Intervento al Seminario internazionale sull’Osservatorio dei saperi locali mediterranei.

Attilio Mastino
Intervento al Seminario internazionale sull’Osservatorio dei saperi locali mediterranei
Castelsardo, 8 aprile 2013

Cari Amici,

rivedo oggi con piacere in questa splendida nuova sede della Biblioteca Castellana alcuni colleghi che mi sono molto cari, a iniziare da Abdelkader Sid Ahmed.

E’ passato poco più di un anno da quando, tra il 22 e il 25 marzo 2012,  il Ministère de l’Agriculture et du Développement  Rural della Repubblica Democratica dell’Algeria, con il partenariato della Conférence Permanente des Villes Historiques de la Méditerranée, il Centre National de Recherches Préhistoriques, Anthropologiques et Historiques (CNRPAH), la Fondation Hans Seidel, le réseau euro-méditerranéen  Strademed et l’lnstitut Maghreb-Europe de l’Université di Paris ha riunito tanti di noi nell’oasi di Boussaâda  per il colloquio internazionale su « Les villes historiques de la Méditerranée et leurs territoires. Le cas des zones steppiques et des espaces oasiens : quelle stratégie de dévetoppement durable, rural et local ? ».

Purtroppo gli impegni del Rettorato non mi avevano consentito, come avrei voluto, di partecipare al colloquio algerino, dopo avere assicurato la mia presenza agli altri appuntamenti del nostro Colloquio mediterraneo, che abbraccia i tre continenti che rinserrano il Mare di tutti, il lago su cui noi popoli mediterranei siamo stanziati come rane, secondo l’immagine platonica.

Pur non partecipando direttamente non ho voluto mancare all’appuntamento di Bou Saada con la presentazione del  lavoro steso in collaborazione con il mio allievo Antonio Ibba, e letto a Bou Saada da Raimondo Zucca. Il nostro tema verteva sulle Communautés urbaines en Afrique méditerranéenne à l’époque romaine

Vorrei qui sunteggiare i contenuti del nostro intervento, in linea con il tema che affiancava la chiave di lettura urbana (Les villes historiques de lo Méditerranée et leurs territoires) al caso specifico dell’area di Bou saaada, alle porte del Sahara  (Le cas des zones steppiques et des espaces oasiens : quelle stratégie de dévetoppement durable, rural et local ?)

Sul fenomeno urbano antico ci siamo soffermati indicando limiti e strategie:

<< Le phénomène urbain en Afrique Méditerranéenne est antérieur à l’arrivée des Romains dans cette zone. Les villes dotées d’institutions pérégrines furent pendant très longtemps les seules communautés urbaines présentes sur ce territoire. Ce n’est qu’avec César que celles-ci verront se développer en parallèle, et en grande quantité dans le temps, des villes de droit latin ou romain, sans pour autant disparaître totalement ou être évincées par ces dernières. A l’époque impériale on observe toutefois une diffusion intensive de ces centres dans la partie septentrionale de l’Afrique Proconsulaire, alors que ce type d’établissement humain resta plus sporadique dans d’autres régions et en particulier dans les Mauretaniae, probablement à cause des tribus, particulièrement influentes dans ces zones, qui opposèrent une forte résistance. La ville romaine, emblème du pouvoir et considérée idéologiquement, dans un cadre provincial, comme une “petite Rome” devint très rapidement un modèle institutionnel et urbanistique pour les communautés pérégrines et fut spontanément adopté par la noblesse locale, soucieuse de manifester ouvertement son adhésion au projet impérial et désireuse de bénéficier des avantages que garantissaient les normes romaines par rapport aux normes latines. Le modèle de la ville romaine et sa diffusion n’amenèrent pas à une romanisation automatique des institutions, lesquelles dans leur diversité persistèrent au moins jusqu’au Bas-Empire. La civilisation urbaine connut quelques légères transformations introduites par Dioclétien et ses successeurs mais ne perdit rien de sa vitalité durant tout le IVe siècle et le sentiment d’appartenance des notables aux centres urbains dans lesquels ils résidaient resta relativement inchangé. Mais une pression fiscale de plus en plus contraignante et la prépondérance accentuée du christianisme engendrèrent peu à peu une désaffection de la noblesse municipale et une délocalisation des espaces publics, occupés par les particuliers et souvent remaniés pour y implanter des activités manufacturières ou pour le traitement des produits agricoles>>.

Il caso delle zone steppiche è invece stato affrontato da diversi valorosi colleghi che hanno trattato con analisi economiche, sociologiche, climatologiche,  la questione di uno sviluppo sostenibile in aree dall’equilibrio delicatissimo e dall’alto valore ambientale e sociale.

A distanza di un anno torniamo all’ambito dei Saperi Mediterranei. Sono saperi antichi e moderni, ossia futuri. Negli scenari spesso foschi della crisi globale, nella problematica stagione delle primavere arabe, nella evocata tragedia dell’ultima stagione nucleare, si ergono i saperi mediterranei che abbracciano secoli antichi e futuri  e culture diverse ma interconnesse fra di loro. Voglio ricordare quattro anni fa il mio intervento al Convegno su Saperi mediterranei e sviluppo tra memoria e trasmissione, promosso dai tanti sociologi che mi sono cari, Antonio Fadda, Romina Deriu, Antonietta Mazzette. Ero stato allora chiamato a discutere su un tema che mi appassiona davvero, quello della Decolonizzazione, identità nazionale e patrimonio: la memoria del passato pre-islamico nel paesi del Maghreb, con riferimento al patrimonio e all’identità del Mediterraneo, un mare che conosce oggi l’emergere di spinte irrazionali che anziché valorizzare le singole identità nazionali nell’ambito di un processo di integrazione e di libera convivenza hanno invece avviato pericolosi fenomeni di frantumazione degli Stati, inutili chiusure e dannosi isolazionismi. Sono i frutti amari dell’integralismo e dell’intolleranza che coinvolgono a pieno titolo anche le più evolute nazioni europee, dove spesso si affermano fenomeni di vero e proprio razzismo.  Dall’altra parte, appare ora evidente come il mondo arabo frammentato nel Nord Africa in tanti stati abbia paradossalmente ereditato dal colonialismo una forma nuova di nazionalismo.

E infine vorrei ricordare i disagi che anche  ai nostri giorni caratterizzano gli spostamenti dei tanti immigrati africani che spesso clandestinamente si muovono su imbarcazioni pericolose e instabili dalla riva Sud del Mediterraneo verso un’Europa scintillante e desiderata, ma anche spesso insensibile e incapace di accogliere l’altro.

Dopo l’11 settembre 2001, il tema è allora quello della difficile conciliazione tra identità differenti, anche alla luce di veri e propri conflitti di civiltà stimolati dal terrorismo islamico ma anche da forti correnti di intolleranza strumentalmente alimentate in Europa.

C’è una nuova fase della storia del Mediterraneo, che è quella del meticciamento e del biculturalismo. Il recupero corretto della memoria del passato è allora il tema vero che abbiamo di fronte, una solidissima base su cui costruire un futuro fondato sul rispetto reciproco.

Da Betlemme a Sassari a Bou Saaada a Castelsardo abbiamo la coscienza di costruire  o meglio di ricostruire la storia comune di noi popoli mediterranei.

L’Università di Sassari candida la Sardegna ad ospitare uno dei poli di ricerca immaginati dieci anni fa a Bejaia ta Algeria, Italia, Palestina e Corsica e aderisce al progetto della Regione, della Conference permanente des villes historiques de la Mediterranée, dell’ISPROM, del Comune di Castelsardo per la nascita di un Osservatorio permanente dei saperi locali, nelle sue diverse dimensioni e prospettive, il patrimonio, la cultura, la sociologia, l’economia, l’urbanistica, le istituzioni, l’architettura tradizionale, le risorse idriche, le energie rinnovabili, lo sviluppo e l’ambiente.  Occorre, dopo la realizzazione della struttura finanziata dall’Unione Europea qui a Castelsardo, passare alla fase due, quella delle azioni immateriali legate alla ricerca universitaria e all’azione delle istituzioni e delle autonomie.

Siamo qui per dire che vogliamo condividere obiettivi e progetti concreti, partendo dall’incontro del prossimo 20 giugno ad Alghero promosso dal Rettore dell’Università di Corte nell’ambito della rete delle università insulari (RETI): un momento di riflessione operativa e scientifica per costruire un nuovo orizzonte di sviluppo per il Mediterraneo e non solo.




Pasqua dell’Università.

Intervento del prof. Attilio Mastino
Pasqua dell’Università
Sassari, 26 marzo 2013

Cari amici,

quest’anno la Pasqua cade in un momento di profonda crisi per il Paese e per la Sardegna,  colpite dai licenziamenti come quelli annunciati a porto Torres per EON, ultimo episodio di un rosario di notizie che testimoniano il declino del sogno industriale, iniziato con la rottamazione degli impianti della Vinyls, quando tanti giovani cassintegrati ci sono stati strappati dopo anni di lotta disperata. Ho sempre negli occhi l’immagine di Padre Paolo che accoglie gli operai.  Colgo l’occasione per augurare Buona Pasqua anche a loro, ai nostri studenti, ai nostri colleghi, agli amici dell’Istituto di Scienze Religiose, perché tutti possiamo essere in grado di leggere con speranza i segni dei tempi nuovi che passano anche attraverso il forte rinnovamento della Chiesa, che riscopre valori profondi e una dimensione veramente universale, con l’arrivo di un grande Papa, Francesco.

Assieme alla Facoltà Teologica della Sardegna celebreremo a breve in questa aula magna i cinquanta anni che sono trascorsi dal Concilio Ecumenico Vaticano II, aperto l’11 ottobre 1962 con il discorso Gaudet Mater Ecclesia di Giovanni XXIII. Il Concilio fu l’evento più notevole della chiesa del secolo scorso, quasi un vessillo innalzato tra le nazioni, un evento di profezia e di resurrezione: il Papa chiedeva che la Chiesa  riprendesse a parlare con il mondo, anziché arroccarsi su posizioni difensive e interpretasse positivamente i “segni dei tempi”, riprendendo la polemica di Cristo con Farisei e Sadducei riferita da Matteo:

<<Quando si fa sera, voi dite: “Bel tempo, perché il cielo rosseggia!” e la mattina dite: “Oggi tempesta, perché il cielo rosseggia cupo!” L’aspetto del cielo lo sapete dunque discernere, e i segni dei tempi non riuscite a discernerli?>>.

Nella stessa serata, forse ispirandosi proprio al vangelo di Matteo, Giovanni XXIII improvvisava quel discorso della luna che ci è rimasto nel cuore e che rende bene l’offerta di amore al mondo che stava dietro la convocazione del Concilio.

La mia età mi consente di ricostruire a distanza di tanti anni l’emozione di quei giorni e di tentare di recuperare alla memoria qualche ricordo di quegli straordinari resoconti sul Concilio che dal pulpito in Cattedrale faceva costantemente il vescovo Francesco Spanedda, arrivato a Bosa nel 1956: il vescovo era stato chiamato a far parte della Commissione teologica internazionale e ci raccontava il Concilio con lo stupore di chi assisteva ad un evento storico, osservava commosso le nuove aperture di una teologia troppo chiusa come quella italiana, entrava in contatto per la prima volta con i teologi francesi e tedeschi,  istituiva rapporti e legami con decine di altri vescovi in particolare di oltrecortina, che si sarebbero sviluppati nel tempo. C’era nelle sue parole il sapore fresco di un avvenimento che in qualche modo settimana dopo settimana egli riusciva a farci vivere insieme con lui, soprattutto nell’Azione Cattolica, nel Centro Sportivo Italiano, in parrocchia, sul settimanale Libertà. Un avvenimento che per tre anni ci avrebbe riguardato tutti.

Il vescovo commentava la Costituzione pastorale Gaudium et Spes del 1965 per parlarci di scuola e università, con riferimento al capitolo dedicato alla promozione del progresso della cultura e ai doveri dei giovani e dei loro maestri. Oppure commentando la Dichiarazione conciliare Gravissimum educationis del 28 ottobre 1965 ci parlava dell’educazione cristiana. Oggi a distanza di 50 anni sorprendono le aperture del Concilio sulle scuole superiori e sull’università, se si ribadisce che le diverse discipline debbono essere <<coltivate secondo i propri principi e il proprio metodo, con la libertà propria della ricerca scientifica>>.

Sentivamo in quei giorni la novità di un tempo nuovo, la gioia per la rinnovata dimensione universale della Chiesa, ancora il desiderio di una rinascita, il senso della fine di una storia.

Il tema centrale ruota attorno al senso della responsabilità che gli educatori debbono indicare ai giovani, per sviluppare generosità, altruismo, impegno personale. E poi il desiderio di dialogo, di confronto, di adesione convinta, di vita vera,perché anche il dubbio ha diritto di cittadinanza per l’uomo, contro ogni dogma e ogni imposizione dall’alto. Dunque la formazione all’apostolato dei laici con una flessibilità e una tolleranza nuova, cui il Concilio ha dato un impulso straordinario.

Insomma, percepivamo il senso di un’opportunità che ci veniva offerta, sentivamo di agire in uno scenario più ampio, avvertivamo che tante barriere sarebbero state abbattute, anche con riferimento all’impegno ambientale.

Le parole che il nostro Papa Francesco il 19 marzo ha usato nell’omelia della Messa per l’inizio del suo pontificato sono in questa linea, nell’invito a tutti gli uomini di buona volontà di essere <<custodi della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, dell’altro e dell’ambiente>>.

Il Concilio è stato innanzi tutto – per usare le parole di Paolo VI – una sorgente dalla quale scaturisce un fiume; <<la sorgente può essere lontana, la corrente del fiume ci segue>> perché <<il Concilio lascia qualche cosa dietro di sé che dura e continua ad agire>>.

Personalmente sono convinto che senza il Concilio non avremmo avuto il grande papa Giovanni Paolo Magno, e poi Benedetto XVI e il nostro Francesco, e la Chiesa avrebbe avuto una dimensione più provinciale e meno ecumenica.

Tornano in mente le straordinarie parole della costituzione “Apostolicam Actuositatem”, che appaiono attualissime: <<I giovani esercitano un influsso di somma importanza sulla società odierna. Le circostanze della loro vita, le mentalità e gli stessi rapporti con la propria famiglia sono grandemente mutati. Essi passano spesso troppo rapidamente ad una nuova condizione sociale ed economica. Mentre cresce sempre di più la loro importanza sociale ed anche politica, appaiono quasi impari ad affrontare adeguatamente i loro nuovi compiti>>.

L’8 dicembre 1965, Paolo VI trasmetteva l’ultimo messaggio del Concilio, indirizzandolo ai Giovani, veri destinatari ultimi della <<revisione di vita>> che la Chiesa aveva avviato accendendo la luce che doveva rischiarare l’avvenire: << Perché siete voi che raccoglierete la fiaccola dalle mani dei vostri padri e vivrete nel mondo nel momento delle più gigantesche trasformazioni della sua storia. Siete voi che, raccogliendo il meglio dell’esempio e dell’insegnamento dei vostri genitori e dei vostri maestri, formerete la società di domani: voi vi salverete o perirete con essa. Lottate contro ogni egoismo. Rifiutate, di dar libero corso agli istinti della violenza e dell’odio, che generano le guerre e il loro triste corteo di miserie. Siate: generosi, puri, rispettosi, sinceri. E costruite nell’entusiasmo un mondo migliore di quello attuale>>.

A distanza di quasi cinquanta anni quelle parole emozionano ancora, anche se resta forte l’impressione di tante occasioni perdute, di tante premesse rimaste solo virtuali, di tanti impegni non mantenuti, di tanti tradimenti da parte di ciascuno di noi e di tutti.

Buona Pasqua ai nostri carissimi studenti e a tutti noi, con un grazie a Padre Marco Angioni ed a Tonino Delogu per quello che hanno fatto d’intesa con Padre Paolo e un augurio affettuoso di buon lavoro a Francesco Soddu ed ai componenti la Consulta della Cappellania Universitaria.




Incontro su: Un anno di coltivazione del cardo: i primi risultati.

Saluto del Rettore dell’Università di Sassari Attilio Mastino.
Incontro su  Un anno di coltivazione del cardo: i primi risultati.
Sassari, 17 marzo 2013

Cari amici,

sono qui innanzi tutto per portare il saluto dell’Università di Sassari per questa giornata di riflessione con i rappresentanti sindacali e dell’agricoltura sarda, con uno sguardo rivolto innanzi tutto agli operai di E.ON, impegnati nella difesa del proprio posto di lavoro.

Dieci anni fa Porto Torres è stato dichiarato dal Ministero dell’Ambiente il 7 febbraio 2003 Sito di interesse nazionale. Lo Stato ha riconosciuto le violenze subite dall’ambiente nel Golfo dell’Asinara: il tema del risanamento e delle bonifiche è diventato un grande problema nazionale.

Più di recente l’Accordo di programma definisce il quadro per l’avvio delle operazioni di bonifica, soprattutto in relazione alle falde ed alle aree inquinate.

Davanti a noi c’è una nuova fase di impegno comune per investimento nel settore chimico nel rispetto dell’ambiente: occorre garantire un rapporto equilibrato tra rispetto dell’ambiente e investimenti produttivi.

L’Università risponde positivamente alla sfida del risanamento del Polo industriale turritano e del rafforzamento della presenza industriale. Il panorama che abbiamo di fronte è quello della rovina delle aziende che un tempo formavano il tessuto produttivo. Esse possono ora diventare laboratori a cielo aperto per lo studio degli agenti inquinanti, per definire i livelli di concentrazione dell’inquinamento, per indicare soluzioni e strade nuove.

I danni inferti all’ambiente sono terribili, soprattutto perché ci troviamo in una delle zone ambientali più delicate del Mediterraneo.

Basta con le iniziative velleitarie e con le speculazioni piratesche, con le infrastrutture inutili e con le opere mai realizzate.

Per affrontare le criticità occorre avviare una riconversione industriale che si basi sui punti di forza che pure esistono.

Il rilancio dell’area industriale è necessario per rispondere alla domanda di lavoro.

Il tema delle bonifiche costituisce la pre-condizione per lo sviluppo.

Deve essere chiaro che il tema delle Bonifiche è anche una grande questione etica, un dovere civile: occorre sfruttare il patrimonio di conoscenze e di errori accumulati negli anni per avviare il risanamento e la riconversione industriale.

Abbiamo di fronte a noi la necessità di far convivere un’area industriale viva ed pulsante ed un Parco Nazionale.

Vediamo con favore e senza riserve gli investimenti nella Green economy, nell’economia verde che può battere in termini di occupazione l’industria inquinante. Dobbiamo costruire progetti ed aprire strade nuove, prospettive di sviluppo.

Pensiamo allo sviluppo degli studi sulla produzione di oli da colture industriali adatte alle condizioni ambientali e ai sistemi agrari e zootecnici della Sardegna. Parleremo della mappatura di biomasse e di scarti agricoli in Sardegna, di messa a punto di tecniche colturali a basso impatto e di valorizzazione di biomasse a fini industriali.

Negli ultimi anni l’Università di Sassari ha seguito con grande interesse e con la massima attenzione l’evolversi della situazione nel polo industriale di Porto Torres concretizzatasi, come riportato nel Protocollo d’Intesa sulla Chimica Verde siglato presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri il 25 maggio 2011, in un piano di accelerazione delle operazioni di bonifica oltre che di riconversione industriale attraverso la nascita di Matrìca, una joint venture tra Versalis (Eni) e Novamont. Nel protocollo si immaginano impianti di produzione ma anche campi sperimentali di colture oleaginose compatibili con le specificità del territorio isolano.

Conseguentemente con la propria politica di grande impegno per lo sviluppo economico del territorio nel quale la nostra Università si trova inserita, insieme all’Università di Cagliari, al CNR e alla RAS, il nostro Ateneo ha firmato con Matrìca due convenzioni: la prima (20 febbraio 2012) volta alla individuazione di tematiche di ricerca di comune interesse nel campo della ricerca nella Chimica Verde, nel settore chimico agrario energetico, con lo sviluppo di comuni progetti di ricerca che coinvolgano la Regione, l’Università di Cagliari e il CNR. La seconda volta a promuovere lo svolgimento di tirocini di formazione e di orientamento per neo-laureati presso la nuova Azienda.

L’università di Sassari, conscia delle notevoli potenzialità della Chimica Verde e delle attività industriali ad essa collegate, caratterizzate da previsioni economiche di forte espansione per gli anni a venire, ha voluto in questo modo manifestare chiaramente la propria disponibilità a condurre ricerche e attività formative a supporto della filiera agroindustriale che dovrà alimentare la bioraffineria di Matrìca, una disponibilità che vogliamo qui nuovamente ribadire e confermare.

L’istituzione del Master internazionale di II livello in Chimica Verde presso il nostro Ateneo è un’ulteriore conferma della nostra volontà di contribuire all’avanzamento tecnologico, scientifico e formativo in questo settore.

L’Università di Sassari, attraverso i propri Dipartimenti di Agraria e di Chimica e Farmacia e gli altri dipartimenti ambientali, può mettere a disposizione competenze nei settori agrario, chimico ed energetico,ambientale, idonee allo svolgimento di attività di ricerca inerenti i sistemi colturali destinati alla produzione di oli, amidi e biomasse suscettibili di introduzione nei sistemi agrari della Sardegna oltre che all’analisi, caratterizzazione, purificazione ed eventuale modificazione chimica delle materie prime e dei derivati polimerici ottenibili da queste fonti rinnovabili.

Come abbiamo sostenuto in un incontro svoltosi in Ateneo il 27 febbraio con Eni, Enipower, Matrica e Novamont, auspichiamo lo svilupparsi di nuove e condivise forme di collaborazione tra l’Azienda e la nostra Università, pronti a dare il nostro contributo non appena queste possibilità troveranno una concreta forma di realizzazione.

Voglio augurarmi che non si lascino improduttivamente trascorrere annate agrarie , si avvino serie sperimentazioni e si definiscano concreto progetti di collaborazione con l’Università, partendo sempre dall’obiettivo di definire come i nuovi sistemi produttivi possano integrarsi coni sistemi agricoli locali.




La pace nel mondo antico. Rotary club Sardegna.

Attilio Mastino (con la collaborazione di Antonio Ibba)
La pace nel mondo antico
Rotary club Sardegna
Sassari, Aula Magna dell’Università 16 marzo 2013

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Cari amici,

intervengo con emozione a questo incontro con tanti amici dedicato al tema della pace, partendo dal mondo antico, cercando di esprimere la complessità del tema.

In un celebre discorso che Tacito attribuisce all’eroe dei Britanni il principe caledone Calcago è riassunto polemicamente come nel negativo di una lastra fotografica il senso che i romani davano alla parola Pace: >.

Siamo nell’età di Domiziano nell’84 d.C. durante le guerre in Britannia e in Scozia. Qualche anno prima l’imperatore Tito aveva distrutto dalle fondamenta il tempio di Gerusalemme, cercando di impiantare a Roma il culto di Javeh nel templum pacis allora costruito nel foro romano, l’edificio sacro più straordinario e più conosciuto del mondo antico.

Vespasiano e i suoi figli Domiziano e Tito avevano adottato il modello propagandistico della Pax Augusta, che trova la più alta espressione nelle Res Gestae divi augusti, il testamento politico di Augusto scritto nel 14 d.C.: qui Ottaviano precisava di aver fatto chiudere per tre volte il tempio di Giano Quirino cum per totum imerium populi Romani terra marique esset parta victoriis pax. Eppure oggi la pace frutto della guerra e delle vittorie ci ripugna.

Concetti che tornano propagandisticamente nei bassorilievi dell’Ara Pacis di Roma, dedicata dopo le guerre nella Hispania Tarraconensis nel 9 a.C.

L’ara pacis ricostruita ci appare come un recinto quadrangolare in mamo, che protegge un altare sacrificale, a cui si accede attraverso due ingressi aperti sui lati più corti. I primi frammenti marmorei vennero rinvenuti nel 1568, nei pressi di via del Corso, con ritrovamenti successivi che alimentarono le collezioni dei Medici e dello stesso Louvre. Il recinto è decorato nella parte superiore da ghirlande appese a teschi di bue e vasi votivi sospesi su nastri, con una fitta decorazione vegetale che è stata recentemente oggetto di uno studio botanico. Mentre sul fianco di ogni porta sorgono quattro rilievi con raffigurazioni mitologiche (es. il sacrificio di Enea ai penati), sui lati lunghi si può ammirare una processione di àuguri, camilli, sacerdoti e membri della stirpe imperiale. In mezzo a queste figure  emerge Augusto, pontifex maximus, Agrippa suo genero, Livia, Tiberio e Druso, Domizio Enobarbo coi due figli. Sull’altro lato a comporre il corteo compare la figlia di Augusto, Giulia. La famiglia imperiale è ritratta al culmine del suo splendore e della sua potenza. Siamo in un momento storico in cui si inizia a consolidare l’investitura divina dell’imperatore, attraverso un rigido cerimoniale religioso, come conferma la processione raffigurata sui pannelli marmorei del monumento. Voglio ricordare che i restauri dell’Ara Pacis, trasferita in epoca fascista dal Campo Marzio al Lungotevere presso l’antico Porto di Ripetta, furono effettuati nell’anno 1970 a spese del Club rotariano di Roma Sud nel nostro distretto 2080: da quell’anno dunque (quaranta tre anni fa) fu istituto il premio nazionale Ara Pacis, assegnato dal Rotary tra gli altri, al Papa Giovanni Paolo Magno, al Sen. Giovanni Spadolini, alla Caritas Italiana,alla Croce Rossa Italiana, all’Arma dei carabinieri, alle Suore Missionarie di Madre Teresa di Calcutta, all’UNICEF, ai Medici senza Frontiere, all’Associazione italiana contro le leucemie e a molti altri.

Nove anni fa, il 21 aprile 2006, fa ero presente in occasione dell’inaugurazione da parte del sindaco Walter Veltroni del nuovo Museo dell’Ara Pacis, opera di Richard Meier, fortemente contestato da un gruppo di attivisti del Fuan.

Le immagini si riferiscono a quell’episodio  movimentato ed emozionante.

Il tema della fine delle guerre interne ed esterne era ben presente nel corso di tutta la attività politica di Augusto. Pur non utilizzando apertamente il termine pacator, Ottaviano si mostrava un “creatore di pace” già dopo la vittoria a Nauloco nel 36 a.C. su Sesto Pompeo; dopo Azio, il concetto ritornava nel monumento innalzato a Nicopolis in Acaia, nel 29 a.C., per celebrare la sconfitta di Cleopatra. Un tetradramma d’argento dell’anno 28 a.C., coniato a Efeso e destinato alle comunità orientali, raffigurava sul rovescio la Pax e sul diritto il busto di Ottaviano laureato e e il titolo Populi Romani vindex, in altre parole l’imperator veniva esaltato come colui che aveva saputo restituire al popolo romano la pace, eliminando quella fazione che ne aveva posto in pericolo la libertas; l’ambivalenza del termine vindex (“il difensore, il garante” ma anche “il vendicatore”), frequente nel linguaggio corrente, gli permetteva inoltre di redimere la figura di Cesare, il tiranno nella nuova fase presentato come simbolo della libertà.

Ottaviano evitava in quest’ultimo caso di accennare alle sue vittorie (unico indizio la corona di alloro che cinge l’icona della dea), poiché il riferimento sarebbe stato evidentemente alle guerre civili. I successi militari venivano invece celebrati in maniera più esplicita quando il riferimento era alle guerre esterne:

La chiusura del tempio di Giano prima nel 29 a.C., quindi nel 25 a.C., forse nel 10 a.C. acquistava un significato epocale nel suo esplicito legame con i rari episodi del passato e si è addirittura ipotizzato che Ottaviano «non tanto riesumasse o credesse di riesumare un antico uso quanto volesse far credere di riesumarlo, attribuendogli un significato assai più vicino ai suoi interessi propagandistici che non a quello che esso un tempo aveva avuto.

Si trattava di una pace tradizionale imposta e conservata con le armi, alla quale alludevano fra gli altri un denario emesso forse nel 27 a.C., le statue auree delle province e dei popoli sconfitti (esposte nel foro di Augusto e nel tempio di Marte Ultore), probabilmente l’aggettivo Quirinus riferito a Giano, forse uno dei rilievi sull’ara del Campo Marzio (una divinità armata assisa in trono), e infine l’altare di Narbo in Gallia Narbonensis.

Gli epiteti Sebasthé e Augusta permettevano di qualificare inequivocabilmente la pace come una divinità e ne delimitavano il campo d’azione nell’ambito delle attività del princeps: la Pax era Augusta non tanto perché creata da Augusto ma in quanto inerente alle funzioni dell’imperatore ed ottenuta in virtù di auspicia particolari mai concessi ad altro uomo. Et vos orate, coloni, perpetuam pacem pacificumque ducem, scriveva Ovidio, evidenziando non solo la commistione fra pax e imperium ma anche il costante sforzo del princeps, pacificus dux, nel creare e preservare la pace.

Accanto ad una Pax trionfante l’imperatore cominciò ben presto a pubblicizzare una pace civile”, una nuova età dell’oro contrassegnata dalla provvidenziale presenza del princeps che aveva ripristinato la pax deorum infranta dalle guerre civili, che apparentemente garantiva la libertas, la salus publica e la concordia civium, la securitas, la certezza del diritto, la ripresa delle attività produttive.

La Pax di Augusto era inoltre eterna e mondiale, perpetua,, terra marique parta, non limitata alla sola Roma, come ribadito in più occasioni, quasi uno slogan del suo principato. Per Virgilio destino dei Romani era governare il mondo con la forza delle armi: solo in questo modo avrebbero potuto diffondere una superiore civiltà su tutta la terra; le guerre esterne venivano intraprese solo per assicurare stabilità ai confini dell’impero, per debellare superbos, quindi per garantire la pace universale senza velleità di conquista (pacisque imponere morem). Sullo sfondo di questa concezione vi era il contrastato atteggiamento nei confronti del mito di Alessandro Magno e del suo ecumenismo, già ampiamente diffuso fra i comandanti militari della media e tarda repubblica: il legame con il mondo italico, l’esaltazione della “vittoria diplomatica sui Parti”, lo scomodo confronto con la politica di Antonio, la necessità di frenare comandanti troppo ambiziosi anche all’interno della propria famiglia, un diffuso desiderio di pace costringevano Augusto a rinunciare in parte alla figura di Alessandro (sfruttata invece dalla propaganda avversa per sminuire i successi dell’imperatore). Nello stesso tempo il ricordo del Macedone, perpetuato attraverso opere d’arte esposte nei centri del potere, legittimava il sogno cosmocratico di Roma (erede del progetto di Alessandro) e ne dimostrava la superiorità, giacché questo non era legato ad un controllo politico ma all’imposizione di un modello culturale, non alla forza delle armi ma ad una superiore capacità organizzativa.

Nella propaganda ufficiale la pax appariva come un dono delle divinità o ancor meglio dell’unico uomo che godeva di un imperituro favore divino. Ovidio definiva l’imperatore auctorem pacis e pregava: Iane, fac aeternos pacem pacisque ministros, dove questi ministri erano il princeps ed i suoi eredi. Non fu quindi casuale che la divinizzazione di Pax coincidesse con la divinizzazione di fatto dell’imperatore: in un sesterzio del 22 d.C. il divus Augustus pater viene rappresentato nelle vesti del fundator pacis, radiato e togato, assiso in trono, nella mano destra il ramo d’olivo, nella sinistra lo scettro.

Gli effetti della Pax Augusta reinterpretata dai Flavi e dagli Antonini, assicurarono per circa due secoli una sostanziale convivenza pacifica nel Mediterraneo, il libero movimento di merci e uomini, la progressiva integrazione dei provinciali, la possibilità per i ceti elevati di partecipare al governo di Roma e per le classi inferiori di godere di una giustizia equanime, la prospettiva di un’eventuale promozione sociale

Non c’è continuità tra la Pace di Augusto e i modelli greci che avevano esaltato l’eirene, un concetto di pace che non si limitava alla semplice cessazione o interruzione di una guerra esterna ma coinvolgeva i rapporti interni fra i cittadini della polis, abbracciando valori che trascendevano la sfera politica per arrivare a quella etica e morale. Sin dall’età arcaica Eirene, dono degli dei ed essa stessa divinità, era associata a Eunomia (buon governo) e a Dike (giustizia); la sua presenza portava ordine e benessere, gioia e prosperità; è interessante l’originale interpretazione che della divinità diede lo scultore Cefisodoto il Vecchio, padre di Prassitele: la dea maestosa tiene in braccio un bimbo, identificato come Plethos (la ricchezza), che le accarezza teneramente il volto. Il quadro familiare materializzava quelle che erano le speranze degli Ateniesi nel primo scorcio del IV secolo a.C.: la pace quale fondamento della ricchezza economica, in particolare del commercio. In questo solco, liberata dagli orpelli mitologici della tradizione, maturava la tesi di Aristotele che nel VII libro della Politica faceva della pace il fine ultimo della polis ideale e conseguentemente fondava sul raggiungimento di questo obiettivo l’educazione del cittadino.

Sempre nel IV secolo, il contatto fra le poleis greche e l’impero persiano portò a maturare l’idea di una koiné eiréne, una pace universale, eterna (almeno nelle intenzioni) e multilaterale, che coinvolgeva non solo i contraenti immediati ma, a prescindere alla partecipazione della guerra, tutte le comunità di un determinato territorio; essa si fondava sui principi condivisi dell’ eleutheria e dell’autonomia (la libertà interna ed esterna) e rappresentava una sorta di dichiarazione di diritti validi per tutte le città al di là dei singoli interessi, imposta e garantita da un organismo supremo con la forza delle armi.

Differente invece l’atteggiamento nei confronti della pace nel mondo romano repubblicano, con un significativo slittamento semantico. Il concetto di pax investiva originariamente la sfera sacrale della Roma arcaica sviluppando una tradizione indeuropea che associa la PAX alla radice pak-, pag- nel senso di fissare, legare, unire, saldare, anche nel senso di pagare, contrapposto di bellum.  Essa rappresentava l’atto di riconciliazione fra gli uomini e le divinità, fondamentale per la felice riuscita di qualsiasi impresa umana; successivamente pax indicò la riconciliazione fra gli uomini, sancita da un foedus che richiedeva particolari condizioni preliminari. Se l’eirene stipulata fra i Greci presupponeva un reciproco impegno garantito con un giuramento, la pace romana era imposta unilateralmente al vinto dal vincitore, che, solo dopo aver ricevuto armi, ostaggi ed altre garanzie o indennità dallo sconfitto, si impegnava a imperio in eum tamquam pacatum uti.

Sin dalle fasi più antiche pax era dunque associata ad imperium e priva di quelle caratteristiche civili e crematistiche tipiche dell’eirene (era d’altronde ben chiaro ai Romani che la guerra era fonte di ricchezza immediata ancor più della pace). L’idea della pace non riscosse in età repubblicana popolarità tale da suscitare un culto specifico fra i cives soldati, pure inclini a prestare attenzione a concetti astratti come concordia, fides, honos, pietas, victoria ma curiosamente dimentichi di Pax e quindi dell’epiteto pacator: unica rappresentazione sembrerebbe quella sul verso di un denario anonimo del 128 a.C., dove una divinità, forse Pax alla guida di una biga, stringe nella mano destra un ramo d’olivo e nella sinistra lo scettro e le redini; in basso è visibile la testa di un elefante con campanaccio appeso e la legenda in esergo ROMA. Se l’interpretazione fosse esatta, ci troveremmo di fronte ad una Pax che aveva assunto le fattezze della vittoria trionfante sul nemico ad una Pace conquistatrice, nata da una guerra vittoriosa condotta sotto l’egida di Roma, ad un evento politico piuttosto che ad un’esigenza primaria della natura umana.

I temi di Pax e Concordia ebbero invece larga risonanza nei proclami dei vari comandanti durante le guerre civili che funestarono il I secolo a.C. Silla per primo ne fece uso nella sua propaganda: sul recto di un denario dell’anno 81, accanto ad un volto femminile, fu raffigurato per la prima volta il caduceo, antichissimo simbolo della Pax, una pace tuttavia cruenta, conquistata in una guerra contro i concittadini. È invece animata dallo spirito di riconciliazione la propaganda di Cesare negli anni dello scontro con i Pompeiani.

Dalla seconda metà del II secolo a.C. cominciava intanto a diffondersi nella classe dirigente romana un nuovo concetto di pace, di matrice aristotelica o epicurea, collegato all’otium; al tempo di Cicerone l’ideale della pace nelle sue varie sfumature era chiaro ad un numero vastissimo di Romani colti, provati dalle guerre esterne ed interne: come per Aristotele anche per il senatore di Arpinum la pace era condizione migliore della guerra e l’unica guerra accettabile era quella che conduceva alla pace. In questo clima non stupisce che il termine pax appaia per la prima volta su un’iscrizione, una sententia del senato databile al 58 a.C.: [re publica pulcer]rume adm[i]nistrata, imperio am[pli]ficato, [p]ace per orbe[m terrarum confecta], dopo che erano stati sgominati i praedon[es q]uei orbem [ter]rarum complureis [annos vastarint et fa]na delubra simul[a]cra deorum inmor[t]alium loca religi[osissuma — compil]arint.

Dopo Augusto, furono gli imperatori flavi, all’indomani della guerra civile esplosa dopo la morte di Nerone e dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme, a sposare propagandisticamente il modello dell’imperatore pacator orbis che si afferma sulle monete e che sopravvive in tutta l’età imperiale. Nella titolatura di Tito compaiono epiteti sicuramente collegati al bellum Iudaicum e con la memoria di Augusto; la Pax Augusta di Vespasiano appare negli altari dedicati a Roma. Sono numerose le testimonianze relative all’attenzione con la quale i Flavi adottarono il tema della Pace nei monumenti figurati, nelle monete, nelle iscrizioni, apparentemente in continuità ideale con Augusto, sia pure con la sottolineatura delle origini della dinastia flavia. Nella titolatura di Tito, che nel 71 trionfò sui Giudei,  registrata in un’iscrizione di Valencia in Spagna, compare l’epiteto collegato con il bellum Iudaicum di  conserva[to]r pacis Aug(ustae).  Conosciamo in parallelo una dedica andalusa dedicata a Vespasiano Augusto,  negli stessi anni, Augusto, Paci perpetuae et Concordiae Augustae. Allo stesso ambito sembra vada riferita una ulteriore dedica spagnola da Arva in Baetica dedicata Paci Aug(ustae). Ma già a metà novembre del 70, in occasione del giorno natalizio di Vespasiano, i componenti della tribù Sucusana forse impegnati in interventi edilizi di ricostruzione del Campidoglio e dei suoi annessi distrutti nell’assedio successivo alla sconfitta di Vitellio  dedicano a Roma due grandi are marmoree consacrate Paci aeternae e Paci August(ae)  Sacrum domus Imp(eratoris) Vespasiani Caesaris Aug(usti) liberorumq(ue) eius.

Dopo Nerone e dopo l’anno dei quattro imperatori, la propaganda di Vespasiano mirava alla pacificazione dell’orbis terrarum e alla restaurazione dell’ordine mondiale, dopo i disastri delle guerre civili che avevano leso la credibilità del principato fondato sulla Pax e sulle victoriae. Nel 71 la zecca di Roma emise dei sesterzi con legenda PAX AVG. e rappresentazione della Pace nell’atto di bruciare una catasta di armi, una divinità quindi non statica come in precedenti raffigurazioni ma dinamica e liberatrice, espressione del genius principis (quindi Augusta) e della volontà imperiale tutta tesa alla distruzione degli strumenti della discordia per inaugurare un’epoca nuova all’insegna della firmitas (la stabilità di governo).

Vespasiano si preoccupò di ristabilire le basi giuridiche ed ideologiche del suo potere e di sottolineare i vantaggi procurati dal principato: in questo contesto furono coniate, probabilmente sempre nel 71, delle monete che, riprendendo alcuni tipi augustei, identificavano nell’imperatore il , assiso in trono con in mano un ramo d’olivo e lo scettro, iconografia estesa significativamente anche ai figli Tito e Domiziano, destinati a perpetuare la dinastia, Caesares principes iuventis raffigurati togati e seduti fianco a fianco, ciascuno con ramo d’olivo nella mano destra protesa.

Nello stesso anno, in connessione alla nuova chiusura del tempio di Giano e nell’ambito forse di un ampio progetto volto a riorganizzare tutta l’area fra il Foro ed il Colosseo, l’imperatore decideva di dedicare per la prima volta e al centro di Roma un tempio alla Pax riconquistata: fecit et nova opera templum Pacis foro proximum. L’edificio, che ospitava i trofei della spedizione giudaica di Tito, era dotato di un’ampia porticus, di una serie di aule (fra le quali la celebre bibliotheca Pacis) e di un temenos grandissimo con giardini e pregevoli statue spesso provenienti dalla domus Aurea. L’inaugurazione del Templum Pacis è fissata all’anno 75 da Dione Cassio e nelle intenzioni di Vespasiano rappresentava una sorta di nuova Ara Pacis, in risposta ad un sentimento diffuso nell’Urbe e nelle province, la pietra angolare di un governo nato sulle ceneri di una guerra non solo civile e che ora mirava a ricomporre l’unità dell’impero.

Il collegamento con la Pax Augusta è reso evidente da una serie di indizi: Secondo Svetonio anche la realizzazione dell’anfiteatro flavio si porrebbe in relazione con un progetto augusteo, che Vespasiano si sarebbe limitato a realizzare. Del resto il programma urbanistico domizianeo risponde all’impegno del padre di ornare la rem publicam solo dopo che l’impero era stato consolidato: così era avvenuto con Augusto, la cui opera di sistemazione urbanistica presuppone la Pax Augusta..

Non pare però convincente lo sforzo di coloro che tendono a relegare la Pax Flavia nell’ambito della risposta propagandistica di Vespasiano dopo le guerre civili: nella visione di Suetonio, Vespasiano assunse l’obiettivo di suscipere e firmare l’imperium non solo dopo il disastro del crollo dei Giulio Claudii e lo scoppio delle guerre civili, ma anche dopo la terribile esperienza della guerra giudaica e delle altre guerre esterne, che imponevano di stabilire e solo successivamente ornare rem publicam. Il mio maestro Mario Torelli parla proprio di una  vera e propria enfasi sul trionfo giudaico celebrato da Tito e commemorato anche dal triplice arco di trionfo eretto da Domiziano nell’81 al centro del Circo Massimo, oltre che nell’Arco di Tito.

Vespasiano adotta effettivamente un quadro ideologico che riprende l’indirizzo augusteo: il templum Pacis (foro proximum) di Vespasiano appare in evidente corrispondenza con l’Ara Pacis di Augusto, tanto che si è parlato di una vera e propria simmetria tra la posizione politica di Augusto e quella di Vespasiano: l’uno e l’altro apportatori di pace dopo le guerre civili.

La consacrazione del templum pacis costruito nel foro romano per volontà di Vespasiano  cadeva all’indomani della conclusione della guerra giudaica,  secondo Flavio Giuseppe .  Ad accendere le fiamme sul sacro tempio di Gerusalemme non erano stati i Romani, almeno  a parere dell’imperatore Tito, ma i rivoluzionari capipopolo dei giudei, ai quali i Romani avevano strappato dal santuario famoso e venerato da tutta l’umanità, i tesori, i sacri cimeli che poi furono trascinati nel trionfo e rappresentati sui fregi dell’arco di Tito.  Ad un secondo arco flavio Mario Torelli ha recentemente collegato la decorazione con la palma triumphalis, l’albero simbolo della Iudeaea capta riprodotta sistematicamente sulle monete del triumphus iudaicus di Vepasiano e Tito.

Dopo la vittoria e dopo il trionfo del 71, Vespasiano decise d’innalzare a Roma il Templum Pacis, sul quale in occasione del bimillenario della nascita di Vespasiano si sono moltiplicati gli studi:  secondo Flavio Giuseppe venne costruito in assai breve tempo, di una magnificenza superiore ad ogni umana immaginazione. Vespasiano infatti, oltre a dedicarvi gli straordinari mezzi della sua ricchezza – scrive Flavio Giuseppe -,  lo adornò anche con antichi capolavori di pittura e di scultura; vennero raccolte e conservate in quel tempio tutte le opere per ammirare le quali fino a quel momento gli uomini avevano dovuto viaggiare per tutta la terra, desiderosi di vederle pur essendo disperse in questa o quella provincia: qui ripose anche gli arredi sacri e la suppellettile d’oro presa al Tempio degli Ebrei. Viceversa Vespasiano ordinò di riporre e di conservare nel palazzo imperiale sul colle Palatino la copia della legge ebraica e i velari color porpora del santuario.  Il tempio sorgeva al centro del lato orientale del Foro della Pace, addossato alla collina della Velia, non lontano dal Foro di Augusto e dalla basilica Aemilia con cui per Plinio costituiva il gruppo dei tre più bei monumenti di Roma. .

Il Foro della Pace fa parte di un ampio programma edilizio di età flavia (anfiteatro, templum gentis Flaviae, tempio di Vespasiano, archi, templi, piano generale di recupero urbano e di sviluppo): esso fu collocato sui resti del Foro Piscario e sul Macellum repubblicani al centro della Suburra, a breve distanza dall’anfiteatro flavio completato più tardi da Domiziano.  Il complesso fu destinato a prestigiosa sede di rappresentanza, anche per il suo carattere museale. La decorazione architettonica e l’intero programma figurativo del Foro della Pace dovevano essere legati al concetto della pacificazione dell’ecumene, come dimostrano i cimeli della guerra giudaica, esposti alla cittadinanza come segno evidente di una conquista ormai avvenuta, ma anche come testimonianza di un pronto desiderio di procedere nella pace tra i popoli.  Capolavori dell’arte greca furono allora offerti ai cittadini: gruppi dei Galati provenienti da Pergamo, il Ganimede di Leochares, statue di Fidia e Policleto, dipinti di Nicomaco.

Il Templum Pacis foro proximum, parallelo e simmetrico rispetto all’Ara Pacis augustea, accolse i tanti cimeli della guerra giudaica di carattere sacro. Nel capitolo finale de La Guerra Giudaica Flavio Giuseppe elenca le prede trasportate sui fercula, sulle lettighe condotte in trionfo fino al tempio di Giove Capitolino che Vespasiano aveva in quegli anni voluto ricostruire dopo l’incendio appiccato dai sostenitori di Vitellio e poi deposti nel Templum Pacis:  una tavola d’oro del peso di molti talenti, un candelabro fatto ugualmente d’oro, ma di foggia diversa da quelli usati ai Romani. Vi era infatti al centro – scrive Flavio Giuseppe – un’asta infissa in una base, da cui si dipartivano dei sottili bracci simili nella forma ad un tridente ed aventi ciascuno all’estremità una lampada; queste erano sette, dimostrando la venerazione degli Ebrei per quel numero; le sette fiamme, poiché tale era il numero dei bracci del candelabro, rappresentavano i pianeti; i dodici pani sulla tavola simboleggiavano il ciclo dello zodiaco e l’anno. Veniva poi appresso, ultima delle prede, una copia della legge dei giudei, il Pentateuco, lo stesso lacerato e gettato sul fuoco a Caesarea da uno dei soldati del procuratore Ventidio Cumano agli inizi della guerra.   Altrove Giuseppe Flavio ricorda le opere d’arte massimamente ammirate e famose fra tutti gli uomini un tempo contenute nel tempio. L’altare degli incensi con i suoi tredici profumi ricavati dal mare e dalla terra, sia disabitata che abitata, significava che tutte le cose sono del dio e fatte per il dio.

Quello di Vespasiano e di Tito fu, per Flavio Giuseppe, un nefasto trionfo necessario per riportare la pace, trionfo al quale i Romani furono costretti dalle violenze e dalle impurità dei Giudei.   Conosciamo i dettagli della fastosa cerimonia che si sviluppò per le vie di Roma ed attraverso il foro: il corteo si formò presso il tempio di Iside, cioè davanti alla Villa Publica ove Vespasiano e Tito avevano riposato in attesa di celebrare il trionfo, qui, sarebbe sorta qualche anno dopo la porticus divorum, con le due aedes Divi Vespasiani et divi Titi nel Campo Marzio.  Poi il corteo raggiunse la Curia Senatoria ed il Campidoglio, infine arrivò al palazzo imperiale, con Vespasiano e Tito in vesti trionfali e collocati su due diverse quadrighe, mentre Domiziano sfilò su uno splendido cavallo.

Secondo Giuseppe sarebbe impossibile descrivere in maniera adeguata la varietà e la magnificenza delle cose messe in mostra in occasione del trionfo, sia delle opere d’arte, sia della varietà dei tesori, sia delle rarità naturali. Furono fatti sfilare 600 giovani ebrei, i più alti e di bell’aspetto. Il trionfo commemorava in particolare la conquista della città di Gerusalemme. Prima ancora era stato Pompeo Magno nel corso della guerra contro Mitridate ad entrare col suo seguito nel Tempio, posando il suo sguardo primo tra gli stranieri su oggetti misteriosi, contemplando il candelabro, le lampade e la tavola e i vasi per libagioni e gli incensieri, tutti d’oro massiccio, una grande abbondanza di aromi accumulati e il sacro tesoro del valore di circa duemila talenti.  Fermandosi però davanti ai sancta sanctorum.

L’insurrezione ebraica era stata scatenata dalla volontà di Tiberio e poi di Caligola di sviluppare il culto imperiale, un fenomeno religioso di nuova istituzione che tendeva ad espandersi. Proprio il figlio di Germanico aveva preteso che i Giudei subissero l’affronto di vedere esposti al pubblico le statue ed i ritratti imperiali; avevano però pesato anche i contrasti tra Farisei, Sadducei, Esseni; alimentata dall’arrivo dei Sicari e soprattutto degli Zeloti a Gerusalemme, la rivolta (che non si fermò neppure di fronte alla potenza dei ) fu animata da quei ciarlatani, falsi profeti, individui falsi e bugiardi – scrive Giuseppe – che fingevano di essere ispirati da Dio, macchinavano disordini e rivoluzioni, spingevano il popolo verso il fanatismo religioso e lo conducevano nel deserto.

Di fronte alle legioni romane, i Giudei combatterono non come per salvare la patria, ma come per vendicarla essendo ormai perduta, e tenevano dinnanzi agli occhi lo spettacolo dei vecchi e dei figli che tra breve sarebbero stati trucidati dai nemici e delle donne trascinate in schiavitù. .

Proprio il Dio dei Giudei per Giuseppe Flavio avrebbe deciso di abbandonare il suo popolo, disgustato per le tante empietà, distogliendo il suo sguardo dai luoghi santi a causa di quei malvagi, offeso per il fatto che il santuario era stato contaminato ed  aveva necessità di un rito di purificazione dopo esser diventato la tomba dei cittadini massacrati.  Fu il Dio a condannare alla distruzione la città contaminata ed a voler purificare col fuoco i luoghi santi, provocando un furore fratricida ed una lotta intestina.  Dopo le rapine e gli assassini, il Tempio era diventato il ricettacolo di tutti i delinquenti e il luogo santo era profanato da mani di connazionali, mentre anche i Romani fino ad allora lo avevano rispettato tenendosene lontani e trascurando molti dei loro usi in ossequio alla legge.  Dio aveva abbandonato i luoghi sacri ed era passato dalla parte di quelli che ora i Giudei combattevano. .

Del resto per Giuseppe Flavio esisteva un antico detto d’ispirazione divina secondo cui, quando la città fosse caduta in preda alla guerra civile e il tempio del dio profanato per colpa dei cittadini, allora essa sarebbe stata espugnata e il santuario distrutto col fuoco dai nemici; ed il Vangelo di Marco attribuisce a Cristo la predizione della distruzione del tempio (Gesù gli rispose: ).   Per Flavio Giuseppe erano state disattese quelle prescrizioni rituali, consacrate anche su lapidi antiche con iscrizioni sulla porta del santuario, che imponevano ai visitatori, giudei e stranieri la legge della purificazione in lingua greca ed in latino.

E’ possibile ipotizzare da parte dei Romani un rito di vera e propria evocatio del Dio dei Giudei a Roma nel Templum Pacis, sul modello della Giunone Regina di Veio nell’età di Camillo o della Tanit Caelestis di Cartagine per iniziativa di Scipione l’Emiliano.  Si può forse ipotizzare che Tito abbia celebrato un rito religioso arcaico, nel tentativo di trasferire a Roma il culto del Signore degli Ebrei, con cerimonie di cui le fonti non ci hanno conservato notizia: egli avrebbe semplicemente certificato ciò che poi lo stesso Flavio Giuseppe avrebbe dichiarato, cioè che il Dio aveva abbandonato per sempre il sacro tempio. Tacito del resto nel V libro delle Historiae ricorda i prodigi che avevano preceduto l’assedio, mentre gli Ebrei, schiavi della superstizione ma avversi alle pratiche religiose, non erano riusciti scongiurare la minaccia: si erano visti in cielo scontri di eserciti e sfolgorio di armi e, per improvviso ardere di nubi, illuminarsi il tempio. Si erano aperte di colpo le porte del santuario e fu udita una voce sovrumana annunciare: , audita maior humana vox .

Più tardi, dopo il sanguinoso episodio di Masada, dopo il trionfo di Vespasiano e Tito, la città di Gerusalemme sarebbe divenuta per Giuseppe Flavio ormai una landa desolata, con gli orti distrutti, gli alberi tutti tagliati alla radice, mentre le mura erano abbattute, la reggia e il Tempio devastati. Restavano a ricordare l’antico splendore le tre torri Fasael, Ippico e Mariamme lasciate sopravvivere da Tito per testimoniare ai posteri l’importanza originaria della città che lui aveva conquistato. Presso le ceneri del santuario abbandonato dal Dio ora se ne stavano dei miseri vecchi e poche donne riservate dal nemico al più infame oltraggio. Iniziavano i tempi terribili della diaspora, quando gli Ebrei dovettero avviarsi in esilio, sparpagliandosi per il Mediterraneo.

Gli oggetti preziosi del culto, i cimeli conquistati nel corso dell’assedio, avevano ormai raggiunto Roma, al tempo del vescovo Lino, conservati all’interno del Templum Pacis, dove non escluderei sia stata progettata da Tito (tanto legato alla principessa Berenice) la ripresa di un culto in onore del Dio, ripresa che in realtà poi non dové svilupparsi, apparentemente a causa della mancata adesione della comunità ebraica romana, che continuò a guardare perso la terra promessa, la Palestina. . Eppure si ha traccia di un vero e proprio pellegrinaggio di fedeli di religione ebraica verso il templum Pacis a Roma negli anni immediatamente successivi alla sua  consacrazione.

Il tema della pace è solo uno dei poli dell’età flavia, alla ricerca di un difficile equilibrio dopo anni di guerre verso un impero di pace che si affermerà solo con gli Antonini, quando il motivo della pace nelle sue varie sfumature finisce per occupare  fra alterne fortune un posto importante nell’iconografia monetale dei vari imperatori: la propaganda del resto non riesce a nascondere i mali della guerra e dell’imperialismo, la politica di sopraffazione e di violenza, le sofferenze dei popoli perseguitati e vinti. Ai nostri tempi le vere vittime dell’imperialismo continuano ad apparire i popoli della Palestina, i popoli del sud del mondo, quei profughi decisi a raggiungere su fragili imbarcazioni un’Europa scintillante e desiderata, ma incapace di accogliere l’altro.

Riprendendo antiche suggestioni ereditate dai suoi predecessori, sarà Costantino Magno a presentarsi dopo la pace con la Chiesa, come il vero facitore di pace, adottando a Roma il titolo di fundator pacis et restitutor publicae libertatis: ma la pace cristiana non sarà più ottenuta a prezzo di sangue e con l’umiliazione del nemico sconfitto.

Un secolo dopo scrivendo da Betlemme Girolamo osserverà che mentre il Capitolium auratum diventava sudicio per l’incuria e le ragnatele, attorno ai martyrum tumulos si affermava a Roma la Pax cristiana: auratum squalet Capitolium; fuligine et aranearum telis omnia templa cooperta sunt; movetur urbs sedibus suis et inundans populus ante delubra semiruta currit ad martyrum tumulos. Il Campidoglio dorato diviene sudicio per l’incuria; la fuliggine e le ragnatele hanno ricoperto tutti i templi di Roma. La città si sposta dalle sedi che le sono proprie e il popolo romano, riversandosi per i templi semidiroccati, accorre alle tombe dei martiri.

Siamo ormai sulla linea tracciata da Cristo, che presentandosi agli apostoli la sera stessa del giorno di Pasqua, dice loro “La Pace sia con voi”, certo con l’augurio shalom che caratterizzava il mondo ebraico. Ma non si deve dimenticare che anche la radice della parola Islam è silm, il cui significato è pace, riconciliazione.

Una convergenza dell’ebraismo con il cristianesimo e con l’Islam che è anche una vera  pista di impegno per noi uomini d’oggi.




Domenico Ruiu, Il fotografo dei rapaci.

Attilio Mastino
Domenico Ruiu, Il fotografo dei rapaci
Nuoro, 9 marzo 2013
*Testo breve

I  rapaci occupano da sempre uno spazio significativo nella letteratura sulla Sardegna per rappresentare un ambiente naturale, gli spazi solitari del Gennagentu, ma anche una cultura e una tradizione, frutto di osservazioni e di riflessioni che iniziano nel mondo antico con lo Pseudo Aristotele.

Nel De mirabilibus auscultationibus lo Pseudo Aristotele racconta il mito relativo alle favolose colonizzazioni dell’isola dalle vene d’argento, la Argurofleps nesos,  ricorda che questa terra fu prospera e dispensatrice di ogni prodotto, eudaimon e pamphoros: si narra che il dio Aristeo il più espero tra gli uomini nell’arte di coltivare i campi, produrre il miele, l’olio, il vino, il latte, fosse il signore di Ichnussa, occupata prima di lui solo da molti e grandi uccelli, upo megalon ornéon émprosthen kai pollòn katechoménon. Come non ricordare che un’isola circumsarda, l’isola di San Pietro, era nell’antichità conosciuta da Plinio e da Tolomeo come  Acciptrum insula – Hierakon nesos, l’isola degli sparvieri o dei falchi ?  Qui ancora nel XVIII secolo gli abitanti dell’isola usavano prendere i falconi dai nidi per allevarli e venderli sulle coste dell’Africa settentrionale.

Il tema dei molti e grandi uccelli che abitano i monti della Sardegna attraversa la letteratura sarda. Nella Carta de Logu di Eleonora di Arborea si afferma che constituimus et ordinamus,qui alcunu homini non deppiat bogare astore nen falconi dae niu e chi trovava un falco doveva consegnarlo al giudice. Questo non tanto per protezione dei falchi, ma per ribadire che questi animali appartenevano di diritto alla classe dirigente. E Giuseppe Pulina ha affermato che i rapaci rappresentano l’aristocrazia dell’aria.

Possiamo partire però da Francesco Cetti nel 700 per arrivare fino a Grazia Deledda, a Sebastiano Satta, ad Antonino Mura Ena, ad Antioco Casula Montanaru, fino all’ultimo libro di Antonello Monni, Il bambino dalla milza di legno, con la figura di Gargagiu, rozzo pastore barbaricino ma anche osservatore acuto e maestro impareggiabile, capace di conoscere le abitudini della femmina d’astore a Su Pinu, delle aquile di Gollei, degli avvoltoi di Sos Cuzos in S’Orgolesu o nelle codule di Dorgali, di Baunei e di Urzulei. Capace di leggere i pericoli, i fruscii di una nidiata, perfino i silenzi, in grado di raccontare i primi giorni di un grifone, i primi voli di Gurturju Ossariu.

In Tipi e paesaggi sardi, Grazia Deledda sintetizza questi temi parlando di una sua visita sul Bruncu Spina: <<Grandi avvoltoi, le cui ombre volano sulle chine e sulle roccie come ombre di nuvole, escono dalle macchie e dalle rupi, salgono, volteggiano lenti e maestosi attraverso il vento che comincia a spirare forte e freddo. Questi immensi uccelli, d’una bellezza feroce, il cui stridio sembra il fischio di un bandito, diventano sempre più numerosi a misura che procediamo, e la loro presenza spiega l’assenza di uccelli piccoli. Carnivori, essi vivono di altri volatili, di agnelli rapiti davanti agli occhi stessi del pastore, e talvolta piombano anche su quadrupedi grossi, che dapprima acciecano col rostro e poi divorano vivi. Le ali degli avvoltoi sono così forti che qualche volta la palla del cacciatore vi scivola come sull’acciaio.

Nella nostra gita sul Gennargentu, fu data la caccia ad uno di questi grandi e superbi abitatori delle montagne sarde. Non era dei più grandi, eppure quando piombò e giacque a terra, all’ombra di una roccia, tra i fiori della genziana, grande, maestoso, col petto metallico insanguinato e i ferrei artigli, contratti in uno spasimo d’ira,  non so, mi parve vedere un guerriero armato caduto in battaglia, tanta solennità di forza vinta spirava. Conservo ancora gli artigli ridotti a due candelieri !>>.

Dietro questo straordinario volume di Domenico Ruiu c’è la profondità di una storia, un retroterra di osservazioni compiute nel tempo da pastori, cacciatori, gente comune, conoscenze, informazioni sul patrimonio bio-ornitologico della Sardegna, ma anche un lungo cammino personale iniziato più di cinquanta anni fa a Nuoro quando il bambino si innamorò commosso di questo grifone prigioniero e furente che veniva condotto per le strade della città come un trofeo o un drago mostruoso che emetteva suoni e lamenti e rimandava a un mondo fatto di mistero e di vita vera. Da allora tanta strada, tante difficoltà, tanti sacrifici personali, anche tante incomprensioni e ostilità. Ho visto Domenico all’opera a Bosa, lungo le falesie del Marragiu o verso i costoni di Badde ‘e Orca a Montresta, assieme al nostro compianto Helmar Schenk, l’ornitologo scomparso un anno fa, a studiare le abitudini dei grifoni, a farci conoscere un mondo incantato al quale noi stessi ci accostavamo per la prima volta con incredulità e sorpresa, finalmente con rispetto. L’ho visto in Barbagia a discutere sul Parco Nazionale del Gennargentu voluto dalla Provincia di Nuoro e a seguire negli anni 80 la difficile redazione e poi la stentata applicazione dal 1989 della legge 31 per l’istituzione e la gestione dei parchi, delle riserve e dei monumenti naturali, nonché delle aree di particolare rilevanza naturalistica ed ambientale. Una battaglia che ha incontrato resistenze e incomprensioni (penso alle spiritose polemiche sugli accoppiamenti dei grifoni a Bosa), che oggi vediamo vinta anche in quei luoghi che più hanno resistito e che non volevano capire.

In questi anni Domenico ha continuato con passione a coltivare le sue curiosità, le sue ricerche, la sua attività, con pazienza, con attese e con successi veri,  creando reti di appassionati, legandosi alle associazioni naturalistiche da Legambiente alla Lipu, dal WWF al Club alpino, ma anche collaborando con gli Enti locali in qualche caso inizialmente ostili,  alimentando la sua straordinaria conoscenza del territorio e delle abitudini dei rapaci. Oggi credo sia diventato uno tra i più grandi fotografi naturalisti europei, proprio per questa sua abilità, ha recentemente osservato Piero Mannironi, di entrare in questo mondo parallelo abitato dai rapaci senza essere un intruso, senza far percepire la propria presenza, imparando a scivolare silenzioso come un’ombra fra picchi rocciosi, gole profonde, boschi ombrosi e glabre falesie.

Queste immagini ci portano in luoghi impervi e difficili da raggiungere, a Bosa ma anche in tanti altri luoghi nell’isola e fuori dall’isola fino alla Finlandia e all’Alaska, in tante montagne solitarie e appartate, in tanti costoni selvaggi, con appostamenti durati ore e giorni, per raggiungere con faticose arrampicate spazi alpestri quasi inaccessibili per un fotografo appassionato che però non dispone delle ali come i suoi amici.

Le immagini che vediamo in  questo volume di Publinova finiscono per essere un punto di arrivo, espressione delle esperienze di generazioni e generazioni di uomini, che hanno osservato i rapaci quasi con un sentimento religioso, con un mistero che è anche  frutto delle percezioni di un intero popolo, in relazione al paesaggio e  in rapporto alla natura, perché dietro c’è tutta la letteratura sarda quando si china a descrivere il paesaggio, secondo Dino Manca con <>. <<Il vero protagonista nelle opere degli scrittori sardi è il paesaggio sardo, inteso come paesaggio fisico, antropologico e morale, ma anche inteso come luogo storico e mitico, spazio di memorie individuali e collettive, ambiente geografico intensamente amato e sentito. Un topos questo accettato e condiviso da una buona parte degli autori sardi, cioè di un microcosmo proprio perché malfatato e dolente, orgogliosamente difeso e, da taluni, significativamente proiettato in una dimensione edenica se non trasfigurato in un luogo di evasione mitica, dove la natura è comunque percepita come spazio idillico, incontaminato, carico di emozioni e suggestioni incantatorie: Così in Mararcanda di Francesco Zedda, un luogo dove le aquile si levano in volo sulla cima del monte Corrasi, . verso Oliena, dove l’occhio può spaziare da Sas Treccas a Lillobè, da Filistorro a Osposidda; fino al Cedrino che con le sue acque luminose scorre salta canta scendendo verso il mare. <>.

Sullo sfondo di paesaggi edenici l’isola è restituita e intesa, nelle pagine di tanti scrittori sardi, come luogo mitico e come archetipo di tutti i luoghi, terra senza tempo e sentimento di un tempo irrimediabilmente perduto, spazio ontologico e universo antropologico entro cui si consuma l’eterno dramma del vivere. Dentro questa rappresentazione del paesaggio sardo, non poteva mancare la fauna propria del territorio: ovini, bovini, suini, rapaci, falconidi et alia. Tutta l’opera deleddiana e sattiana è attraversata dalla presenza, descrizione, rappresentazione, proiezione antropomorfa e simbolica di rapaci (aquile o nibbi o astori o falchi o sparvieri), che nei titoli, nei nuclei tematici e narrativi o nelle sole unità descrittive contengono dentro la rappresentazione del paesaggio sardo la presenza dei rapaci. . In qualche caso ci rimangono racconti, poesie o romanzi i cui personaggi nelle loro attribuzioni fisiche e morali rimandano per similitudine o per metafora alle attribuzioni e alle caratteristiche proprietarie dei rapaci.

Così l’aquila ne La casa del poeta di Grazia Deledda, sulla rocca medioevale, sopra un borgo grifagno, in cima ad un monte di pietre che parevano blocchi di acciaio: Elia ricordava di aver veduta arrivare l’aquila, tutta ricca di piume, di superbia e di inesperienza, e posarsi sulla rocca come lo stemma sopravvivente degli antichi signori del luogo. Era stato lui a catturarla: dopo averle spezzato un’ala con un tiro di pallini, l’aveva presa, grande, dura e palpitante, le penne fulve insanguinate, e se l’era stretta al petto con rimorso e pietà. Adesso vivevano assieme, soli, lui in una stanzaccia terrena che doveva essere stata una sala d’armi, l’aquila in un cortiletto attiguo, appollaiata su un mozzicone di quercia, sopra una fila di cavoli bluastri.

Come dimenticare i falchi di Canne al vento, quando l’aurora pareva sorgere dalla valle come un fumo rosso inondando le cime fantastiche dell’orizzonte. Monte Corrasi, Monte Uddè, Bella Vista, Sa Bardia, Santu Juanne Monte Nou sorgevano dalla conca luminosa come i petali di un immenso fiore aperto al mattino; e il cielo stesso pareva curvarsi pallido e commosso su tanta bellezza. Ma col sorgere del sole l’incanto svanì; i falchi passavano stridendo con le ali scintillanti come coltelli, l’Orthobene stese il suo profilo di città nuragica di fronte ai baluardi bianchi di Oliena; e fra gli uni e gli altri apparve all’orizzonte la cattedrale di Nuoro.

In Marianna Sirca Grazia Deledda descrive un lungo appostamento che mi ricorda la pazienza di Domenico Ruiu, con  le aquile marine che stridevano  fra le grandi rocce nere, forse scogli che il mare ritirandosi aveva lasciato scoperti. Tutto era silenzio; nell’ombra sotto la montagna pochi lumi brillavano nel paesetto e si spegnevano e si riaccendevano, scintille in un focolare coperto di cenere: di tratto in tratto un alito lieve di vento frugava le macchie e portava l’odore del mare; e la rete d’oro delle stelle si abbassava sempre più sulla terra silenziosa. Erano luci vaghe della sua coscienza, simili ai guizzi di chiarore che sfioravano il cielo sopra le montagne della costa e non erano lampi. Le ore passarono, il cielo si separò dal mare e le aquile stridettero. Così tutto fu rosso, dopo l’argento dell’alba; poi tutto oro e azzurro; e il vento sbatté gli alberi contro il cielo; passarono le nuvolette bianche d’estate, i falchi e i nibbi; il sole fu in mezzo al cielo e la conca dell’acqua lo rifletté intero.

In Cani da battaglia, attorno a Perda Liana, ai raggi del sole morente, Sebastiano Satta presenta un quadro colorato animato dalle aquile:

Aquile nere vanno incontro al sole,

Alte divine; Gennargentu splende

Nella gran sera cinta di viole.

A me è particolarmente caro Antioco Casula, Montanaru, il poeta di Desulo, quando ricorda gli arestes istores che calano da Punta Paolina fino al mare.

Moven dae s’altura

sos istores cun boghes de rapina,

e cantat sa natura

dae sas puntas finz’a sa marina.

Cun largu giru ala

totta ti esto dae serr’in serra

cund’una este ’e gala

sas tuas tancas tristas, sarda terra.

Nelle Memorie del  tempo di Lula, Antonino Mura Ena  si colloca proprio al centro del sistema culturale sardo, sullo sfondo del Monte Albo. Il capolavoro, Il cacciatore delle aquile, racconta di Emanuele, il ragazzo malato che voleva diventare allevatore di aquile, capace di inventare storie intorno alla tomba del suo aquilotto: perché le aquile vengono a trovare le tombe dei loro figli. Hanno la vista lunga e l’odorato acuto. Volano in alto e avvertono se i loro figli sono sepolti. Allora vanno a trovarli. Anche presso la tomba del suo aquilotto verrà sicuramente qualche aquila.

Al di là della Sardegna, i rapaci hanno avuto un ruolo nella fantasia e nelle culture dell’uomo probabilmente fino dalla Preistoria.  Vorrei però concentrarmi in conclusione sulla fase romana della storia del mondo.  Una serie di episodi, ricchi di elementi di derivazione mitografica, riportati dalle fonti storico letterarie rendono ancora ben vivo al lettore di oggi il rapporto di profondo rispetto che intercorreva tra il popolo di Roma o meglio di tutto il Lazio antico e alcuni uccelli rapaci come l’avvoltoio, l’inquietante vultur e la possente aquila. Il rispetto era determinato non soltanto dal timore per l’aspetto e le dimensioni di questi uccelli quanto piuttosto dalla convinzione che essi si muovevano all’interno della sfera del sacro, quasi si trattasse di una sorta di tramiti tra il numen delle divinità e gli esseri umani.

Conosciamo bene il ruolo decisivo dell’avvoltoio nella vicenda della disputa per la conquista del potere tra i due gemelli Romolo e Remo: sarebbe diventato re della nuova città che i gemelli intendevano fondare il primo che avesse ricevuto degli auspici tratti dal volo degli avvoltoi; Remo, salito sull’Aventino, vide per primo sei vultures in volo, d’altro canto Romolo dalla sua postazione sul Palatino ne scorse il doppio ma per secondo in ordine di tempo, la discussione tra fratelli si concluse tragicamente con l’uccisione di Remo da parte di Romolo. Ciò che oggi voglio altresì sottolineare è che il vultur sembra avere un ruolo ambivalente, da una parte quello di rappresentare la presunta volontà divina dall’altro quello di preannunciare un evento negativo, come in questo caso quello della morte di Remo.

Per quanto riguarda l’aquila, essa per i Romani era stata ab origine un simbolo di regalità e potere, ciò è senza dubbio un topos culturale e non solo nell’antichità classica, ma in ambito latino-romano la derivazione di tale valenza simbolica va collegata al mondo etrusco e alla pratica dell’aruspicina e della divinazione, annunciando a Tanaquilla l’ascesa al trono di Tarquinio Prisco.  Sono le aquile simbolo del potere di Giove che proteggono la marcia delle legioni romane e che diventano identificative e protettrici dei corpi militari già dal secondo consolato di Gaio Mario dopo Giugurta.

Del resto non si può non fare cenno alla figura mitologica, nata nel mondo greco e poi riadattata per il pubblico romano nell’Eneide di Virgilio, creata ad hoc per mettere in evidenza la paura innata nei confronti dei predatori pronti a compiere incursioni rapaci sulla terra; mi riferisco alle orrifiche arpie, uccelli rapaci dal bel volto di donna capaci di depredare le mense riccamente imbandite e di insozzarle con il loro tremendo fetore, arrivando con terribili stridi. Nel III libro dell’Eneide questi rapaci dal volto femminile vivevano alle isole Strofadi, là dove giungono Enea, il padre Anchise e i profughi troiani, reduci da una burrasca: i Troiani dopo aver ucciso capre e buoi e aver allestito un banchetto per cibarsi di queste carni vengono attaccati dalle arpie, che scuotono le ali con grandi clangori e predano (diripunt) le vivande, e con il loro immondo contatto contaminano tutto.

Sarebbe bello addentrarsi nell’affascinate e dettagliata descrizione scientifica e naturalistica del mondo dei rapaci tramandataci da Plinio il Vecchio nel X libro della Naturalis historia. Qui un posto speciale è occupato dall’aquila, con una dettagliata classificazione di sei distinti tipi, il melanaetos o leporaria, di colore scuro, il pygargus dalla coda bianca; il morphnos, l’aquila dei bacini lacustri, nerissima, con i denti e senza lingua, il percnocterus o oripelagus simile ad un vultur e con le stesse caratteristiche predatorie, capace solo di portare in volo prede già morte; il gnesion di colore rossastro e infine l’haliaetos dalla vista acutissima, grande pescatore. Vi era poi la specie delle aquile denominata barbata che gli Etruschi definivano ossifraga, per la sua abitudine di cibarsi delle ossa delle sue prede dopo averle spezzate, facendole cadere dall’alto, che è stata avvicinata al gipeto. C’è da meravigliarsi per questa staordinaria messe di notizie riportate da Plinio con capacità quasi documentaristica: ed ecco le tecniche di caccia delle aquile, i tipi di prede: quadrupedi, cervi, serpenti che a loro volta tentano di predare le uova dell’aquila; le curiosità: la pietra aetite inglobata nel nido di alcune specie di aquile, una pietra che ne contiene un’altra quasi che si trattasse di un utero, dalle capacità curative; e poi la classificazione delle sedici specie di accipiter, di falco, il rapporto suggellato dalla caccia tra uomo e accipiter, il cybindis, il falco notturno che lotta selvaggiamente con l’aquila tanto che spesso vengono catturati stretti l’uno all’altro; e lo straordinario nibbio dal quale gli uomini osservandone il volo attraverso il vario piegarsi della coda hanno imparato l’arte di governare le imbarcazioni col timone: «in caelo monstrante natura quod opus esset in profundo» e del resto anche gli avvoltoi per timone usano la coda. Per Plinio poi il grifone, il gryphas è davvero una creatura favolosa dell’Etiopia: «et gryphas aurita aduncitante rostri fabulosos» al pari dei pegasi creature alate dalla testa di cavallo della Scizia. Dopo avere accompagnato molti imperatori, l’aquila diventa cristiana e compagna dell’evangelista Giovanni. Nel Medioevo assume un valore araldico e grazie agli Asburgo il simbolo dell’aquila a due teste si diffonde ovunque, utilizzato per sintetizzare l’idea di impero sovrannazionale, ma adottata anche da varie rivoluzioni e sommosse della prima metà del XIX secolo.

Desidero concludere. Plinio racconta che nella città di Sesto (nel Chersoneso Tracio) era celebre la gloria di un’aquila: allevata da una ragazza dolce e delicata, l’aquila le dimostrava gratitudine portandole prima uccelli, poi cacciagione; alla fine, dopo che la fanciulla morì e fu acceso il rogo, l’aquila vi si gettò sopra e si lasciò bruciare insieme a lei. Per questo episodio gli abitanti eressero in quel luogo un monumento celebrativo, un vero e proprio heroon, chiamato di Giove e della Vergine, perché l’aquila è l’uccello sacro a quel dio che aveva amato la giovane.

Questo libro fa riemergere attraverso le immagini tanti ambienti naturali che amiamo, tante storie dimenticate, tanti rapporti tra cielo e terra, lasciandoci l’impressione forte di seguire il volo di un dio, di assumere per un istante magico lo sguardo di un genius loci che ancora ci parla.


  • Ringrazio per la collaborazione i miei carissimi Dino Manca, Paola Ruggeri, Dolores Turchi, Barbara Wilkens.



Ricordo di Laura Morelli Pinna.

Attilio Mastino
Ricordo di Laura Morelli Pinna
Sassari, 22 febbraio 2013

Vorrei ricordare Laura Morelli partendo dalla sua pagina facebook che è illuminata dalla fotografia di una cascata di acqua cristallina che cade dall’alto delle rocce antiche, scolpite dal tempo, in un luogo remoto della Sardegna: immagino che alla base della cascata, sulle rive del laghetto, in un ambiente tanto suggestivo Laura abbia vissuto alcuni dei momenti più belli della sua vita, sia stata felice, magari assieme a Gaetano e ai due ragazzi, Francesca e Lorenzo, che oggi la piangono e che avvertono i morsi della solitudine.

L’acqua limpida di quella cascata mi ha ricordato il sorriso di Laura, il suo ottimismo, la sua voglia di costruire, la sua passione, il suo coraggio anche negli ultimi giorni. Soprattutto il suo amore per gli altri.

Ho pensato di ricordare Laura nella Chiesa di Cristo Risorto a Porto Torres, circondata da tanti amici, soprattutto pensando al dolore della nostra Gabriella Mondadini che assieme a Vittorio avevo incontrato in aeroporto ad Alghero quando partivano a trovarla a Torino, per l’ultimo viaggio. Un’amica che le era cara ha scritto su facebook che quando lei è uscita dalla chiesa  il cielo si è aperto e il sole è comparso all’improvviso, sorridente quasi come per accoglierla.

Ho avuto modo di ricordare commosso anche in Senato Accademico e in Consiglio di Amministrazione nell’Università di Sassari la studiosa, la nostra ricercatrice, la collega,  con un’emozione e una partecipazione che è stata veramente di tutti.

Laura era nata a Sassari il 27 gennaio 1967, aveva compiuto da poco 46 anni.

Si era laureata in Scienze Biologiche nel 1997 studiando la struttura genetica della popolazione di Villanova Monteleone e aveva iniziato una collaborazione con l’allora Istituto di Microbiologia e Virologia dell’Università e i colleghi della Facoltà di Scienze matematiche, fisiche, naturali, della Facoltà di Medicina e Chirurgia, del Dipartimento di Zoologia e Genetica evoluzionistica (lavorando con Giuseppe Vona, Piero Cappuccinelli Luigi Fiori, Paolo Francalacci, Francesco Cucca, Giulio Rosati e tanti altri). Dottore di ricerca in scienze antropologiche con una tesi sulla variabilità del genoma mitocondriale umano, abilitata all’esercizio della professione di biologo, aveva studiato a Barcellona con l’Erasmus, al Department of Genetics di Stanford, al Microcitemico di Cagliari,  e poi  aveva ottenuto una borsa di studio del CNR presso l’Istituto di genetica molecolare a Proto Conte di Alghero tra il 1997 e il 1999, seguita da Mario Pirastu.

Successivamente è stata titolare  di un assegno di ricerca svolgendo un progetto su “Fitogenesi e evoluzione dei sistemi genetici” (coordinatore Paolo Francalacci) e nuovamente dal 2004 per 4 anni  con un progetto  su “Genetica, Patogenesi, incidenza e prevenzione di malattie ad ala prevalenza in Sardegna”, finanziato dalla Fondazione Banco di Sardegna presso il Dipartimento di Scienze Biomediche (coordinatori Giulio Rosati e Francesco Cucca). Dal 17 dicembre 2008 è diventata ricercatrice a tempo indeterminato per il settore BIO/18 “Genetica” nella Facoltà di Scienze Matematiche fisiche e naturali e due anni fa era stata confermata nel medesimo ruolo, aderendo al nuovo Dipartimento di scienze della natura e del territorio, dove si è dedicata al tema della variabilità genetica in popolazioni umane e alla ricerca di varianti genetiche associate a malattie complesse.

Al centro dei suoi interessi e dei suoi studi: il genoma di migliaia di pazienti con sclerosi multipla, le più recenti acquisizioni in tema di DNA mitocondriale, il Cromosoma Y, i fattori genetici responsabili della suscettibilità al diabete autoimmune. Temi che aveva poi trattato in molti congressi internazionali, con decine e decine di lavori originali e alcuni libri come quelli dedicati al popolamento della Corsica, della Sardegna e della Sicilia, con una prospettiva storica che ancora impressiona e che certo richiama il lungo e fecondo rapporto anche culturale e scientifico con la madre Gabriella.

Colpisce nelle sue numerose pubblicazioni e nei progetti di ricerca ai quali ha partecipato questa dimensione interdisciplinare, questo rapporto intenso con équipes di ricerca differenti nel CNR, nell’Università, nel Centro interdisciplinare per lo sviluppo della ricerca biotecnologica e per lo studio della biodiversità della Sardegna e dell’area mediterranea: trasversalmente i suoi lavori investivano l’area sanitaria, l’area delle scienze biologiche, della antropologia, della zoologia e della genetica.  Ha insegnato Genetica umana nel corso di laurea interfacoltà in Biotecnologie e in altri corsi di laura di diverse Facoltà, in particolare per le professioni sanitarie, lasciando nel dolore una generazione di studenti.

Voglio oggi ricordare le sue passioni, le sue curiosità, il gusto per la scoperta che l’ha sempre accompagnata: ci mancherà il suo sorriso e la sua amicizia, ma anche la sua capacità di investigare, di ricercare, di ottenere dei risultati scientifici, di esplorare una terra incognita, alla quale si affacciava affascinata e piena di desideri.




Intitolazione a Giovanni Lilliu della Cittadella dei Musei.

Intervento del Rettore Attilio Mastino
in occasione dell’intitolazione a Giovanni Lilliu della Cittadella dei Musei
Cagliari, 19 febbraio 2013

Caro Magnifico, Cari amici,

con qualche emozione porto oggi il cordialissimo saluto di tutta l’Università degli Studi di Sassari  testimoniando  adesione e consenso per questa giornata.

Con la cerimonia di oggi, che non è certamente un rito formale, l’Università di Cagliari e il suo Dipartimento di storia, beni culturali e territorio hanno inteso onorare un grande maestro, Giovanni Lilliu, un punto di riferimento per tante generazioni di studenti, di studiosi, di sardi. Con vivo senso di riconoscenza desidero ricordare  solo tre realizzazioni che si debbono all’opera di Giovanni Lilliu, il Dipartimento di Scienze Archeologiche e storico-artistiche dell’Università di Cagliari entro la Cittadella dei Musei, l’Istituto Superiore Regionale Etnografico di Nuoro, la Scuola di specializzazione di Studi Sardi.

Ci saranno certo altre iniziative e altre occasioni. Lascio da parte i tanti ricordi personali che iniziano nel 1968 con la visita al nuraghe Sa Corona di Villagreca.

Da allora è iniziato un rapporto che è durato 45 anni,: un periodo lungo della mia vita – anche se Lilliu aveva iniziato a pubblicare già trent’anni prima – che ha visto in Sardegna una straordinaria crescita dell’archelogia, soprattutto quella preistorica, e non solo a livello di metodi di indagine, come disciplina incardinata nell’accademia, ma anche come passione, come tema di discussione per tanti insegnanti, per tanti studenti, ma soprattutto per tanta gente qualunque, appassionata del proprio territorio, alla ricerca delle proprie radici: un fenomeno culturale di massa che ha coinvolto intere generazioni. Per Lilliu l’archeologia non era solo pura tecnica di scavo, ma è anche sintesi, riflessione, interpretazione, ricostruzione storica, infine scelta politica; in questo senso Lilliu considerava lo storico un uomo non inutile né senza speranza. Io ho avuto modo recentemente di descrivere Giovanni Lilliu come un uomo inquieto e ruvido, carico di insoddisfazioni, un democratico pieno di sentimenti e di desideri, senza pace, che non si è rassegnato e che intendeva combattere per la sua terra, contro la subalternità e l’emarginazione; il suo pensiero, nutrito a volte di utopie e di asprezze, si è arricchito progressivamente nel tempo, sino a giungere ad una straordinaria coerenza, pure attraverso una incredibile varietà di interessi.

Lilliu si considerava un uomo di campagna che aveva avuto il privilegio di accedere all’incanto dell’archeologia, per lui una fatica ma anche un diletto aristocratico. Del resto egli  era orgoglioso delle sue origini contadine e leggeva la sua esperienza in continuità ideale con la storia della sua famiglia originaria di Barumini, con generazioni e generazioni di antenati che lo riportavano sempre più indietro, fino agli eroici costruttori del nuraghe: continuità che era innanzi tutto un persistente legame affettivo con gli spazi, con i monumenti, con il territorio, con l’ambiente fisico che contribuiva a costruire un’identità. Il tema dell’identità del resto era centrale nei lavori di Lilliu, che pensava ad un’identità non fossile, ma aperta al nuovo, non digiuna del moderno, culturalmente e storicamente dinamica. E allora la lingua sarda, innanzi tutto, che avrebbe voluto insegnata nelle scuole e utilizzata liberamente nelle sedi ufficiali, in modo che si affermi il biliguismo. Lilliu aveva seguito costantemente il dibattito in Consiglio Regionale sul problema, fino alla legge regionale a tutela della lingua, della cultura e della civiltà del popolo sardo. Egli aveva anche indicato una strada coraggiosa nel dibattito sul trasferimento delle competenze in materia di Beni Culturali dallo Stato alle Regioni, alle Province ed ai Comuni, insomma al sistema delle autonomie: ci ha spesso sorpreso la sua abilità, la capacità di presentare la sua posizione, spesso anche molto coraggiosa ed estremistica, senza asprezze ed intemperanze, con equilibrio, riuscendo a non urtare suscettibilità profonde, come sulla spinosa questione di Tuvixeddu.

Per Lilliu la storia della Sardegna era fondata su un mito, il mito dell’età dell’oro dell’epoca nuragica, una cultura non pacifica ed imbelle ma conflittuale, quando le armi venivano usate dagli eroi per difendere l’autonomia,  l’autogoverno, la sovranità del popolo sardo, quando i sardi erano protagonisti e padroni del loro mare. La preistoria e la protostoria furono il tempo della libertà, prima che i popoli vincitori e colonizzatori imponessero una cultura altra. Gli altipiani ed i monti al centro dell’isola gli sembravano l’antico grande regno dei pastori indipendenti. Furono i Cartaginesi e poi i Romani a creare una Sardegna bipolare, quella dei mercanti e dei collaborazionisti della costa e quella dei guerrieri resistenti dell’interno: verso questo popolo della Barbagia accerchiato ed assediato andavano le simpatie di Lilliu, che denunciava la violenza dell’imperalismo e del colonialismo romano, giunto fino ad espropriare i Sardi della loro terra, della loro libertà, perfino della loro lingua. Eppure in Barbagia e sul Tirso sarebbe sopravvissuto uno zoccolo duro conservativo, resistente e chiuso, che giustificava la continuità di una linea culturale ed artistica barbarica ed anticlassica, che per Lilliu era possibile seguire e documentare fino ai nostri giorni. Nei momenti di passaggio tra una potenza e l’altra, questa cultura locale si esprime con prepotenza in maniera decisamente originale.

Ricorrono nei suoi scritti alcuni grandi maestri, come non citare Antonio Gramsci, ma anche Camillo Bellieni, Emilio Lussu, quest’ultimo visto come il Sardus Pater, che nel Santuario di Santa Vittoria di Serri, assieme a Ranuccio Bianchi Bandinelli, gli sembrava il demiurgo ideale della sua gente.

La storia della Sardegna è fondata dunque su quella che Lilliu chiamava una costante residenziale e libertaria dei Sardi, che illumina il fondo dell’identità di un popolo perseguitato ed oppresso ma non vinto. A quest’anima profonda di una nazione vietata e compressa, di una nazione perduta o proibita (come non pensare a Camillo Bellieni ?) rimanderebbe la cultura alternativa popolare sarda, non quella delle città, ma quella dei paesi dell’interno: anche la nomenclatura ed i valori sono allora ribaltati, se barbarica e selvaggia sono due categorie positive e contrastive della diversità del processo della storia del mondo, contro l’integrazione e la monocultura imposta dall’esterno. Lilliu ha certo anticipato gli studi più recenti sulla resistenza, che hanno anche un profondo significato politico e che si proiettano sull’attualità, per costruire la nuova autonomia della Sardegna contro ogni forma di dipendenza. C’era una strada maestra, per Lilliu ed era quella di riprendersi il passato e di farlo giocare come elemento di identificazione nella società che cambia, perché contro la crisi esistenziale della Sardegna occorre ribadire che un popolo che non ha memorie è un gigante dai piedi d’argilla.




Intervento del Rettore Prof. Attilio Mastino al Meeting su “Gender and Science”, Roma 14 febbraio 2013

Intervento del prof. Attilio Mastino, Rettore dell’Università degli studi di Sassari
Meeting su “Gender and Science”, Roma 14 febbraio 2013

Cari amici,

desidero dire solo due parole per portare il saluto dei colleghi dell’Università di Sassari a questo Meeting su Gender and Science, promosso dal Dipartimento di Medicina Sperimentale dell’Università La Sapienza di Roma e dal Dipartimento di scienze biomediche dell’Università di Sassari, rappresentato oggi dal direttore prof. Andrea Montella.

Debbo a Flavia Franconi e ad Andrea Lenzi il ripetersi di un invito, qui a Roma, per assistere negli ultimi anni ad una serie di iniziative di alto profilo che tendono a radicare e fondare una nuova disciplina scientifica, la Medicina di genere, che conosce un suo progressivo sviluppo, ma che deve acquisire solide gambe, principi teorici, una base epistemologica capace di definire le condizioni e i metodi attraverso i quali si può raggiungere una conoscenza scientifica nuova. Una conoscenza scientifica che parta da una sperimentazione clinica plurale, più capace di cogliere la realtà, nella sua complessità e nelle sue differenze.

La Medicina diventa arte di genere che mette al centro una prospettiva fortemente identitaria e analitica, articolandosi a cascata nell’uomo e nella donna attraverso indagini che appaiono sempre più innovative e promettenti, una ricerca preclinica e clinica che costituisce motivo di speranza per tutti, che si confronta con la società civile sul tema della salute.

Al centro dei vostri lavori, ai quali partecipano tanti studiosi selezionati dal comitato scientifico presieduto dal prof. Fabio Naro, avete posto il tema vitale della differenza di genere, più ancora il ruolo che in campo clinico deve avere il tema della diversità, come elemento interpretativo di un approccio terapeutico che sia misurato sugli uomini e sulle donne, sulle singole persone nella loro complessità e con le loro differenze.

Specificamente la Farmacologia di genere supera ogni uniformità e appiattimento delle patologie e delle conseguenti terapie e rende conto delle differenze di efficacia e sicurezza dei farmaci in funzione del genere eventualmente esistenti tra uomini e donne, includendo anche le differenze derivanti dalla complessità di cicli e fasi della vita riproduttiva della donna. Un’analisi genere-mirata dà una nuova dimensione agli studi clinici e ai trattamenti farmacologici, rispondendo alle recenti raccomandazioni della SIF la Società Italiana di Farmacologia, col suo Gruppo di lavoro sulla Farmacologia orientata sul genere, organizzato dall’Istituto Superiore di Sanità. Ma ho visto anche la recente presa di posizione dell’AIFA, l’Agenzia italiana del farmaco, naturalmente a valle delle strategie di politica sanitaria dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Sono convinto che si tratta di un passo avanti significativo, di una prospettiva culturalmente ricca e che promette sviluppi significativi, anche se un umanista come me non può non richiamare l’origine latina della parola genus, partendo dalla declinazione degli aggettivi (a tre uscite pulcher, pulchra, pulchrum; a due uscite, dulcis, dulce; a un’unica uscita, pauper) e ciò per indicare anche la complessità, la natura globale delle cose, la sostanza della realtà complessa, la sua forma, il modo di esprimersi, la classificazione tassonomica di persone, animali, cose, specie, che non si sovrappongono ma si articolano e differenziano. Anche la divisone per gentes della società l’antica Roma partiva dai comizi curiati costituiti  ex generibus hominum, secondo Gellio: Cum ex generibus hominum suffragium feratur. Come il plurale genera è collegato alla radice del participio passato genitus da-gìgnere, nel senso di generare ed al greco génos  genous, plurale – géne, che esprime ancor più il senso dell’origine, della provenienza, della progenie, della parentela, della famiglia, ma anche dell’universalità, degli uomini e delle donne, ben oltre il concetto di maschio e femmina.

Come è noto dalla prima metà del quattordicesimo secolo fino agli anni 60 del secolo scorso,  il termine genus è stato usato come sinonimo di sessodifferenze biologiche, con un forte androcentrismo ereditato dall’antichità.  Fu lo psicoanalista Robert Stoller con il volume del 1968 su Sesso e genere (Sex and Gender: On the Development of Masculinity and Femininity) a distinguere nettamente il genere dal sesso parlando di “identità di genere” per superare la contraddizione fra un sesso biologico  e l’affermazione di un’identità sessuale derivata dalle aspettative sociali relative a quel determinato sesso. Dopo il lavoro del 1975 di John Money e Patricia Tucker su Sexual Signatures on Being a Man or a Woman, il termine genere è sempre stato più utilizzato per indicare l’influenza della società e della cultura, mentre il termine sesso è stato usato per indicare le differenze biologiche fra maschio e femmina.

I due termini, almeno nelle scienze sociali,  sono addirittura diventati alternativi. Tale dicotomia sottolinea che il genere si modifica in funzione delle culture variando nel tempo e nello spazio, mentre il sesso è apparentemente invariabile. Non è esattamente così. Eppure, partendo dal grande filone degli studi di genere animato sul piano antropologico dal pensiero femminista degli anni 70 e 80 che appunto ha privilegiato il genere sul sesso, si può dire coinvolta qualunque branca delle scienze umane, sociali, psicologiche e letterarie, dalla sociologia, alle scienze etnoantropologiche, alla letteratura, alla teologia, alla politica, alla demografia. Meno sviluppo avevano avuto fino a qualche anno fa gli studi clinici e farmacologici, che iniziano ad avere un’attenzione specifica, senza la pretesa di un approccio aprioristico, visto che occorre definire caso per caso con metodo scientifico identità e differenze, convergenze e specifiche realtà, che ora l’innovazione della ricerca può contribuire a distinguere.

Nelle scienze biomediche, spesso i due termini (sesso – genere) sono stati usati come sinonimi prevalendo il genere sul sesso, anche perché esso appariva politicamente più corretto.  Tutto ciò ha prodotto una qualche confusione e qui voi volete ribadire con chiarezza che quando parliamo di genere dobbiamo necessariamente intendere, almeno, il maschile ed il femminile quindi la medicina di genere non è la medicina della donna ma la medicina degli uomini e delle donne.  E’ certamente un passo in avanti, anche se a partire dagli anni 80 gli studiosi hanno convenuto che il ritardo conoscitivo e sperimentale della medicina era soprattutto concentrato nel campo della salute della donna, anche a causa della prolungata esclusione della donna dalla ricerca clinica, che costituiva uno degli aspetti finali delle antiche discriminazioni a danno delle donne.

Vedo che ormai considerate superata la lettura femminista nella quale per genere si intendeva il genere femminile, perseguite un equilibrio nuovo, superate i pregiudizi socioculturali collegati al genere, vi ponete l’obiettivo di recuperare in questo convegno con equilibrio entrambi gli aspetti, biologici e sociali, maschili e femminili, senza buttare a mare  lo specifico della farmacologia al maschile. Del resto l’incontro di oggi darà  spazio ad esempio al tema della fertilità maschile, alla medicina estetica, alla cardiologia, alla ginecologia come all’andrologia, con un approccio interdisciplinare che mi sembra sia l’aspetto più straordinario dei vostri lavori.

Gli ultimi studi hanno confermato che le differenze biologiche possono essere alterate dal genere o se preferite dall’ambiente nel quale una persona vive. In effetti, la variabilità biologica suggerisce che vi siano delle complesse e costanti interazioni tra sesso e genere che risultano in un sistema intrecciato, intricato e ingarbugliato dove non è più possibile distinguere il ruolo dell’uno e dell’altro suggerendo che è opportuno associare i due concetti

La medicina di sesso-genere, nata nel contesto del movimento delle donne degli anni 70, non si limita alle donne ma crea nuovi prototipi di salute anche per l’uomo incorporando gli aspetti biologici con quelli sociali dando valore alle differenze e riconoscendo le somiglianze fra donna e uomo per arrivare all’equità. E’ il concetto di equità e non di uguaglianza che pervade la medicina di genere, infatti, la rivendicazione di uguaglianza, si traduce, come scriveva Norberto Bobbio, “nella negazione di una specifica ineguaglianza” fra individui. Invece, la medicina di genere considera le differenze un valore fondamentale e non dimentica quello che sosteneva il premio Nobel François Monod sul concetto d’eguaglianza e cioè che esso è stato “inventato precisamente perché gli esseri umani non sono identici”. Ed è proprio il superamento del concetto di uguaglianza che fa arrivare a quello più complesso di equità che permette il riconoscimento delle differenze per arrivare alla cura ed alla prevenzione più appropriata per ciascuna persona.

Essendo gli uomini e le donne diversi (vedi patrimonio genetico, ormoni, ecc) è evidente che non tutte le disuguaglianze nella salute sono inique, semmai l’iniquità può nascere dal non riconoscimento delle differenze che induce nel gruppo meno studiato una minore appropriatezza. Inoltre, se un gruppo è meno studiato, nella maggior parte dei casi, non vi è stata un’equa ripartizione delle risorse per la ricerca e su questo la società dovrebbe intervenire. In conclusione, l’epigenetica sembra chiarire le modalità con cui la società, l’ambiente modificano il nostro corpo biologico sia nella vita perinatale  che nella via adulta.

In questi ultimi anni, le ricerche relative alle differenze biologiche  si sono largamente sviluppate tanto che oramai sappiamo che il cuore, il rene, il polmone ecc devono essere declinati sia al femminile che al maschile mentre sono poche le ricerche che hanno approfondito il ruolo del sesso-genere. Ciò  dipende dalle numerose criticità che pone la ricerca sesso-genere che necessità dell’intersettorialità e dell’interdisciplinarietà, alla quale anche con questo incontro tendete.  Non escludiamo nuovi orizzonti, legati alle classi di età, all’alimentazione, alle specifiche situazioni ambientali, sempre con l’intento di costruire una farmacologia capace di guarire tutti, raggiungendo ciascuno nella propria specifica individualità. .

Proprio per arrivare all’applicazione della medicina di genere, l’Università di Sassari ha promosso nel 2005 l’istituzione di un dottorato di ricerca in Farmacologia di genere e nel 2011 insieme ad altre 6 università europee ha dato luogo ad una summer school in Gender Medicine e ha organizzato anche due congressi internazionali che proseguono con quello di oggi. E’ una storia che intendiamo seguire nei suoi sviluppi.




Università di Sassari. Cerimonia degli auguri di fine anno

Intervento del prof. Attilio Mastino
Venerdì 21 dicembre 2012
Cerimonia degli auguri di fine anno

Cari amici,

in occasione dell’inaugurazione del 451° anno accademico, un mese fa, il 9 novembre, abbiamo presentato il bilancio dell’ultimo triennio, che è stato pieno di impegni e di iniziative, portate avanti dagli organi accademici, dai delegati, dal Direttore Generale, dai docenti, dal personale tecnico e amministrativo, dagli studenti. Gli obiettivi raggiunti dai nostri ricercatori e da tutti i nostri colleghi sono numerosi; e in questi ultimi giorni abbiamo ritirato premi e riconoscimenti nazionali, come quello di Italia Camp per i farmaci naturali PHA.RE.CO., alla presenza del Presidente Monti.

Sono convinto che un buon amministratore non può essere mai interamente soddisfatto dei risultati raggiunti, eppure abbiamo sentito giorno per giorno il senso di una missione condivisa, l’orgoglio di un’appartenenza, il percorso comune che ci ha visto impegnati su tanti fronti alla ricerca di sinergie e di alleanze.  Ho avuto ed ho il privilegio di guidare una nutrita pattuglia di collaboratori competenti e motivati, che hanno operato e operano con grande autonomia e senso dell’istituzione. Oggi molti di loro sono assenti per poter rappresentare l’Ateneo in altre sedi come il Prorettore Donatella Spano a Cagliari nel Comitato tecnico regionale della legge 26, rinunciando ad essere presente con noi per un impegno di fine anno dal quale giungeranno ulteriori risorse.

Dopo tre anni di attività, dunque, sentiamo ancora più forte il dovere di un impegno ulteriore, se possibile più determinato e serrato, orientato ad indicare prospettive e indirizzi, pesando il contributo di tutti e suggerendo strade nuove per il futuro, con la voglia di non rinunciare a crescere e  di riuscire a coinvolgere tutti i colleghi, anche quelli più demotivati, in un momento decisivo di crisi, ma anche pieno di opportunità e di speranze. In questi giorni, la discussione sul bilancio 2013, con le sue luci e le sue molte ombre, è stato un momento di presa di coscienza di nuove difficoltà che investono tutti gli Atenei italiani, con una drastica riduzione delle entrate ministeriali, ma anche con una vigorosa ripresa degli investimenti grazie ai fondi FAS. Il fatto che il Consiglio di Amministrazione non abbia potuto approvare il bilancio triennale, abbia dovuto attingere all’avanzo per assicurare un equilibrio di bilancio e abbia posto precisi limiti alle nuove assunzioni è un segno di una difficoltà che condividiamo con quasi tutte le Università anche per precise responsabilità del Ministro e della Conferenza dei Rettori. Eppure l’approvazione del bilancio per l’anno prossimo ha testimoniato la fiducia che è riposta in noi e l’impegno per lavorare in positivo per monitorare prestazioni e risultati di tutti.

Dopo le celebrazioni dei nostri 450 anni dalla nascita nel 1562 del Collegio Gesuitico, dopo la visita del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e del Presidente della Camera dei Deputati Gianfranco Fini, è venuto veramente il tempo di guardare al futuro, di segnare i percorsi di una ripartenza. Non avremo paura del cambiamento, indicheremo nuove frontiere e cercheremo migliori percorsi per tutti.

Ci presentiamo a questo tradizionale appuntamento della cerimonia degli auguri davvero con l’emozione del primo giorno, con la preoccupazione di non riuscire a rispondere alle attese che ci accompagnano, con l’entusiasmo per l’orizzonte che abbiamo davanti e che va ben oltre i due anni residui del mio mandato, ma che si spinge oltre, verso il 2020, in una continuità ideale con l’azione svolta anche da tutti i Rettori che mi hanno preceduto, partendo da Antonio Segni nel secondo dopoguerra, fino ad Antonio Milella, Giovanni Palmieri, Alessandro Maida, ai quali ultimi ci lega un sentimento di gratitudine profonda. Soprattutto guardiamo ai giovani, ai tanti impegnati in questi giorni nel concorso nazionale per le abilitazioni, e soprattutto ai nostri ricercatori a tempo determinato, agli assegnisti, ai dottorandi, agli specializzandi, perché il futuro del nostro Ateneo è ora veramente nelle loro mani. Le nostre decisioni debbono tener conto innanzi tutto di loro, che chiamiamo a raccolta verso obiettivi alti di successo e di sviluppo comune.

Vogliamo estendere le collaborazioni, in sede locale, con l’Accademia di Belle Arti “Mario Sironi” di Sassari,  il Conservatorio di Musica “Luigi Canepa”,  il Centro Universitario Sportivo, il Circolo ricreativo dell’Università, le Associazioni studentesche, i Goliardi, l’Associazione ALAUNISS (Associazione dei laureati nell’Università di Sassari),  l’Associazione dei dottorandi e dei dottori di ricerca ADI, l’ERSU dopo la ricostituzione della Commissione mista, la Regione, le istituzioni locali, i Sindacati; così come rilanceremo la collaborazione con il Garante degli studenti. Più in generale, vogliamo stipulare nuovi accordi di cooperazione accademica con l’Ateneo federato di Cagliari e poi con altri Atenei, in sede nazionale e internazionale. Del resto, la prospettiva di una collaborazione di prossimità con l’Università di Cagliari non può oscurare la necessità di migliorare le tante potenzialità esistenti, i rapporti storici del nostro Ateneo con altre Università italiane, come con Pavia e Parma, con lo IUAV di Venezia, sulla nautica con Pisa e Genova, per l’Industrial Liaison Office con Milano Bicocca e ancora Genova.

Questi sono i tempi della valutazione e della premialità: lasceremo da parte ogni accento critico sul sistema di valutazione messo in campo dall’ANVUR per confrontarci ogni giorno con equilibrio, senza complessi di inferiorità ma consapevoli delle nuove responsabilità che ci vengono assegnate in un momento di crisi.

Vogliamo lasciarci rapidamente alle spalle i numerosi conflitti nati tra i nuovi dipartimenti per l’attribuzione di personale, di spazi, di biblioteche, di attrezzature, di aziende, di laboratori, di centri interdisciplinari. Abbiamo superato la fase più critica ed ora occuperemo le nuove sedi, come l’ospedale di Santa Chiara in Alghero.  Lavoreremo per stabilizzare la riforma statutaria, senza mitizzare le soluzioni adottate, cercando di risolvere le situazioni di disagio e di ascoltare il parere di tutti, favorendo la libera scelta di adesione ai 13 Dipartimenti. Costituiremo altre strutture di raccordo e vareremo il nuovo modello istituzionale di Università secondo gli indirizzi ministeriali, interpretati in senso molto innovativo.

L’Università si trova oggi ad affrontare una situazione molto diversa rispetto al passato, anche recente, che presenta aspetti di forte instabilità e segnali di involuzione La complessità organizzativa che ne scaturisce è caratterizzata da autonomia gestionale ma con risorse tendenzialmente sempre meno disponibili, con una richiesta di servizi qualitativamente più elevati nei settori strategici, con una forte competizione nel settore della ricerca, nel quadro di una spietata concorrenza sul mercato nazionale ed internazionale della formazione universitaria, con nuove opportunità disponibili.

Vogliamo ora stimolare processi virtuosi e far crescere l’Ateneo tenendo conto della sua storia secolare, della sua complessità, della sua ricchezza di contenuti umani e scientifici: un Ateneo europeo proiettato anche nel Mediterraneo, di qualità, capace di misurarsi in un confronto internazionale, ma fortemente radicato nell’isola.

Vogliamo sostenere le persone che operano nella nostra Università nell’affrontare le incertezze e il mutamento, perché il cambiamento deve essere vissuto come sfida positiva. Per costruire un assetto organizzativo sempre più centrato sui bisogni degli utenti, sugli obiettivi istituzionali e sulle esigenze delle persone, chiederemo a tutti uno sforzo e un impegno sostenibili.

Il cambiamento deve essere attuato con le persone e non sulle persone, in modo da costruire un’organizzazione in cui tutti gli attori ricoprano un ruolo significativo, ai diversi livelli, nel perseguimento degli obiettivi e nell’attuazione della missione istituzionale.

Il processo di cambiamento che l’Università si trova inevitabilmente ad affrontare è anzitutto un cambiamento culturale, in quanto riguarda in primis i valori e gli orientamenti; e questo implica una maggiore consapevolezza da parte di tutti gli attori impegnati nella didattica, nella ricerca, nelle attività direzionali e in quelle tecniche e amministrative.

Le azioni per il cambiamento dovranno avere tre direttrici:

– la valorizzazione delle competenze professionali;

– lo sviluppo delle motivazioni individuali;

– l’integrazione delle professionalità.

Le  azioni prioritarie, perseguendo obiettivi di risparmio e di buona amministrazione, assolutamente necessari di fronte alla crisi, sono:

– migliorare gli indicatori di performances che vengono utilizzati per ripartire le risorse statali e per attribuire le risorse alle strutture dipartimentali;

– favorire l’arrivo di risorse esterne, in particolare quelle europee;

– mettere a punto le politiche di reclutamento del personale, ponendo particolare attenzione agli equilibri di bilancio;

– valutare l’impatto finanziario relativo alla gestione ordinaria di tutte le strutture edilizie “a regime” e rispettare il programma di dismissioni deliberato dal CdA nel rispetto della normativa vigente in materia di vendita di immobili;

– individuare azioni volte al contenimento delle spese, programmando le attribuzioni finanziarie;

– accelerare la spesa per l’edilizia su fondi di avanzo vincolati.

Le politiche del personale coerenti con queste linee di azione:

– prevedono opportunità di crescita individuale, la creazione di nuove figure professionali e spazi per più soddisfacenti percorsi di carriera.

– richiedono un coinvolgimento diretto di tutto il personale e un forte investimento nelle attività di formazione e sviluppo.

– presuppongono un confronto corretto e trasparente con le organizzazioni sindacali.

L’Ateneo continuerà ad aprirsi all’Orientamento e agli scambi internazionali, lancerà programmi di mobilità per studio, per ricerche, per tirocini all’estero, continuerà a scalare le graduatorie nazionali, insisterà a investire nell’ERASMUS, anche in un momento nel quale dall’Unione Europea non arrivano messaggi rassicuranti in materia di borse. Miglioreremo i dati sulla mobilità internazionale studentesca in entrata e in uscita per studio e per tirocini, l’Ulisse, il programma di Ateneo per la mobilità extraeuropea.  Continueremo a sviluppare, dopo questo primo semestre, il nuovo programma di partnerariato territoriale “Erasmus Placement in Sardinia”, finalizzato a promuovere l’offerta di tirocini presso amministrazioni, imprese, istituzioni, laboratori e studi professionali aventi sede nel territorio del Nord Sardegna per gli studenti universitari di altri paesi europei, che vogliano “spendere in Sardegna” la borsa ottenuta dalla loro università di appartenenza. Saranno oltre 200 gli studenti universitari di altri pesi europei che quest’anno studieranno presso il nostro Ateneo, frequentando i nostri corsi di studio o svolgendo dei tirocini presso imprese e istituzioni locali sotto la nostra guida accademica nel quadro delle attività finanziate con il programma Erasmus.

Inoltre lavoreremo all’interno delle reti interuniversitarie e ospiteremo a Sassari in primavera la Rete di eccellenza dei territori insulari RETI, Excellence Network Island Territories. Svilupperemo i rapporti nella Rete delle università catalane e nella rete di università mediterranee.

Attraverso la convenzione triennale con la Regione ci daremo nuovi obiettivi in attuazione della legge regionale 26/96, definendo un programma triennale condiviso che avrà lo scopo di armonizzare gli interventi nell’ambito del diritto allo studio e del riconoscimento del merito, della didattica e della ricerca, di base e applicata, dell’innovazione e del trasferimento tecnologico alle imprese del territorio regionale, con interventi a favore dell’internazionalizzazione, del tutoraggio in entrata, in itinere e in uscita.

Intendiamo accrescere la qualità dell’offerta formativa e tagliare i corsi improduttivi, promuovere l’allineamento dei tempi della formazione universitaria a quelli medi delle altre regioni italiane e degli altri paesi europei, sostenere concretamente l’integrazione del sistema universitario alle realtà territoriali locali e il suo collegamento ai contesti internazionali più innovativi; infine promuovere attraverso un sistema di incentivazione premiale, la ricerca di base e applicata.

Intendiamo mobilitare consistenti investimenti sugli obiettivi strategici di medio e lungo termine nel campo dell’alta formazione e della ricerca: dunque i criteri per accreditare, se sarà possibile, i corsi di laurea fuori sede a Nuoro, ad Oristano, ad Olbia, l’internazionalizzazione del sistema universitario, la formazione permanente (con impiego delle risorse del FSE e dell’Assessorato regionale al Lavoro a valle del recente protocollo d’intesa sull’alta formazione) per master, corsi di aggiornamento, biblioteche, archivi, musei, servizi, politiche della ricerca, i finanziamenti per l’allestimento tecnologico legato alla didattica, i processi di certificazione e accreditamento, la residenzialità, il campus, la qualità ambientale dell’Università e delle residenze.

Il Sistema universitario regionale parte dal rispetto assoluto per l’identità e l’autonomia irrinunciabile di ciascun Ateneo storico. Eppure il futuro della nostra Università e la sua capacità di garantirsi risorse certe ed esigibili da parte della Regione sono per la gran parte legati alla  capacità di “fare sistema”.

Con la città di Sassari vogliamo ascoltare, cogliere le ragioni della crisi, affermare valori condivisi, perseguire la sostenibilità del consumo di risorse economiche e naturali,  combattere i fenomeni di disagio giovanile, lavorare per un nuovo modello di sviluppo urbano virtuoso.

Vogliamo raccogliere le osservazioni sulla necessità di conoscenza tecnologica e informatica diffusa, con un maggior interesse per le discipline dell’area ingegneristica, fisica e matematica.

L’Università in Città o la Città universitaria deve fondarsi su una continuità urbanistica tra Ateneo e Città concordata con l’ERSU, su una reciproca accettazione di valori e di prospettive, su un impegno comune per migliorare la qualità della vita non solo degli studenti e dei professori ma anche dei cittadini.

Ci batteremo  per la polarizzazione dei siti universitari, per favorire la piena utilizzazione delle strutture, la realizzazione di campus per consentire la nascita di una vera comunità di studenti e docenti. Sotto questo profilo, ripensare ai tempi del lavoro e dello studio dentro l’Università può costituire un input per il rilancio stesso della vita urbana.

Il mondo della politica e dell’impresa deve allearsi con l’Università, nel rispetto dei ruoli e delle diverse competenze.

L’Università, con tanti suoi autorevolissimi esponenti, si deve collegare con il sistema delle autonomie locali, con le città della Sardegna e con le Province; deve rompere ogni residuo isolamento e deve attivare nuove forme di collaborazione e di coordinamento con il sistema delle autonomie locali e funzionali per dar vita ad appositi percorsi formativi.

L’Università è il valore aggiunto di un territorio che ha assoluta necessità di svilupparsi, un interlocutore fondamentale per le istituzioni che vogliano avviare nuovi percorsi di crescita, per l’economia e la piena occupazione in nuove filiere, sulla base di nuovi modelli di sviluppo.

Le stesse ricerche che si svolgono entro l’Università debbono assumere una visibilità maggiore e rendere fertile il territorio che ci accoglie, con l’incremento dei brevetti che si deve raggiungere anche grazie all’impegno dell’Ufficio per il trasferimento tecnologico.

Svilupperemo nuovi rapporti con il Comune, col progetto UniCittà, finanziato dal Dipartimento della Gioventù della Presidenza del Consiglio dei Ministri, con la Farmacia comunale, con la nascita del Polo delle identità. E poi i rapporti con il territorio, la Provincia e la CCIA attraverso Fabrica Europa, il nuovo Sistema culturale ambientale Nord Ovest della Sardegna-Golfo dell’Asinara, il Parco internazionale delle Bocche di Bonifacio.

Ad Alghero l’Ateneo chiede al Comune di concedere al Dipartimento di Architettura anche lo spazio centrale del complesso di Santa Chiara necessario per disporre di una Aula Magna, che al momento sarebbe invece destinato all’Archivio Storico. Un’Aula Magna è fondamentale per le esigenze didattiche del Dipartimento di Architettura, e diventerebbe anche l’Aula Magna della città di Alghero, in un rapporto sinergico fra studio universitario e vita cittadina che non dovrebbe mai mancare.

Rilanceremo le attività della Consulta sulla Cappellania universitaria, in occasione del 50° anniversario dal Concilio Vaticano II.

L’autonomia universitaria deve essere intesa come processo critico e non come acquisizione per sempre, in un continuo confronto interno e con le realtà circostanti. Innanzi tutto si deve costruire un rapporto trasparente con il territorio, perché l’Università deve sentire il dovere di giustificare e difendere pubblicamente le proprie scelte strategiche, ad esempio sul piano urbanistico, ma anche sull’organizzazione interna, sulle strutture didattiche, sul decentramento.

Anche la città deve crescere più velocemente e sentire la responsabilità di ospitare una prestigiosa università, estendendo le proprie offerte culturali, ampliando e qualificando la rete dei musei, con concerti, spettacoli, offerte culturali e con una elevazione della qualità della vita e degli incontri sociali, trasformandosi in un sistema urbano eco-sostenibile.

Arriveremo alla costituzione di un Forum sulle pari opportunità, politiche e studi di genere come luogo di elaborazione e di scambio tra la ricerca delle donne all’interno dell’Università e quella espressa dal tessuto culturale del territorio.

Tra le prime iniziative che si intendono portare avanti: a marzo l’incontro sul fenomeno vecchio e nuovo del Mobbing. Aspetti psicologici, psicopatologici e medico legali.

Il documento di programmazione elenca le iniziative previste per il Completamento del percorso di adeguamento regolamentare a seguito dell’entrata in vigore del nuovo Statuto, con particolare riferimento a:

– adozione del Regolamento generale di Ateneo;

– adeguamento del Regolamento didattico di Ateneo al nuovo Statuto.

Riformeremo lo statuto sul tema delle pari opportunità e delle rappresentanze dei Dipartimenti in Senato.

Nelle prossime settimane procederemo alla consegna dei premi per i nostri migliori studenti, con altre iniziative volte a sostenere la politica del merito a favore degli studenti in corso che, al 31 luglio 2011, abbiano maturato il maggior numero di crediti e si siano distinti per la votazione media degli esami.

Per l’anno accademico 2013-14, l’Offerta didattica sarà per la prima volta predisposta dai 13 dipartimenti, con i corsi di studio, i master, le scuole di specializzazione, il Tirocinio Formativo Attivo. Discuteremo sul prossimo riavvio del Master di giornalismo, per il quale è in corso la trattativa con l’Ordine dei giornalisti. Ci confronteremo con le nuove norme relative all’accreditamento dei corsi di studio e delle sedi, con l’intendo di ridurre il numero dei corsi, di abbassare il numero degli studenti inattivi, di  mantenere il trend positivo delle iscrizioni.

L’Ateneo ha acquisito la piattaforma U-Gov, che comprende il Sistema Informativo Esse3: un supporto indispensabile per predisporre, gestire e monitorare tutti i processi, dalle immatricolazioni e iscrizioni agli atti amministrativi connessi agli ordinamenti e regolamenti didattici, alla programmazione dell’offerta formativa, alla verbalizzazione automatica degli esami fino alla gestione delle carriere degli studenti, compreso il Post-Laurea e l’Alta Formazione. L’applicativo entrerà a regime con il prossimo anno accademico: obiettivo finale è la riprogettazione e successiva automazione di tutte le tappe del percorso universitario dello studente. Questo passaggio comporta una stretta integrazione tra il sistema di gestione dei documenti (TITULUS) e il sistema di gestione delle carriere studenti. Questo nuovo approccio prevede il monitoraggio delle carriere universitarie e la possibilità di interventi rilevanti nella ricognizione.

Particolare attenzione merita il tempestivo smaltimento delle pratiche studenti, in particolare quelle che prevedono la convalida degli esami e l’approvazione dei piani di studio.

L’Ateneo ha disposto il rilascio del Diploma Supplement (D.M. 509/1999) ai laureati.

Lavoreremo per  ottimizzare l’utilizzo delle risorse di docenza e organizzare la IV Conferenza di Ateneo sulla didattica

Partirà il processo di Autovalutazione, Valutazione periodica e Accreditamento secondo quanto disposto dal documento approvato nel luglio 2012 dal Consiglio Direttivo dell’ANVUR. Le azioni e i processi sono molto complessi e richiederanno il contributo delle strutture didattiche e di diversi Uffici dell’Amministrazione centrale. Sono previsti incontri dedicati con i molti partecipanti al processo e alcuni delegati rettorali.

Per le Scuole di dottorato, rafforzeremo ulteriormente il principio della valutazione e della premialità. Per quanto concerne l’internazionalizzazione dei dottorati,  confermiamo il proposito di favorire la partecipazione di studenti stranieri consentendo loro di presentarsi alle procedure di valutazione senza onerosi spostamenti da aree spesso remote.

Abbiamo avviato le nuove procedure di valutazione delle Scuole di Dottorato in collaborazione con il Nucleo  e l’Ufficio Pianificazione con la predisposizione di una scheda di autovalutazione.

A livello nazionale entreranno presto in vigore le nuove disposizioni relative ai dottorati che, immediatamente applicati, porterebbero al dimezzamento dell’offerta formativa, in termini di dottorati di ricerca del nostro Ateneo, e che pertanto saranno oggetto di un adeguato impegno organizzativo nel futuro immediato. Alcuni dei criteri proposti per la nuova normativa derivata dalla legge 240 avranno un forte impatto sull’attuale schema delle scuole. In particolare:

– la eliminazione delle scuole interdisciplinari dovuta alla indicazione precisa di denominazioni dei dottorati prossime a quelle dei settori scientifico disciplinari;

– la richiesta di almeno 6 borse disponibili per dottorato;

– la valutazione dei coordinatori e del collegio dei docenti;

– la stringente valutazione su strutture e mezzi messi a disposizione dei dottorandi.

Condizioni, queste, che potrebbero rappresentare gravi ostacoli alla prosecuzione della esperienza attuale nei termini che conosciamo. La soluzione possibile è da individuarsi nella sopravvivenza di alcune scuole, che però dovranno riconvertirsi in modo da poter rientrare nelle denominazioni definite dal Ministero e nella riconversione di scuole interdisciplinari in dottorati intersede o internazionali, dotati di forti competenze scientifiche riconosciute e valutabili. Tutto questo processo porterà inevitabilmente a delle scelte sulle risorse disponibili e, in questo senso, l’unico criterio possibile sarà rappresentato dalla qualità scientifica delle proposte. Il nucleo di valutazione e gli altri organi accademici svolgeranno quindi un ruolo fondamentale nel determinare criteri di giudizio validi.

È in programma, in collaborazione con l’associazione dottorandi e con i direttori delle scuole, una giornata di informazione e dibattito sull’attività delle scuole. Nel corso di tale incontro ci sarà modo di illustrare le principali attività dei dottorandi nelle diverse scuole, ma anche di dibattere problemi dell’attuale schema organizzativo e di considerare le prospettive future.

Il Centro Orientamento Studenti (COS) dell’Ateneo gestisce attività e programmi per sostenere le persone nella scelta degli studi universitari, per supportarne la carriera, per facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro; predispone inoltre azioni informative e formative, incontri di orientamento e consulenze. Tra il 15 il 19 aprile organizzeremo la X edizione delle  “Giornate dell’orientamento: studiare a Sassari e in Europa”.

Porteremo avanti i diversi progetti, tra i quali il Progetto STUD.I.O. (Studenti In Orientamento), finanziato dalla Regione Autonoma della Sardegna, dal POR-Fondo Sociale Europeo e dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, che interviene sulle difficoltà di accesso all’Università rilevate dagli esiti dei test di ingresso, sul ritardo negli studi universitari e sull’elevato numero di studenti fuori corso. Le azioni sono rivolte agli studenti delle ultime classi della Scuola secondaria superiore e alle matricole universitarie. Il Progetto è articolato in 3 linee d’intervento: a) raccordo con le Scuole; b) iniziative di potenziamento dell’orientamento universitario; c) strumenti di accompagnamento e supporto per studenti al primo anno del percorso universitario.

Sulla disabilità, cercheremo di  risolvere l’annoso problema del servizio di trasporto da e per l’Ateneo dei nostri ragazzi e porteremo avanti il progetto sottoposto al MIUR che  intende affrontare la problematica degli studenti con DSA (dislessia, disgrafia, disortografia, discalculia).

Sosterremo le attività autogestite dagli studenti, costituiremo l’albo delle Associazioni studentesche, al  fine di promuove ulteriormente le iniziative culturali, sociali, sportive, ricreative proposte dagli studenti dell’Ateneo.

Riconosceremo la pratica sportiva come una delle componenti della formazione universitaria e svilupperemo il PROGETTO UNICITTÀ, promuoveremo l’Autofinanziamento del CUS, apriremo l’uso degli impianti, modificheremo la Convenzione col CUSI.

Verranno sviluppate le attività musicali universitarie, in collaborazione con il Coro dell’Università e il gruppo ICHNUSS.

Il Centro Linguistico si impegna con l’attivazione di corsi di lingua straniera per tutti i Dipartimenti dell’Ateneo e per il territorio (fondi POR), mentre vengono potenziati dappertutto i laboratori informatici e progettiamo il rilancio di Unitel Sardegna.

Ci aspettiamo risultati ancora straordinari nel campo della ricerca scientifica con il reperimento di nuove consistenti risorse e di nuove fonti di finanziamento, con un deciso avanzamento dell’Ateneo in campo regionale e nazionale, grazie ai progetti presentati, ai nuovi laboratori, al riconoscimento di competenze, talenti e opportunità. Alle tante idee che ormai sono in campo, dalla chimica verde all’agroalimentare, dalla biomedicina all’ambiente,  dalle tecnologie informatiche alle discipline umanistiche, giuridico-economiche, dalle bonifiche ai bbcc e al patrimonio identitario. Parliamo di rientro dei cervelli, visiting, assegni cofinanziati, grandi progetti di Ateneo (Dottorati, ricercatori a tempo determinato, assegni di ricerca nell’ambito della conservazione e restauro dei beni culturali, assegni di ricerca in forma associata con enti di ricerca e imprese, laboratori).

In questo campo la legge regionale n. 7 del 2007 continuerà ad aprire nuove strade anche nel settore del trasferimento tecnologico.

Il Centro Servizi Grandi Attrezzature di Ateneo per la ricerca e il Centro interuniversitario sulle tecnologie per i beni culturali riceveranno a breve nuove risorse.  Sosterremo il Centro interuniversitario sulla nautica con Pisa e Genova, e poi la collaborazione con l’area del CNR.

Tutto ciò segnerà un momento di importante modernizzazione delle strutture stesse della ricerca,  che si accompagna al trasferimento del Centro Elaborazione Dati in via Rockefeller, nel quadro dei programmi rinnovati per l’Università digitale.

L’organizzazione e le procedure del sistema della ricerca d’Ateneo stanno subendo profonde modifiche a seguito dei cambiamenti introdotti dalla legge 240/2010. L’approvazione del nuovo Statuto ha declinato con chiarezza i principi della missione dell’Ateneo sulla ricerca e ha dato il via a un ampio processo di riorganizzazione della comunità scientifica delle diverse aree della ricerca con la costituzione dei nuovi Dipartimenti. La riorganizzazione passerà innanzi tutto attraverso i dipartimenti, con i Comitati per la Ricerca, istituiti, sulla base dello statuto, con il preciso compito di elaborare il piano della ricerca e di monitorare le performance del dipartimento. Potenzieremo la Commissione Ricerca, che svolge compiti istruttori, consultivi e propositivi, nei confronti degli organi di governo, ed elabora le proposte per la distribuzione delle risorse per la ricerca. Un più pressante impegno sarà quello del Nucleo di Valutazione, organo di valutazione interna, con il compito di verificare l’attività di ricerca dei dipartimenti e di elaborare le procedure di valutazione in raccordo con le direttive dell’ANVUR.

La programmazione e il processo decisionale della ricerca terrà conto della forte tendenza del MIUR a ribaltare sugli Atenei molte fasi critiche e onerose dei processi di valutazione e di assegnazione delle risorse (per esempio, invio prodotti e rapporti nell’ambito dell’esercizio VQR; gestione progetti di interesse nazionale, ecc.).

Questo quadro impone una forte sinergia fra i delegati, che ancor più devono condividere gli indirizzi strategici, trovare soluzioni operative e tecniche che consentano di migliorare il posizionamento dell’Ateneo nel sistema della ricerca internazionale, nazionale e regionale.  Nell’ambito di Horizon 2020 si prospetta un progressivo potenziamento degli uffici dedicati ai fondi europei, a valle dell’attività formativa svolta nell’ultimo anno.

Il sistema regionale della ricerca si svilupperà con lo scopo di migliorare il posizionamento dell’Ateneo nelle reti nazionali e internazionali, di mettere a regime dei flussi di finanziamento per il reclutamento (ricercatori, assegni, dottorati), di completare i progetti infrastrutturali (laboratori, attrezzature), di trasferimento tecnologico (INNOVA.RE) e del piano di gestione e dei regolamenti di accesso alla strutture. Realizzeremo il sistema di valutazione della ricerca, miglioreremo le procedure per la distribuzione delle risorse e il reclutamento per l’attività di ricerca.

Con il mese di gennaio 2013 disdetteremo il  contratto di comodato d’uso del Centro di Tramariglio con scadenza al 2014, dato che permangono diversi aspetti gestionali che devono essere perfezionati per rendere più chiari ed efficaci i rapporti di collaborazione fra le parti.

Il testo dell’accordo quadro tra le Università e CNR sarà rimesso in discussione su richiesta del nuovo Presidente del CNR. La revisione sarà effettuata anche attraverso il coinvolgimento della RAS e dei centri di ricerca.

In questo senso vanno le iniziative condotte dai delegati per il Museo Scientifico di Ateneo,  l’Orto Botanico, il Sistema bibliotecario di Ateneo, reso autonomo e profondamente rinnovato, che ha necessità di superare rapidamente le attuali criticità legate ad una delicata fase di passaggio.  Gli Organi Accademici continueranno a sostenere la crescita e lo sviluppo delle nostre Biblioteche, per quanto le prospettive finanziarie e politiche lo consentiranno. Siamo infatti consapevoli dell’importanza del ruolo da esse svolto e delle difficoltà crescenti, imposte in particolare da una progressiva riduzione della dotazione di personale strutturato. Siamo altresì convinti che la concezione stessa di servizio bibliotecario sia in rapida evoluzione, non solo per via dei progressi della tecnologia dell’informazione e della comunicazione, che renderà le biblioteche sempre più virtuali e delocalizzate e sempre meno condizionate dalla gestione del supporto cartaceo, ma anche in virtù del radicamento delle forme di condivisione reticolare delle conoscenze, delle esperienze e delle informazioni, di cui i social networks rappresentano espressione tangibile. Alcune nostre Biblioteche, del resto, assolvono già oggi, specialmente per gli studenti, funzioni che vanno al di là della mera erogazione di servizi di ricerca e prestito anche interbibliotecario, per spingersi fino alla vera e propria aggregazione e socializzazione tra studenti, colleghi e cittadini. Non si parla più, dunque, di depositi di libri in locali polverosi e austeri, ma di strutture multifunzionali di servizi multimediali nelle quali le informazioni e le esperienze sono condivise. Sarà nostro impegno supportare questa evoluzione funzionale, in modo da consentire alle Biblioteche ed al nostro Ateneo di intensificare le relazioni con il territorio e di enfatizzare le proprie funzioni istituzionali di produzione e diffusione della conoscenza

L’Ufficio di trasferimento tecnologico porterà avanti il progetto INNOVARE che prevede le seguenti azioni:

– consolidamento e rafforzamento della struttura tecnica organizzativa/gestionale esistente;

– creazione d’impresa;

– innovazione e trasferimento tecnologico nelle imprese esistenti, col bando per assegni di ricerca in azienda;

– strumenti per l’innovazione;

– archivi istituzionali ad accesso aperto. L’attività è in stretto collegamento con la Biblioteca Scientifica Regionale (BSR) ed ha lo scopo di ottimizzare gli Archivi istituzionali (P-arch, UniCA-Eprints e UniSSResearch).

Insieme agli enti del territorio è in atto l’avvio e la gestione di un incubatore universitario cittadino di impresa, di dimensioni ridotte, ma essenziale per dare impulso e valore aggiunto all’attività di creazione di imprese innovative, che è stata avviata con successo anche grazie alle sinergie territoriali create con la StartCup Sardegna.

L’Università di Sassari incentiverà la tutela brevettuale dei risultati della ricerca trasferendo il proprio potenziale tecnologico e promuovendo l’innovazione nelle imprese attraverso differenti attività, con funzioni di servizio e commerciale.

Nell’ambito della promozione della tutela della proprietà intellettuale, l’Università manterrà in portafoglio i brevetti dell’attuale lista, che comprende una decina di brevetti.

Nel campo delle grandi attrezzature, in questi giorni si procede ad impegnare nuove risorse e a completare i lavori per l’acquisizione di  grandi apparecchiature, necessarie al corretto compimento di progetti di ricerca.

Si procede al monitoraggio delle partecipazioni universitarie nei Consorzi e Società consortili, con il proposito di riequilibrare i bilanci, siano progetti, convenzioni o contratti di servizio; e insieme agli altri soci pubblici l’Università vigilerà negli organi direttivi e nelle assemblee dei soci.

Per il prossimo biennio ci si propone di promuovere una politica proiettata al raggiungimento di una dimensione pienamente internazionale della formazione e della ricerca.

Si punterà pertanto a rafforzare le attività finora intraprese e ad attivare nuovi partenariati, tesi ad allargare le collaborazioni scientifiche e tecnologiche sia con i Paesi più vicini che con aree geografiche lontane e culturalmente diverse. Si promuoverà il nostro Ateneo all’estero, con il duplice obiettivo di attrarre studenti e di attuare progetti multiculturali di ampio respiro.

Crescente attenzione sarà rivolta alle politiche di reclutamento di studenti stranieri che si iscrivono presso i nostri Corsi di Laurea.

In quest’ottica, ci proponiamo di portare avanti azioni coordinate quali:

– potenziamento dei corsi di italiano per gli studenti stranieri;

– offerta di corsi di insegnamento erogati in lingua inglese. Essa può rendere più attrattiva la sede agli studenti stranieri e anche preparare e formare gli studenti italiani ad un’apertura verso il mondo scientifico e lavorativo a livello internazionale;

– istituzione di uno “sportello” per il miglioramento delle procedure legate al soggiorno di studenti, ricercatori e docenti stranieri nel nostro paese, per le problematiche legate ai visti di ingresso e alle norme di immatricolazione;

– istituzione di un sito web specifico perché vi sia la massima diffusione di tutte le informazioni sui principali temi dell’internazionalizzazione e della cooperazione accademica.

Si promuoveranno azioni di sostegno da parte della Regione Sardegna quali:

– istituzione di borse a favore di immatricolandi e giovani ricercatori stranieri;

– istituzione di progetti di cooperazione interuniversitaria internazionale.

Particolare attenzione sarà rivolta alla possibilità di istituire Corsi di Laurea a doppio titolo o titolo congiunto.

In campo informatico stiamo procedendo al Trasferimento dei servizi informativi nel nuovo stabile di via Rockefeller, dopo la realizzazione della rete metropolitana UNISS in fibra ottica, con utilizzo di fibre spente di proprietà comunale. Stiamo realizzando n. 6 aule informatiche di polo. Inoltre seguiamo la Migrazione di tutti i principali servizi verso la piattaforma CINECA U-GOV.

Nel prossimo biennio, saranno considerate problematiche che coinvolgono le attività informatiche ma che richiedono scelte e strategie più generali, come l’anagrafe della ricerca, la piattaforma WEB integrata di Ateneo, i servizi all’attività didattica (questionari per la valutazione della didattica, ed altro), i servizi agli studenti (per es., l’utilizzo delle aule informatiche), la formazione del personale, l’e-learning, l’università telematica ed altre proposte ed esigenze che potranno emergere dall’Ateneo o dall’esterno.

Attualmente le risorse finanziarie disponibili per i servizi informatici fanno riferimento a specifici progetti (POR laboratori, e, marginalmente, altri) di prossima scadenza, o a finanziamenti limitati nel tempo (legge regionale 26/96 per il triennio 2012-2014), ma, dato il loro carattere permanente, sarà indispensabile definire apposite poste di bilancio per il funzionamento ordinario e lo sviluppo, naturalmente in connessione con una strategia di utilizzo razionale delle risorse.

Sarà organizzata la II Conferenza informatica di Ateneo.

In collaborazione con l’AOU la medicina universitaria si trasformerà profondamente, in un orizzonte di programmazione e di risparmio, in piena sintonia tra Università e Direzione generale.

Pensiamo ad un percorso di integrazione e razionalizzazione dopo la istituzione dei tre Dipartimenti universitari di area medica e della Struttura di raccordo.  La prossima istituzione dell’Organo di Indirizzo, l’emanazione dell’Atto Aziendale, i risultati della trattativa al  tavolo tecnico, gli investimenti per il nuovo ospedale,  le nuove attrezzature, dalla PET alla TAC, consentiranno alla AOU di Sassari di essere percepita come Azienda di riferimento per le attività assistenziali essenziali allo svolgimento delle funzioni istituzionali di didattica e di ricerca della Facoltà di Medicina e Chirurgia.  Sarà pertanto possibile realizzare un’integrazione sinergica fra un’assistenza di eccellenza ed i compiti universitari della Facoltà di Medicina e Chirurgia, mediante l’articolazione di strutture semplici, di strutture complesse e dei Dipartimenti assistenziali integrati.

È ora indispensabile, previo il reperimento di nuove risorse, colmare gravi carenze tecnologiche che ancora impediscono alla AOU di Sassari di qualificarsi come struttura di eccellenza, anche se la recente acquisizione del Tomografo PET a 64 strati rappresenta decisamente un punto di svolta decisivo e testimonia una rinnovata attenzione della Regione dopo anni di abbandono.

È necessario acquisire alcune grandi attrezzature e supporti tecnologici e diagnostici, la cui mancanza sta producendo effetti negativi per il funzionamento e l’immagine dell’Azienda.

Si rende necessario certificare tutti i possibili Centri di Eccellenza a valenza per tutto il Nord Sardegna già esistenti o in via di istituzione.

Alcuni prossimi impegni:

– inventario dei beni immobili della AOU;

– Aavvio della trattativa per la chiusura del rapporto con la Fondazione Santa Maria Bambina di Oristano;

– test ammissioni ai corsi di laurea;

– accordi convenzionali con le AASSLL in Sardegna e in altre Regioni;

– corsi singoli per studenti di medicina;

– determinazione del percorso formativo per le professioni sanitarie;

– spese per professioni sanitarie (risorse regionali dal 2008);

– definizione del bisogno formativo per le professioni sanitarie;

– possibile trasferimento della U.O. di Neuropsichiatria infantile dal Policlinico Sassarese al VI piano del Palazzo Clemente (spesa 835 mila euro);

– costi del personale medico: richiesta della AOU alla Regione delle indennità assistenziali dovute ai medici. Ricorso al Consiglio di Stato e adempimenti successivi, calcolo delle indennità sanitarie da liquidare, accantonamento fondo rischi, richiesta rimborso Regione;

– ripartizione spese comuni con la AOU.

Porteremo avanti il programma edilizio AOU,  rimodulato nel CdA del 26 settembre 2012, con la realizzazione degli ambulatori e del day hospital di Oncologia al piano terra della Seconda Stecca, gli spogliatoi centralizzati al sottopiano del Palazzo Clemente, la Ristrutturazione della parte del piano secondo (lato viale S. Pietro) del Palazzo Clemente, da destinare alle degenze della Clinica Neurologica, la realizzazione del nuovo reparto di terapia intensiva e rianimazione, nel rustico al piano terra fra la prima e la seconda stecca, e incremento degli spogliatoi e dei magazzini al piano seminterrato, al di sotto della nuova rianimazione, la ristrutturazione del piano secondo della palazzina della Clinica Neurologica, da destinare all’istituto di Neurologia.

Ulteriori iniziative in avvio o programmazione:

– sono già in fase di ultimazione le procedure per l’affidamento dei lavori per la nuova Rianimazione e per il nuovo Reparto di Neuropsichiatria Infantile (piano VI del Palazzo Clemente);

–  è in fase di approvazione il piano esecutivo per le degenze della Clinica Neurologica e l’adeguamento antincendio (piano II del Palazzo Clemente);

Per il Palazzo Materno-Infantile sono previsti:

– adeguamento del blocco parto e adeguamenti antincendio del palazzo;

– risanamento della facciata principale;

– progetto di adeguamento dei laboratori diagnostici in vista di una futura centralizzazione;

– progetto di razionalizzazione dell’area parcheggi;

– progetto di razionalizzazione stoccaggio rifiuti ospedalieri negli spazi antistanti gli edifici didattico-assistenziali;

–  il reparto di Rianimazione e terapia intensiva verrà trasferito negli “Edifici delle chirurgie”, piano terra, con una spesa superiore ai 2 milioni di euro.

–  è inoltre prevista la programmazione della destinazione d’uso degli edifici dismessi, una volta completato il nuovo Ospedale.

Spenderemo i fondi FAS 2007/2013 per un importo totale di 182,75 milioni di euro a favore di Università, AOU, Accademia delle Belle Arti “Mario Sironi”, ERSU.

I macrointerventi previsti sono:

– 3.600.000 euro per il Potenziamento della didattica dei Dipartimenti (ex Facoltà) di Agraria;

– 3.600.000 euro per il Polo Agrario Veterinario;

– 18.000.000 euro per la realizzazione dell’Orto botanico e Completamento realizzazione Area Bionaturalistica;

– 7.000.000 euro per la costruzione nuova sede Dipartimenti (ex Facoltà) di Farmacia, complesso Monserrato;

– 9.000.000 euro per la realizzazione del nuovo Polo umanistico di via Roma – Dipartimenti (ex Facoltà) di Lettere e Lingue;

– 17.800.000 euro per la ristrutturazione dei palazzi dell’Amministrazione centrale, complesso piazza Università;

– 4.000.000 euro per la ristrutturazione della Sede dei Dipartimenti (ex-Facoltà) di Economia.

Il programma consentirà di risolvere i propri problemi edilizi per almeno un ventennio, pur se non sarà facile trovare i fondi necessari a gestire i nuovi spazi e le nuove esigenze, quali si configurano dalle richieste, destinate ad avere piena soddisfazione, dei nuovi dipartimenti. È da rimarcare, a questo proposito, che gli adempimenti edilizi richiesti dalla legge 240, in molti casi distruttivi per gli atenei, potranno essere portati a termine senza affanni, in una prospettiva a medio termine, consentendo una ricollocazione complessiva, organica e coerente dei poli didattici e scientifici in cui si articolerà l’università di Sassari.

Con il nuovo Ospedale veterinario ci prepariamo nel migliore dei modi alla visita della Commissione EAEVE, recentemente nominata, che nella prossima primavera valuterà il Dipartimento di Medicina veterinaria. Recupereremo rapidamente i ritardi accumulati per  la nuova Azienda zootecnica di La Crucca.

Programmazione triennale 2012-14 ed Elenco annuale delle opere pubbliche dell’Università degli Studi di Sassari (CdA del 21 dicembre 2011):

– lavori di manutenzione straordinaria facciate Palazzo Ciancilla in  piazza Conte di Moriana (euro 370.000);

– lavori di recupero edilizio e adeguamento normativo dell’edificio di via del Fiore bianco (euro 800.000)

– lavori di recupero edilizio e manuenzione straordinaria degli impianti sportivi in regione Ottava (euro 422.303);

– lavori di ristrutturazione, restauro conservativo e adeguamento nornativo dell’edificio di largo Porta Nuova (euro 4.000.000);

– lavori di completamento funzionale aree 4, 5, 6 e 7 del Polo naturalistico di Piandanna (euro 16.641.639);

– lavori di realizzazione di un edificio per nuove aule biblioteca e servizi generali della Facoltà di Agraria (euro 6.157.106)

– lavori di completamento finale nuovo reparto di malattie infettive euro 985.000.

Ulteriori iniziative in avvio o programmazione:

– installazione frangisole e tende finestrature Polo bionaturalistico (circa euro 200.000);

– Indagine strutturale edifici ex Estanco (circa 12.000 euro);

– Azienda Agraria Santa Lucia Oristano: realizzazione capannone per ricovero macchine agricole (importo lavori in fase di stima: circa euro 220.000);

– recupero dell’area ex-Orto botanico di via Muroni, al fine di creare una unica area verde nel complesso del Quadrilatero (importo lavori in fase di stima);

realizzazione parcheggi area Igiene, in accordo con piano particolareggiato P9 del Comune di Sassari (importo lavori in fase di stima: circa 500.000 euro);

– avvio piano per l’adeguamento normativo antincendio degli edifici universitari (importo in fase di stima, ma dell’ordine di alcuni milioni di euro);

– avvio piano per l’abbattimento di barriere architettoniche;

– avvio piano per il contenimento dei costi di gestione e manutenzione degli edifici, passando ad una manutenzione programmata;

– avvio procedure finalizzate al contenimento dei costi delle utenze elettriche, mediante ricorso al mercato dell’energia ed ad una politica di certificazione energetica degli edifici;

– avvio piano delle aree verdi, ludiche e sportive, per realizzare all’interno dei poli universitari zone attrezzate con prati e giardini, al fine di creare campus universitari urbani, con particolare riguardo alla implementazione delle aree verdi dell’Ateneo;

– ulteriori interventi sono previsti  per le esigenze dettate dall’applicazione del Testo Unico in materia di sicurezza dei luoghi di lavoro;

– per il parcheggio del Quadrilatero, si discuterà la attribuzione di tutti i parcheggi. Il Dipartimento di Agraria, in via dell’inizio dei lavori, propone di ottenere la disponibilità dello sterrato di Viale Italia. Altre richieste pervengono dal personale sanitario e dagli studenti.

– predisposizione di un quadro delle operazioni di dismissione del patrimonio. In merito all’Alienazione dei beni immobili e della messa a valore di strutture patrimoniali, a breve partirà il primo lotto di dismissioni, che comprenderà un immobile sito a Sassari, in via Muroni, e l’Azienda Sperimentale La Naciola, sita a Tempio Pausania (OT). Ed inoltre: Via Brigata Sassari, Corso Vittorio Emanuele, Piazza d’Armi, Vicolo Marchetto, eredità Ittiresu di Nulvi, terreni di Torralba, terreni di viale Italia e San Lorenzo di Sassari.

L’Ateneo si è dotato di una struttura organizzativa di Coordinamento delle attività di Comunicazione e di informazione, composta dagli Uffici Comunicazione, Relazioni con il Pubblico (URP) e dalla figura dell’Addetto stampa, inserita nella Segreteria del Rettore.

Attualmente siamo impegnati nello sviluppo del nuovo sito e sistema web di ateneo e nello studio della piattaforma CMS da utilizzare per il nuovo sistema. Inoltre è in fase di avanzata elaborazione un manuale di identità visiva di ateneo, che conterrà un insieme di norme, strumenti ed esempi che servono a uniformare, modernizzare e semplificare la rappresentazione dell’Ateneo in tutti i prodotti di comunicazione creati per l’interno e per l’esterno sui più diversi supporti (dalla carta al video, dal sito web, agli oggetti e agli allestimenti).

Si intende inoltre proseguire nell’attuazione del Progetto e-learning, “Il sistema di e-learning dell’Ateneo di Sassari”, che prevede l’estensione del servizio offerto dalla piattaforma a tutte le attività formative dell’ateneo. Questo attraverso l’organizzazione dell’intera offerta formativa nella piattaforma stessa, alla quale corrisponde la formazione consapevole degli attori in gioco: docenti, ricercatori, personale t.a. e studenti. In accordo con l’ufficio Organizzazione e Formazione, vi è la proposta futura di poter svolgere, attraverso l’uso della piattaforma, anche corsi per esterni a pagamento.

Per i prossimi mesi è in programma, da parte della struttura di Coordinamento delle attività di Comunicazione, la redazione del “Piano di comunicazione”, che  rappresenta uno degli strumenti in grado di coniugare strategie, obiettivi, azioni e strumenti di comunicazione, secondo un disegno organico e razionale.

Cari amici,

il grande storico arabo Ibn Khaldoun osservava nel XIV secolo che solo le tribù capaci di forte senso di appartenenza possono sopravvivere nel deserto. Dopo 450 anni di storia il nostro Ateneo sopravviverà solo se sapremo coltivare un forte senso di appartenenza.  A questo ci siamo dedicati nell’anno delle celebrazioni centenarie, rese possibili grazie ai generosi contributi finanziari che abbiamo ricevuto.

Ora, però, occorre lavorare per affermare il senso etico dell’impegno personale di ciascuno di noi, il che significa distribuire le risorse con criteri condivisi, stabilire indicatori veramente imparziali, fissare obiettivi alti, e poi pesare i risultati. Vogliamo riaffermare in tutte le sedi che il nostro Ateneo ha messo e continuerà a mettere al primo posto il principio di legalità, inteso come impegno per realizzare il bene comune, che è il presupposto necessario per fare università. Su questo versante saremo davvero intransigenti.

Allora, veramente, voglio rivolgermi a ciascuno di voi, ai nostri studenti, ai nostri colleghi, alle nostre famiglie, per formulare i miei auguri.

Auguri a tutti noi, per le prossime Festività e per un vero Natale pieno di serenità e di gioia, per un anno nuovo ricco di cose che contano davvero, di emozioni, di sogni e di speranze.

Auguri e un affettuoso in bocca al lupo ai nostri colleghi che, superato lo sbarramento delle mediane, in questi giorni partecipano al rito iniziatico delle abilitazioni nazionali, con la speranza di un successo personale che sarà anche un successo per tutto l’Ateneo.

Auguri a ciascuno di voi, alla grande famiglia dell’Università, alla città di Sassari ed a tutta la Sardegna. Il nuovo anno sia veramente un anno di svolta, positivo, ricco di salute, speriamo senza una lacrima, con tanti momenti di gioia e di felicità.




Saluto Introduttivo. Roma, Istituto Nazionale di studi romani

Attilio Mastino
SALUTO INTRODUTTIVO
Roma, Istituto Nazionale di studi romani

Lunedì 17 dicembre 2012 ore 17

La prestigiosa ospitalità dell’Istituto Nazionale di studi romani e dell’amico e mastro Paolo Sommella ci conduce oggi a Roma a presentare gli Atti del XIX Convegno internazionale de L’Africa Romana svoltosi a Sassari nel dicembre di due anni fa, pubblicati dall’Editore Carocci a cura dei nostri giovani allievi Maria Bastiana Cocco, Alberto Gavini e Antonio Ibba. Il volume è compreso nella collana del Centro di studi interdisciplinari sulle province romane diretto da Raimondo Zucca e del Dipartimento di storia scienze dell’uomo e della formazione dell’Università di Sassari e tratta il tema delle Trasformazione dei paesaggi del potere nell’Africa settentrionale fino alla fine del mondo antico.

Sono presenti tra gli altri il Direttore generale dell’INP di Tunis con Samir Aounallah e Mustapha Khanoussi.

Sono trascorsi ventinove anni da quando, il 16 dicembre 1983, nella sede della Camera di Commercio si apriva a Sassari il I Convegno de L’Africa Romana, al quale parteciparono un campione degli Studi Africanisti, quale fu Marcel Le Glay, indimenticabile maestro ed amico, e altri nostri cari colleghi, come Hedi Slim con la Signora Latifa, e poi Ammar Mahjoubi, Naidé Ferchiou, Giancarlo Susini e Angela Donati, Giovanna Sotgiu, la giovane e brillante collega Cinzia Vismara, l’allora Ispettore della Soprintendenza Archeologica di Cagliari Raimondo Zucca.

Lasciatemi tornare indietro commosso a quel momento lontano, ripercorrendo per un attimo tante storie e tanti avvenimenti, un pezzo lungo significativo e felice della vita di tanti di noi, un percorso che è stato di studi, di ricerche, ma anche di curiosità e di passioni vere.

Volgendoci indietro, quella di oggi è anche l’occasione per ripercorrere una storia lunga, intensa, stimolante, che ha prodotto risultati scientifici, numerose novità e significativi progressi nelle nostre conoscenze e nei nostri studi e insieme un ulteriore consolidamento di quella che è diventata negli anni una vera e propria rete di collegamento tra antichisti a cavallo tra le due rive del Mediterraneo, un rapporto di collaborazione paritario e stimolante tra studiosi di formazione e di provenienza tanto differenti.

Diverse generazioni di studiosi si sono susseguite con passione civile, fornendo contributi di grande interesse e presentando un’enorme quantità di materiale inedito.

E’ soprattutto grazie ai colleghi provenienti dall’Algeria, dal Marocco, dalla Tunisia e dalla Libia, che i nostri convegni hanno raggiunto nel tempo uno straordinario ampliamento territoriale e geografico, abbracciando la storia del Nord Africa nel suo insieme, al di là della stessa denominazione letterale: l’Africa, intesa non come singola provincia ma vista in alternativa all’Europa ed all’Asia, come una delle tre parti dell’oijkoumevnh romana, con un allargamento di orizzonti e di prospettive che permette di superare – scriveva Azedine Beschaouch – la visione ristretta del Mar Mediterraneo, prevalentemente basata su un asse Nord-Sud e di ricordare quello che fu il bilinguismo ufficiale dell’impero dei Romani. L’Africa può allora diventare una parte essenziale del più ampio bacino mediterraneo, un’area costiera non isolata ma che è in relazione con tutta la profondità del continente, trovando nel Mediterraneo lo spazio di contatto, di cooperazione e se si vuole di integrazione sovrannazionale

Due anni fa eravamo veramente in tanti nell’ Aula Magna della nostra Università Sassarese, ormai alle soglie del suo 450° anniversario, per aprire il XIX Convegno, circondati da uno stuolo di Maestri e Amici del Maghreb innanzitutto, perché l’Africa romana è, in primis, frutto del loro impegno scientifico, inalienabile eredità storica, culturale, morale e di paesaggio.

In quella sede portavamo con noi esperienze e storie differenti, ma insieme convergiamo verso obiettivi alti di collaborazione scientifica ed umana, che intende diventare sintesi di grandi imprese archeologiche condotte a livello internazionale da tante équipes di ricerca europee ed arabe.

Maestri e Amici, inoltre, del Mediterraneo e delle nazioni che rivendicano, anch’esse, nel nome della comune humanitas l’eredità feconda de L’Africa romana. Consentitemi di ricordare alcuni studiosi recentemente scomparsi, come Lidio Gasperini, Géza Alföldy, Antonino Di Vita, Jean-Marie Lassère, Giovanni Lilliu.

L’Africa romana, questo coronimo, nelle parole di Giancarlo Susini, si è poi disvelata in tutta la sua lucente chiarezza come l’Africa-Libye stratificata, dei molti popoli.

L’Africa dei popoli indigeni, gli Afri o Libi, dalle loro parlate arcane conservate, attraverso integrazioni e sovrapposizioni, dalle varie lingue berbere, scritte con il codice scrittorio “libico” su monumenti e stele anche bilingui, libio-puniche o latino-puniche, fin  sull’Atlantico.

Ed ancora l’Africa dei popoli fenici e cartaginesi, interrelati con i popoli indigeni. O l’Africa imperiale come compare in tanti lavori pubblicati negli ultimi anni.

L’Africa romana, dunque, ossia l’Africa in cui Roma assicura una unità linguistica, il latino, che pure fa sopravvivere le parlate indigene e il punico, l’Africa in cui Roma garantisce un sistema amministrativo e un’organizzazione municipale che si struttura sulle salde basi delle città cartaginesi, numidiche, mauritane e non è un caso che questo “paesaggio urbano del potere” rechi l’originaria impronta “libica”, in larga prevalenza, da Utica, ricondotta preferibilmente dagli studi più recenti alla strato toponomastico libico piuttosto che alla tradizionale origine linguistica fenicia, a Lixus, a Thugga, a Tamugadi, alle nostre care città di Uchi Maius e Uchi Minus.

E’ proprio nell’Africa proconsolare, una delle più antiche province repubblicane, che si attua quell’esperienza di coesione interetnica, attraverso lo stanziamento dei veterani, che si inseriscono appieno nel modus vivendi delle genti locali, che è divenuta una delle carte vincenti della politica romana anche in altre aree dell’impero.

Non credo sia esagerato parlare dell’Africa romana come di una palestra politica dove ab initio sono emerse le contraddizioni del potere, tra le tendenze più retrive dell’aristocrazia romana e il progressismo di gruppi come quello che faceva capo a Caio Gracco, che intravedevano nella rinascita di Cartagine e dell’Africa settentrionale un’opportunità di sviluppo, legato a vettori altri che non fossero solo quelli dello sfruttamento latifondistico.

L’Africa romana, ancora, che diviene Africa romano-cristiana, sia nella sua forma politica vandalica, sia nella sua forma bizantina.

E non basta: l’Africa romana come eredità culturale (e come non poteva essere ?) sopravvive nell’Yfrikia, l’Africa islamizzata e arabizzata, che ancora conserva nelle pagine dei suoi cronisti e dei suoi geografi la memoria dell’esperienza classica, le eredità, perfino i nomi delle città antiche, come hanno mostrato gli straordinari studi di Azedine Bechaouch tesi a verificare le trasformazioni fonetiche del poleonimi delle antiche città romano-africane.

Questo volume  ha affrontato una tematica nuova, suggerita nell’ultimo convegno di Olbia dall’unanimità del comitato scientifico: “Trasformazione dei paesaggi del potere nell’Africa settentrionale fino alla fine del mondo antico”.

Dalla ricchissima serie di interventi è possibile cogliere le più ampie declinazioni del tema delle “trasformazioni dei paesaggi del potere”, con riferimenti da un lato alla progettualità di un potere che ha necessità di uno spazio di autorappresentazione, in grado di intercettare il consenso e dall’altro alla concretezza monumentale e al suo legame con il territorio come frutto di scontri, integrazioni, transizioni e dinamiche insediative.

Quattro anni fa ad Olbia eravamo partiti dall’immagine dei costruttori di Cartagine, sulla Byrsa, gli architetti della regina Didone che Virgilio rappresenta affaccendati ed impegnati nella costruzione della colonia fenicia, con le sue mura, con le sue torri, con i suoi templi. Nel fervore degli structores Tyrii della Carthago di Didone Enea vede, con gli occhi di Virgilio, il solco dell’aratro che segna il limite sacro di una colonia, rinnovando il dolore e la speranza che anima coloro i quali costruiscono una nuova città, in contrasto con la visione della sua originaria patria- Ilio- distrutta dalle fiamme. Non c’è dubbio che Virgilio rifletta nel racconto della Cartagine nascente l’esperienza urbanologica della colonia di età augustea, con il theatrum dalle immanes columnae della frons scaenae tratte dalle cave in cui maestranze addestrate lavorano indefessamente a trarre il materiale lapideo della nuova città. O ancora con le portae delle mura e gli strata viarum, le viae urbane silice stratae.

Avevamo allora scelto per introdurre il nostro incontro i versi virgiliani che esaltano l’attività degli uomini di buona volontà, anche se pure gli dei e le dee sono considerati a tutti gli effetti coinvolti in uno studium ed in un’ars che nobilita chi la pratica.

Per la copertina di questo volume abbiamo scelto invece l’immagine del praetorium che si eleva minaccioso sulle rovine di Lambaesis, nel campo della legio III Augusta, vero strumento di occupazione romana nel cuore del territorio africano, al piede del Mons Aurasius nell’attuale Algeria: dunque un altro aspetto che è inserito appieno nell’esperienza politico-militare romana: le opere militari come monito tangibile dell’obbedienza, spesso coatta, al potere centrale.

Non c’è dubbio che gli aspetti immateriali dei paesaggi del potere, quali la diffusione ideologica del culto del sovrano, le voci del consenso al collegio degli shofetìm di Cartagine, al Senato di Cartagine, al Senato e alla Res publica, al Princeps, all’imperatore dominus et deus, agli attori gerarchizzati nella pyramide des responsabilités nelle città, sono da noi percepibili attraverso i testi letterari e soprattutto le epigrafi, ma anche attraverso la “veicolazione” dell’imago del princeps nelle monete e nei ritratti.

Vi è però un aspetto più concreto dei “paesaggi del potere”, costituito dal mosaico dei siti archeologici inseriti nel loro contesto ambientale. Tali siti principalmente urbani, ma anche rurali costituiscono la cifra percepibile de l’Africa Romana, tra strutturazione e destrutturazione dei paesaggi.

Forse oggi è necessario proporre una chiave di lettura ancora più a distanza, legata alla politica dei Ministeri della Cultura dei paesi del Maghreb dopo le primavere arabe, richiamando le responsabilità nuove che tutti debbono assumere di fronte alla tutela del patrimonio e il tema delle trasformazioni, che non riguardano solo processi antichi, ma anche richiamano ritardi e incapacità, insomma le dinamiche dei nostri giorni. Penserei per un attimo in Italia all’attualità dei crolli di Pompei ed all’inerzia incosciente di tanti responsabili, come pure all’erosione che compromette pericolosamente il sito di Nora. Ma tanto c’è da fare in molti luoghi del Maghreb, da Lambaesis a Cuicul, da Volubilis a Gightis.

Voglio ricordare in questa sede sia la Convenzione sulla tutela del patrimonio mondiale, culturale e naturale (Parigi, 16 novembre 1972) sia la Convenzione europea del Paesaggio (Firenze 20 Ottobre 2000).  Quest’ultima riconosce, all’articolo 1, come “Paesaggio” una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni. I paesaggi del potere sono i paesaggi infrastrutturati e i paesaggi naturali, eredi delle sistemazioni agrarie o, in generale, economiche del territorio africano.

Essi sono, innanzitutto un patrimonio culturale, ossia la fusione dei Beni Culturali e dei Beni Paesaggistici, delle comunità nazionali del Maghreb. Ma sono anche Patrimonio dell’Umanità, sia nei numerosi casi africani di questi “paesaggi del potere” antichi nella World Heritage List, dai siti archeologici libici di Cirene, Lepcis Magna, Sabratha e Ghadames a Volubilis in Marocco, passando per la Tunisia (Amphitheatre of El Jem; Archaeological Site of Carthage; Punic Town of Kerkuane and its Necropolis; Dougga / Thugga) e l’Algeria (Djémila; Timgad; Tipasa ed i Tassili), sia nei casi ancora più numerosi per i quali non si abbia ancora l’inserimento nella Lista del Patrimonio dell’umanità.

Questi paesaggi sono patrimonio identitario dei popoli del Maghreb ma appartengono intrinsecamente alla nostra identità mediterranea.

Noi tutti abbiamo creduto che la nostra azione non potesse esaurirsi nell’attività di ricerca e di trasmissione di conoscenza: in questi anni abbiamo tentato di cooperare, con i nostri studenti, fianco a fianco con gli studenti e gli archeologi del Maghreb, in Tunisia e in Marocco. Lasciatemi per un momento ripercorrere con orgoglio il cammino degli studenti e dei ricercatori delle Università di Cagliari e di Sassari negli ultimi tempi: dalla favolosa città atlantica di Lixus, sede mitica di un paesaggio del potere se Plinio vi ricorda la tradizione della regia Anthei, il palazzo regale del gigante stritolato da Herakles, alle città dell’Africa Proconsolare Uchi Maius al di là della Fossa Regia nel regno di Numidia, Utica, Numluli, Zama Regia ed ora Neapolis, sul Capo Bon, dove operiamo, in base ad un accordo con l’INP, per una ricerca su un “paesaggio del potere economico”, il Neapolitanus Portus, documentato dalle ricerche di Archeologia terrestre e subacquea di Mounir Fantar, Ouefa Ben Slimane, Ihmed Ben Gerbania accanto alla nostra équipe della scuola di Specializzazione in Archeologia Subacquea e dei paesaggi costieri della Sede di Oristano del Consorzio UNO.

Molti di noi insomma insieme ai nostri carissimi amici e colleghi del Maghreb hanno tentato di fornire il loro modesto contributo per la conoscenza, ma anche per la conservazione, valorizzazione e fruizione di questi paesaggi africani, che tanto amiamo, al pari di quelli del nostro paese.

Per questo prendiamo  l’impegno di una più profonda proposta di diffusione della conoscenza del paesaggio culturale africano, anche con la elaborazione a fianco dei nostri colleghi dell’INSAP, diretto dal carissimo amico Aomar Akherraz, e dei Musei locali, insieme alle Regioni di Sardegna, Lombardia e Calabria, del portale web dei Beni culturali del Marocco.

Ci proponiamo di far proseguire la nostra collaborazione anche con i colleghi della Tunisia a partire proprio dai paesaggi culturali del Capo Bon.

La strada che si è imboccata, noi insieme, Maghrebini ed Europei, ci porterà a restituire con i mezzi ipermediali i paesaggi ricostruiti delle città e delle campagne dell’Africa antica, ancora una volta i “paesaggi del potere” dei sovrani, della Res publica, dell’homo oeconomicus, degli dèi e del dio unico, che è kyrios, signore, tra urbanistica ed ideologia.

Vorremmo allora restituire, riportare alla luce almeno virtualmente, ad esempio il forum della città di Uchi Maius alla quale abbiamo dedicato Mustapha Khanoussi ed io, insieme ai nostri colleghi ed allievi, energie per quasi un ventennio, ritrovando le scritture antiche di un mondo animato da un’aristocrazia cittadina vivace ed aperta.

E poi riportarvi ai tanti altri luoghi straordinari che in questi decenni sono stati oggetto dell’attenzione di tanti altri archeologi, epigrafisti, studiosi di tanti paesi, tra Libia, Tunisia, Algeria e Marocco, con indagini che hanno spesso prodigiosamente restituito frammenti del paesaggio antico, fortificazioni, santuari, edifici pubblici, edifici di spettacolo, archi, strade tra città e campagna, che in qualche modo conservano il sapore di un tempo lontano che rimane parte di noi uomini d’oggi.

Dal nostro osservatorio, constatiamo che nonostante le preoccupazioni possono moltiplicarsi ora le grandi imprese di collaborazione internazionale.

Questo volume vuole restituire l’ unità della conoscenza, sbriciolata in mille rivoli dalle pratiche accademiche, quasi che s’assaporasse la condanna divina della confusione delle lingue di babelica memoria.

Qui è restituita la lingua delle origini, che parlano all’unisono storici, archeologi, epigrafisti, numismatici, giuristi e scienziati delle scienze esatte che combinano i loro saperi a quelli umanistici, tutti provenienti da tanti paesi.

Da questa polifonia è restituita la lingua delle origini prima di Babele che parlarono gli uomini prima che i fratres in humanitas fossero separati dall’ ignorantia, dall’incapacità di ascolto della parola, unica, di tutti gli uomini.

Osservando la massa di comunicazioni delle quattro sessioni, i 50 posters, le 10 presentazioni di libri, possiamo dirci veramente soddisfatti, per le 174 comunicazioni voglio esprimere la mia ammirazione per le imprese scientifiche internazionali in corso che si sono riflesse nelle relazioni scritte. L’archeologia e cambiata davvero e noi abbiamo assicurato solo una funzione di coordinamento e di servizio e vi siamo grati per la fiducia che avete riposto in noi.

Hanno preso parte ai nostri lavori 256 studiosi, provenienti da  14 paesi, dagli Stati Uniti e dal Canada, dall’Argentina e dal Giappone; dalla Finlandia al Marocco, dalla Algeria, dalla Tunisia; dal Regno Unito, dalla Spagna, dalla Francia, dalla Germania, dalla Svizzera, da Gerusalemme. Sono state rappresentate oltre 60 università, di cui oltre 20 università italiane. E poi i rappresentanti degli Enti di tutela, delle Soprintendenze statali e comunali, degli Istituti per il Patrimonio, del mondo dell’associazionismo e della stampa.

Chiudendo i nostri lavori abbiamo accolto  tre appelli che condividiamo, tre frontiere vecchie e nuove per i nostri studi: la realizzazione di un grande Parco di Tuvixeddu a Cagliari e l’appello per la messa in rete di archivi sulle esplorazioni archeologiche che precedano l’indipendenza dei paesi del Maghreb e non solo, magari che si estendano anche alle grandi imprese internazionali che hanno riguardato il Nord Africa.  Infine un documento sulle linee della riforma delle Università italiane, una riforma che avremmo voluto più generosa e meno punitiva.

Da qui, da Roma, partiremo tra un anno verso la riva Sud del Mediterraneo, a Sousse, un luogo che sarà certamente accogliente ed ospitale, per celebrare con una festa il XX convegno ed anche il trentennale dei nostri incontri, occasione per i vota vicennalia.. L’appuntamento fissato dal Comitato scientifico è all’autunno 2013 per discutere di “Momenti di continuità e rottura: bilancio di 30 anni di convegni de L’Africa Romana”, con sessioni tematiche specifiche.

Cari amici,

domattina a Roma, nella sala della Protomoteca in Campidoglio a ridosso del tabularium, ricorderò l’anniversario del 1800 anni dall’emanazione dell’editto di un imperatore africano, Marco Aurelio Antonino Bassiano Caracalla, con il quale la cittadinanza romana veniva estesa a tutti gli abitanti dell’impero. Grazie a quel lontano provvedimento, scriveva Prudenzio, si va creando una stirpe sola di sangue misto, da popoli che si incrociano, nam sanguine mixto/Texitur alternis ex gentibus una propago.

La Constitutio Antoniniana fu la risposta che uno degli imperatori africani ritenne di dover dare alle istanze dei provinciali, cioè dei gruppi che lo avevano portato al potere, un primo importante passo verso l’eguaglianza nei diritti e nei doveri che costituisce il nucleo di ogni cittadinanza antica e moderna. Un modello insuperato anche per noi uomini d’oggi.