progettata dall’arch. Pietro Carlo Pellegrini, fortemente voluta  dall’Istituto Nazionale di studi di G. Garibaldi,  dal Sen. Mario Birardi, dalla Fondazione Banco di Sardegna e dall’Associazione delle Casse di risparmio, in occasione delle celebrazioni dei 150 anni dall’Unità d’Italia, diventerà un polo vitale di un più ampio museo nazionale diffuso solo se non sarà un memorale tradizionale, se guarderà avanti, se si collegherà con il Compendio Garibaldino e la Casa Bianca, con la Casa Manno in Alghero, con le Università della Sardegna, che rappresento anche a nome del Rettore dell’Ateneo cagliaritano Giovanni Melis.

Con lui, con Aldo Accardo per la Fondazione Siotto, con il Presidente della Società italiana per lo studio della storia contemporanea Agostino Giovagnoli firmeremo un accordo per la nascita di un Centro di ricerca storica sull’età moderna e contemporanea con lo scopo di contribuire alla realizzazione di percorsi didattici e formativi destinati alle scuole, agli studiosi e ai cultori di storia patria, anche attraverso la realizzazione in Sardegna di convegni e seminari di studi di respiro nazionale e internazionale.

Un Centro finalizzato anche alla formazione di giovani ricercatori, sulla linea delle attività istituzionali da tempo svolte dai due Atenei. Voglio ricordare che da quindici anni il Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari ha promosso in collaborazione con il Comune de La Maddalena e con l’istituto internazionale di studi G. Garibaldi, il 2 giugno di ogni anno le celebrazioni garibaldine che hanno affrontato temi come Garibaldi e la Repubblica Romana; Garibaldi e la letteratura italiana; Mezzogiorno e federalismo; Garibaldi nel cinema; Garibaldi e la massoneria; i pellegrinaggi garibaldini; il mito di Garibaldi nell’Italia del Novecento.

Per impulso del Dipartimento sono stati inoltre pubblicati due volumi:  Cattaneo e Garibaldi. Federalismo e Mezzogiorno, a cura, di A. Trova e G. Zichi, Roma, Carocci 2004;  Giuseppe Garibaldi, il mito, l’unità d’Italia e la Sardegna,  a cura di A. Nieddu e G. Zichi,  Cagliari, AM&D, 2011. Il primo volume è nato all’interno delle celebrazioni del bicentenario della nascita di Carlo Cattaneo, il secondo raccoglie gli atti del convegno svoltosi a La Maddalena in occasione delle ultime celebrazioni garibaldine.

Ma voglio qui ricordare in particolare la nobile figura di Franco della Peruta, l’autorevole studioso del Risorgimento italiano e acuto interprete dei valori delle componenti più aperte e democratiche del movimento patriottico italiano, scomparso nel gennaio di quest’anno, grande amico della nostra Università, instancabile animatore delle celebrazioni garibaldine promosse in collaborazione con il comune de La Maddalena fin dalla fine degli anni Novanta.

Ora vogliamo contribuire a far vivere questo nuovo museo e riteniamo che la vecchia idea alternativa di un unico grande museo nazionale del Risogimento ventilata nel 1895 nel corso dell’esposizione di Torino giustamente venne accantonata. Soprattutto progettiamo ora un più ampio Distretto culturale, che coinvolga le Università, ma anche la Domus mazziniana di Pisa e la Fondazione Spadolini.

Elena Marelli nei giorni scorsi ad Alghero ci ha ricordato alla presenza del Presidente Amato che la relazione tra cultura e impresa oggi deve necessariamente superare la semplice erogazione di denaro per arrivare a uno scambio virtuoso di valori, competenze e modelli operativi, perché attraverso il museo si intende investire sulla società e sulla comunità. Un museo vivo deve dunque guardare al futuro, deve saper crescere, deve avere un orizzonte ampio e una rete di rapporti con altre istituzioni culturali, deve pensare non a come rastrellare risorse dallo Stato, ma come trasformasi in un motore strategico e trainante per l’economia.

Negli anni della crisi, l’esigenza prioritaria è quella di garantire la sostenibilità delle iniziative e superare la fragilità di quei musei, visti solo come luoghi della memoria, immobili testimoni di un passato che si presume non abbia più nulla da dirci oggi.

Ci sarà una ragione se Caprera è un luogo tra i più visitati dai turisti, se già Mario Soldati mezzo secolo fa quando preparava la mostra torinese delle Regioni per i cento anni dell’Unità d’Italia  la definiva “Uno dei luoghi veri, uno dei luoghi sacri del nostro Risorgimento”. La caratteristica di Caprera è di essere diventata un museo quando ancora era vivo l’uomo che a museo l’aveva consacrata. Il fatto è che Caprera era un pezzo non tanto della biografia quanto del carattere stesso di Garibaldi: incarnava il suo amore per la natura, il suo piacere di vivere quasi in solitudine (che era anche la decisione di non prendere ordini da nessuno, o almeno di prendere solo quelli di cui con dividesse i fini e gli ideali), la sua allegria di confrontarsi con la terra e domesticarla (fece crescere ogni sorta di albero, anche estraneo alla vegetazione mediterranea, come è stato dimostrato  da un recentissimo inventario). Chi andava a Caprera, specialmente nei vent’anni tra la spedizione dei Mille e le sua morte, sapeva di poter facilmente incontrare il Generale, anzi di poterne essere anche ospite in pranzi in cui gran parte dei prodotti venivano da quella sua azienda che aveva messo su con l’aiuto di Menotti e di altri compagnons de toujours e che pure destò la meraviglia di un autorevole inviato dell’Accademia dei Georgofili come il conte Aventi, che su quella visita a Caprera ci ha lasciato un emozionante reportage. I maddalenini e i galluresi, per non dire di altre provenienze, portavano i loro bambini al Generale perché li battezzasse: un battesimo laico, impartito con l’acqua di mare dell’isola sui massi di granito. Si dice che il regalo d’obbligo fosse una camicia rossa, e infatti alla Maddalena molte famiglie ne conservano una. Si sa anche che il rito fu adottato dal circolo massonico maddalenino, e che quel passaggio sotto l’acqua lustrale del mare di Caprera era quasi un sigillo di buon patriota e di buon maddalenino.

La sua isola, come si sa, divenne ben presto un museo costruito, subito dopo la morte, intorno a due centri, da una parte la casa e dall’altra la tomba del Generale e della sua famiglia. Donna Clelia, l’ultima dei figli, che sopravvisse sin oltre la metà del secolo scorso, continuò la tradizione di ospitalità e la prolungò con frequenti escursioni nella Gallura vicina, in genere per battute di caccia grossa che rinsaldavano il rapporto fra la memoria di Garibaldi e le famiglie degli “stazzi”che avevano ricevuto il ricordo, quasi un’eredità, dell’amicizia dei loro nonni e genitori con Garibaldi, che avevano spesso aiutato specie all’inizio di quelle fughe da Caprera che inaugurarono alcune delle sue imprese più famose. Sono ancora oggi diversi gli “stazzi” dove si parla di “compare Garibaldi”  come di uno di famiglia. Senza dimenticare che il Generale fu anche, dopo il 1867, deputato del  collegio Tempio-Ozieri, e alla Sardegna sono dedicati molti dei suoi interventi parlamentari: pare fondamentale ricordare che il rapporto è, dunque, non solo fra il Generale e l’isola di Caprera e neppure fra il Generale e la sola Maddalena, ma anche con la Gallura e, più estesamente con l’intera Sardegna, se è vero che la prima cittadinanza onoraria concessa a Garibaldi non più cittadino di Nizza dopo i Mille veniva da Sassari, mentre a Cagliari fu nominato presidente della Società Operaia di Mutuo Soccorso.

Questa dimensione sarda può rappresentare il valore aggiunto del sistema museale maddalenino, in rapporto al Parco Nazionale dell’arcipelago, alla progettata nascita del parco internazionale, al Centro di educazione ambientale di Stagnali, agli studi e alle ricerche sulle identità, sull’ambiente, sulla lingua, sul patrimonio culturale della Sardegna, sul contributo dell’isola tutta all’Unità d’Italia e al Risorgimento, partendo da quel 1847 che segnò, con la perfetta fusione con gli stati di terraferma, con la volontaria rinuncia alla sovranità, con  la fine della Sardegna stamentaria, un contributo significativo e originale per l’Unità d’Italia, capace di innescare la miccia che avrebbe portato tanti giovani a battersi per l’Europa. Dunque una visione della Sardegna di ieri, di oggi e di domani non provinciale e localistica, ma proiettata verso una dimensione internazionale, secondo il modello garibaldino che ancora emoziona ed avvince.

Si può aggiungere un ultimo elemento per dire della identificazione dei maddalenini con Garibaldi e Caprera. Quando il Generale morì, corse voce (non infondata) che il Governo intendesse trasferire la sua salma a Roma sull’Aventino, in aperta contraddizione con quel funerale omerico che il Generale aveva descritto nelle sue ultime disposizioni, indicando anche il tipo di alberi da cui doveva venire la legna della sua pira, a quella voce La Maddalena si ribellò: un sacrestano suonò le campane a stormo, i cittadini scesero in piazza al grido di “Garibaldi è ‘u nosciu!”, Garibaldi è nostro.

Si conoscono le vicissitudini attraverso le quali è passato il compendio garibaldino di Caprera dalla serie dei restauri inaugurati dal presidente Pertini e dal presidente del Consiglio Spadolini il 2 giugno del 1982. La casa-museo, che risulta fra i luoghi della memoria più visitati d’Italia, ha avuto bisogno di continue attenzioni per rimediare ai danni del tempo e del maestrale e per rispondere alle cambiate esigenze degli stessi visitatori. Ma il fascino del luogo e la memoria dell’Uomo che lo abitò restano intatti e con Arbuticci si allarga al mondo.

Credo che a La Maddalena sia maturato nel corso degli anni il concetto dello sviluppo dell’identità garibaldina, non più solo legata all’accettazione del lascito materiale, ma piuttosto un’identità legata alla vitalità delle memorie garibaldine che racchiudono tante storie ancora da scoprire o misconosciute. Il collante garibaldino che allora come oggi ha dato e può dare senso all’Europa dei popoli, a quell’Europa mediterranea, del sud, che nei giorni scorsi l’ultimo vertice europeo di Bruxelles, grazie anche alla nuova politica francese, ha indicato come un asse da cui può muovere lo sviluppo europeo. Un’idea che certamente ha avuto dei padri nobili nella grande epopea risorgimentale documentata ad esempio dall’amichevole rapporto epistolare tra l’olbiense Pietro  Tamponi e Victor Hugo, esule per 18 anni a Hauteville House, nell’isola normanna di Guernesey, per sfuggire alla polizia di Napoleone III. Le analogie con la condizione di volontario isolamento dell’Eroe dei due mondi, a Caprera, la difesa degli ideali patriottici e repubblicani, il sostegno dato da Victor Hugo alla causa italiana su richiesta di Garibaldi e Mazzini, ne fecero agli occhi del Tamponi un modello a cui ispirarsi.

La credenziale per mettersi in contatto con l’illustre maestro fu rappresentata per il giovane Tamponi dall’aver militato nell’esercito garibaldino che aveva combattuto a Mentana: del resto Hugo, impressionato dalle notizie che gli giungevano dall’Italia, compose sul finire del novembre 1867, a pochi giorni dall’avvenimento, un breve poemetto proprio sullo scontro di Mentana, dedicato a Garibaldi. Un autografo di Victor Hugo, conservato nella Biblioteca Universitaria di Cagliari,  datato al 29 giugno 1870, è dominato da temi estremamente cari all’animo dei due amici, toccando alcuni temi come il dolore per la patria oppressa (Votre cri pour la patrie opprimée, me secoue profondément. Je le vois en lisant votre lettre, la Sardaigne, cette noble terre, a des nobles jeunes), l’anelito verso il progresso e la libertà (Courage, le monde physique va à la lumière, le monde morale va à la liberté), la realizzazione di un’unione dei popoli europei (Nous pouvons entrevoir d’ici cette grande étape prochaine de la civilisation: les Units Etats d’Europe. La Sardaigne y aura sa place).

Anni dopo Tamponi avrebbe descritto l’isola di Caprera dalla natura selvaggia e indomita, quasi un luogo prescelto dal destino per custodire il sepolcro di Giuseppe Garibaldi, <<il leggendario eroe>>, <<sempre ben vivo nel cuore di tutti>>; l’immaginazione romantica del Tamponi si spingeva ancora più oltre a sognare che l’eroe <<quando il fato d’Italia segni l’ora di guidare la patria a nuove pugne…scoperchiando l’avello, ritornerà alla testa dei martiri nostri, come nei tempi eroici, portando lo stendardo nelle prime file>>; allora <<si vedrà sorgere al cielo la sua figura, piovente la chioma leonina sulla camicia rossa, gentile come un eroe di Virgilio, bello come un dio indigete lampeggiante fra l’imperversare della bufera>>. L’accenno ai <<martiri nostri>> e ai <<tempi eroici>>, deve essere letto alla luce della profonda impressione suscitata nel sedicenne Tamponi, dai sanguinosi scontri di Monterotondo del 25 ottobre 1867 e dalla morte dei 150 volontari, alcuni come lui giovanissimi, nello scontro di Mentana, colpiti dai nuovi e temibili fucili chassepot, in dotazione all’esercito francese, che secondo il generale De Failly, in quella circostanza avevano fatto meraviglie. Un’eco di tali avvenimenti riecheggia nel commosso omaggio tributato dal Tamponi al sardo Antonio Viggiani, originario di La Maddalena: <<colpito in fronte da una palla pontificia cadde a Monterotondo, salutando, al raggio morente del sole, il glorioso vessillo tricolore>>.

Dopo essere riuscito a rientrare in Toscana, il Tamponi fu arrestato presso Sinalunga, in provincia di Siena, laddove lo stesso Garibaldi era stato fermato, per essere <<rimpatriato>> a Caprera, il 24 settembre del 1867. Anche il giovane sardo, probabilmente su pressione dei genitori, preoccupati dai pericolosi ardori patriottici del figlio, fece rientro nell’isola natale.

Troppo poco sappiamo ancora  di questo mondo di giovani intellettuali che fecero il Risorgimento, che costituirono una componente significativa delle élite dirigenti sarde, alcuni partiti al seguito di Garibaldi proprio come Antonio Viggiani, altri arrivati in Sardegna e qui rimasti. Fra i più sconosciuti penso a figure come Leone Paladini, milite della repubblica romana e fondatore delle colonie penali di Castiadas e Isili. Penso a Giuseppe Dettori, Garibaldino, un giovane maestro elementare privato dell’insegnamento dal consiglio comunale di Bosa con delibera del 12 gennaio 1861 per essersi allontanato dalla scuola e dal paese “contro l’espresso divieto del governo onde arruolarsi tra i volontari del generale Garibaldi”, circostanza aggravata dal fatto che non si era curato di “prevenire il municipio di tale sua gita e del suo prossimo ritorno” ed era stato per queste ragioni “ricercato dagli agenti di pubblica sicurezza e dai propri genitori”.

Penso alla Garibaldina Elisabetta Sias originaria di Tresnuraghes, che partecipò a una serie di campagne garibaldine tra il 1859 e il 1861 come vivandiera e come infermiera. Al momento di congedarsi dai compagni, ebbe una decorazione al valor militare. E poi gli altri sardi partiti con i Mille.

L’idea diffusa è che il Risorgimento in Sardegna sia identificabile solo in Garibaldi: credo che sia un limite pensare ad un museo garibaldino solo nella logica delle tracce di un mito, quando la dimensione da definire non può essere, come non fu, circoscritta. Vorremmo un messaggio nuovo, più educativo, relativo da un lato al contributo che ciascuna regione deve al Risorgimento e viceversa di quanto l’Italia debba ad una regione come la Sardegna.

Dunque una rete museale dove si possa e si debba pensare alla Sardegna che faticosamente diventa Italia, osservando al di là del mito quelli che sono stati i percorsi dei processi identitari e culturali.

Vorrei concludere guardando di nuovo verso la tomba dell’eroe, sull’isola amata e sul mare battuto dal maestrale: ci sono tanti altri eroi sepolti in queste isole come quel colonnello inglese Richard Collins di Moneta sepolto a Maddalena che aveva preso parte alla “feroce pugna navale di Trafalgar”.

Se torniamo ancora più indietro nel tempo, scopriamo che il nesonimo Phintonis insula utilizzato nell’età di Nerone da Plinio il vecchio per indicare l’isola di Caprera è direttamente connesso con un’altra tomba di un eroe militare del III secolo a.C., il marinaio greco Fintone, figlio di Baticle, nativo di Ermione in Argolide, travolto e ucciso dal mare in burrasca sulla costa di Caprera. I marinai greci che avevano dato il nome ad Icnhussa mostravano ai naviganti il cenotafio, un antico tumulo di pietre sulla spiaggia della Phintonos nesos che da lui prese il nome nello stretto di Taphros, per ricordare la sua giovinezza, finita sotto la furia dell’impetuoso vento del Settentrione scatenato da Arturo, la fulgida ma sinistra stella della costellazione di Bootes. Il tema di un vibrante epitafio, sia pur ristretto nel breve spazio di pochi versi che dobbiamo al poeta viaggiatore Leonida, originario dell’illustre colonia magno greca di Taranto, è quello del naufragio, della navigazione per i pericoli che essa comporta, delle rotte seguite osservando la posizione delle stelle, che a volte guidano il cammino ma possono di frequente annunciare l’arrivo di tempeste: è quello dell’impavido marinaio che sfida l’amato e odiato avidum mare nautis di oraziana memoria, un tema ricorrente in un filone letterario, quello dei racconti di mare, estremamente fecondo anche ai nostri giorni.  Anche il marinaio Garibaldi amò il mare.

 

 

 

 

– Mole che greve t’adergi su questa vetusta riviera,
Chi racchiudi? E suo padre? E donde fu?
– Fu Fintone d’Ermione, di Baticle figlio; alla furia
d’Arturo esposto, il pelago uccise

 

Auguro di cuore che le tempeste di ieri lascino spazio ad un futuro di pace.