Il contributo di Antonio Pigliaru alla cultura sarda.

Il contributo di Antonio Pigliaru alla cultura sarda
ISRE, Sassari Teatro civico, 16 maggio 2019
di Attilio Mastino

Ho conosciuto il pensiero di Antonio Pigliaru soprattutto attraverso molti suoi ammiratori e collaboratori, Alberto Boscolo, Manlio Brigaglia, Marcello Lelli, Alberto Merler, Gabriella Mondardini, Marina Saba e la moglie Rina Fancellu (1925-2014), mia collega di Istituzioni di diritto pubblico e legislazione scolastica presso la Facoltà di Magistero; anche attraverso i figli Giovanni, Francesco e Amelia[1]. Pochi mesi prima della sua morte (18 luglio 2014), Rina mi aveva donato l’intera serie della Rivista bimestrale di letteratura, arte, tecnica, economia ed attualità  “Ichnusa”, uscita tra il 1949 ed il 1964, che ho sfogliato in questi giorni, riscoprendo consonanze e anticipazioni, linee interpretative della cultura sarda poi arrivate a maturità con gli allievi di Antonio Pigliaru: una rivista che sceglieva già con il titolo un livello “alto”, richiamando le luci e le ombre, i misteri presenti già nell’immaginario collettivo dei Greci antichi; una rivista che non voleva essere “di parte”, “unilaterale”,  ma uno strumento vivo, capace di “recare totale testimonianza sulla Sardegna”, dare insomma “una concreta misura della cultura sarda”, in grado di indicare una prospettiva interpretativa di “tutti i termini costitutivi della realtà e della “questione sarda” “”: una rivista “aperta” ma rigorosa, sede di dibattito libero da condizionamenti, pluralista, indirizzata in particolare agli “intellettuali” (nel senso della parola assunto da Giovanni Lilliu, “tutti coloro che hanno intelletto in Sardegna”, interpretando con più modernità Antonio Gramsci), “senza distinzioni di sorta, nella speranza fattiva di poter così esprimere un movimento intellettuale unitario, perché rivolto ad un impegno comune: quello dell’inserimento attivo e critico della cultura nel quadro del complesso della vita regionale”.

Ricordando i suoi studi al Canopoleno[2], la sua laurea in Giurisprudenza, il suo insegnamento di Filosofia del diritto, l’ordinariato in Dottrina dello Stato, d’accordo coi suoi allievi negli ultimi anni del mio Rettorato avevamo collocato l’immagine giovanile di Antonio Pigliaru (scomparso a Sassari il 27 marzo 1969) sul banner collocato nel marzo 2012 per i 450 anni dell’Università  davanti al nuovo  Dipartimento di Giurisprudenza che si affaccia sui Giardini Pubblici in viale Mancini (accanto al premio Nobel Daniel Bovet, Carlo Gastaldi, Giovanni Manunta, Antonio Milella, Lorenzo Mossa, Paolo Sylos Labini, Marco Tangheroni, Achille Terracciano): qui opera la bella Biblioteca di Scienze Sociali Antonio Pigliaru[3].

Proprio il 18 luglio 2014, nella giornata dei funerali della nostra cara Rina Pigliaru, avevamo presentato il libro edito da Maestrale su Antonio Simon Mossa[4], ripensando per un momento al ruolo avuto da Antonio Pigliaru nella travagliata preparazione del lungometraggio di Fiorenzo Serra (L’ultimo pugno di terra) restaurato per iniziativa dell’Assessorato Regionale alla P.I., della Fondazione Banco di Sardegna, della Cineteca sarda e della Società Umanitaria. Con la consulenza del Laboratorio di Antropologia Visuale del Dipartimento di storia scienze dell’uomo e della formazione del nostro Ateneo, che nel nome ricorda la figura di Fiorenzo Serra, dopo la convenzione con la Fondazione umanitaria voluta dall’Assessore Sergio Milia[5].

In quella sede avevamo scritto: “Il filosofo del diritto Antonio Pigliaru ispiratore di un’intera generazione di giovani intellettuali isolani, nel 1949 tra i fondatori di “Ichnusa”, portava con se il sapore fresco di una sardità profonda, radicata sulle sue origini orunesi e sulla sua Barbagia. Temi che nel lungometraggio di Fiorenzo Serra esplodono nelle bellissime scene della transumanza delle greggi di pecore da Fonni verso la Nurra, nella rappresentazione della vita dei pastori fatta di solitudine e di sofferenza, ma anche di scoperte quotidiane come l’emozionante nascita di un agnello che perde la placenta, accolto dal gregge quando ancora non riesce a reggersi sulle zampe, collocato con altri agnelli nella tasca di una bisaccia – sa bertula – sotto la pioggia. Il nuraghe massiccio della prima scena testimonia le origini preistoriche della pastorizia sarda che continuava a vivere in uno spazio dove il tempo si misurava in altro modo e mi porta immediatamente alla mente quella scena che ho vissuto a Tamuli di Macomer, quando Giovanni Lilliu riuscì ad evocare per noi studenti di Studi Sardi quasi per incanto un mondo antico, una dimensione parallela perduta, indicandoci la figura di un pastore che improvvisamente era apparso dal nulla, del tutto simile ad un personaggio dei tempi eroici protosardi: una figura, quella del pastore, che Lilliu osservava con grande simpatia e rispetto, perché era il testimone finale di una sapienza antica. Del resto già Diodoro Siculo nell’età di Augusto pensava ai pastori sardi per il mito discendenti dai 50 figli di Eracle come a campioni di libertà. Ma in questo film c’è anche l’eco del volume di Pigliaru del 1959 La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, con il corpo del pastore ucciso nelle campagne di Sedilo, vestito d’orbace, con il portafoglio vuoto, le mosche che si accaniscono sul viso, il trasporto della salma dall’ovile, il funerale, la fossa per la bara nera, s’attittidu e il silenzio dei parenti e insieme il pianto della vedova che invita alla vendetta. Così c’è Pigliaru nell’intervista quasi televisiva al pastore che racconta che i sardi che non sanno rubare sono destinati a restare miserabili, ad essere disprezzati, a non essere amati in famiglia. Ci sono gli animali che vivono con gli uomini, certo le pecore transumanti per tratturi millenari, ma anche gli asini, i cavalli, i buoi, i cani, perfino le volpi temute tanto che non se ne riesce a pronunciare il nome. Ritorna forte l’impressione del racconto drammatico contenuto nel volume Antiles di Mario Medde: Antiles sono gli stipiti in basalto, gli architravi, le porte che occorre varcare e che immettono ad un territorio, ma anche ad una cultura, ad un ambiente sociale, ad un momento della nostra vita, che conserva intatto il sapore della vita vera, il senso delle cose che ci colpiscono, il profumo della casa che continuiamo ad amare anche quando ne siamo stati sradicati. Medde racconta la morte del nonno paterno, colpito da una roncolata inferta da un altro pastore, lungo un sentiero di Norbello negli anni 50: scrive commosso che per anni le pietre insanguinate sul punto dove cadde il nonno restarono così disposte e macchiate, mute testimoni di un delitto orrendo, di una violenza gratuita, di un abuso non più comprensibile. E trenta anni prima, durante la primavera insanguinata del 1922, attraverso i drammatici racconti della madre, gli ritorna come se l’avesse vista con i propri occhi l’immagine dei mozziconi delle orecchie delle pecore rubate e mutilate, recisi e abbandonati lungo Sa Bia de Cotzula, a Sas Benas verso Domus. Segni della proprietà del bestiame recisi con la mutilazione delle pecore. Segni che proiettano nella memoria quasi in un film la corsa disperata della nonna materna incinta di 7 mesi verso la chiesa della Madonna delle Grazie ad Orracu, per ritrovare alla fine sconvolta il corpo insanguinato del compagno ucciso su questo caminu de sa fura che conduceva ad Otzana e ai monti della Barbagia, dove transitava il bestiame rubato nella valle. Un’ingiustizia, l’uccisione di un testimone scomodo, che i pastori specialisti de s’arrastu, alla ricerca delle orme degli abigeatari, non avrebbero saputo vendicare”.

 

Antonio Pigliaru è stato il più interessante e certo anche il più importante intellettuale sardo del Novecento. Della sua multiforme attività non soltanto di pensatore e di studioso ma anche e soprattutto di infaticabile organizzatore di cultura l’Università è stato uno dei “luoghi” centrali. La sua carriera accademica si è svolta quasi per intero, nei non molti anni di vita che il destino gli ha riservato, nell’Università di Sassari: tra l’inizio degli anni cinquanta e la fine dei sessanta, vi è stato prima assistente, quindi docente incaricato, infine Professore Ordinario di Dottrina dello Stato. Di quella stagione restano a testimonianza non soltanto i numerosi scritti, primo fra i quali il citato libro giustamente famoso su “La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico”, ma anche il suo intenso lavoro didattico. Il rapporto fra Pigliaru e i suoi studenti è uno dei momenti più alti della sua interpretazione del ruolo dell’intellettuale nella Sardegna del secondo dopoguerra, in un momento epocale della storia dell’Isola, fra la conquista dello Statuto di autonomia regionale e l’ondata “rivoluzionaria” del movimento del sessantotto. La sua ultima lezione nel marzo del 1969, tenuta poche ore prima della sua improvvisa scomparsa e drammatizzata da un confronto aspro e insieme profondo con le ragioni dei suoi allievi, è quasi metafora di un’intera esistenza in cui neppure una lunga, grave malattia poté allentare la tensione pedagogica di un uomo che aveva messo il proprio sapere e la sua stessa capacità di resistenza alle fatiche della vita a servizio della sua passione democratica.

Pigliaru ha vissuto la propria esperienza di intellettuale in modo eroico: non soltanto per il rifiuto, tutto barbaricino, di arrendersi a s’apprettu, alla pressione degli eventi personali e della stessa “storia grande e terribile” che si svolgeva in quegli anni in Sardegna non meno che in tante altre parti del mondo, ma soprattutto per la coerenza a un ideale della “missione dei clerici” che fu suo in un’età in cui tanti altri intellettuali vissero la cultura come impegno (ma tanti altri tradirono).

Nella battaglia culturale di Pigliaru e dei suoi amici si può leggere in filigrana l’immagine e l’interpretazione di un modello per il quale non è difficile richiamare il nome di Gramsci. Nucleo motore del suo lavoro fu proprio quello sforzo di “sprovincializzare la provincia” cui è intitolato il suo primo scritto per la rivista “Ichnusa”, prestigioso luogo di dibattito e di confronto, da lui diretta come direttore responsabile fra il 1949 e il 1964 (poi da Manlio Brigaglia, Giuseppe Melis Bassu e Salvatore Mannuzzu tra il 1982 e il 1993): il progetto lungamente perseguito fu il tentativo di portare il mondo stesso degli intellettuali sardi (ma non solo a loro era rivolta la sua attenzione, sì bene a quel più largo e animato soggetto che in quegli anni veniva sulla scena sociale evocato con il nome di “popolo sardo”) fuori da un destino di triplice, quadruplice provincialismo e utilizzare energie di quella Sardegna nuova per radicare nella cultura politica dei sardi la coscienza dell’autonomia come fondamento di un’idea e di una pratica moderna della democrazia su cui articolare e rinnovare il rivendicazionismo regionale, partenda  dall’insegnamento letterario anche in ambito umanistico (la nascita della Facoltà di Magistero).

Lo slogan che chiedeva, sulle pagine di “Ichnusa” ma anche in fronte di molti suoi scritti scientifici, una cultura moderna e autonomista – intendendo il binomio come la dotazione inscindibile necessaria per mettere la Sardegna sulla via europea del progresso – è la parola d’ordine di tanta parte della sua attività di studioso e di animatore di un dibattito a più voci, in cui il confronto aveva sempre una sua interna forza dialettica capace di allargare l’area della cultura isolana a territori sempre nuovi della realtà regionale. Il ricordo di lui, così legato a quella che sembrava l’esaltante stagione della Rinascita, dura per questo ben oltre i limiti di quel tempo e di quella esperienza che fu comune a tanti intellettuali sardi: la sua lezione di vita e di pensiero resta ancora viva, ad insegnare anche alle generazioni più giovani e ad animarle nel cammino.

Nell’Editoriale di “Ichnusa” n. 15 che chiude il 1956, primo anno della ripresa[6],  non firmato ma scritto come quasi tutti gli altri dal direttore responsabile Antonio Pigliaru e non dal Direttore della rivista Salvatore Piras[7], mi hanno colpito alcune sottolineature progressiste, democratiche, pluraliste, con una evidente vitalità inquadrata nelle linee programmatiche definite nel fascicolo 10 della rivista: si  desidera mobilitare gli intellettuali (pur con le amarezze che qua e là ritornano sulle difficoltà ad essere ascoltati davvero), indirizzandoli verso una sorta di pubblico esame di coscienza;  si discutevano le questioni organizzative (la puntualità nelle pubblicazioni, l’incremento della rosa dei collaboratori, il convinto riconoscimento come adeguato strumento di lavoro e una adeguta sede di dibattito politico e culturale),  ma si ha netta l’impressione della vitalità del gruppo dei redattori, la dimensione nazionale, il carattere politicamente aperto dal marxismo all’idealismo, al cattolicesimo, perché  <<anche ad uomini di diversa provenienza politica e di diversa formazione intellettuale>> è stato e sarà <<possibile vivere una esperienza comune, impegnarsi in una azione comune senza per ciò esser costretti a rinunciare a se stessi, alle proprie ragioni, alle ragioni della propria cultura>>.  Da un punto di vista programmatico, “Ichnusa” <<o sarà così (molteplicità di prospettive per un dibattito organico e molteplicità di temi per una conoscenza concreta della Sardegna stessa) o non potrà mai essere quella rivista significativa che vuol essere: una rivista aperta a tutti gli interessi che il suo tema (la questione sarda) le impone di affrontare e a tutte le voci che la cultura sarda riesce ad esprimere e a liberare>>. La rivista ha lavorato per sviluppare il dialogo attraverso la molteplicità delle voci, per <<creare condizioni favorevoli allo sviluppo, all’ulteriore sviluppo del dialogo tra voci diverse intorno ai problemi comuni>>; temi urgenti a livello nazionale ma particolarmente pressanti in Sardegna, per combattere il triste silenzio di sempre, per coinvolgere il mondo della cultura nel dibattito “politico” sul Mezzogiorno e sullo specifico della realtà sarda e delle zone interne, per avviare la Rinascita (il Piano di Rinascita è dell’11 giugno 1962 ma su “Ichnusa il primo articolo di Pigliaru sulla Rinascita è di sette anni prima sul numero IV,10): in piena sintonia con Antonio Pigliaru (spesso inascoltato), Giovanni Lilliu avrebbe parlato in seguito di fallimento dell’autonomia e di Rinascita abortita.

E poi occorreva rileggere con occhi nuovi, con originalità e compassione per i sardi l’eredità di Antonio Gramsci; ma sempre con la voglia di superare la tentazione e il rischio dell’eclettismo, la frantumazione, i limiti oggettivi dell’esperienza, evidenziati con una spietata autocritica: l’eterogeneità dei temi, dalla letteratura, alla cultura, alla sociologia, all’economia, alla tecnica;  occorre sempre andare alla ricerca di ciò che accomuna i redattori  perché la molteplicità di interessi ruota attorno ad un tema centrale, <<la Sardegna, la sua realtà quotidiana, tutta la sua vita>>,  rivalutando il momento originariamente ed oggettivamente unitario, che può far scandalo, ma oportet ut scandala eveniant (Luca, 18,7).   E’ davvero strabiliante che tali concetti siano stato nitidamente formulati in piena guerra fredda, con l’atomica francese all’indomani dell’indipedenza della Tunisia e del Marocco graziosamente concessa dalla Francia coloniale (tema che torna negli scritti di Tito Orrù di quegli anni), della nazionalizzazione del canale di Suez, della seconda guerra arabo-israeliana, dell’insurrezione antisovietica in Ungheria e degli imbarazzi di Togliatti e dei comunisti italiani, della liberazione del cardinale polacco Stefan Wyszyński.  dell’uccisione del dittatore del Nicaragua Anastasio Somoza García, dello sbarco di Fidel Castro a Cuba; siamo a sei anni dalla nascita della Cassa per il Mezzogiorno – un gesto lungimirante e aperto della classe dirigente e del Governo De Gasperi – e pienamente nel secondo tempo dell’autonomia regionale, un evento che riempie ora ogni pagina della rivista.

Pigliaru in quei pochi anni leggeva, commentava, si occupava di moltissimi temi: il banditismo sardo, il problema della mediazione culturale in Sardegna, l’edilizia scolastica e il rapporto con la piena occupazione;  anche con spunti polemici (16, p. 39; 18, p. 51; 19, p. 63), con repertori bibliografici (penso alla bibliografia sull’emigrazione italiana), con note e recensioni; vd. ad es. la recensione alla riedizione dei Canti barbaricini di Sebastiano Satta, e poi Remo Branca (la prima edizione del 1956 di Sardegna segreta),  Maria Giacobbe (la prima edizione del Diario di una maestrina è del 1957, con le osservazioni di Aldo Capitini sul numero 24 di “Ichnusa”, pp. 41-43).  Forse i risulti non furono pari alle attese e forse esagerava Manlio Brigaglia a dire che la Sardegna usciva finalmente dal suo lungo Medioevo, mentre criticamente Simonetta Sanna avrebbe osservato che si verificò una resa acritica agli aspetti deteriori di una modernità a rischio. Del resto già lo stesso Antonio Pigliaru su Ichnusa e Renzo Laconi avevano paventato l’ipoteca dell’industrializzazione petrolchimica sullo sviluppo dell’isola.

Arrivato a Sassari qualche anno dopo la sua morte, ho letto nelle attività dei tanti allievi, ammiratori, collaboratori di Antonio Pigliaru[8], nei racconti di sua moglie Rina, nei suoi scritti il sapore  di un magistero rigoroso e severo e insieme la lezione dolce e amara di un grande intellettuale sardo, che riesce ancora oggi a convincere, a stimolare passioni ed a suggerire motivazioni nuove: in quest’occasione a Nuoro e Orune ho ritrovato persone e temi che veramente entrano in profondità nel dibattito sulla Sardegna di oggi e di domani.[9]


[1] A. Mastino, La scomparsa di Caterina Fancellu vedova di Antonio Pigliaru, in Quei nostri cinque magnifici anni (2009-2014), Supplemento (giugno-ottobre 2014), Carlo Delfino Editore, Sassari 2014, pp. 25-26.

[2] Id., Presentazione, in M. Derudas, Il Convitto nazionale Canopoleno di Sassari. Una finestra aperta su quattrocento anni di storia, Carlo Delfino Editore, Sassari 2018, pp. 7-11.

[3] Id., L’Università di Sassari tra passato e futuro, in  Quei nostri cinque magnifici anni (2009-2014), Carocci Roma 2014, p. 341; vd. anche Università degli studi di Sassari : 450 anni di storia anno accademico 2011-2012, Comitato organizzatore per le celebrazioni del 450. anniversario di fondazione dell’Università degli studi di Sassari, Sassari 2013.

[4] Id., Antonio Simon Mossa, “poeta della nazionalità” e “padre dell’autonomia” nel giudizio di Giovanni Lilliu, in Antonio Simon Mossa a Nuoro. L’architettura, il cinema, la politica, a cura di Antonello Nasone, ISRE, Nuoro 2018, pp. 19-32.

[5] Id., Fiorenzo Serra e la Sardegna degli anni 50, in Altri cinque magnifici anni (2014-2019), Sassari 2020, pp. 209-214.

[6] Pp. 5-10.

[7] Ibid., p. 92.

[8] Cito almeno S. Tola, Gli anni di “Ichnusa”. La rivista di Antonio Pigliaru nella Sardegna della rinascita, Sassari 1994.

[9] Vd. A. Mastino, Prefazione, in Il soldino dell’anima. Antonio Pigliaru interroga Antonio Gramsci, a cura del Comitato Archivio Antonio Pigliaru Terra Gramsci, CUEC, Cagliari 2010, pp. 9-10.

Il contributo di Antonio Pigliaru alla cultura sarda

ISRE, Sassari Teatro civico, 16 maggio 2019

di Attilio Mastino

Ho conosciuto il pensiero di Antonio Pigliaru soprattutto attraverso molti suoi ammiratori e collaboratori, Alberto Boscolo, Manlio Brigaglia, Marcello Lelli, Alberto Merler, Gabriella Mondardini, Marina Saba e la moglie Rina Fancellu (1925-2014), mia collega di Istituzioni di diritto pubblico e legislazione scolastica presso la Facoltà di Magistero; anche attraverso i figli Giovanni, Francesco e Amelia[1]. Pochi mesi prima della sua morte (18 luglio 2014), Rina mi aveva donato l’intera serie della Rivista bimestrale di letteratura, arte, tecnica, economia ed attualità “Ichnusa”, uscita tra il 1949 ed il 1964, che ho sfogliato in questi giorni, riscoprendo consonanze e anticipazioni, linee interpretative della cultura sarda poi arrivate a maturità con gli allievi di Antonio Pigliaru: una rivista che sceglieva già con il titolo un livello “alto”, richiamando le luci e le ombre, i misteri presenti già nell’immaginario collettivo dei Greci antichi; una rivista che non voleva essere <<di parte>>, <<unilaterale>>, ma uno strumento vivo, capace di <<recare totale testimonianza sulla Sardegna>>, dare insomma <<una concreta misura della cultura sarda>>, in grado di indicare una prospettiva interpretativa di <<tutti i termini costitutivi della realtà e della “questione sarda”>>: una rivista “aperta” ma rigorosa, sede di dibattito libero da condizionamenti, pluralista, indirizzata in particolare agli “intellettuali” (nel senso della parola assunto da Giovanni Lilliu, “tutti coloro che hanno intelletto in Sardegna”, interpretando con più modernità Antonio Gramsci), <<senza distinzioni di sorta, nella speranza fattiva di poter così esprimere un movimento intellettuale unitario, perché rivolto ad un impegno comune: quello dell’inserimento attivo e critico della cultura nel quadro del complesso della vita regionale>>.

Ricordando i suoi studi al Canopoleno[2], la sua laurea in Giurisprudenza, il suo insegnamento di Filosofia del diritto, l’ordinariato in Dottrina dello Stato, d’accordo coi suoi allievi negli ultimi anni del mio Rettorato avevamo collocato l’immagine giovanile di Antonio Pigliaru (scomparso a Sassari il 27 marzo 1969) sul banner collocato nel marzo 2012 per i 450 anni dell’Università davanti al nuovo Dipartimento di Giurisprudenza che si affaccia sui Giardini Pubblici in viale Mancini (accanto al premio Nobel Daniel Bovet, Carlo Gastaldi, Giovanni Manunta, Antonio Milella, Lorenzo Mossa, Paolo Sylos Labini, Marco Tangheroni, Achille Terracciano): qui opera la bella Biblioteca di Scienze Sociali Antonio Pigliaru[3].

Proprio il 18 luglio 2014, nella giornata dei funerali della nostra cara Rina Pigliaru, avevamo presentato il libro edito da Maestrale su Antonio Simon Mossa[4], ripensando per un momento al ruolo avuto da Antonio Pigliaru nella travagliata preparazione del lungometraggio di Fiorenzo Serra (L’ultimo pugno di terra) restaurato per iniziativa dell’Assessorato Regionale alla P.I., della Fondazione Banco di Sardegna, della Cineteca sarda e della Società Umanitaria. Con la consulenza del Laboratorio di Antropologia Visuale del Dipartimento di storia scienze dell’uomo e della formazione del nostro Ateneo, che nel nome ricorda la figura di Fiorenzo Serra, dopo la convenzione con la Fondazione umanitaria voluta dall’Assessore Sergio Milia[5].

In quella sede avevamo scritto: <<Il filosofo del diritto Antonio Pigliaru ispiratore di un’intera generazione di giovani intellettuali isolani, nel 1949 tra i fondatori di “Ichnusa”, portava con se il sapore fresco di una sardità profonda, radicata sulle sue origini orunesi e sulla sua Barbagia. Temi che nel lungometraggio di Fiorenzo Serra esplodono nelle bellissime scene della transumanza delle greggi di pecore da Fonni verso la Nurra, nella rappresentazione della vita dei pastori fatta di solitudine e di sofferenza, ma anche di scoperte quotidiane come l’emozionante nascita di un agnello che perde la placenta, accolto dal gregge quando ancora non riesce a reggersi sulle zampe, collocato con altri agnelli nella tasca di una bisaccia – sa bertula – sotto la pioggia. Il nuraghe massiccio della prima scena testimonia le origini preistoriche della pastorizia sarda che continuava a vivere in uno spazio dove il tempo si misurava in altro modo e mi porta immediatamente alla mente quella scena che ho vissuto a Tamuli di Macomer, quando Giovanni Lilliu riuscì ad evocare per noi studenti di Studi Sardi quasi per incanto un mondo antico, una dimensione parallela perduta, indicandoci la figura di un pastore che improvvisamente era apparso dal nulla, del tutto simile ad un personaggio dei tempi eroici protosardi: una figura, quella del pastore, che Lilliu osservava con grande simpatia e rispetto, perché era il testimone finale di una sapienza antica. Del resto già Diodoro Siculo nell’età di Augusto pensava ai pastori sardi per il mito discendenti dai 50 figli di Eracle come a campioni di libertà. Ma in questo film c’è anche l’eco del volume di Pigliaru del 1959 La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, con il corpo del pastore ucciso nelle campagne di Sedilo, vestito d’orbace, con il portafoglio vuoto, le mosche che si accaniscono sul viso, il trasporto della salma dall’ovile, il funerale, la fossa per la bara nera, s’attittidu e il silenzio dei parenti e insieme il pianto della vedova che invita alla vendetta. Così c’è Pigliaru nell’intervista quasi televisiva al pastore che racconta che i sardi che non sanno rubare sono destinati a restare miserabili, ad essere disprezzati, a non essere amati in famiglia. Ci sono gli animali che vivono con gli uomini, certo le pecore transumanti per tratturi millenari, ma anche gli asini, i cavalli, i buoi, i cani, perfino le volpi temute tanto che non se ne riesce a pronunciare il nome. Ritorna forte l’impressione del racconto drammatico contenuto nel volume Antiles di Mario Medde: Antiles sono gli stipiti in basalto, gli architravi, le porte che occorre varcare e che immettono ad un territorio, ma anche ad una cultura, ad un ambiente sociale, ad un momento della nostra vita, che conserva intatto il sapore della vita vera, il senso delle cose che ci colpiscono, il profumo della casa che continuiamo ad amare anche quando ne siamo stati sradicati. Medde racconta la morte del nonno paterno, colpito da una roncolata inferta da un altro pastore, lungo un sentiero di Norbello negli anni 50: scrive commosso che per anni le pietre insanguinate sul punto dove cadde il nonno restarono così disposte e macchiate, mute testimoni di un delitto orrendo, di una violenza gratuita, di un abuso non più comprensibile. E trenta anni prima, durante la primavera insanguinata del 1922, attraverso i drammatici racconti della madre, gli ritorna come se l’avesse vista con i propri occhi l’immagine dei mozziconi delle orecchie delle pecore rubate e mutilate, recisi e abbandonati lungo Sa Bia de Cotzula, a Sas Benas verso Domus. Segni della proprietà del bestiame recisi con la mutilazione delle pecore. Segni che proiettano nella memoria quasi in un film la corsa disperata della nonna materna incinta di 7 mesi verso la chiesa della Madonna delle Grazie ad Orracu, per ritrovare alla fine sconvolta il corpo insanguinato del compagno ucciso su questo caminu de sa fura che conduceva ad Otzana e ai monti della Barbagia, dove transitava il bestiame rubato nella valle. Un’ingiustizia, l’uccisione di un testimone scomodo, che i pastori specialisti de s’arrastu, alla ricerca delle orme degli abigeatari, non avrebbero saputo vendicare>>.

Antonio Pigliaru è stato il più interessante e certo anche il più importante intellettuale sardo del Novecento. Della sua multiforme attività non soltanto di pensatore e di studioso ma anche e soprattutto di infaticabile organizzatore di cultura l’Università è stato uno dei “luoghi” centrali. La sua carriera accademica si è svolta quasi per intero, nei non molti anni di vita che il destino gli ha riservato, nell’Università di Sassari: tra l’inizio degli anni cinquanta e la fine dei sessanta, vi è stato prima assistente, quindi docente incaricato, infine Professore Ordinario di Dottrina dello Stato. Di quella stagione restano a testimonianza non soltanto i numerosi scritti, primo fra i quali il citato libro giustamente famoso su “La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico”, ma anche il suo intenso lavoro didattico. Il rapporto fra Pigliaru e i suoi studenti è uno dei momenti più alti della sua interpretazione del ruolo dell’intellettuale nella Sardegna del secondo dopoguerra, in un momento epocale della storia dell’Isola, fra la conquista dello Statuto di autonomia regionale e l’ondata “rivoluzionaria” del movimento del sessantotto. La sua ultima lezione nel marzo del 1969, tenuta poche ore prima della sua improvvisa scomparsa e drammatizzata da un confronto aspro e insieme profondo con le ragioni dei suoi allievi, è quasi metafora di un’intera esistenza in cui neppure una lunga, grave malattia poté allentare la tensione pedagogica di un uomo che aveva messo il proprio sapere e la sua stessa capacità di resistenza alle fatiche della vita a servizio della sua passione democratica.

Pigliaru ha vissuto la propria esperienza di intellettuale in modo eroico: non soltanto per il rifiuto, tutto barbaricino, di arrendersi a s’apprettu, alla pressione degli eventi personali e della stessa “storia grande e terribile” che si svolgeva in quegli anni in Sardegna non meno che in tante altre parti del mondo, ma soprattutto per la coerenza a un ideale della “missione dei clerici” che fu suo in un’età in cui tanti altri intellettuali vissero la cultura come impegno (ma tanti altri tradirono).

Nella battaglia culturale di Pigliaru e dei suoi amici si può leggere in filigrana l’immagine e l’interpretazione di un modello per il quale non è difficile richiamare il nome di Gramsci. Nucleo motore del suo lavoro fu proprio quello sforzo di “sprovincializzare la provincia” cui è intitolato il suo primo scritto per la rivista “Ichnusa”, prestigioso luogo di dibattito e di confronto, da lui diretta come direttore responsabile fra il 1949 e il 1964 (poi da Manlio Brigaglia, Giuseppe Melis Bassu e Salvatore Mannuzzu tra il 1982 e il 1993): il progetto lungamente perseguito fu il tentativo di portare il mondo stesso degli intellettuali sardi (ma non solo a loro era rivolta la sua attenzione, sì bene a quel più largo e animato soggetto che in quegli anni veniva sulla scena sociale evocato con il nome di “popolo sardo”) fuori da un destino di triplice, quadruplice provincialismo e utilizzare energie di quella Sardegna nuova per radicare nella cultura politica dei sardi la coscienza dell’autonomia come fondamento di un’idea e di una pratica moderna della democrazia su cui articolare e rinnovare il rivendicazionismo regionale, partenda dall’insegnamento letterario anche in ambito umanistico (la nascita della Facoltà di Magistero).

Lo slogan che chiedeva, sulle pagine di “Ichnusa” ma anche in fronte di molti suoi scritti scientifici, una cultura moderna e autonomista – intendendo il binomio come la dotazione inscindibile necessaria per mettere la Sardegna sulla via europea del progresso – è la parola d’ordine di tanta parte della sua attività di studioso e di animatore di un dibattito a più voci, in cui il confronto aveva sempre una sua interna forza dialettica capace di allargare l’area della cultura isolana a territori sempre nuovi della realtà regionale. Il ricordo di lui, così legato a quella che sembrava l’esaltante stagione della Rinascita, dura per questo ben oltre i limiti di quel tempo e di quella esperienza che fu comune a tanti intellettuali sardi: la sua lezione di vita e di pensiero resta ancora viva, ad insegnare anche alle generazioni più giovani e ad animarle nel cammino.

Nell’Editoriale di “Ichnusa” n. 15 che chiude il 1956, primo anno della ripresa[6], non firmato ma scritto come quasi tutti gli altri dal direttore responsabile Antonio Pigliaru e non dal Direttore della rivista Salvatore Piras[7], mi hanno colpito alcune sottolineature progressiste, democratiche, pluraliste, con una evidente vitalità inquadrata nelle linee programmatiche definite nel fascicolo 10 della rivista: si desidera mobilitare gli intellettuali (pur con le amarezze che qua e là ritornano sulle difficoltà ad essere ascoltati davvero), indirizzandoli verso una sorta di pubblico esame di coscienza; si discutevano le questioni organizzative (la puntualità nelle pubblicazioni, l’incremento della rosa dei collaboratori, il convinto riconoscimento come adeguato strumento di lavoro e una adeguta sede di dibattito politico e culturale), ma si ha netta l’impressione della vitalità del gruppo dei redattori, la dimensione nazionale, il carattere politicamente aperto dal marxismo all’idealismo, al cattolicesimo, perché <<anche ad uomini di diversa provenienza politica e di diversa formazione intellettuale>> è stato e sarà <<possibile vivere una esperienza comune, impegnarsi in una azione comune senza per ciò esser costretti a rinunciare a se stessi, alle proprie ragioni, alle ragioni della propria cultura>>. Da un punto di vista programmatico, “Ichnusa” <<o sarà così (molteplicità di prospettive per un dibattito organico e molteplicità di temi per una conoscenza concreta della Sardegna stessa) o non potrà mai essere quella rivista significativa che vuol essere: una rivista aperta a tutti gli interessi che il suo tema (la questione sarda) le impone di affrontare e a tutte le voci che la cultura sarda riesce ad esprimere e a liberare>>. La rivista ha lavorato per sviluppare il dialogo attraverso la molteplicità delle voci, per <<creare condizioni favorevoli allo sviluppo, all’ulteriore sviluppo del dialogo tra voci diverse intorno ai problemi comuni>>; temi urgenti a livello nazionale ma particolarmente pressanti in Sardegna, per combattere il triste silenzio di sempre, per coinvolgere il mondo della cultura nel dibattito “politico” sul Mezzogiorno e sullo specifico della realtà sarda e delle zone interne, per avviare la Rinascita (il Piano di Rinascita è dell’11 giugno 1962 ma su “Ichnusa il primo articolo di Pigliaru sulla Rinascita è di sette anni prima sul numero IV,10): in piena sintonia con Antonio Pigliaru (spesso inascoltato), Giovanni Lilliu avrebbe parlato in seguito di fallimento dell’autonomia e di Rinascita abortita.

E poi occorreva rileggere con occhi nuovi, con originalità e compassione per i sardi l’eredità di Antonio Gramsci; ma sempre con la voglia di superare la tentazione e il rischio dell’eclettismo, la frantumazione, i limiti oggettivi dell’esperienza, evidenziati con una spietata autocritica: l’eterogeneità dei temi, dalla letteratura, alla cultura, alla sociologia, all’economia, alla tecnica; occorre sempre andare alla ricerca di ciò che accomuna i redattori perché la molteplicità di interessi ruota attorno ad un tema centrale, <<la Sardegna, la sua realtà quotidiana, tutta la sua vita>>, rivalutando il momento originariamente ed oggettivamente unitario, che può far scandalo, ma oportet ut scandala eveniant (Luca, 18,7). E’ davvero strabiliante che tali concetti siano stato nitidamente formulati in piena guerra fredda, con l’atomica francese all’indomani dell’indipedenza della Tunisia e del Marocco graziosamente concessa dalla Francia coloniale (tema che torna negli scritti di Tito Orrù di quegli anni), della nazionalizzazione del canale di Suez, della seconda guerra arabo-israeliana, dell’insurrezione antisovietica in Ungheria e degli imbarazzi di Togliatti e dei comunisti italiani, della liberazione del cardinale polacco Stefan Wyszyński. dell’uccisione del dittatore del Nicaragua Anastasio Somoza García, dello sbarco di Fidel Castro a Cuba; siamo a sei anni dalla nascita della Cassa per il Mezzogiorno – un gesto lungimirante e aperto della classe dirigente e del Governo De Gasperi – e pienamente nel secondo tempo dell’autonomia regionale, un evento che riempie ora ogni pagina della rivista.

Pigliaru in quei pochi anni leggeva, commentava, si occupava di moltissimi temi: il banditismo sardo, il problema della mediazione culturale in Sardegna, l’edilizia scolastica e il rapporto con la piena occupazione; anche con spunti polemici (16, p. 39; 18, p. 51; 19, p. 63), con repertori bibliografici (penso alla bibliografia sull’emigrazione italiana), con note e recensioni; vd. ad es. la recensione alla riedizione dei Canti barbaricini di Sebastiano Satta, e poi Remo Branca (la prima edizione del 1956 di Sardegna segreta), Maria Giacobbe (la prima edizione del Diario di una maestrina è del 1957, con le osservazioni di Aldo Capitini sul numero 24 di “Ichnusa”, pp. 41-43). Forse i risulti non furono pari alle attese e forse esagerava Manlio Brigaglia a dire che la Sardegna usciva finalmente dal suo lungo Medioevo, mentre criticamente Simonetta Sanna avrebbe osservato che si verificò una resa acritica agli aspetti deteriori di una modernità a rischio. Del resto già lo stesso Antonio Pigliaru su Ichnusa e Renzo Laconi avevano paventato l’ipoteca dell’industrializzazione petrolchimica sullo sviluppo dell’isola.

Arrivato a Sassari qualche anno dopo la sua morte, ho letto nelle attività dei tanti allievi, ammiratori, collaboratori di Antonio Pigliaru[8], nei racconti di sua moglie Rina, nei suoi scritti il sapore di un magistero rigoroso e severo e insieme la lezione dolce e amara di un grande intellettuale sardo, che riesce ancora oggi a convincere, a stimolare passioni ed a suggerire motivazioni nuove: in quest’occasione a Nuoro e Orune ho ritrovato persone e temi che veramente entrano in profondità nel dibattito sulla Sardegna di oggi e di domani.[9]


[1] A. Mastino, La scomparsa di Caterina Fancellu vedova di Antonio Pigliaru, in Quei nostri cinque magnifici anni (2009-2014), Supplemento (giugno-ottobre 2014), Carlo Delfino Editore, Sassari 2014, pp. 25-26.

[2] Id., Presentazione, in M. Derudas, Il Convitto nazionale Canopoleno di Sassari. Una finestra aperta su quattrocento anni di storia, Carlo Delfino Editore, Sassari 2018, pp. 7-11.

[3] Id., L’Università di Sassari tra passato e futuro, in Quei nostri cinque magnifici anni (2009-2014), Carocci Roma 2014, p. 341; vd. anche Università degli studi di Sassari : 450 anni di storia anno accademico 2011-2012, Comitato organizzatore per le celebrazioni del 450. anniversario di fondazione dell’Università degli studi di Sassari, Sassari 2013.

[4] Id., Antonio Simon Mossa, “poeta della nazionalità” e “padre dell’autonomia” nel giudizio di Giovanni Lilliu, in Antonio Simon Mossa a Nuoro. L’architettura, il cinema, la politica, a cura di Antonello Nasone, ISRE, Nuoro 2

Il contributo di Antonio Pigliaru alla cultura sarda

ISRE, Sassari Teatro civico, 16 maggio 2019

di Attilio Mastino

Ho conosciuto il pensiero di Antonio Pigliaru soprattutto attraverso molti suoi ammiratori e collaboratori, Alberto Boscolo, Manlio Brigaglia, Marcello Lelli, Alberto Merler, Gabriella Mondardini, Marina Saba e la moglie Rina Fancellu (1925-2014), mia collega di Istituzioni di diritto pubblico e legislazione scolastica presso la Facoltà di Magistero; anche attraverso i figli Giovanni, Francesco e Amelia[1]. Pochi mesi prima della sua morte (18 luglio 2014), Rina mi aveva donato l’intera serie della Rivista bimestrale di letteratura, arte, tecnica, economia ed attualità  “Ichnusa”, uscita tra il 1949 ed il 1964, che ho sfogliato in questi giorni, riscoprendo consonanze e anticipazioni, linee interpretative della cultura sarda poi arrivate a maturità con gli allievi di Antonio Pigliaru: una rivista che sceglieva già con il titolo un livello “alto”, richiamando le luci e le ombre, i misteri presenti già nell’immaginario collettivo dei Greci antichi; una rivista che non voleva essere <<di parte>>, <<unilaterale>>,  ma uno strumento vivo, capace di <<recare totale testimonianza sulla Sardegna>>, dare insomma <<una concreta misura della cultura sarda>>, in grado di indicare una prospettiva interpretativa di <<tutti i termini costitutivi della realtà e della “questione sarda”>>: una rivista “aperta” ma rigorosa, sede di dibattito libero da condizionamenti, pluralista, indirizzata in particolare agli “intellettuali” (nel senso della parola assunto da Giovanni Lilliu, “tutti coloro che hanno intelletto in Sardegna”, interpretando con più modernità Antonio Gramsci), <<senza distinzioni di sorta, nella speranza fattiva di poter così esprimere un movimento intellettuale unitario, perché rivolto ad un impegno comune: quello dell’inserimento attivo e critico della cultura nel quadro del complesso della vita regionale>>.

Ricordando i suoi studi al Canopoleno[2], la sua laurea in Giurisprudenza, il suo insegnamento di Filosofia del diritto, l’ordinariato in Dottrina dello Stato, d’accordo coi suoi allievi negli ultimi anni del mio Rettorato avevamo collocato l’immagine giovanile di Antonio Pigliaru (scomparso a Sassari il 27 marzo 1969) sul banner collocato nel marzo 2012 per i 450 anni dell’Università  davanti al nuovo  Dipartimento di Giurisprudenza che si affaccia sui Giardini Pubblici in viale Mancini (accanto al premio Nobel Daniel Bovet, Carlo Gastaldi, Giovanni Manunta, Antonio Milella, Lorenzo Mossa, Paolo Sylos Labini, Marco Tangheroni, Achille Terracciano): qui opera la bella Biblioteca di Scienze Sociali Antonio Pigliaru[3].

Proprio il 18 luglio 2014, nella giornata dei funerali della nostra cara Rina Pigliaru, avevamo presentato il libro edito da Maestrale su Antonio Simon Mossa[4], ripensando per un momento al ruolo avuto da Antonio Pigliaru nella travagliata preparazione del lungometraggio di Fiorenzo Serra (L’ultimo pugno di terra) restaurato per iniziativa dell’Assessorato Regionale alla P.I., della Fondazione Banco di Sardegna, della Cineteca sarda e della Società Umanitaria. Con la consulenza del Laboratorio di Antropologia Visuale del Dipartimento di storia scienze dell’uomo e della formazione del nostro Ateneo, che nel nome ricorda la figura di Fiorenzo Serra, dopo la convenzione con la Fondazione umanitaria voluta dall’Assessore Sergio Milia[5].

In quella sede avevamo scritto: <<Il filosofo del diritto Antonio Pigliaru ispiratore di un’intera generazione di giovani intellettuali isolani, nel 1949 tra i fondatori di “Ichnusa”, portava con se il sapore fresco di una sardità profonda, radicata sulle sue origini orunesi e sulla sua Barbagia. Temi che nel lungometraggio di Fiorenzo Serra esplodono nelle bellissime scene della transumanza delle greggi di pecore da Fonni verso la Nurra, nella rappresentazione della vita dei pastori fatta di solitudine e di sofferenza, ma anche di scoperte quotidiane come l’emozionante nascita di un agnello che perde la placenta, accolto dal gregge quando ancora non riesce a reggersi sulle zampe, collocato con altri agnelli nella tasca di una bisaccia – sa bertula – sotto la pioggia. Il nuraghe massiccio della prima scena testimonia le origini preistoriche della pastorizia sarda che continuava a vivere in uno spazio dove il tempo si misurava in altro modo e mi porta immediatamente alla mente quella scena che ho vissuto a Tamuli di Macomer, quando Giovanni Lilliu riuscì ad evocare per noi studenti di Studi Sardi quasi per incanto un mondo antico, una dimensione parallela perduta, indicandoci la figura di un pastore che improvvisamente era apparso dal nulla, del tutto simile ad un personaggio dei tempi eroici protosardi: una figura, quella del pastore, che Lilliu osservava con grande simpatia e rispetto, perché era il testimone finale di una sapienza antica. Del resto già Diodoro Siculo nell’età di Augusto pensava ai pastori sardi per il mito discendenti dai 50 figli di Eracle come a campioni di libertà. Ma in questo film c’è anche l’eco del volume di Pigliaru del 1959 La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, con il corpo del pastore ucciso nelle campagne di Sedilo, vestito d’orbace, con il portafoglio vuoto, le mosche che si accaniscono sul viso, il trasporto della salma dall’ovile, il funerale, la fossa per la bara nera, s’attittidu e il silenzio dei parenti e insieme il pianto della vedova che invita alla vendetta. Così c’è Pigliaru nell’intervista quasi televisiva al pastore che racconta che i sardi che non sanno rubare sono destinati a restare miserabili, ad essere disprezzati, a non essere amati in famiglia. Ci sono gli animali che vivono con gli uomini, certo le pecore transumanti per tratturi millenari, ma anche gli asini, i cavalli, i buoi, i cani, perfino le volpi temute tanto che non se ne riesce a pronunciare il nome. Ritorna forte l’impressione del racconto drammatico contenuto nel volume Antiles di Mario Medde: Antiles sono gli stipiti in basalto, gli architravi, le porte che occorre varcare e che immettono ad un territorio, ma anche ad una cultura, ad un ambiente sociale, ad un momento della nostra vita, che conserva intatto il sapore della vita vera, il senso delle cose che ci colpiscono, il profumo della casa che continuiamo ad amare anche quando ne siamo stati sradicati. Medde racconta la morte del nonno paterno, colpito da una roncolata inferta da un altro pastore, lungo un sentiero di Norbello negli anni 50: scrive commosso che per anni le pietre insanguinate sul punto dove cadde il nonno restarono così disposte e macchiate, mute testimoni di un delitto orrendo, di una violenza gratuita, di un abuso non più comprensibile. E trenta anni prima, durante la primavera insanguinata del 1922, attraverso i drammatici racconti della madre, gli ritorna come se l’avesse vista con i propri occhi l’immagine dei mozziconi delle orecchie delle pecore rubate e mutilate, recisi e abbandonati lungo Sa Bia de Cotzula, a Sas Benas verso Domus. Segni della proprietà del bestiame recisi con la mutilazione delle pecore. Segni che proiettano nella memoria quasi in un film la corsa disperata della nonna materna incinta di 7 mesi verso la chiesa della Madonna delle Grazie ad Orracu, per ritrovare alla fine sconvolta il corpo insanguinato del compagno ucciso su questo caminu de sa fura che conduceva ad Otzana e ai monti della Barbagia, dove transitava il bestiame rubato nella valle. Un’ingiustizia, l’uccisione di un testimone scomodo, che i pastori specialisti de s’arrastu, alla ricerca delle orme degli abigeatari, non avrebbero saputo vendicare>>.

 

Antonio Pigliaru è stato il più interessante e certo anche il più importante intellettuale sardo del Novecento. Della sua multiforme attività non soltanto di pensatore e di studioso ma anche e soprattutto di infaticabile organizzatore di cultura l’Università è stato uno dei “luoghi” centrali. La sua carriera accademica si è svolta quasi per intero, nei non molti anni di vita che il destino gli ha riservato, nell’Università di Sassari: tra l’inizio degli anni cinquanta e la fine dei sessanta, vi è stato prima assistente, quindi docente incaricato, infine Professore Ordinario di Dottrina dello Stato. Di quella stagione restano a testimonianza non soltanto i numerosi scritti, primo fra i quali il citato libro giustamente famoso su “La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico”, ma anche il suo intenso lavoro didattico. Il rapporto fra Pigliaru e i suoi studenti è uno dei momenti più alti della sua interpretazione del ruolo dell’intellettuale nella Sardegna del secondo dopoguerra, in un momento epocale della storia dell’Isola, fra la conquista dello Statuto di autonomia regionale e l’ondata “rivoluzionaria” del movimento del sessantotto. La sua ultima lezione nel marzo del 1969, tenuta poche ore prima della sua improvvisa scomparsa e drammatizzata da un confronto aspro e insieme profondo con le ragioni dei suoi allievi, è quasi metafora di un’intera esistenza in cui neppure una lunga, grave malattia poté allentare la tensione pedagogica di un uomo che aveva messo il proprio sapere e la sua stessa capacità di resistenza alle fatiche della vita a servizio della sua passione democratica.

Pigliaru ha vissuto la propria esperienza di intellettuale in modo eroico: non soltanto per il rifiuto, tutto barbaricino, di arrendersi a s’apprettu, alla pressione degli eventi personali e della stessa “storia grande e terribile” che si svolgeva in quegli anni in Sardegna non meno che in tante altre parti del mondo, ma soprattutto per la coerenza a un ideale della “missione dei clerici” che fu suo in un’età in cui tanti altri intellettuali vissero la cultura come impegno (ma tanti altri tradirono).

Nella battaglia culturale di Pigliaru e dei suoi amici si può leggere in filigrana l’immagine e l’interpretazione di un modello per il quale non è difficile richiamare il nome di Gramsci. Nucleo motore del suo lavoro fu proprio quello sforzo di “sprovincializzare la provincia” cui è intitolato il suo primo scritto per la rivista “Ichnusa”, prestigioso luogo di dibattito e di confronto, da lui diretta come direttore responsabile fra il 1949 e il 1964 (poi da Manlio Brigaglia, Giuseppe Melis Bassu e Salvatore Mannuzzu tra il 1982 e il 1993): il progetto lungamente perseguito fu il tentativo di portare il mondo stesso degli intellettuali sardi (ma non solo a loro era rivolta la sua attenzione, sì bene a quel più largo e animato soggetto che in quegli anni veniva sulla scena sociale evocato con il nome di “popolo sardo”) fuori da un destino di triplice, quadruplice provincialismo e utilizzare energie di quella Sardegna nuova per radicare nella cultura politica dei sardi la coscienza dell’autonomia come fondamento di un’idea e di una pratica moderna della democrazia su cui articolare e rinnovare il rivendicazionismo regionale, partenda  dall’insegnamento letterario anche in ambito umanistico (la nascita della Facoltà di Magistero).

Lo slogan che chiedeva, sulle pagine di “Ichnusa” ma anche in fronte di molti suoi scritti scientifici, una cultura moderna e autonomista – intendendo il binomio come la dotazione inscindibile necessaria per mettere la Sardegna sulla via europea del progresso – è la parola d’ordine di tanta parte della sua attività di studioso e di animatore di un dibattito a più voci, in cui il confronto aveva sempre una sua interna forza dialettica capace di allargare l’area della cultura isolana a territori sempre nuovi della realtà regionale. Il ricordo di lui, così legato a quella che sembrava l’esaltante stagione della Rinascita, dura per questo ben oltre i limiti di quel tempo e di quella esperienza che fu comune a tanti intellettuali sardi: la sua lezione di vita e di pensiero resta ancora viva, ad insegnare anche alle generazioni più giovani e ad animarle nel cammino.

Nell’Editoriale di “Ichnusa” n. 15 che chiude il 1956, primo anno della ripresa[6],  non firmato ma scritto come quasi tutti gli altri dal direttore responsabile Antonio Pigliaru e non dal Direttore della rivista Salvatore Piras[7], mi hanno colpito alcune sottolineature progressiste, democratiche, pluraliste, con una evidente vitalità inquadrata nelle linee programmatiche definite nel fascicolo 10 della rivista: si  desidera mobilitare gli intellettuali (pur con le amarezze che qua e là ritornano sulle difficoltà ad essere ascoltati davvero), indirizzandoli verso una sorta di pubblico esame di coscienza;  si discutevano le questioni organizzative (la puntualità nelle pubblicazioni, l’incremento della rosa dei collaboratori, il convinto riconoscimento come adeguato strumento di lavoro e una adeguta sede di dibattito politico e culturale),  ma si ha netta l’impressione della vitalità del gruppo dei redattori, la dimensione nazionale, il carattere politicamente aperto dal marxismo all’idealismo, al cattolicesimo, perché  <<anche ad uomini di diversa provenienza politica e di diversa formazione intellettuale>> è stato e sarà <<possibile vivere una esperienza comune, impegnarsi in una azione comune senza per ciò esser costretti a rinunciare a se stessi, alle proprie ragioni, alle ragioni della propria cultura>>.  Da un punto di vista programmatico, “Ichnusa” <<o sarà così (molteplicità di prospettive per un dibattito organico e molteplicità di temi per una conoscenza concreta della Sardegna stessa) o non potrà mai essere quella rivista significativa che vuol essere: una rivista aperta a tutti gli interessi che il suo tema (la questione sarda) le impone di affrontare e a tutte le voci che la cultura sarda riesce ad esprimere e a liberare>>. La rivista ha lavorato per sviluppare il dialogo attraverso la molteplicità delle voci, per <<creare condizioni favorevoli allo sviluppo, all’ulteriore sviluppo del dialogo tra voci diverse intorno ai problemi comuni>>; temi urgenti a livello nazionale ma particolarmente pressanti in Sardegna, per combattere il triste silenzio di sempre, per coinvolgere il mondo della cultura nel dibattito “politico” sul Mezzogiorno e sullo specifico della realtà sarda e delle zone interne, per avviare la Rinascita (il Piano di Rinascita è dell’11 giugno 1962 ma su “Ichnusa il primo articolo di Pigliaru sulla Rinascita è di sette anni prima sul numero IV,10): in piena sintonia con Antonio Pigliaru (spesso inascoltato), Giovanni Lilliu avrebbe parlato in seguito di fallimento dell’autonomia e di Rinascita abortita.

E poi occorreva rileggere con occhi nuovi, con originalità e compassione per i sardi l’eredità di Antonio Gramsci; ma sempre con la voglia di superare la tentazione e il rischio dell’eclettismo, la frantumazione, i limiti oggettivi dell’esperienza, evidenziati con una spietata autocritica: l’eterogeneità dei temi, dalla letteratura, alla cultura, alla sociologia, all’economia, alla tecnica;  occorre sempre andare alla ricerca di ciò che accomuna i redattori  perché la molteplicità di interessi ruota attorno ad un tema centrale, <<la Sardegna, la sua realtà quotidiana, tutta la sua vita>>,  rivalutando il momento originariamente ed oggettivamente unitario, che può far scandalo, ma oportet ut scandala eveniant (Luca, 18,7).   E’ davvero strabiliante che tali concetti siano stato nitidamente formulati in piena guerra fredda, con l’atomica francese all’indomani dell’indipedenza della Tunisia e del Marocco graziosamente concessa dalla Francia coloniale (tema che torna negli scritti di Tito Orrù di quegli anni), della nazionalizzazione del canale di Suez, della seconda guerra arabo-israeliana, dell’insurrezione antisovietica in Ungheria e degli imbarazzi di Togliatti e dei comunisti italiani, della liberazione del cardinale polacco Stefan Wyszyński.  dell’uccisione del dittatore del Nicaragua Anastasio Somoza García, dello sbarco di Fidel Castro a Cuba; siamo a sei anni dalla nascita della Cassa per il Mezzogiorno – un gesto lungimirante e aperto della classe dirigente e del Governo De Gasperi – e pienamente nel secondo tempo dell’autonomia regionale, un evento che riempie ora ogni pagina della rivista.

Pigliaru in quei pochi anni leggeva, commentava, si occupava di moltissimi temi: il banditismo sardo, il problema della mediazione culturale in Sardegna, l’edilizia scolastica e il rapporto con la piena occupazione;  anche con spunti polemici (16, p. 39; 18, p. 51; 19, p. 63), con repertori bibliografici (penso alla bibliografia sull’emigrazione italiana), con note e recensioni; vd. ad es. la recensione alla riedizione dei Canti barbaricini di Sebastiano Satta, e poi Remo Branca (la prima edizione del 1956 di Sardegna segreta),  Maria Giacobbe (la prima edizione del Diario di una maestrina è del 1957, con le osservazioni di Aldo Capitini sul numero 24 di “Ichnusa”, pp. 41-43).  Forse i risulti non furono pari alle attese e forse esagerava Manlio Brigaglia a dire che la Sardegna usciva finalmente dal suo lungo Medioevo, mentre criticamente Simonetta Sanna avrebbe osservato che si verificò una resa acritica agli aspetti deteriori di una modernità a rischio. Del resto già lo stesso Antonio Pigliaru su Ichnusa e Renzo Laconi avevano paventato l’ipoteca dell’industrializzazione petrolchimica sullo sviluppo dell’isola.

Arrivato a Sassari qualche anno dopo la sua morte, ho letto nelle attività dei tanti allievi, ammiratori, collaboratori di Antonio Pigliaru[8], nei racconti di sua moglie Rina, nei suoi scritti il sapore  di un magistero rigoroso e severo e insieme la lezione dolce e amara di un grande intellettuale sardo, che riesce ancora oggi a convincere, a stimolare passioni ed a suggerire motivazioni nuove: in quest’occasione a Nuoro e Orune ho ritrovato persone e temi che veramente entrano in profondità nel dibattito sulla Sardegna di oggi e di domani.[9]


[1] A. Mastino, La scomparsa di Caterina Fancellu vedova di Antonio Pigliaru, in Quei nostri cinque magnifici anni (2009-2014), Supplemento (giugno-ottobre 2014), Carlo Delfino Editore, Sassari 2014, pp. 25-26.

[2] Id., Presentazione, in M. Derudas, Il Convitto nazionale Canopoleno di Sassari. Una finestra aperta su quattrocento anni di storia, Carlo Delfino Editore, Sassari 2018, pp. 7-11.

[3] Id., L’Università di Sassari tra passato e futuro, in  Quei nostri cinque magnifici anni (2009-2014), Carocci Roma 2014, p. 341; vd. anche Università degli studi di Sassari : 450 anni di storia anno accademico 2011-2012, Comitato organizzatore per le celebrazioni del 450. anniversario di fondazione dell’Università degli studi di Sassari, Sassari 2013.

[4] Id., Antonio Simon Mossa, “poeta della nazionalità” e “padre dell’autonomia” nel giudizio di Giovanni Lilliu, in Antonio Simon Mossa a Nuoro. L’architettura, il cinema, la politica, a cura di Antonello Nasone, ISRE, Nuoro 2018, pp. 19-32.

[5] Id., Fiorenzo Serra e la Sardegna degli anni 50, in Altri cinque magnifici anni (2014-2019), Sassari 2020, pp. 209-214.

[6] Pp. 5-10.

[7] Ibid., p. 92.

[8] Cito almeno S. Tola, Gli anni di “Ichnusa”. La rivista di Antonio Pigliaru nella Sardegna della rinascita, Sassari 1994.

[9] Vd. A. Mastino, Prefazione, in Il soldino dell’anima. Antonio Pigliaru interroga Antonio Gramsci, a cura del Comitato Archivio Antonio Pigliaru Terra Gramsci, CUEC, Cagliari 2010, pp. 9-10.

018, pp. 19-32.

[5] Id., Fiorenzo Serra e la Sardegna degli anni 50, in Altri cinque magnifici anni (2014-2019), Sassari 2020, pp. 209-214.

[6] Pp. 5-10.

[7] Ibid., p. 92.

[8] Cito almeno S. Tola, Gli anni di “Ichnusa”. La rivista di Antonio Pigliaru nella Sardegna della rinascita, Sassari 1994.

[9] Vd. A. Mastino, Prefazione, in Il soldino dell’anima. Antonio Pigliaru interroga Antonio Gramsci, a cura del Comitato Archivio Antonio Pigliaru Terra Gramsci, CUEC, Cagliari 2010, pp. 9-10.




Addio ad Assunta Trova

Addio ad Assunta Trova (Alghero 1952 – Torino 18 novembre 2021)

Sassari, 16 dicembre 2021, Aula Mario Da Passano, Corso di laurea di Scienze Politiche

Susi Trova se ne è andata a Torino un mese fa, a 69 anni, pensando ai suoi amici di Alghero, alla Valle dei Salici, alla Sardegna lontana. Professoressa di storia contemporanea e di storia del Risorgimento all’Università di Sassari, il 20 luglio 1983 aveva fondato il Dipartimento di Storia assieme ai colleghi della Facoltà di Giurisprudenza (corso di laurea di Scienze Politiche) e di Magistero, sulla base di una forte intesa “disciplinare”: Era subito entrata in giunta sotto la direzione di Guido Melis, nella sede di Piazza Conte di Moriana, gestita amichevolmente dal segretario amministrativo rag. Giovanni Conconi.

La sua dote era rappresentata da una ricerca 60% su Cesare Correnti parlamentare subalpino e una ricerca 40% sull’emigrazione italiana in Francia tra le due guerre; i suoi corsi e le sue esercitazioni riguardavano la Storia dell’Italia contemporanea e la Storia dei partiti politici, materia tenuta da Francesco Manconi.  Scienze Politiche era divenuta Facoltà autonoma con Lio Mura nel 1993 nel Palazzo Zirulia in Piazza Università; poi dal 2011, abolite le Facoltà a seguito della Legge Gelmini, Dipartimento di Scienze Politiche, scienze della comunicazione e ingegneria dell’informazione con Antonietta Mazzette.

Nel 2017 Susi ci aveva seguito presso il Dipartimento di Storia, scienze dell’uomo e della formazione, quando era stato messo in liquidazione il Dipartimento di Scienze Politiche, un avvenimento che le era dispiaciuto non poco e che non aveva capito.

Manifestava in mille modi la sua amicizia, trovando documenti, scavando negli archivi su temi che sapeva a me cari, regalandomi tante cose inedite e per noi due preziose: le cento città d’Italia di inizio Novecento, Bosa, Oristano, Sassari, Iglesias in due esemplari. Le bellissime stampe relative alla stazione sanitaria dell’Asinara del 1915-16. Frammenti di lettere di corrispondenti di Theodor Mommsen, altre indicazioni di carte inedite conservate in archivi difficilmente accessibili, che sapeva scovare. La nascita delle ferrovie in Sardegna.

Non ricordo un solo momento di contrasto, sempre col sorriso di un’amica vera, la pazienza, il rispetto, l’autonomia di giudizio, le costanti attenzioni, la voglia di seguirmi anche nella ricerca come nelle discussioni tra  noi sui  mosaici della villa marittima romana del Golfo delle Ninfe.

Se dovessimo sintetizzare i suoi interessi sulla storia dell’Italia contemporanea tra Ottocento e Novecento nel solco di quello che considerava il suo maestro vero, Franco Della Peruta, ricorderemmo almeno gli studi inediti sullo scoutismo cattolico fino all’avvento del Fascismo (1986), sull’organizzazione dell’esercito nella prima repubblica Cisalpina per la rivista di studi napoleonici (1987); sul federalismo in Carlo Cattaneo e Giuseppe Garibaldi con Carocci nel 2004 nella Collana del Dipartimento assieme a Giuseppe Zichi, volume nato all’interno delle celebrazioni del bicentenario della nascita di Carlo Cattaneo; per Ilisso aveva curato l’edizione dell’opera di Cattaneo Della Sardegna antica e moderna, con una sessantina di lettere tra lo studioso e i suoi corrispondenti sardi (2010). Su Cesare Correnti per Franco Angeli nel 1996 aveva scritto Coscienza nazionale e rivoluzione democratica: l’esperienza risorgimentale di Cesare Correnti, 1848-1856. Aveva voluto da me alcuni documenti sulla Gioventù italiana di Azione Cattolica in Sardegna negli anni 60, sul settimanale cattolico Libertà, sul quindicinale Dialogo di Alghero-Bosa. Mi aveva suggerito la lettura del sorprendente articolo di Fabien Archambault, Un autre football ? Catholiques et communistes italiens au tournant des années 1970, che fanno intravvedere la ricchezza in Sardegna del dibattito tra comuinisti e cattolici, in barba alle « chiese »  della DC e del PCI :  “Ces positions novatrices sont partagées tant par des militants-entraîneurs communistes de l’Union italienne du sport populaire (UISP) que par certains laïcs de l’Action catholique mobilisés au sein du Centre sportif italien (CSI). Des collaborations et des rapprochements s’esquissent même. Toutefois, ce mouvement rencontre de fortes oppositions, notamment au sein de l’association catholique”.

E poi gli studi sulla democrazia nel periodo risorgimentale, sul giornalismo mazziniano e sulla storia dell’ambiente. Aveva un vivissimo interesse per la tragica vicenda dei soldati trasferiti all’Asinara durante la prima guerra mondiale. Nel maggio 2015, presso la Biblioteca di storia moderna e contemporanea a Roma tre maestri avevano presentato il suo lavoro scritto con Zichi  per la EDES l’anno prima: un album intitolato I prigionieri di guerra austriaci all’Asinara, 18 dicembre 1915-24 luglio 1916, con le bellissime tavole inedite conservate nell’Archivio centrale dello Stato, con un’analisi delle immagini di Salvatore Ligios, 51 fotografie, 11 fra piantine, mappe e cartine, 3 grafici e 2 disegni. Dopo il suo recente ritrovamento si era scatenata ed aveva iniziato a ricostruire la drammatica esperienza dei cosiddetti “dannati dell’Asinara” attraverso materiali documentari che illustrano la progressiva evoluzione degli insediamenti nell’isola, dal periodo che precede l’arrivo dei prigionieri fino alla costruzione degli spazi destinati ad accogliere gli internati. Elementi preziosi per indirizzare la ricerca archeologica condotta da Marco Milanese, alla ricerca deli impianti sanitari del campo. Furono detenuti nell’isola oltre 20.000 soldati raccolti nei primi mesi di guerra, che furono decimati dalle precarie condizioni igieniche e dal diffondersi di malattie epidemiche. L’elenco dei decessi allegato all’album testimonia l’altissima mortalità. Le foto portano poche tracce della realtà del campo, ma, al di là delle imposizioni dettate dalla censura e dall’ufficialità, costituiscono una fonte che si offre a una lettura storica non ingenua delle immagini.  Il volume su L’ Ottocento. Dalla fusione all’Unità, 1800-1899 (2011), in collaborazione ancora con Zichi per La Nuova Sardegna.

La sua amicizia con Franco Atzeni il mio collega e coetaneo di Cagliari, la collaborazione con Manlio Brigaglia per l’Enciclopedia e per il V volume della Storia della Sardegna. A lui aveva dedicato nel volume miscellaneo La Sardegna dal mondo antico all’età contemporanea, 2001 lo studio sulle lettere tra Grazia Deledda e l’amico Luigi Bodio, l’intellettuale milanese fondatore dell’Istituto italiano di statistica, di cui ci rimangono lettere e le notizie di un rapporto sviluppatosi a Roma tra teatro, gallerie d’arte, tanti altri momenti di formazione culturale  della giovane scrittrice nuorese.

E poi il Museo Garibaldino di Maddalena, il Museo dedicato al Barone Manno con l’attività di Aldo Accardo, la sua Alghero: già dall’inizio aveva seguito le ricerche di tesi sull’infanzia abbandonata e sulla vita quotidiana ad Alghero dal Settecento. Per il Convegno di fine rettorato che i nostri amici avevano organizzato a Bosa nell’ottobre 2014 aveva scritto sul sempre difficile dialogo tra amministrazione comunale e Stato centrale, alle origini del Dispensario celtico.  Da ultimo era stata coinvolta con Ignazio Camarda e altri amici nelle iniziative dell’Associazione Benjamin Piercy con Mario Bussa e progettava nuovi studi su Badd’e salighes, la costruzione delle ferrovie in Sardegna, la modernizzazione dell’isola.

Prima di partire per Torino mi aveva chiamato più volte per sentirmi, per raccontare e per progettare un futuro che desiderava davvero. Non allarmata ma consapevole serenamente delle difficoltà dell’operazione cui sarebbe stata sottoposta. Rimane un po’ il rimpianto per non averla dissuasa, per non averle parlato di più, per non averle detto la mia gratitudine. E ora il senso della perdita di una persona tanto cara e la fine di un rapporto che si reggeva più sugli sguardi che sulle parole. Con l’ammirazione per chi, come Valeria Panizza, ha voluto con tutto il cuore questa giornata.




XII Convegno “Bartolomeo Borghesi”, in memoria di Angela Donati. Presentazione di “Epigraphica, periodico internazionale di Epigrafia” 83, 2021.

XII Convegno “Bartolomeo Borghesi”, in memoria di Angela Donati
Bertinoro, 28 ottobre 2021
Presentazione di “Epigraphica, periodico internazionale di Epigrafia” 83, 2021

Attilio Mastino

Ho il piacere e l’onore di presentare oggi a Bertinoro, al XII dei Convegni Bartolomeo Borghesi, tra tanti amici e colleghi, il volume 83° di “Epigraphica, periodico internazionale di Epigrafia” fondato da Aristide Calderini nel 1939, con il sottotitolo allora di “Rivista italiana di Epigrafia”, dopo il congresso di Amsterdam (il primo Congresso epigrafico internazionale) nel terribile 1938. Questo volume, datato a settembre 2021, viene pubblicato come di consueto dall’Editore F.lli Lega di Faenza.

Era stata Angela Donati a chiamarmi a dirigere con lei dal 2010 la rivista assieme a Maria Bollini; otto anni dopo sono subentrato come direttore dopo la sua scomparsa avvenuta il 13 ottobre 2018, anche per volontà dell’Editore e della Famiglia e per il generoso legato testamentario nei miei confronti: e ciò dal numero 81°, con registrazione al Tribunale di Ravenna del I luglio 2019, con l’aiuto di Maria Bollini e Antonio Maria Corda.

 

Con vivo apprezzamento abbiamo visto l’Editore Vittorio Lega affaccendarsi per l’uscita a Bologna di questo numero di Epigraphica, pieno di novità e di sorprese, grazie all’impegno del Comitato scientifico (Giulia Baratta, Alain Bresson, Francesca Cenerini, Paola Donati, Piergiorgio Floris, Antonio Ibba, Giovanni Marginesu, Marc Mayer, Stephen Mithchell, Paola Ruggeri, Antonio Sartori, Marjeta Šašel Kos, Manfred Schnmidt, Christian Witschell, Raimondo Zucca). E del Comitato di redazione composto da Tiziana Carboni, Simone Ciambelli, Valeria Cicala, Maria Bastiana Cocco, Federico Frasson, Daniela Rigato. L’Editore, al quale siamo davvero grati, preannuncia una profonda riorganizzazione della Rivista e della Collana anche col trasferimento imminente della proprietà e del legale rappresentante e con la pubblicazione on line dell’intera serie di 83 volumi di Epigraphica. Lasciatemi però ricordare ancora una volta il debito che abbiamo contratto nei confronti di Giancarlo Susini e Angela Donati, la loro passione, la loro generosità, la loro disponibilità senza uguali, il magistero del loro insegnamento, la loro amicizia, che in qualche modo continua con le famiglie e gli allievi.

Pensiamo che entrambi avrebbero gioito con noi per l’uscita – avvenuta una settimana fa – di questo volume di Epigraphica che arriva a 670 pagine con gli interventi di 66 autori provenienti da dieci paesi, dall’Italia e San Marino, Francia, Spagna, Portogallo, Regno Unito, Finlandia, Polonia, Turchia, Canada, USA. In totale 36 articoli, 11 schede e notizie, 6 recensioni, le consuete Nouvelles Aiegl firmate dalla Presidente Silvia Orlandi e dalla Segretaria Generale Camilla Campedelli, i risultati della V edizione Premio Susini finanziato da Terra Italia presieduta da Cecilia Ricci, vinto da Hernán Gonzáles Bordas, con le segnalazioni per i bei volumi presentati da Simone Ciambelli e Chiara Cenati. La commissione giudicatrice per la V edizione era composta anche da Francesca Cenerini e da Silvia Giorcelli Bersani. Concludono l’opera l’elenco dei collaboratori e i 48 titoli della Collana Epigrafia e antichità.

Lasciatemi dire grazie agli autori, ai membri del Comitato scientifico e del Comitato di redazione, ai tanti revisori anonimi. Voglio esprimere l’ammirazione per le tante imprese scientifiche di Università, Soprintendenze, Centri di ricerca, Deputazioni di storia patria, musei, istituzioni che hanno preceduto e reso possibili questi interventi in Italia ma in tutto il Mediterraneo: scavi, indagini in depositi, archivi, collezioni private, biblioteche, attentissime verifiche filologiche ed epigrafiche, fondate su un metodo che condividiamo tutti, quello dell’autopsia dei documenti spesso dispersi, della ricerca dei testi collocati in collezioni o come le iscrizioni rupestri incatenate ad un territorio, ad un paesaggio e ad un ambiente; con l’utilizzo delle nuove tecnologie, delle ricostruzioni in 3D, del laser scanner; riaffermiamo la responsabilità dei singoli studiosi nello stabilire il testo, nel colmare le lacune, nel proporre confronti, con una maggiore o minore capacità di collegare spunti, idee, prospettive di ricerca, con un metodo che ha ormai caratteristiche di piena scientificità e che rende sempre più l’epigrafia una disciplina incardinata anche nell’ambito delle scienze sperimentali, per quanto radicata nelle scienze umanistiche. Mi ha sorpreso come trent’anni fa, celebrando i cinquant’anni di Epigraphica, Giancarlo Susini avesse ben chiari il ruolo innovativo dell’epigrafia tra le discipline classiche, nei tempi nuovi che già si profilavano all’orizzonte: <<l’epigrafia come scienza dell’acculturazione, di interprete dei processi anche periferici tra scrittura e lettura, di storia dei momenti civili dello sviluppo culturale>>.  In questo volume si va dai decreti di Corinto prima della distruzione della città nel 146 a.C. al culto imperiale a Pergamon nell’età di Traiano, al Nord Africa, da Baeterrae in Narbonense a Sarmizegetusa in Dacia, e poi Huelva in Turdetania, Cascantum, Cordovilla de Aguilar in Hispania Citerior; in Betica a Gades e Santisteban del Puerto (Jaén). In Africa Proconsolare, Cartagine e Thignica. Il volume è dedicato in prevalenza all’Italia continentale con ampio spazio per Roma e Portus, ma con approfondimenti su tutte le regiones augustee, dal Latium et Campania con Napoli, Capua, Pompei fino alla Regio X e ad Aquileia. Non manca la Sicilia con Siracusa e Messana. Il tradizionale ordine alfabetico per autore in futuro sarà da abbandonare, a favore di grandi blocchi tematici o a ricostruzioni territoriali omogenee. Ne stiamo discutendo in redazione, ma già questa presentazione è orientata in questa direzione.

Oggi, raccogliendo gli stati d’animo di tutti, desidero riaffermare che siamo onorati per l’impegno degli autori, per la novità dei risultati con l’imponente materiale inedito che viene presentato in questa sede, per l’attenzione al tema della geografia nella storia, per il rapporto tra epigrafia, topografia, archeologia, tra mondo greco e mondo romano. Gli argomenti affrontati spaziano tra la titolatura imperiale, le carriere senatorie ed equestri, i centurioni ed i legionari, l’aristocrazia cittadina, la vita religiosa, i sacerdoti imperiali, i mestieri, la fiscalità, l’epigrafia itineraria come a Gades o funeraria come le 76 iscrizioni pagane inedite conservate nella catacomba dei SS. Marcellino e Pietro ‘ad duas lauros’ oppure a S. Lorenzo fuori le mura, l’instrumentum, i graffiti pubblicitari, l’opus doliare, le scritte su prodotti della farmacopea, le epigrafi amorose greche, la sigillata, il mondo ebraico e quello cristiano. Infine il formulario, il collezionismo antiquario, la storia degli studi, la presentazione di ricerche in corso.

L’aggiornamento delle grandi raccolte epigrafiche dell’Ottocento è discusso approfonditamente in articoli e recensioni: nel volume 2020 di Epigraphica avevamo presentato due supplementi a CIL IX curati da Marco Buonocore : il Supplementum Fasciculus Primus Samnites – Frentani; Fasciculus Secundus Marrucini – Paeligni – Vestini. Ora Cesare Letta (dell’Università di Pisa) anticipa il positivo giudizio sul terzo fascicolo del SupplementumCIL IX, dedicato all’epigrafia latina di Marsi ed Equicoli: si tratta come ormai sappiamo di una grande impresa internazionale, un’opera monumentale davvero significativa per la scienza epigrafica italiana. Cesare Letta amplia la riflessione e discute trascrizioni, integrazioni e interpretazioni di numerose epigrafi, proponendo costruttivamente alcune nuove soluzioni interpretative che nulla tolgono ai risultati ottenuti dal nostro Marco Buonocore (L’epigrafia di Marsi ed Aequi nel Supplementum di CIL IX≫ (pp. 259-269).

Se passiamo al secondo fascicolo del supplemento 4 del CIL IV, splendidamente curato da Heikki Solin e Antonio Varone rimandiamo alla nostra positiva recensione: un’impresa collettiva, davvero significativa, che prevede il riesame globale delle iscrizioni parietali pompeiane, che ha coinvolto una nutrita e qualificatissima equipe di ricerca, gli autori ma anche i responsabili dei Musei e delle Soprintendenze e molti studiosi di alcune Università. Questo secondo fascicolo contiene da un lato le aggiunte alle iscrizioni dipinte pompeiane o tout court ai dipinti, cioé ai tituli picti finora pubblicati nel CIL IV, oppure ai tituli picti ercolanensi. Dall’altra parte si segnalano le molte aggiunte e le correzioni ai graffiti propriamente detti, originariamente pubblicati da Karl Zangemeister (nel 1871) e da August Mau (nel 1909). La seconda parte del volume consta in un’edizione dei nuovi tituli picti scoperti tra il 1956 e il 2018 non ancora compresi nel CIL. Naturalmente le caratteristiche stesse dei documenti studiati lasciano mille dubbi: già in partenza si trattava di segni occasionali, incerti, opera talora di scriptores che conoscevano poco la lingua latina o greca utilizzata. Eppure il merito dei curatori sta proprio nella loro capacità di suggerire percorsi nuovi, di proporre alternative, di indicare orizzonti di senso che talora non sono certi ma che testimoniano una profonda conoscenza del mondo classico e della letteratura latina e greca. Un notevole esercizio di abilità e di intelligenza (Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL IV, Suppl. 4,2), consilio et auctoritate Academiae Scientiarum Berolinensis et Brandenburgensis editum, Voluminis quarti supplementum, Partis quartae Fasciculus secundus, Inscriptiones parietariae Pompeianae, ediderunt Heikki Solin (Helsingin yliopisto, Suomi), Antonio Varone, Peter Kruschwitz. Adiuvantibus Stefano Rocchi (Università di Pavia) et Ilenia Gradante, De Gruyter Berlin MMXX, pp. XXI-XLVII, 1558-1912, tab. I-VIII≫ 643-647).

Ai graffiti (ma di Capua) si dedica anche Ivan Di Stefano Manzella (Università della Tuscia), che studia il graffito parietale CIL X 4484, recentemente ripreso da Stefano Rocchi (S. Rocchi, R. Marchionni, Oltre Pompei. Graffiti e altre iscrizioni oscene dall’impero Romano. Introduzione, testo, traduzione e commento filologico, presentazione di Antonio Varone, The Seeds of Triptolemus 1, Deinotera, Roma 2021(ISBN 978-88-89951-29-3). Sembra trattarsi della trascrizione di un doppio grido pubblicitario laicas eme! e laicas emite! dove l’aggettivo laicae sembra sottintendere il sostantivo strues “focacce” qualificate come “popolari” per distinguerle dalle strues sanctae. Analoga distinzione troviamo nella Bibbia quando il sacerdote Achimelech, rispondendo a una richiesta di Davide, menziona due categorie di ἄρτοι / panes: i βέβηλοι “profani” definibili anche “volgari” nel senso di destinati al vulgus (dunque laici) e gli ἅγιοι / sancti (Laicas (strues?) eme!”: un grido pubblicitario nel graffito capuano CIL X 4484 ” 181-185).

Il bel capitolo dell’epigrafia greca è aperto da Alessio Ranno della Normale di Pisa che presenta il repertorio epigrafico corinzio di II secolo a.C. relativo a decreti e concessioni di onori nel quadro della politica e diplomazia di Corinto tornata nella Lega Achea dopo la parentesi avviata da Arato di Sicione tra il 243 e il 224 a.C. La quasi totalità delle testimonianze epigrafiche di Corinto si concentra nell’ultimo cinquantennio di vita della πόλις greca (196-146 a.C.), quando la citta si trova a gravitare tragicamente per la seconda volta nell’orbita della Lega achea. L’articolo propone un riesame del dossier epigrafico, nel tentativo di individuare alcune tendenze generali dell’attività politica e diplomatica di Corinto: il documento epigrafico più rilevante di questo corpus corinzio consiste in un decreto onorifico per 13 giudici corinzi emesso verosimilmente dalla citta di Elide; ma si segnalano novità e nuove interpretazioni, come a proposito decreto di προξενία per un cittadino di Egion, membro storico della Lega e fino al 188 a.C., sede fissa delle riunioni del κοινόν. L’impressione generale che se ne ricava è quella di un rinnovato protagonismo della πόλις nelle vicende politico-diplomatiche interne al κοινόν del Peloponneso, forse frutto di un’attiva politica di più equilibrata inclusione e cooperazione degli stati membri: un progetto collaudato dalla Lega negli ultimi anni della sua vita che sembra aver sortito dei discreti risultati (Politica e diplomazia di Corinto nella Lega Achea: il repertorio epigrafico corinzio di II secolo a.C., pp. 553-464 .

Ergun Lafli (Dokuz Eylül Üniversitesi, Turkce) – Hadrien Bru (Université de Bourgogne-Franche-Comté, France), in un lavoro che si pubblica in memoria di Martin Bachmann, lo studioso scomparso nel 2016, presentano quattro documenti inscritti greci inediti da Pergamon, alcuni finemente decorati, scoperti nel 1974 ed entrati nel 2012 nel Museo di Bergama. Questi nuovi testi consistono in due stele funerarie ellenistiche, un altare quadrangolare dedicato al divus Augustus e alla dea Livia Hera posto in occasione della nomina di due nuovi sacerdoti, uno di Cesare e l’altra una ἱέρηα, moglie di un Melelaos). Infine anche un nuovo elenco di boukoloi (mandriani) di Dionysos Kathegemon datato tra l’età di Traiano e quella di Adriano (Four Funerary and Dedicatory Inscriptions in the Museum of Bergama (Pergamon, Western Turkey), 237-258).

Nelle schede e notizie Emiliano Arena (Università di Messina), presenta un monumento a forma di piccolo tempietto (naìskos), con architrave inscritta inedita che ricorda un Βασ[ι]λίσκος Βουδέλου: si segnala sigma lunato, epsilon e omega corsivi. Siamo nella Messana mamertina alla fine del III secolo a.C., ma l’elemento greco sembra convivere in pace coi mercenari filo-romani (Epigrafe funeraria ellenistica inedita dalla necropoli meridionale di Messana, pp. 573-583).

Marcello Gelone (Università di Napoli ≪Federico II≫), sulla base di un fine utilizzo di materiale archivistico corregge la lettura della base di marmo, sulla quale era posta la statua del consolare L. Crepereius Proculus, posta in segno di gratitudine dai membri della fratria degli Ἀρτεμίσιοι φρήτορες, una delle almeno dodici/tredici suddivisioni civiche di Neapolis, poiché fu generoso nei loro confronti, in qualche occasione sulla quale il testo della dedica non ci informa. (Novità sulla dedica neapolitana al console L. Crepereius Proculus, pp. 599-606).

David Martínez-Chico (Universitat de Valencia), presenta una gemma originariamente incastonata in un anello d’oro o d’argento, con la scritta in lingua greca Ἀγάθι, | Λεόντις | σε φιλῶ, II-III secolo d.C. Si tratterebbe di un annulus pronubus come quelli citati da Tertulliano, Apol. 6, donato all’amato Leontius dalla sua donna, in vista del matrimonio (Inscripción griega y amorosa en un entalle semiprecioso, pp. 309-314).

All’epigrafia greca tarda rimanda una frammentaria iscrizione cristiana di Siracusa studiata ora da Gaetano S. Bevelacqua (Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Roma – CDV): lacunosa su ogni lato, la lastra rinvenuta da Paolo Orsi nella catacomba di San Giovanni nel 1894 presenta caratteristiche assai peculiari nel formulario della minaccia contro i possibili violatori della sepoltura nelle righe finali, oggi frammentarie.  La prima riga ricorda il Τόπος Παύλου, morto a trent’anni di età. Vengono ora completamente superate le integrazioni delle righe successive fin qui accolte: l’a. propone di determinare l’identità del santo invocato nel profeta Zaccaria, che non avrebbe nulla a che fare col padre di Giovanni Battista (e pure col nostro Claudio Zaccaria, eh), ma che sarebbe il sacerdote noto per la maledizione contro i ladri e gli spergiuri (con l’uso di falce e coltello) e nel quadro di un riutilizzo delle scritture in iscrizioni funerarie, amuleti e incantesimi (Zc 5, 1-4) : Ὁρκίζω κα|[τὰ ἁγ]ήου Ζαχα|[ρίου] (Una minaccia «per San Zaccaria» su un’iscrizione cristiana da San Giovanni a Siracusa? Una nuova proposta di lettura e alcune osservazioni p. 9-22).

Il capitolo relativo alla famiglia imperiale è aperto da Enrico Angelo Stanco (Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Napoli), che presenta un frammento epigrafico da Lucus Feroniae (Etruria) che sembra menzionare il flaminato iuliale di Agrippa, sulla base di un collegamento con un ulteriore frammento, già edito, in cui è presente un cursus: in modo convincente si può ipotizzare la redazione nell’età di Caligola di un inedito elogium esteso a Marco Agrippa (augur(i)? septemvir(o) epu]lon[um pontifici? flamini iu]liali [fratri arvali? XVvi]r(o) sa[cri]s [fac(iundis) co(n)s(uli) tert(ium) imperator(i), nella sua ultima potestà tribunicia, nell’ambito di un ciclo statuario che comprende anche Germanico, Agrippina e i fratelli e le sorelle di Caligola, di cui restano alcune delle iscrizioni dedicatorie già edite in altra sede (Un flamen Iulialis da Lucus Feroniae e i sacerdozi di Agrippa 505-520).

Fulvia Mainardis (Università di Trieste) in un articolo che interesserà molto anche gli archeologi, prende in esame due frammenti di iscrizioni monumentali individuate a breve distanza dalla basilica di Aquileia (Piazza dei Patriarchi) che possono essere ricondotte all’anfiteatro della città, con riferimento agli Iulii. L’a. presenta anche alcune rilevanti novità sui tre sedili iscritti attribuiti al restauro dell’edificio con i fornici apparentemente numerati: conosciamo alcuni loca, ma anche i cunei: si indagano le vicende collezionistiche e il portato documentario per la storia della società di Aquileia (Amphitheatralia Aquileiensia. Nota epigrafica sull’edifico da spettacolo di Aquileia, pp. 279-296).

Discute delle proprietà di Messalina Christer Bruun (University of Toronto, Canada), che dedica il suo intervento alla memoria di Symon Keay, scomparso purtroppo il 7 aprile 2021 a soli 66 anni di età: è come se Simon tornasse a parlarci dei temi e delle sfide scientifiche che gli erano cari, incrociando archeologia, geomorfologia, epigrafia, storia di Portus Romae, nell’ambito dei progetti del Parco Archeologico di Ostia antica, che vede coinvolti anche colleghi dell’Università di Cambridge. Alla fine del XVIII secolo una fistula plumbea iscritta fu scoperta a Portus, alla foce del Tevere. La notizia ci giunge da Carlo Fea, famoso e dotto studioso di epigrafia romana, ma la sua presentazione è piuttosto vaga e chiaramente non si basava su autopsia. Secondo l’opinione comune l’iscrizione rivela una proprietà di Messalina, la sposa dell’imperatore Claudio. L’autore considera questa interpretazione poco convincente, perché Messalina difficilmente poteva essere la proprietaria di un terreno a Portus, che in quegli anni costituiva il più grande progetto edilizio industriale dell’impero. Le iscrizioni sulle fistulae sono spesso di difficile interpretazione, e verosimilmente la notizia scaturiva da un frammentario e mal letto bollo su fistula in cui si nominava un amministratore imperiale o potente magnate del Tardo impero di nome Messal[—] (What to Make of the «Lead Pipe of Messallina» from Portus? Reinterpreting an Archaeological Report from 1794, pp. 23-36).

Un approfondito esame della titolatura imperiale sui miliari iberici è condotto da Alicia Ruiz-Gutiérrez (Universidad de Cantabria), Francisco-Javier Pérez-Rodríguez (Museo de Palencia, Espana), che presentano lo studio di un miliario dell’imperatore Decio e di Erennio Etrusco Cesare ritrovato a Cordovilla de Aguilar, nella parte settentrionale della provincia di Palencia (Castiglia y León). La lettura è integrata grazie ad un’altra pietra miliare di Decio proveniente da Rebolledo (Valdeolea, Cantabria), anch’essa associata alla stessa strada che da Segisamo portava all’Oceano fino a Portus Blendium, passando per Pisoraca. Questa strada facilitava la comunicazione tra l’altopiano spagnolo e la costa cantabrica. Il nuovo esemplare si unisce ai venticinque miliari Decio ritrovati fino ad oggi nella penisola iberica, e conferma l’abbondanza di testimonianze di questo imperatore sparse soprattutto in direzione di Bracara Augusta (Nuevo miliario de Decio hallado en Cordovilla de Aguilar (Hispania Citerior), pp. 465-482).

Manfred Schmidt (Berlin-Brandenburgischen Akademie der Wissenschaften, Deutschland) discute il miliario romano dedicato Neroni Claudio, con ascendenti e titolatura compresa la designazione al III consolato; fu rinvenuto nei pressi di Hasta in Baetica, e lo conosciamo fin dal 1749 grazie ad Anselmo Ruiz de Cortazar; è sicuro che il miliario non appartiene alla Via Augusta, come è stato precedentemente ipotizzato, ab Iano, dal confine provinciale, fino all’Oceano. La sua indicazione di 222 miglia fa riferimento alla distanza da Emerita Augusta come caput viae sulla grande strada che in Lusitania continuava la Via de la Plata raggiungendo Gades (Cadice); la conferma ci viene dalle distanze indicate dall’Itinerario Antonino che calcola da Emerita ad Hasta 223 m. p. per la via Emerita-Gades. Inconsueta è la titolatura di Nerone, che si confronta con un miliario di Olisipo (Lusitania) e soprattutto l’insolita struttura del nostro testo, costituendo il dativo Neroni Claudio una dedica all’imperatore. Solo tre esempi in tutto l’impero romano sono conosciuti come miliari di Nerone e tutti provengono da questo percorso. Sono presentati in questa sede con lettura emendata (Dedizierte meilensteine für Nero und die Strase nach Gades (Cádiz). pp. 483-490).

Per quanto riguarda le carriere senatorie, Giuseppe Camodeca (Università di Napoli, L’Orientale), raccoglie tre iscrizioni, purtroppo molto mutile, riviste come quella di Benevento che cita un vir clarissimus, curator r. p. (CIL IX 1673) oppure inedite, che riguardano senatori sfortunatamente anonimi. Si segnala il cursus honorum di un senatore di I secolo da Nuceria Alfaterna e un consolare onorato nel foro di Atella (Nuove iscrizioni senatorie da Beneventum, Nuceria Alfaterna e Atella, pp. 45-56).

Di grande interesse per studiare la mentalità dell’aristocrazia pagana tardoantica è l’espressione studiata da Stefano Rocchi dell’Università di Pavia, Avorum vestig[ia] recolens da CIL VIII 24104 da Culusa in Africa proconsolare, nell’età di Onorio e Teodosio II (401-423), che ricorda il restauro di statue innalzate agli antenati; allo stesso modo Psiche riandava i propri passi tornando dal regno dei morti al consesso dei vivi secondo Apuleio, met. 6. In realtà l’espressione andrebbe meglio confrontata con formule analoghe contemporanee, come quella di Uchi Maius, avito honore suffultus pochi anni prima, tra il 383 e il 388, nell’età di Valentiniano e Teodosio. Si deve rimandare anche a Pheradi Maius, con l’espressione vestigia ponam, S. Aounallah, F. Hurlet, Deux nouvelles inscriptions latines de Pheradi Maius-Sidi Khlifa (Tunisie), ” Epigraphica “, LXXXI, 2019, pp. 39-50 (Avorum vestig[ia] recolens: una pietra su Apul. met. 6, 19, 6, pp. 621-623)

Heikki Solin pubblica o ripubblica 11 iscrizioni di Capua, schedate dall’autore tra il 2009 e 2010 nel Museo Archeologico. Si segnala la possibile condizione senatoria di alcuni personaggi, difficilmente M. Pettilius Alexander. Altri nuovi apporti sono legati all’epitaffio di un presbitero del VI secolo, Buterit de Cutinis forse di origine africana (Nuove iscrizioni di Capua, IV, pp. 491-504).

Più novità abbiamo sulla carriera equestre: Tiziana Carboni (Università di Cagliari), analizza l’interpretazione di un’espressione utilizzata nell’iscrizione incisa sul monumento funerario urbano di L. Magius Pius, ≪ex equite Romano≫. A differenza di quanto sostenuto dalla maggior parte degli studiosi, è possibile dimostrare che questa espressione, nota soprattutto da fonti epigrafiche, definisce qualcuno che per ragioni non sempre determinabili è uscito dall’ordo equester (Smettere di essere cavalieri: gli ex equite romano, pp. 73-86).

Ad un cavaliere si riferisce la dedica studiata da Simone Ciambelli (Università di Bologna), che propone una nuova lettura del testo inciso sulla base monumentale frammentaria rinvenuta a Sarmizegetusa ed edita da Ioan Piso: la proposta di una nuova integrazione permetterebbe di identificare il collegium fabrum come dedicante dell’intero monumento innalzato nell’area di accesso al foro con la statua del procuratore Tertullo durante il principato congiunto di Settimio Severo, Caracalla e Geta (Il collegium fabrum di Sarmizegetusa e la statua di Tertullus: una nuova proposta di integrazione per AE 1998, 1086, pp. 99-108).

Se passiamo al capitolo di magistrati municipali, Carlo Molle (Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Frosinone e Latina), pubblica un blocco iscritto in perlato degli Aurunci conservato a Castrocielo ma proveniente da Interamna Lirenas (Latium adiectum) nella valle del Liri, relativo al sepolcro del quattuorviro M. Ovius M. f. e di due liberti della sua famiglia. La scoperta offre l’occasione per un’indagine prosopografica sugli Ovii e per proporre un quadro generale dei numerosi magistrati, sacerdoti e patroni di Interamna Lirenas conosciuti (Un nuovo quattuorviro e i magistrati di Interamna Lirenas, pp. 315-330).

Giulio Ciampoltrini (già Soprintendenza Archeologia per la Toscana), in occasione del riordinamento dell’archivio della soppressa Soprintendenza Archeologica per la Toscana presenta il calco cartaceo di un frammento iscritto ritrovato nel 1929 fra il torrente Bruna ed il torrente Sovata col titolo di praetor Etruriae. Si può accertare l’attribuzione del territorio di provenienza all’ager maremmano di Vetulonia (confinante con Roselle), forse rifondata in età post-sillana, con funzioni di presidio sul fiume Prile, emissario del lago di Castiglione della Pescaia; si conclude con la proposta che il frammento spetti ad una dedica sacra, posta da un personaggio che aveva rivestito la carica di praetor Etruriae subito dopo una magistratura municipale, nei primi decenni del I secolo d.C. Si tratta di una magistratura panetrusca che conosciamo anche come praetor Etruriae XV populorum, nota anche nei secoli successivi (Mantissa vetulonensis. Spigolature d’archivio per l’epigrafia di Vetulonia romana, pp. 109-120).

All’aristocrazia provinciale, sia pure di origine libertina, ci portano Marta Gómara Miramón, Oscar Bonilla Santander, Angel Santos Horneros e Miriam Pérez Aranda (Equipo arqueologico de Cascante-Asociacion Cultural VICUS, Espaňa), che studiano cinque epigrafi situate nella villa romana di Piecordero I a Cascante in Navarra, quattro inedite e una rettificata grazie ai nuovi dati archeologici provenienti dagli scavi nella villa romana. L’analisi di tutti i pezzi studiati porta gli autori ad ipotizzare che queste epigrafi indicavano il nome del proprietario della villa in epoca flavia: L. Grattius, un possibile liberto che faceva parte della classe dirigente del municipio romano di Cascantum, interessato alla produzione di vino nel Conventus Caesaraugustanus (Epigrafía sobre dolium en la Hispania Tarraconense: el caso de L ・ GRATTI documentado en la villa romana de Piecordero (Cascante, Navarra) ≫ 215-230).

Maurizio Giovagnoli (Sapienza, Università di Roma) arriva all’identificazione di CIL XI 2604 con CIL VI 29735 correggendo la trascrizione dell’epigrafe incisa su una tavola marmorea con cornice di forma rotonda, probabilmente un clipeus appartenuto a un sarcofago di un esponente dell’aristocrazia laziale, vista da Giacomo Mazzucchelli nel XVI secolo a Roma; è possibile ora escludere l’epitaffio del magistrato municipale M. Ulpius Epagathianus dal corpus delle iscrizioni rinvenute nel territorio di Chiusi. La carica di magistratus consente di ipotizzare una provenienza dell’epigrafe da Ficulea. (Un’iscrizione urbana attribuita erroneamente all’ager Clusinus: CIL XI 2604 = CIL VI 29735, pp. 209-214).

Fulvio Oliva (Roma) presenta un nuovo documento relativo ai liberti della gens Norbana e lo affianca alle epigrafi pertinenti allo stesso contesto storico, contribuendo così ad arricchire la nostra conoscenza della clientela di una delle gentes piu significative dell’aristocrazia augustea (I liberti e le liberte della gens Norbana a Roma, alla luce di una nuova testimonianza epigrafica ≫ 613-618).

Francesco Mongelli (Università di San Marino), a partire dall’edizione della iscrizione sepolcrale inedita di Q. Tertinius Faustinus, miles frumentarius della legio XXII Primigenia, databile in età severiana, propone alcune ipotesi sulle ragioni della presenza del soldato deceduto nel territorio canosino, forse prima di imbarcarsi da Brundisium: in alternativa su può pensare ad un incarico da parte dei Severi per portare avanti attività di spionaggio sui briganti dell’alta Apulia o su un senatore in transito, in coincidenza con le operazioni militari in Germania. Con l’occasione si propone un quadro completo dei frumentarii presenti in Italia (escludendo Roma, Ostia, Portus), in qualche caso con la possibilità di immaginare le funzioni assegnate ai loro fiduciari dagli imperatori in carica (Un inedito miles frumentarius della Legio XXII Primigenia Pia Fidelis a Canusium, pp. 331-348).

Per la vita religiosa posiamo spingerci fino all’Africa Proconsolare: in vista della pubblicazione del volume sul Saturno di Thignica, attualmente in avanzato stato di preparazione, Alberto Gavini, presenta tre iscrizioni inedite riconducibili al culto di Saturno praticato dai Titurnii, Postumii, Attii, identificate durante le attività di ricerca svolte nel settembre 2018 nell’ambito della missione epigrafico-archeologica tuniso-italiana a Thignica. Le tre iscrizioni forse provengono da un’area a sud-ovest della città nella quale sorgeva probabilmente un santuario dedicato al dio. Di grande interesse l’esame degli elementi decorativi, compreso l’arcaico segno di Tanit (Testimonianze epigrafiche inedite del culto di Saturno a Thignica, pp. 187-200).

Il culto di Plutone Augusto – dio con caratteristiche peculiari in Africa – è studiato nell’articolo di Maria Bastiana Cocco (Università di Sassari), che descrive una base rinvenuta nel 2018 nei pressi della fortezza bizantina e forse proveniente dall’area del santuario dedicato a Dis e Saturnus, sulla collina ai margini meridionali dell’insediamento: si ipotizza che questo Plutone, assimilato a Dite, possa esser connesso al Frugifer che ha dato il suo nome al municipio severiano Naturalmente molti confronti sono possibili in Africa e fuori (Un’inedita dedica a Pluto Aug(ustus) da Thignica (Aïn Tounga, Tunisia), pp. 121-132.

Tra le recensioni si segnala la rinnovata attenzione ai culti orientali in Africa: Alberto Gavini (Università di Sassari), commenta il bel volume di Laurent Bricault – Jean-Pierre Laporte, Le Serapeum de Carthage (Supplement a la Bibliotheca Isiaca I, Ausonius Editions, Bordeaux 2020, pp. 650-654).

Martyna Swierk (Uniwersytet Wrocławsk, Polska) studia il materiale epigrafico estremamente abbondante dalla Cartagine romana, arrivato ai giorni nostri; si tratta di oltre tremila iscrizioni, il 5% onorarie specie di età antonina e il 4,8% votive e gli innumerevoli epitaffi (il 72%), corrispondenti sia alla cultura pagana (1753 testi prevalentemente del II secolo) che a quella cristiana (437 testi, in prevalenza riferiti alla fine del IV secolo), che costituiscono una documentazione diretta della vita quotidiana della comunità locale; la lingua greca è documentata in 31 iscrizioni (8 bilingui); la lingua punica in una ventina di testi, alcuni bilingui. L’aspetto quantitativo, che tiene conto della distribuzione cronologica, e quello qualitativo, concentratosi in gran parte sul loro contenuto, costituisce un tentativo di una presentazione globale della cultura epigrafica della colonia augustea, che gioca sempre più un ruolo significativo in una dimensione mediterranea, come testimoniano in particolare le tabelle sui culti praticati nella capitale provinciale (The epigraphic culture of Roman Carthage, pp. 521-542).

Helena Gimeno (Università di Alcalá – Centro CIL II), Javier Velaza (Università di Barcellona), presentano una nuova iscrizione latina proveniente da Riotinto (Huelva), in Betica, ma a breve distanza dalla Lusitania. Si tratta di una placca votiva dedicata a Salagin, un nuovo teonimo indigeno, probabilmente turdetano o iberico, ricordato in età augustea su un ex voto litico posto da un Iuncus Varrenûs Pro salute Burdonis · vovit (Salagin: un nuevo teónimo en una inscripción de Riotinto (Huelva), pp. 201-208).

Eugenio R. Luján (Universidad Complutense de Madrid) – Aranzazu Fernández López (Universidad del Pais Vasco), correggono la lettura di un’iscrizione sacra incisa su un profondo vaso d’argento concavo ritrovato nella provincia Betica interna. La lettura corretta dovrebbe essere ora un dativo, Silvano te gratia, con la menzione di un antroponimo oppure meno probabilmente di un teonimo, quello del dio Silvano. Si tratta di un’iscrizione d’età repubblicana, riferita alla fine del II secolo a.C. o all’inizio del secolo successivo, che presenta un’interessante caratteristica linguistica, la documentazione del primo esempio dell’uso dell’accusativo anziché del dativo tibi in un pronome personale (Nueva lectura de una inscripción sobre vaso de plata de Santisteban del Puerto (Jaén) ≫ 271-278).

Chantal Gabrielli (Università di Firenze), precisa che l’iscrizione posta da Ti(berius) Cl(audius) Glyptus proviene dal larario di una domus di Saena Iulia, Siena; novità anche sui due patroni Fl(avii) Secundinus et Perelianus, proc(uratores) sumar(um), con mansioni finanziarie e contabili nonché di supervisione delle attività produttive su una proprietà terriera del dominus (Una dedica ai Lari (?) e due procuratores summarum dalla Pieve di San Marcellino in Chianti (CIL XI 7082-7083), pp. 584-591).

Se passiamo alle funerarie, Michel Christol (Université de Paris-I) ricompone il recinto di un monumento funerario di Beziers-Baeterrae ILGN 563, che ricorda il ruolo attivo svolto da Calidia Aucta, per proteggere un’ampia area sepulcralis e portare a compimento, anche per conto del padre e patrono Publius Calidius: un officium pietatis che consente di dare attuazione ad un testamento e di proteggere le sepolture di sua madre Calidia Felix e suo marito Caius Iulius Dapsilis libertus, avendo ricevuto in eredità la piena responsabilità dell’area funeraria (Les restes d’un enclos funeraire a Béziers et leur inscription: les devoirs de l’affranchie Calidia Aucta » 87-98).

Silvia Tantimonaco (Universidade de Lisboa, Portugal), si occupa della presenza di formule votive nelle iscrizioni funerarie latine, concentrandosi su un gruppo di epitaffi dell’Africa romana che recano formule del tipo votum solvit, relazionandoli con il culto locale di Saturno, che possedeva un carattere escatologico. In secondo luogo, l’a. rivolge la sua attenzione ad un’iscrizione funeraria di Volaterrae (Regio VII) nella quale il voto menzionato (ex voto ob conservationem) potrebbe essere stato rivolto dal dedicante alla defunta per ottenerne la protezione. Infine, considera una serie di epitaffi, nei quali il termine votum e attestato all’interno di formule identiche, nell’aspetto, a quelle delle iscrizioni votive (ex voto, votum posuit), ma sembra in bilico tra sfera sacra e sfera sepolcrale (A proposito della presenza di formule votive nelle iscrizioni funerarie latine, pp. 543-572).

Annalisa Capurso (Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara), Valentina Uglietti (Università di Bologna) presentano una stele centinata semplice rinvenuta a Reggio Emilia (Regium Lepidi nella Regio VIII) nel 2000 nel corso di scavi d’emergenza che hanno interessato un vasto settore della necropoli orientale romana. Il testo risulta di particolare interesse per la menzione di un mestiere poco attestato epigraficamente, circumlator. L’epigrafe quindi rappresenta non solo un arricchimento del corpus reggiano, ma anche una preziosa occasione per immettere nel dibattito sulle professioni di strada nel mondo romano un nuovo elemento relativo al commercio ambulante e al lavoro femminile (Una nuova attestazione di circumlator a Reggio Emilia, pp. 57-72).

Francesco Garamanti (Università di Firenze) discute una nuova edizione di CIL VI 38724 (epitaffio di Perpernia Secunda) e della tabula epigrafica inedita che apparteneva alla grande camera sepolcrale 12 piedi per 12 dei liberti Decimus Cervius Nicia, Decimus Cartilius Dionisius, Titus Vercius Nicephor e Caius Carrinas Nasta, presumibilmente entrambe di origine urbana dal sepolcreto Salario ma conservate presso un hotel a Figline e Incisa Valdarno (CIL VI 38724 e una tabula funeraria inedita a Figline e Incisa Valdarno (FI): alcune note ≫ 592-598.

Possiamo aggiungere il frammento di epitaffio di un Vecillius da una villa rustica in territorio di Telesia nel Sannio pubblicato da Carmine Mocerino (collaboratore esterno SABAP-CE-BN) (Frasso Telesino (BN): rinvenimento di epigrafe latina in località Grotta Sciurilli. Regio IV Samnium, pp. 607-609).

Antonio Corbo (Sapienza, Università di Roma), contribuisce ad arricchire lo studio sul patrimonio epigrafico del comune di Ponte (Benevento) con cinque nuove acquisizioni di tituli sepulcrales, compresi un sarcofago e un’urna cineraria, che forniscono dati significativi per una miglior comprensione delle dinamiche di popolamento dell’area fra la prima e la seconda età imperiale (Nuove iscrizioni latine dal territorio telesino/beneventano , pp. 133-148).

Romano Cordella (Deputazione di Storia Patria per l’Umbria) – Nicola Criniti (Università di Parma), dopo un quadro di sintesi sulla drammatica situazione del patrimonio culturale di Norcia e Valnerina nella Sabina settentrionale a quattro anni dal sisma del 30 ottobre 2016, passano ai temi epigrafici. Dapprima uno sguardo agli attuali dislocamenti dei materiali iscritti, quindi l’edizione di 4 iscrizioni e di 1 apografo, infine i puntuali aggiornamenti dei loro lavori. Tra tutti i documenti citiamo l’epitaffio posto da Valeria Creusa ai genitori C(ai) Valerius Primigenius et Volusia Synethes, oggi a Spoleto ma da Preci. L’attenzione è rivolta anche alle fonti codicologiche vecchie e nuove tra cui un manoscritto ottocentesco appartenuto all’infaticabile Thomas Ashby (Novità e revisioni epigrafiche dalla Sabina settentrionale, pp. 149-180).

Edoardo Radaelli (Sapienza, Università di Roma, Italia [Alumnus]; The University of Southampton, UK, [Alumnus]), Ilaria Gabrielli e Federica Lamonaca (Sapienza, Università di Roma [Alumnae]) analizzano un gruppo di 76 iscrizioni pagane inedite conservate nella catacomba dei SS. Marcellino e Pietro ‘ad duas lauros’ al terzo miglio dell’antica via Labicana (attuale via Casilina) a Roma. Tutte le iscrizioni considerate sono sepolcrali e databili tra il I e il III secolo d.C. (Iscrizioni pagane nella catacomba dei Ss. Marcellino e Pietro ‘ad duas lauros’ a Roma, pp. 361-418).

Lucia Rainone (Sapienza, Università di Roma) prende in esame 34 epigrafi funerarie latine pagane appartenenti alla collezione musealizzata nel chiostro della basilica romana di San Lorenzo fuori le mura. La prima e più ampia parte del contributo e riservata alla pubblicazione dei testi inediti, costituiti perlopiù da frammenti di piccole dimensioni che conservano resti di formule sepolcrali e onomastiche. La seconda sezione ospita invece nuove considerazioni e ipotesi interpretative relative

a iscrizioni già edite (Le iscrizioni funerarie pagane del chiostro di San Lorenzo fuori le mura: inediti e revisioni, pp. 419-442).

La nota di Umberto Soldovieri (IC Nichelino 3, Torino) ci conduce ad un lontano ritrovamento a Montefusco, in provincia di Avellino di tre epitaffi, uno dei quali ricorda C. Egnatius Saturninus onorato dalla sposa Seppia Secunda e dal figlio C. Egnatius Saturninus, che del padre ripete il comune cognomen: Egnatius e Seppius, nomina di stampo osco, risultano ampiamente documentati in area irpina (Tre cupae e un signaculum ex aere dall’ager Beneventanus, pp. 623-628).

Restiamo sulle cupae con Alfredo Buonopane (Università di Verona), che ci porta alla Regio II, Apulia et Calabria: tre iscrizioni inedite, provenienti dal territorio dell’antica Compsa in Irpinia, oggi Conza della Campania (Avellino), incise su rozze cupae litiche in calcare locale. Le epigrafi si segnalano per il formulario impiegato, per i fenomeni linguistici e per gli aspetti onomastici, fra i quali è notevole l’attestazione nel IV secolo del cognome femminile Sabbatis, di origine semitica e raramente attestato fuori di Roma e di Ostia: è portato da una Aurelia, misera mater di Aur(elius) Paulus (Tre cupae iscritte inedite da Compsa (Italia, Regi II), pp. 37-44).

Sabino Perea Yébenes e Raul González Salinero (Universidad Nacional de Educacion a Distancia – UNED, Madrid) attribuiscono ad ambito ebraico l’urna cineraria di probabile provenienza urbana di Iulia Sabbathis, che ora viene studiata nei suoi aspetti iconografici ed epigrafici e collocata in età flavia o traianea; emergono gli splendidi rilievi angolari di Giove Ammone con cornucopie. Gli autori presentano una nuova proposta di lettura e la possibilità che la persona deceduta, forse una metuens, timorata di Dio, ma del dio degli Ebrei, da collegarsi credo con l’arrivo di alcune famiglie ebraiche dopo la distruzione di Gerusalemme da parte di Tito (Urna de Iulia Sabbathis (notas a CIL VI 20662), pp. 349-360).

Enzo Puglia (Sorrento) riconsidera il carme funerario cristiano di Vico Equense studiato su Epigraphica del 2019 da Mario Pagano e Antonio Vanacore, con una bella traduzione che si allontana in più punti dall’interpretazione precedente:

Da questo luogo, Albino, si levi il tuo corpo nel cielo

quando l’Onnipotente concederà che sia vinta la morte.

Tu, grande per i tuoi meriti, per ogni dove sereno vaga

e nei suoi possedimenti t’accolga il Padre pastore

(Sul testo della nuova iscrizione della cattedrale di Vico Equense, pp. 618-621).

Alla farmacopea sono dedicati tre significativi interventi: Lisa Maraldi (Gruppo Archeologico Cesenate), Daniela Rigato (Università di Bologna) analizzano un graffito su coppa in terra sigillata tarda (un mortaio). Il manufatto e stato rinvenuto durante scavi archeologici condotti nell’area della Biblioteca Malatestiana di Cesena. Si illustra anche il complesso contesto di rinvenimento, che denota un’occupazione dell’area da età romana fino all’età moderna. La lettura del graffito proposta documenterebbe un’indicazione relativa all’ambito della farmacologia antica, con un esplicito riferimento alle erbe medicinali (Una coppa in terra sigillata medioadriatica con graffito dall’area della Biblioteca Malatestiana di Cesena, pp. 297-308).

Adriano La Regina presenta la trascrizione con alcune integrazioni e con l’interpretazione dell’iscrizione su frammento di tegola rinvenuta a Pietrabbondante, nel Sannio, nel 1848, già accolta nelle principali sillogi epigrafiche, ma mai adeguatamente intesa. Il testo è parte di una ricetta per la composizione di un farmaco contenente papaver nigrum o silvaticum (Ricetta per la composizione di un farmaco da Pietrabbondante (CIL IX 2794), pp. 231-236).

Eoin O’Donoghue, Anthony Tuck e Rex Wallace (University of Massachusetts Amherst, USA) studiano un frammento di ceramica arretina col bollo di L. Gellius dalla provincia di Siena (An Arretine Pottery Fragment with Potter’s Stamp Recovered from Vescovado di Murlo (Provincia di Siena), pp. 610-612).

Alfredo Valvo (Università Cattolica del Sacro Cuore) in una scheda dedicata alla memoria di Ida Calabi Limentani scomparsa nel 2013, chiarisce il contenuto di una lettera di Theodor Mommsen forse a Pietro da Ponte che segue quella a Pietro Emilio Tiboni, presidente dell’Ateneo di Brescia, datata l’11 giugno 1871 e presenta una lunga minuta di Studii Osci attribuita al Mommsen e datata 1845 (Un errata-corrige e una traduzione italiana dei Nachtrage zu den Oskischen Studien del Mommsen, pp. 628-630).

Tra le altre recensioni, Maria Letizia Caldelli (Sapienza, Università di Roma), presenta Silvia Braito, L’imprenditoria al femminile nell’Italia romana: le produttrici di opus doliare, Scienze e Lettere, Roma 2020, 450 pp.; pp. 631-633; Paolo Garofalo (Universidade de Lisboa), discute Alejandra Guzmán Almagro, La Orthographia alphabetica de Aquiles Estaço. Colleccionistas y estudiosos de epigrafía romana en el siglo XVI (Palmyrenus, Coleccion de Textos y Estudios Humanistico), Alcaniz – Lisboa, 2019, pp. 234; pp. 633-637. Cristina Pepe (Università degli Studi della Campania “L.Vanvitelli”), presenta Heikki Solin (a cura di), Studi storico-epigrafici sul Lazio antico II (Commentationes Humanarum Litterarum 137), Societas Scientiarum Fennica, Helsinki 2019, pp. 648-650, opera curata anche da due studiosi di scuola finlandese (Mika Kajava e Pekka Tuomisto) ed altri di scuola italiana (Giuseppe Camodeca, Gianluca Mandatori e Umberto Soldovieri), da anni impegnati in ricerche sul vastissimo patrimonio epigrafico del Latium adiectum.

Pubblichiamo infine una recensione al bel volume Fiscalità ed epigrafia nel mondo romano, a cura di Cristina Soraci che inaugura la collana Bibliotheca aperta, per le edizioni de ≪L’Erma≫ di Bretschneider, pp. 637-643: il risultato è una riflessione a più voci, condotta con intelligenza e in profondità, sul tema difficile del contributo che la documentazione epigrafica può dare alla conoscenza della complessa organizzazione fiscale nel mondo romano, con l’evidente vantaggio di cogliere aspetti di dettaglio non considerati in altre fonti. Con tutti i limiti della documentazione epigrafica, ma anche con le potenzialità di un metodo di indagine capace di metterci in comunicazione diretta con il mondo antico.

Vorrei guardare ora al futuro rileggendo le belle parole del nostro Maestro. Scriveva alcuni decenni fa Giancarlo Susini, ben prima di facebook, quasi una profezia che vediamo compiersi sotto i nostri occhi, allargando progressivamente gli orizzonti della nostra disciplina: “Vien fatto di porsi – proprio perché Epigraphica si è aperta ad interrogativi sulla classificazione e sul divenire del sapere – un altro quesito. Come si esprimeranno “epigraficamente” gli uomini del futuro ? Forse, mi vien fatto di supporre, esisteranno meno lapidi gloriose, invece più messaggi baluginanti (in connessioni diverse con il linguaggio delle immagini, quindi in sintonia con gli schermi). Forse scriveranno di meno, nelle epigrafi (cioè in pubblico e con intenzioni durevoli) le strutture statuali; scriveranno di più gli uomini associati nelle fedi, nelle clientele, nelle imprese. Forse saranno comunque e per sempre i protagonisti del potere a gestire il potere pubblico. Epigraphica è aperta a registrare ed a discutere – come durante il suo mezzo saeculum – ogni rivolgimenti del modo di pensare e dei modi d’usare del messaggio iscritto: dal profondo delle storie, in avanti”.

Mi riservo poi nel dibattito se sarà il caso di presentare le ultime novità sulla collana “Epigrafia e antichità” è stata diretta da Angela Donati fino all’Iscrizione nascosta gli Atti del convegno Borghesi del giugno 2017 a Bertinoro, curato da Antonio Sartori, uscito nel 2019; avevamo voluto mantenere il nome di Angela anche per il 43° volume di Javier Andreu, Pablo Ozcáriz, Tsaro Mateo, Epigrafía romana de Santa Criz de Eslava (Eslava, Navarra), Fratelli Lega, Faenza, 2019. Poi dal 44° numero la direzione è stata affidata a Giulia Baratta, Maria Bollini e a chi vi parla; in tre abbiamo assunto una modestissima funzione di servizio con i volumi fin qui pubblicati: il 44° di Giulia Baratta, Alfredo Buonopane, Javier Velaza (eds.), Cultura epigráfica y cultura literaria. Estudios en homenaje a Marc Mayer i Olivé, Atti del convegno di Barcelona, Fratelli Lega Faenza, 2019; il 45° di Samir Aounallah, Attilio Mastino (eds.), “L’Africa romana. L’epigrafia del Nord Africa: novità, riletture, nuove sintesi”, Fratelli Lega, Faenza, 2020, con gli atti del XXI convegno di Tunisi 6-9 dicembre 2018; il 47° di Riccardo Bertolazzi, Septimius Severus and the cities of the empire, Fratelli Lega, Faenza, 2020, volume vincitore della IV edizione del premio Giancarlo Susini; il 48° di Antonio Sartori, Attilio Mastino, Marco Buonocore (cur.), Studi per Ida Calabi Limentani dieci anni dopo “Scienza Epigrafica”, Fratelli Lega, Faenza, 2021

Tanti altri progetti sono in cantiere e contiamo di pubblicare nuovi volumi a breve. Voglio ricordare almeno il volume 46° curato da Antonio Maria Corda, Instrumenta Inscripta VII. Testi e simboli di ambito cristiano su oggetti di uso comune, Fratelli Lega, Faenza, 2021 (in preparazione). Il volume 49° di Chiara Cenati (Ricercatrice post-doc nel progetto ERC Mappola, Universita di Vienna), “Miles in Urbe”: Costrutti identitari e forme di autorappresentazione nelle iscrizioni dei soldati di origine danubiana e balcanica a Roma. L’opera sarà pubblicata per iniziativa del Dipartimento di studi umanistici con il contributo della Fondazione Benedetto Parini-Chirio dell’Università di Torino. Infine speriamo di essere noi a pubblicare gli atti di questo convegno di Bertinoro voluto da Francesca Cenerini e Daniela Rigato in memoria di Angela Donati.




La Sardegna e i Sardi nella civiltà del mondo antico di Camillo Bellieni (1928-31)

Attilio Mastino
“La Sardegna e i Sardi nella civiltà del mondo antico”
di Camillo Bellieni (1928-31): la polemica sul tema della Nazione Sarda in Cicerone
Sassari, Aula magna dell’Università, 17 luglio 2021


Non si capisce il pensiero di Camillo Bellieni negli anni 20 senza partire dalle radici e dal paese della sua infanzia, Thiesi, così come avviene per tanti altri ex-combattenti della Brigata Sassari che un secolo fa il 6 aprile 1921 hanno dato origine al Partito Sardo d’Azione:

«Lo scrivente, se chiude gli occhi, vede ancora il villaggio della sua fanciullezza – scrive a Napoli -. Tutto in esso ricorda l’antico vico romano: la strada principale con le bianche domos allineate, i carri dalle ruote piene giungenti per maledette viottole dai saltos, carichi di grano. Ancora ode il sordo cigolio della macina romana, messa in moto dalla paziente fatica dell’asinello, ed assiste allo svolgersi del rito domestico presso il focolare, nella panificazione, nella tessitura, per opera delle serve e delle clienti, sotto la guida della solenne padrona. Nel sommesso chiacchiericcio delle donne affacendate egli raccoglie frammenti di frasi latine, che attestano il tenace spirito di conservazione isolano, di antichissime forme.Invano dunque per questo paese sono passati tanti anni di fatiche, di sogni e di sacrifizi, patrimonio ideale dell’attuale nostra civiltà. La Sardegna nel suo tragico isolamento, lontana dalla storia, conserva ancora i suoi abbigliamenti romani. Ma se un canto, modulato su poche note, insistente e nostalgico come una melopea d’origine desertica, rompa l’alto silenzio che incombe sul modesto gruppo di case disperso nella campagna bruciata, il pellegrino della fantasia ritroverà ancora intatta l’anima barbarica dell’antico popolo africano, che si effonde nel seguire le vicende di una intima melodia e conserva come retaggio prezioso ma esterno, l’arabescato monile della sua parlata latina».

Queste poche righe scritte in un esilio lontano a Napoli ci conservano un ricordo commosso della sua terra esprimono compassione e sensibilittà e sintetizzano quanto di più attuale rimane del pensiero storico del B.: la Sardegna di oggi può anche essere letta come il prodotto finale di una serie successiva di esperienze e di eventi in uno scenario mediterraneo, di cui i Sardi furono protagonisti e vittime. La storia lunga dell’isola consente di identificare i momenti salienti di un processo fondato sui cambiamenti come sulle continuità: gli uni e le altre hanno insieme costruito un’identità sarda, che non può prescindere dalle origini più lontane.

Accanto a Thiesi sembra di vedere l’Armungia di Emilio Lussu, la Cuglieri del 1924, Macomer, la Nuoro di Pietro Mastino, se vogliamo perfino Ales e Ghilarza. I tanti altri paesi dove è sopravvissuto (ben oltre la legge mussoliniana del miliardo) un forte sentimento antifascista che sarebbe esploso nel 1925 col V congresso de Partito Sardo, “la manifestazione antifascista più importante che si sia svolta nel paese quell’anno” (Girolamo Sotgiu). Alla fine dell’anno successivo si sarebbe giunti all’autoscioglimento del partito.

Siamo a due anni dall’assegnazione a Grazia Deledda del Premio Nobel nel 1926, destinato a ribaltare l’immagiario colletivo di una Sardegna che finalmente riusciva a raccontarsi con le sue sofferenze e le sue speranze; i temi cari alla scrittrice nuorese  entramo più o meno inconsapevolmente nei lavori di B. In questo clima, la grande opera storiografica intitolata La Sardegna e i Sardi nella civiltà del mondo antico venne concepita e realizzata con una forte empatia nei confronti della società contemporanea ma per tornare alle radici, per riflettere sulle costanti originali della storia della Sardegna, per accertare l’influenza della cultura latina sull’isola, per scendere in profondità al di là delle emozioni e dell’attualità;  ritorna con grande chiarezza il proposito dello storico di ripensare la società sarda come frutto di una secolare stratificazione culturale, di accertare la storicità delle mitiche colonizzazioni greche, libiche, iberiche, di rivalutare la lunga stagione classica, di riscoprire il ruolo di Roma e della Chiesa di Roma in Sardegna. L’esigenza prioritaria della storiografia del B. appare soprendentemente la rivalutazione della romanità nella storia della Sardegna, l’isola che presenta una sua «diffusa latinità», per quanto articolata con «recise differenziazioni». Già nel primo dei due volumi B. riconosceva nel 1928 [ma in realtà quattro anni prima] che la lunga fase romana ha lasciato eredità profondissime, a partire dalla lingua sarda, elemento che veramente collega la Sardegna contemporanea alla civiltà di Roma, una eredità che però si sovrappone ad una sensibilità più profonda e più antica, quella preistorica, ugualmente vitale. E poi la fase fenicio-punica, i tanti incontri con gli altri popoli del Mediterraneo. Un aspetto curioso è rappresentato dall’ammirazione del B. per Cartagine, la città vittima dell’imperialismo romano, che avrebbe dato all’isola un’impronta profonda, con la <<sua sapienza colonizzatrice» … «Il suggello di morte impresso sulla civiltà sarda del periodo cartaginese è il segno di una fra le cento sconfitte subite dalla stirpe semitica nel suo doloroso calvario».

B. guarda però soprattutto a Roma: egli rimedita la storia della Sardegna in età romana con uno sforzo di riflessione, di interpretazione personale e di sintesi; non mancano informazioni preziose su episodi considerati marginali; si registra un ampio utilizzo delle fonti letterarie, epigrafiche, archeologiche, numismatiche e si può apprezzare una profonda ed aggiornata conoscenza della letteratura precedente, compresa quella in lingua tedesca, inglese e francese. Da queste letture e dai suoi maestri sassaresi gli deriva anche l’atteggiamento di totale rifiuto delle Carte d’Arborea, viste come un ridicolo tentativo di nobilitare la storia sarda, un falso da respingere con sdegno. La conoscenza geografica dell’isola è veramente impressionante, soprattutto se si considera che il B. aveva vissuto gli ultimi anni lontano dalla Sardegna, quasi sempre a Napoli, a causa delle note vicende personali: eppure l’isola è percorsa idealmente in lungo ed in largo, prima per l’età repubblicana e poi per l’età imperiale. In questo senso, sul piano della geografia antica, della topografia delle città romane, con attenzione per le dimensioni dei rispettivi territoria cittadini, B. ha veramente compiuto un notevole passo avanti; ma anche sulla geologia, sull’agricoltura, sulle miniere, sull’economia, l’opera del B. rappresenta sicuramente un rilevante progresso. Anche la divisione della materia in capitoli e soprattutto in paragrafi appare innovativa ed originale, attenta a verificare le condizioni di vita delle popolazioni locali: si pensi ai paragrafi del primo volume, dai titoli alquanto coloriti, «I Sardi contro i Romani», «La tattica dei Sardi», «Ampsicora e la grande insurrezione del 215», «La guerra sulla montagna», «Oppressione romana e oppressione cartaginese», «Latifondo e classi sociali», «Tribù barbare e centri urbani», «La voce del popolo» oppure a quelli del secondo volume, «Voci di dolore», «Sardegna in solitudine», «Tramonto senza luce», «La spettatrice silenziosa», «Civitates Barbariae», ecc.

Il B. doveva costantemente fare i conti con la recente Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio romano di Ettore Pais, pubblicata appena cinque anni prima, carica di erudizione e di informazioni di prima mano: il modello era troppo ingombrante per poter essere ignorato o messo da parte. I rapporti personali tra i due non ci sono noti: B. aveva conosciuto il Pais a Sassari o più probabilmente forse già alla vigilia della Grande Guerra a Napoli, dove aveva vissuto per 7 anni e dove sarebbe tornato per qualche tempo come segretario dell’Università dopo l’avvento di Mussolini al potere: annunciando la pubblicazione della terza edizione della Storia di Roma sulla rivista “Il Nuraghe” nel 1927, il B. definiva Ettore Pais «un maestro di probità scientifica», «l’Uomo la cui vita è un costante esempio di metodico lavoro, condotto con senso di responsabilità e con uno scrupolo che sembrarono ad altri qualche volta eccessivi», « avvinto alla nostra isola da saldi legami di sangue e d’affetti». L’anno successivo, ad Ettore Pais ed a Gaetano De Sanctis egli si richiamava esplicitamente nell’introduzione dell’opera, «maestri venerati», ai quali ammetteva di dovere una riconoscenza profonda. B., ormai esule a Bologna, a Gorizia, a Fiume, a Catania ed infine a Roma, non sapeva che Pais – prima ostilissimo a Mussolini a causa del delitto Matteotti – sarebbe presto progressivamente scivolato verso il Fascismo e il militarismo coloniale.

Appare evidente anche dalla lettura dell’opera che il nazionalismo sardo del B. aveva molti punti di contatto con il nazionalismo italiano del Pais: del resto le posizioni politiche sardiste di B., alquanto moderate e democratiche, si inserivano nel grande filone del combattentismo nazionale, alla luce della dolorosa esperienza delle trincee. Il volume è dedicato «alla memoria di mio fratello Vittorio, anima di sognatore e di artista, capitano nella Brigata Sassari e tre volte decorato al valore, scomparso nel mistero di un meriggio di battaglia il 16 giugno 1918 a Croce di Piave. Per la Sardegna e per l’Italia». La distanza dal nazionalismo del Pais dunque appare abbastanza irrilevante, anche perché B. precisa di vivere la storia antica dell’isola, di questa «terra desolata dove sembra dominare sovrano il silenzio della inerte natura», «da sardo con consapevolezza italiana». È lo stesso concetto, del resto, che esprimeva all’interno del PSd’A già nel 1920, quando ricordava che la nazione da costruire in Sardegna, contro ogni forma di separatismo, era una nazione tutta interna all’Italia, fondata sull’autonomia etnica ma nell’ambito più vasto dello stato italiano, dunque di tipo federale. È vero che la conquista romana gli appare «ferrea» ed «inesorabile», un evento che ha spezzato una tradizione, che ha condannato l’isola melanconica e senza storia ad un lungo silenzio: «calma di popolo che non aveva più storia e che ormai subiva l’influsso della potenza romana irresistibilmente assimilatrice». Eppure le stesse origini nuragiche gli paiono illuminate dall’ingannevole fulgore del mito e solo la civiltà punica gli sembra per qualche aspetto positiva, in quanto «fervida ed operante sui mari». Ma è soprattutto la cultura latina che ha influito profondamente sulla società isolana: «questo processo di romanizzazione non fu senza significato per la storia della Isola. Esso per secoli, sino ai nostri giorni, fissò le linee essenziali del costume, del pratico operare del popolo sardo. La Sardegna per un miracolo della storia, è rimasta nel suo aspetto esteriore la più latina fra quante terre sono state sottoposte al dominio romano». È vero che l’assimilazione della cultura sarda da parte di Roma non è stata del tutto completa; ma se sullo sfondo rimane una identità più antica, l’età imperiale romana per B. segna una ripresa sul piano organizzativo e amministrativo, giacché l’isola «ricostruì il suo organismo politico ed economico in nuove forme e lo completò», anche se non gli sembra palpitare ancora di nuova vita, dato che «durante i primi tre secoli d.C. la Sardegna fu gravata da una atmosfera di sonno nella immensa Romanae pacis majestas». Forse il cristianesimo susciterà «una prima incerta fiammella di vita morale e la nuova coscienza romana germinata in ritardo acquisterà vigore nella difesa contro l’assalto longobardo e saraceno, durata per secoli nel silenzio della storia, eppure degna di altissima gloria».

L’atteggiamento stesso nei confronti della storia della Sardegna conosce, a seconda delle fonti utilizzate ed a seconda dei momenti, da un lato l’esaltazione mitica del passato, ma anche un ripetuto compatimento per le penose condizioni economiche e sociali dell’isola in età romana. Evidente è l’incertezza tra l’ammirazione per la grandezza di Roma e il risentimento per i metodi di colonizzazione violenta impiegati a danno dei Sardi; tra l’ideale di un grande impero mediterraneo che sintetizzi tutte le nazionalità e l’affermazione della specificità della nazione sarda. Non possiamo dire comunque che ci sia una strumentalizzazione della storia per scopi politici; semmai, l’indagine storica, per quanto gli è possibile rigorosa e rispettosa dei dati, è la premessa indispensabile per ogni successiva azione politica. In questo senso la distanza con il Fascismo appare incolmabile: B. scrive sotto il Fascismo, ignorando totalmente Mussolini, dando della storia della Sardegna in età romana una versione inusuale, forse con molte contraddizioni, ma sicuramente con un’impostazione originale e di grande interesse: la sua appare ancora oggi una riflessione profonda e non convenzionale.

Rispetto all’opera del Pais c’è intanto da registrare una prima novità ed è la scelta di focalizzare l’indagine storica sulla sola Sardegna, escludendo la Corsica, isola per la quale il Pais aveva voluto rinnovare con molta retorica la dichiarazione di italianità, richiamando le radici romane ed italiane della cultura corsa. Il B. appare viceversa ripiegato sulla Sardegna e più ancora sui Sardi, così come recita il titolo, come se intendesse separare nettamente la storia dei Romani e della romanizzazione studiata dal Pais dalla storia della popolazione locale in età romana, nelle sue differenti componenti, che è oggetto della sua indagine: e ciò con un’attenzione particolare per i fenomeni di resistenza militare o culturale dei Sardi di fronte alla civiltà romana. Va detto subito che non è scontato che questo progetto, veramente di grande interesse per l’epoca e per le circostanze nelle quali fu concepito, sia stato interamente realizzato.

C’è infine da sottolineare, ancora nel titolo, la volontà di estendere l’opera fino ad abbracciare non solo l’età romana, ma tornando indietro anche l’età punica e perfino l’età nuragica: ma tale proposito appare poi messo da parte, dato che i due capitoli iniziali dell’opera sono solo una rapida premessa. Colpisce la scelta di presentare in copertina, con un evidente anacronismo, la bandiera dei quattro mori, con i quattro campi segnati dall’elsa di una spada: è una ripresa, abbastanza sorprendente, della copertina della rivista “Il Nuraghe, Rassegna sarda di coltura”, diretta da Raimondo Carta Raspi, pubblicata a partire dal 1922, con il motto latino nec frangar nec flectar. Viceversa, per un evidente ripensamento, nel frontespizio e nella copertina del secondo volume compare un bronzetto nuragico, con un richiamo all’età nuragica e alle più antiche origini della civiltà dei Sardi.

La vicenda del processo contro il corrotto governatore Scauro, figliastro di Silla, orgoglioso esponente del partito aristocratico, che i Sardi unanimi accusarono di malversazioni e di violenze, assume i toni fascinosi del romanzo, occupando ben 60 pagine del volume, riprendendo il testo pubblicato sui due numeri della Rivista “Il Nuraghe” quattro anni prima: i centoventi testimoni pelliti arrivati a Roma per testimoniare contro Scauro furono «oggetto di salaci commenti dell’impertinente popolino romano per il loro viso bruno dagli occhi scintillanti e vivaci, e per le loro strane costumanze: i grandi cerchi d’oro o d’argento alle orecchie, l’ampio paludamento di lana naturale con larghe e abbondanti maniche in cui le mani restavano nascoste. Vecchi abbigliamenti della gente punica, confinati nel mesto ambiente di provincia». Essi «si aggiravano imbarazzati, storditi dal lungo viaggio e meravigliati dallo spettacolo insolito. Faceva loro da guida il loro compaesano, cittadino romano, che con grande aria di sussiego, ora dando ordini in punico, ora rivolgendo inviti in latino, riusciva a farsi largo e a far loro prendere posto sui banchi dei testimoni. Naturalmente era lui, Valerio, vestito da Romano, ma dall’inconfondibile aspetto di Sardo, che scuoteva il chiamato e lo faceva rizzare, e risponeva per lui presente quando l’araldo, nel proseguo del dibattito, faceva l’appello dei testi».

Noi oggi ci allontaniamo molto da Cicerone e in particolare dalla Pro Scauro per la ricostruzione dei fatti relativa ai delitti oggetto del processo, la morte del giovane Bostare e il suicidio della moglie di Arine. Soprattutto la concussione, il reato de repetundis sulla riscossione di tre decime, ma il giudizio complessivo di Cicerone appare straordinariamente efficace: l’appellativo Afer è ripetutamente usato come equivalente di Sardus; l’espressione Africa ipsa parens illa Sardiniae ha suggerito a Sabatino Moscati la realtà di una «ampia penetrazione di genti africane ed il carattere coatto e punitivo della colonizzazione o, meglio, della deportazione». Numerose altre fonti letterarie e le testimonianze archeologiche confermano già da epoca preistorica la successiva immissione di gruppi umani arrivati dall’Africa settentrionale (ma anche dall’Iberia, dalla Corsica, dalla Sicilia e forse dalla Grecia e dall’Oriente), fino alle più recenti colonizzazioni puniche, tanto che alcune fonti parlano di Sardo-lìbici; solo con l’occupazione romana erano iniziati un difficile rapporto e una contrastata convivenza con gli immigrati italici. Gli incroci di genti diverse che ne erano derivati, secondo Cicerone, avevano reso i Sardi ancor più selvaggi ed ostili; in seguito ai ripetuti travasi il popolo si era inselvatichito, o meglio «inacidito» come il vino, prendendo tutte quelle caratteristiche che gli venivano rimproverate; discendenti dei Cartaginesi, mescolati con sangue africano, relegati nell’isola, i Sardi costituivano un’unica “nazione Sarda”. Potrà sorprendere, ma dobbiamo proprio utilizzare un’espressione – natio – presente ripetutamente nella Pro Scauro di Cicerone, sia pure con una sfumatura polemica: la nazione sarda per Cicerone è caratterizzata dal fatto che tutti gli appartenenti hanno una mens, un analogo modo di progettare il futuro e di concepire i rapporti sociali; unus color, hanno tutti una carnagione olivastra forse legata alle origini africane; e infine una vox, parlano tutti un’unica lingua, più che la lingua cananea dei Fenici e dei Cartaginesi, il protosardo degli eredi dei nuragici, i 120 Pelliti testes, la lingua perduta che ha preceduto il latino, un suono indistinto, un rumore, un frastuono fatto di parole incomprensibili. Insiene costituiscono un’unica natio, una “nazione abortiva” per B. «nella quale, pur essendovi le premesse etniche, linguistiche, le tradizioni per uno sbocco nazionale, sono mancate le condizioni storiche e le forze motrici per un tale processo» (Mattone). Del resto negli stessi anni venti Emilio Lussu in una lettera ad Antonio Gramsci poneva come premessa alle rivendicazioni di tipo nazionale il fatto che i Sardi si erano «accorti da parecchio di essere una nazione fallita»; più tardi addolciva l’espessione, parlando di «una nazione mancata». Come abbiamo visto ieri, bisognerà arrivare ad Antoni Simon Mossa ed agli anni Sessanta per capire l’utopia del poeta della nazionalità, per il quale occorreva unire il momento di liberazione etnica a quello della liberazione sociale ed umana e non solo in Sardegna.  Eppure nel volume di B. non manca un richiamo ai valori di indipendenza nazionale sarda, che anzi con gli anni sembra emergere prepotentemente: di fronte ai Cartaginesi, «un nemico astuto, calcolatore e spietato», gli Iliensi ed i Balari costruttori di nuraghi sospendono le rapine e le guerriglie interne e costituiscono «l’unione sacra per la difesa del suolo della Patria e della personale libertà». Il loro è un «nido di vespe», che i Cartaginesi non ritengono opportuno stuzzicare; ma in età romana nei boschi risuonano «le urla degli assalitori avanzanti in catena, come per una immensa battuta di caccia»; verso questo popolo di «aborigeni» (tra virgolette), che continuano disperatamente «ad insorgere per affermare la loro sfrenata aspirazione alla libertà», B. esprime la sua simpatia, sostenendo che il racconto di quegli avvenimenti «manifesta una viva commozione nell’animo di ogni Sardo». Anche il tema della resistenza alla romanizzazione è affrontato per la prima volta nella storiografia sulla Sardegna antica, con relativa originalità: per il B. «la fiera resistenza degli indigeni che non avevano ormai più niente da perdere se non la libertà» è nata già in età cartaginese; ma più tardi, con l’occupazione romana, «alle popolazioni anarchiche ed a tendenze individualistiche come quelle sarde, tale potere stabile e senza limiti di Roma doveva sembrare intollerabile».

Oggi possiamo ammettere che il nostro termine “nazione” appare più caratterizzato rispetto al latino natio sul piano identitario, più capace di identificazione specifica, riferito a popoli che <<hanno in comune lingua, arte, storia, tradizioni>>. In latino il termine natio è utilizzato nel senso di “patria”, origo, luogo geografico di nascita e di origine ma anche domicilium (in greco génos, éthnos, polítes): il grammatico Lucio Cincio in età repubblicana faceva riferimento a coloro che sono radicati su un territorio, sul quale sono nati e continuano a vivere: genus hominum, qui non aliunde venerunt, sed ibi nati sunt ubi incolunt. A differenza di gens, la nozione di natio tiene conto del rapporto che un dato gruppo sociale ha nei confronti di un luogo geografico di origine; questo infatti identifica il suolo della patria originaria, <<solum patrium quaerit>>, in quanto è omoradicale col verbo nascor. Per il Thesaurus linguae Latinae, Friedrich Spoth osserva che nell’utilizzare il termine natio si intende trattare di un popolo individuato specialmente de coetu hominum, qui coniuncti sunt vinculo, magari unius originis, linguae, religionis similiter: le popolazioni straniere, alleate o sottomesse a Roma (nationes exterae); altre volte indica popoli ostili alla Res pubblica oppure etnie definite etnocentricamente “barbare e arretrate”, rispetto alla cultura di cui i Romani si ritenevano portatori primi. In epoca romana questa nozione era riferita soprattutto ai peregrini che abitavano ampie aree all’interno dello spazio geografico dell’impero e che conservavano le loro tradizioni e, se si vuole, una propria cittadinanza, in qualche caso alternativa alla cittadinanza romana: natio è dunque la comunità di diritto alla quale si apparteneva per vincolo di sangue, partendo dalla terra nella quale si era nati, dal luogo d’origine, di appartenenza o di provenienza; l’espressione natione Sardus è usata una decine di volte fuori dalla Sardegna con una sfumatita di nostalgia e di rimpianto, anche di orgoglio. Il termine era utilizzato di frequente per indicare anche i barbari che abitavano fuori dall’impero romano che avevano una propria lingua e tradizione, a prescindere dall’organizzazione provinciale e amministrativa romana. Natio poteva indicare genericamente un’etnia o poteva essere usato per caratterizzare anche solo un rappresentante di un’entità geografica più ampia, comprendente diversi populi e gentes. In ambito provinciale la questione aveva importanti contenuti culturali e giuridici, in relazione al rapporto tra la cittadinanza romana e gli iura gentis, cioè le tradizioni giuridiche locali dei peregrini, che sopravvivevano all’interno di una provincia romana, come testimonia in Sardegna, l’epigrafe del nurac Sessar: elementi che in qualche modo documentano la sopravvivenza dello <<ordinamento giuridico>> pre-romano in piena età imperiale. Si coglie il senso dell’utilizzo del termine natio quando veniva impiegato per indicare – con una sfumatura culturale e identitaria – l’insieme dei popoli che occupavano la provincia della Sardinia, isola che anche come entità geografica non veniva considerata facente parte dell’Italia romana, in quanto organizzata attraverso una propria lex provinciae e sottoposta originariamente all’imperium di un magistrato, perdendo la libertà di cui godevano i Romani. Nel de vulgari eloquentia 700 anni fa, Dante Alighieri avrebbe riconosciuto che i Sardi non sono italiani per il fatto che unici non parlano un proprio volgare italico, anche se metodologicamente possono essere associati agli italiani, associandi videntur. Mi sembra evidente che B. ricalcasse il pensiero di Dante quando fin dal 1920 scriveva: <<che noi non siamo etnicamente e linguisticamente italiani, è un dato di fatto incontrovertibile>>.

Fondamentale è il tema della libertà: nella decima Filippica Cicerone, nella polemica politica legata alla nascita del secondo triumvirato, avrebbe sostenuto che i Romani, spinti dal criterio dell’onore e della virtù, hanno fatto propria la causa della libertà; tutti gli altri popoli invece potevano essere disposti a sopportare la servitù; questo era possibile semplicemente perché gli altri rifuggivano la fatica e la sofferenza e, per evitarle, erano disposti a subire qualsiasi cosa. B. sapeva bene che Cicerone raccoglieva un topos un poco logoro, che legava la libertà dei Romani al servaggio di una natio: l’orazione mette in evidenza come tutti i testimoni sardi – i Pelliti testes – avessero immaginato di stringere un compromesso coi populares per ottenere dei vantaggi, convinti di poter mentire impunemente: postremo ipsa natio, cuius tanta vanitas est ut libertatem a servitute nulla re nisi mentiendi licentia distinguendum putent.

I Barbari si identificano dunque:

–       Per la lingua (barbari nella voce, phoné)

–       per l’assenza di città amiche del popolo romano e libere

–       per il colore scuro della pelle, in quanto meridionali

–       per le mescolanze di sangue

–       per non apprezzare la fides e ammettere la menzogna

–       per non essere cittadini romani

–       per la loro volubilità, vanitas

–       per l’avidità, l’insaziabilità, la voglia di arricchirsi

–       per la scarsa alfabetizzazione

–       per essere pronti all’ira

–       per la diversità nelle vesti: la mastruca che disumanizza i Sardi, li rende simili agli animali

–       per i riti magici

–       per la paura che provano di fronte al coraggio dei Romani

–       per essere pastori e non contadini

–       per la libidine delle loro donne

Cicerone utilizza nella Pro Scauro due volte il termine natio per indicare i peregrini Sardi; Livio utilizza invece l’espressione gens per il popolo degli Ilienses del Marghine-Goceano che continuavano a godere della libertà ancora nel I secolo a.C.: gens nec nunc quidem omni parte pacata; infatti, i loro iura sono richiamati sulla celebre iscrizione del Protonuraghe Aidu ‘entos di Mulargia, all’indomani della sedentarizzazione nel Marghine-Goceano del I secolo d.C. Per i Greci lo stesso popolo, indicato da secoli col nome di Iolaeoi, avrebbero mantenuto la libertà promessa per sempre dall’oracolo di Apollo ad Eracle per i suoi 50 figli che avessero raggiunto la Sardegna e per i loro discendenti, dove non avrebbero dovuto subire il dominio di altri popoli. Quindi Diodoro di Sicilia poteva constatare che i Sardi discendenti da Eracle avevano saputo resistere ai Cartaginesi ed ai Romani; si erano rifugiati sui monti, avevano preso dimora in luoghi inaccessibili, abitando in gallerie e in ambienti sotterranei da loro costruiti, dedicandosi alla pastorizia, nutrendosi di latte, di formaggio, di carne e facendo a meno del grano; così, lasciate le pianure, si erano sottratti anche alle fatiche di coltivare la terra. Infine continuavano a vivere sui monti, senza la preoccupazione del lavoro, contenti dei cibi semplici, mantenendo quella libertà che nemmeno i Romani, all’apice della loro potenza, erano riusciti a soffocare.

B. preferisce limitarsi a raccogliere le parole utilizzate da Cicerone per ricostruire la storia della Sardegna dall’età fenicia a quella punica, fino ad arrivare alla romana; gli incroci secondo Cicerone, avevano reso i Sardi ancor più selvaggi ed ostili; in seguito ai successivi travasi (transfusionibus), la popolazione si era “inacidita” come il vino (coacuisse), prendendo tutte quelle caratteristiche che le venivano rimproverate: ovvero, discendenti dai Cartaginesi, mescolati con sangue africano, relegati nell’isola, i Sardi secondo Cicerone presentavano tutti i difetti dei Punici, erano dunque bugiardi e traditori, gran parte di essi non rispettavano la parola data, odiavano l’alleanza con i Romani, tanto che in Sardegna effetttivamente non c’erano fino all’età di Cesare città amiche del popolo romano o libere ma solo civitates stipendiariae. L’espressione natio è utilizzata pochi anni dopo (nel 37 a.C.) anche nel de re rustica di Varrone, a proposito dei Sardi Pelliti della Barbaria sarda alleati di Hampsicora durante la guerra annibalica e per questo avvicinati ai Getuli africani.

Noi oggi sappiamo che alla fine dell’età repubblicana, Ottaviano avrebbe esaltato sulle monete e con la costruzione del tempio di Antas il dio nazionale dei Sardi, il Sardus Pater, figlio di Makeris-Melkart-Eracle, commemorando l’azione del nonno Marco Azio Balbo, propretore in Sardegna nel 59 a.C.; questo era stato l’anno cruciale del consolato di Giulio Cesare suo cognato, il quale a sua volta poteva vantare una ascendenza divina che forse lo collegava ai Sardi Ilienses, fondando una “parentela etnica” con i Sardi della Barbaria. Il santuario (le cui origini risalgono alla fine dell’età nuragica) aveva rappresentato il luogo alto dove era ricapitolata tutta la storia del popolo sardo, nelle sue chiusure e resistenze, ma anche nella sua capacità di adattarsi e di confrontarsi con le culture mediterranee.

Del resto B. riprende forse con troppa benevolenza anche la visione ciceroniana di Girolamo: non sine causa Christum mortuum fuisse, nec ob Sardorum tantum mastrucam Dei filium descendisse, frase che viene chiosata con qualche eccesso di auto-flagellazione. In questo quadro B. pensava di spiegare la polemica di Girolamo contro il fanatico Lucifero vescovo di Carales: «sangue semitico doveva scorrere nelle vene del vescovo sardo. Con tutta probabilità i suoi antenati avevano con occhio freddo e cuore fermo partecipato ai sacrifizi umani in onore del Baal Khamman, secondo le feroci tradizioni puniche». E B. significativamente conclude: «noi sardi amiamo nostro padre Lucifero, come tutti noi testardo ed orgoglioso; celebriamo la sua passione e comprendiamo il suo errore».

Gli eccessi del fiscalismo romano sono trattati più volte, già ampiamente nel VI capitolo del secondo volume e poi soprattutto in tre altri articoli usciti tra il 1926 ed il 1931: Il caput fiscale di Sardegna nel basso impero; Capitatio plebeia e capitatio humana; Decuma e stipendium in Sardegna durante l’età repubblicana.

L’economia romana in Sardegna gli appare sostanzialmente a base schiavistica. Lo sfruttamento degli schiavi sardi è descritto con efficacia a proposito dei provvedimenti di Costantino del 325, tesi a ricostituire le famiglie di schiavi smembrate tra i domini, i possessori dei fondi concessi in enfiteusi, provenienti dal patrimonio imperiale in Sardegna. L’attenzione dell’imperatore non potè essere mossa solo da un generico sentimento di carattere umanitario, magari influenzato dalla Chiesa, ma piuttosto fu l’inevitabile risposta del potere imperiale ai gravi disordini di massa, arrivati a provocare un’anarchia rurale. B. ha esaminato il provvedimento imperiale in un lontanissimo lavoro pubblicato nel 1928: si può condividere l’idea di una vasta estensione in Sardegna dei latifondi imperiali, magari in parte lasciati in abbandono, come agri rudes; e si può ritenere fondata l’ipotesi di una maggiore persistenza dello schiavismo rurale nella Sardegna tardo-antica rispetto, alla Sicilia e alla penisola, per cause che differenziavano nettamente l’ambiente economico sardo da quello italiano. Mentre in Italia l’economia schiavistica (che si era sostenuta in età repubblicana anche attraverso l’immissione nel mercato urbano dei Sardi venales) iniziò a vacillare a partire dall’età di Nerone, in Sardegna l’alto numero di schiavi, il rallentamento dei processi di mobilità sociale, la limitata consistenza del colonato, il basso indice demografico potrebbero effettivamente aver concorso al mantenimento di un’economia schiavistica ancora nel basso impero, soprattutto grazie alle radici ben più tenaci che lo schiavismo aveva nell’isola. Il passaggio dei latifondi imperiali dalla conduzione diretta attraverso conductores all’assegnazione in enfiteusi dietro il pagamento di un canone molto contenuto potrebbe aver avuto un impatto disastroso sulle tradizioni isolane, almeno sul piano sociale. Gli schiavi venivano allontanati dal proprio fondo: «sparisce quindi l’uso dell’agellus, dalla casa, sparisce anche la famiglia» – scrive B. -. «Il villaggio, come un formicaio scoperchiato dalla ostile curiosità di un monello, che si diverte a frugare il terreno con una verga, per disperdere tanto fervido traffico di minuscoli esseri, si vuota fra grande scompiglio e rimane deserto, perché ciascun dominus tiene a portare entro i confini stabiliti per il proprio lotto i viventi che gli sono attribuiti». B. ritiene anzi che una traccia della particolare situazione sociale romana di età imperiale potrebbe essersi conservata anche nel primo medioevo, allorché ci sono noti servos ed ankillas legati alle case rustiche, alle terre coltivate, alle vigne, alle terre incolte.

Per B. dopo uno spaventoso isolamento di oltre quattrocento anni, dovuto alla situazione geografica aggravata dall’insicurezza dei mari per le scorrerie arabe, la Sardegna comincia a riprendere le sue relazioni con la penisola italiana solo nell’XI secolo: «per uno strano gioco della storia, la sua organizzazione economica, rattrappita in uno sforzo di autoconservazione, irrigidita dall’assenza di ogni scambio, rispecchiava condizioni di cose, in altre terre superate da secoli». Più in generale le terras de rennu potrebbero essere la testimonianza e la conseguenza dello sfaldamento del governo bizantino, che in qualche misura continua il governo imperiale, con i vastissimi latifondi documentati in Sardegna: dichiarati ager publicus populi romani, col tempo furono ripartiti tra il fiscus e il patrimonium imperiale. Camillo Bellieni osserva la storia lunga dell’isola attraverso la bipartizione della società giudicale tra liberi e servi, una realtà sociale composita e pluristratificata, fatta di lieros e di servos, i cui interessi erano spesso in conflitto tra loro. Gli stessi due gruppi dovevano essere al loro interno meno compatti di quanto non si immagini, aperti ad una qualche forma di mobilità sociale, esito di una lentissima evoluzione storica. C’è una categoria intermedia di semiliberi che pare molto interessante, quella dei liberti e dei colliberti, che pare vadano collocati in una linea di continuità con la tradizione classica.

Non mancano nel volume le vere e proprie intuizioni, come la limpida visione degli stretti legami tra Sardegna e Nord Africa già in età antica: Raimondo Bonu gli rimproverava le tesi sulle origini africane dei Sardi «non ancora storicamente accertate», anziché prevalentemente mediterranee. Per il B. è vero che «tutti i popoli del bacino orientale ed occidentale del Mediterraneo hanno dato il loro contributo all’intensa civiltà fiorita sulle coste della nostra isola», dall’età minoica al periodo fenicio-cartaginese, all’età romana. Del resto «una costante della storia Sarda è data dalla geografia, che obbliga a porre la Sardegna in rapporto con il mondo circostante, in particolare lungo la principale via di comunicazione tra Africa ed Italia». È però soprattutto con il Nord Africa che il B., anticipando di cinquant’annni gli studi sull’argomento, vede collegata la Sardegna, dal punto di vista dei rapporti di popolazione, dei legami culturali, politici, economici, anche sul piano della lingua e dell’onomastica. E ciò fin dalle origini mitiche, dai lontanissimi sbarchi «di tribù libiche, che praticavano il culto del loro eroe libico Iolao», fino al basso impero, quando Africa e Sardegna manifesteranno il desiderio pressante dell’antica sfrenata libertà: «l’Africa potrà realizzare il suo sogno – scrive B. – solo nel mistico fanatismo mussulmano, distruttore della civiltà di Roma; e la Sardegna, solo nel cupo isolamento delle sue montagne, in un disperato annientamento dello spirito». Le due sponde del Mare africano gli appaiono idealmente legate tra loro dall’andare e tornare dei fenicotteri: a Cartagine come a Carales abitava un’unica «razza amica ed affine per sangue e per lingua».

Come si vede le curiosità di B. non erano state però completamente soddisfatte con i primi due volumi, anzi aveva continuato a lavorare sugli stessi temi ancora negli anni venti. Il fatto stesso che i due tomi sull’età medioevale, annunciati come di prossima pubblicazione, abbiano visto la luce soltanto dopo cinquant’anni la dice lunga sul giudizio che lo stesso B. dava di questa sua opera giovanile che dattiloscritta aveva consegnato ad Arnaldo Satta Branca, tardivamente pubblicata da Fossataro nel 1973, La Sardegna e i Sardi nella civiltà dell’alto medioevo. L’opera anticipa di dieci anni il volume di Alberto Boscolo per la collana di Chiarella (La Sardegna bizantina e altogiudicale): sono quelli che altri avrebbero chiamato “i secoli bui della Sardegna”. B. si ferma sulla soglia, prima della nascita dei quattro giudicati, tema che oggi sappiamo esser destinato a diventare molto fortunato; l’opera è ancora dedicata in gran parte alla tarda età romana, alla Sardegna alla fine del mondo antico, alla dominazione vandala e all’occupazione ostrogota, ai bizantini, agli attacchi arabi fino alla sconfitta di Mujāhid ibn ʿAbd Allāh al-ʿĀmirī, alla difesa navale della Sardegna fino al IX secolo, ai rapporti con Costantinopoli.  Gli ultimi studi come quelli di Rossana Martorelli, hanno dimostrato la complessità del quadro, la vitalità della chiesa sarda, la necessità già intuita da B. di districarsi tra falsi storici.

Eppure, come oggi appare chiaro, le eredità romane condizionano anche la società dei nostri tempi: la lingua sarda innanzitutto, la toponomastica, ma anche i percorsi della viabilità, il paesaggio trasformato dall’uomo, alcune forme dell’insediamento, le vocazioni stesse del territorio, le colture agricole, l’allevamento, ma anche le attività minerarie, la pesca, la raccolta del corallo, per non parlare di alcune tradizioni popolari; piste di ricerca percorse anche ai nostri tempi. Ha ragione B. a tentare di definire in modo più sistematico rispetto all’opera del Pais la storia lunga dell’isola e i rapporti mditerranei: si può sostenere che alcuni processi storici ed economici presentano delle costanti in Sardegna, in relazione al clima, alla realtà geografica, alle condizioni stesse di vita nell’isola, con le continuità, le eredità della civiltà romana in epoca medioevale. Riemerge, attraverso la documentazione romana e altomedioevale, un paesaggio, un ambiente, un territorio che per B. mantengono un aspetto arcaico e che sono rimasti quasi cristallizzati attraverso i secoli. La travagliata nascita della Sardegna giudicale ci appare come al margine di una storia lunga, che conserva ancora il sapore primitivo di un tempo lontano, in altre parti d’Europa ormai tramontato da secoli.

* Con il contributo di Paola Ruggeri.




La caduta di Kabul e di Herat, ovvero l’umiliazione dell’Occidente.

La caduta di Kabul e di Herat, ovvero l’umiliazione dell’Occidente.

I Talebani oggi sono entrati a Kabul, il Presidente dell’Afganistan Ashraf Ghani si è dimesso e ha lasciato il paese; abbiamo visto la sofferenza della gente, il terrore degli afgani e delle afgane che hanno invaso le piste e tentato di fuggire sugli aerei militari. Abbiamo riconosciuto nelle immagini l’ingresso alla base militare italiana di Herat devastato: era stata allestita di tutto punto durante i venti anni precedenti; I tanti luoghi danneggiati negli scontri e nella confusione più totale.

L’Afganistan è un paese che amiamo, che ci aveva accolto nel maggio 2014 con i suoi colori, con il suo verde, con i suoi profumi, con la sua musica, con la sua gente. Anche con un pezzo di Italia e con un pezzo di Sardegna.

Ospiti dell’Università, eravamo stati ad Herat, la Alessandria Aria fondata da Alessandro Magno, osservando in elicottero la celebre Grande moschea di Herat Jamaʿ Masjid.

Il colonnello italiano Gallo ci aveva spiegato come si svolgevano le elezioni tra mille difficoltà e come l’Italia avesse organizzato la distribuzione delle schede elettorali, con la barra elettronica ma entro grandi casse trasportate coi muli fin sulle montagne. Come l’Italia avesse investito in scuole, acquedotti, ospedali, strade. Ci aveva messo in guardia dall’utilizzo della facile formula che ritenevamo di sinistra “culture egemoni e culture subalterne”.

Proprio all’Università avevamo manifestato il più grande rispetto per le tradizioni culturali e religiose, per la profondità della storia, per il patrimonio culturale sintetizzato nella splendida città di Herat dalla Moschea blu e dall’antica cittadella Arg, recentemente restaurata dall’UNESCO, costruita in pisé di terra, questi straordinari mattoni di fango e paglia solidi e capaci di regolare la temperatura. E poi i quattro altissimi minareti dell’antica Scuola coranica, la madrassa e il musalla distrutti dai Britannici, l’oratorio e il vicino Mausoleo della Regina Gawarshad, le mura dell’originaria vastissima fortificazione islamica.

Oggi siamo vicini alle donne afgane, ai ragazzi della nuova generazione, agli studenti, alle tante famiglie che hanno avuto centinaia di migliaia di morti, ma anche vogliamo ricordare i nostri 53 soldati italiani caduti, le centinaia di feriti.

Penso oggi al romanzo di Khaled Hosseini “Il Cacciatore di Aquiloni”, ambientato a Kabul negli anni dell’intervento militare sovietico e nei tragici momenti successivi: con un’emozione che taglia le gambe sono raccontati i problemi dei rapporti con i Talebani, il futuro del patrimonio rappresentato dalla devastazione dei Budda protetti dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità e distrutti dai ribelli, tanti luoghi, tanti laghi, montagne e ambienti naturali di un paese, che abbiamo scoperto anche nelle pagine del libro di Elisabetta Loi e di Pier Luigi Piredda, pensando ai luoghi italiani in Afghanistan: Bala Morgab, Herat, Farah, Campo Arena. Abbiamo visto poi come, in realtà, l’attività della Brigata Sassari si sia svolta a supporto delle diverse realtà culturali di un paese complesso e difficile, con le varie etnie che si incrociano.

Ho visto che il Presidente americano oggi nega che gli USA abbiano mai avuto l’intenzione di rifondare lo Stato afgano: forse avevamo capito male. A Sassari con mille speranze (come quella di vedere di nuovo a Kabul volare gli aquiloni) il 21 settembre 2013 avevamo partecipato all’incontro “State building”, come affrontarlo, promosso dal comandante della Brigata Sassari.

Credo che dovremmo constatare dolorosamente che la guerra non ha risolto nessuno dei problemi in campo e che i nostri valorosi soldati della Sassari, col loro coraggio, il senso del dovere, la disciplina miliare alla quale siamo poco abituati, l’impegno per la pace, non meritassero quello che sta avvenendo oggi. L’umiliazione dell’Occidente.

Attilio Mastino




Guido Clemente e il Golfo delle Ninfe.

Guido Clemente e il Golfo delle Ninfe
Alghero, 17 agosto 2021

Guido Clemente, scomparso a Firenze l’11 febbraio scorso, era nato a Sassari 1942 nella casa dell’Emiciclo Garibaldi: aveva frequentato il Liceo Azuni spostandosi per un anno negli USA; all’inizio degli anni 60 si era iscritto a Cagliari alla Facoltà di Lettere e Filosofia, dove si era laureato nel 1964 con Piero Meloni (professore di Storia Greca e Romana) con una tesi sul Laterculus Veronensis e sull’organizzazione provinciale tra Diocleziano e Costantino. Un lavoro che aveva continuato su consiglio di Santo Mazzarino con il volume sulla Notitia Dignitatum pubblicata da Fossataro nel 1968 e che ora Marco Maiuro dell’Università di Roma sta aggiornando e riproponendo.

Collega di Giovanna Sotgiu, Clemente ha insegnato Storia Greca a Cagliari dall’anno successivo con il difficile corso sull’omosessualità a Sparta. Qui si era legato a Enzo Degani, Bruno Luiselli, Benedetto Marzullo, Mario Torelli, Giovannni Lilliu. Trasferitosi a Pisa, aveva lavorato con Emilio Gabba e Arnaldo Momigliano e coltivato alcuni temi fortemente connotati come l’età dell’imperialismo, la società e la politica tardo-repubblicane, il tardo impero, le province.

Temi poi ripensati per lo straordinario manuale Guida alla Storia Romana degli Oscar Studio Mondadori, dal 1977 continuamente ripubblicato ed adottato per decenni nelle università italiane. Su questo libro si sono formate generazioni di studenti: ricchissimo di informazioni, di osservazioni e di date, avviava però un approccio critico alla disciplina, pur con linguaggio discorsivo, capace di interpretare la complessità delle fonti. Dal 1975 si era trasferito ad Arezzo (Università di Siena) e poi a Firenze, dove è stato Presidente dell’Opera Universitaria (1977-79) e poi Preside della Facoltà di Lettere dal 1983 al 1995; ha svolto corsi in importanti università straniere. Ha lavorato con Garzanti, Mondadori, Laterza, Sansoni, Il Mulino ed ha diretto “Storia e dossier”.

È stato tra gli ideatori e curatori della Storia di Roma di Einaudi (1988-1993). Tra le sue esperienze “altre” l’assessorato alla cultura del Comune di Firenze col Sindaco Marco Primicerio  (1995-99), la direzione dell’Istituto Italiano di Cultura a San Paolo del Brasile (2000-2005), dove anni dopo (nel 2011) ci avrebbe accolto con affetto assieme alla signora Emilia Manunta e ad Alberto Merler.

Era tornato in Sardegna carico di idee, aveva coordinato con il fratello Enrico per l’Editore Fabula il volume (un po’ sopra le righe) Giganti di pietra. Monte Prama. L’Heroon che cambia la storia della Sardegna e del Mediterraneo. Ricordo la presentazione alla Fondazione di Sardegna del volume di Andrea Angius (La repubblica delle opinioni) e tanti altri progetti, col nostro Dipartimento (ha tenuto la supplenza di Storia Romana per alcuni anni), col nostro dottorato e la nostra Scuola Archeologica di Cartagine.

I suoi allievi e colleghi Giovanni Alberto Cecconi, Rita Lizzi Testa, Arnaldo Marcone hanno voluto il bellissimo volume The Past as Present. Essays on Roman History in Honour of Guido Clemente (Studi e testi tardoantichi, Profane and Christian Culture in Late Antiquity, 17), Brepols Turnhout, Belgio 2019, al quale tanti di noi avevano collaborato e che avremmo dovuto presentare anche a Sassari nell’estate.  Assieme a Maria Bastiana Cocco avevo pubblicato l’articolo Servi, liberti, colliberti, ancillae nella Sardegna romana: nota su possibili continuità, eredità e trasformazioni, dedicato a  proprio a lui, ricordando il suo lontano articolo del 1988 ‘L’eredita di Roma’, nel terzo volume dell’Enciclopedia  La Sardegna, Per una storia dell’identità, a cura di Manlio Brigaglia con Antonello Mattone e Guido Melis, che poi aveva riproposto per Sardinia antiqua in onore di Piero Meloni.

Quant’era in Sardegna viveva a Maristella di Alghero, in una bella casa circondata dal verde. Nel parco della villa romana di Sant’Imbenia aveva tenuto quattro anni fa la conferenza notturna  su Porto Conte e sulla Sardegna Romana, partendo dalla descrizione geografica dell’Occidente, là dove la terra finisce e il mare comincia, con l’isola delle Ninfe (Foradada) e il Golfo delle Ninfe ricordati da Tolomeo, il geografo alessandrino del II secolo d.C.

Nella villa un mosaico ricorda il mito di Medusa, regina di Sardegna, figlia di Forco e di Ketos, alle origini dei racconti marinareschi sui coralli della Sardegna, in un mare popolato di pesci, di cetacei, di foche, di mostri marini. La fantasia dei Greci e dei Romani, certo, che però influenzava anche la geografia con il santuario di Hermes-Mercurio e della sposa Erizia (la madre di Norace, costruttore di Nora nella Nurra) e la religione, con la devozione dei pescatori che scioglievano il voto fatto nel mare in burrasca una volta superato Capo Caccia. Tante storie meravigliose che ci raccontano lo sguardo con il quale i viaggiatori dell’antichità osservavano il nuraghe e il villaggio di Sant’Imbenia (scavati da Marco Rendeli) e le acque tranquille di quell’approdo naturale che era il Golfo delle Ninfe; e Ichnussa eudaimon, felice e caratterizzata da una mitica eukarpía, da una straordinaria abbondanza di frutta e di prodotti: il latte, il miele, l’olio, il vino, che si attribuivano alla generosità del dio Aristeo ricca di frutti e di prodotti, senza serpenti e animali pericolosi. Un paradiso lontano nel quale ogni anno si immergeva osservando dall’alto il golfo incantato.

Attilio Mastino




O bella Musa, ove sei tu ? Viaggio nel mistero della gara poetica, edizioni Domus de Janas di Paolo Pillonca.

O bella Musa, ove sei tu ? Viaggio nel mistero della gara poetica, edizioni Domus de Janas di Paolo Pillonca (Osilo 8 ottobre 1942 – Cagliari 26 maggio 2018)
Orgosolo 26 giugno 2021
Attilio Mastino

Con emozione ritorno oggi ad Orgosolo perché desidero onorare l’impegno che avevo preso oltre un anno fa con l’Associazione Murales per il 21 marzo 2020, per la presentazione dell’ultimo libro di Paolo Pillonca, O bella Musa, ove sei tu ? Viaggio nel mistero della gara poetica, edizioni Domus de Janas.

Tornare ad Orgosolo, passando per le vigne soleggiate di Mamoiada e per Galanoli,  significa innanzi tutto per noi riconciliarci con la vita vera, dopo un anno di pandemia devastante, che rischiava di abbruttirci; significa immergerci nella sardità e nell’identità profonda della Sardegna, con una rigenerazione dopo tanto dolore e tanto isolamento; significa ritrovare le radici della passione di Paolo Pillonca per la “poesia a bolu”, lui che ad Orgosolo aveva trascorso la sua infanzia luminosa, su Orgosolo aveva scritto tante pagine straordinarie sulla stampa quotidiana e con il suo racconto più famoso, Osposidda, un’opera recentemente riletta da Franco Mannoni per Il campo degli asfodeli: credo che con quest’opera abbia tentato di ritrovare un passaggio, sos antiles, una porta da varcare, una frontiera verso una Sardegna differente, una Barbagia quasi sconosciuta. Ma Paolo Pillonca aveva mantenuto rapporti con il paese di nascita, Osilo, con la Lanusei dei Salesiani, con Tempio, con Cagliari, infine con Seui. Proprio a Cagliari si era brillantemente laureato con Antonio Sanna in Linguistica Sarda.

Allora dopo un anno ho ripreso in mano questo volume straordinario sulle gare poetiche in Sardegna, riflettendo sulle ragioni del titolo, O bella Musa, che ci racconta prima di tutto la vitalità degli studi classici fatti da Paolo Pillonca, il forte radicamento alla tradizione poetica greca e latina. In questi giorni ho riletto il de vulgari eloquentia di Dante scritto oltre sette secoli fa, che tanto ci aveva fatto arrabbiare da ragazzi: in realtà Dante aveva davvero ragione, quando affermava che i Sardi non sono italiani ma metodologicamente possono essere associati agli italiani, associandi videntur. E i Sardi non posseggono un loro volgare italico, perché seguono strettamente la lingua e la grammatica latina, dicono domus nova e dominus meus, anche se scimmiottano il latino, come si esprime un poco ironicamente l’Alighieri.

La cultura classica in realtà per Paolo Pillonca era lo strumento principale del metodo rigoroso da lui adottato per leggere la Sardegna con le sue eredità e le sue chiusure, ma anche con la dolcezza di un mondo femminile che attraversa tutto il volume ad iniziare dal primo capitolo In principio era la poesia delle donne. Così ci ha insegnato Battiato che ha utilizzato il proemio dell’Iliade per raccontare la storia di milioni di profughi afgani durante il conflitto con l’allora Unione Sovietica e la vicenda degli indiani soffocati dal colonialismo: cantami o diva dei pellerossa americani / le gesta eroiche di squaw “pelle di luna”.  E allora mi sono ricordato dei Canti Barbaricini di Sebastiano Satta e della poesia Unu saludu a Nuoro del poeta Giovanni Nurchi scritto nell’aprile 1903 in occasione della prima riunione turistica Sarda, alla quale parteciparono tanti giovani ciclisti, ai piedi di quell’Ortobene ue musas ed abbas de Ippocrene / generant melodia tra sas venas. Ma gli studenti erano attratti soprattutto alle ragazze nuoresi: sas feminas sun ladras in Nuòro / ca cun s’oju nos furant mente e coro. E l’Ippocrene è la sorgente sul Monte Elicona, scaturita nel punto dove Pegaso, il cavallo alato figlio di Medusa, regina di Sardegna, aveva colpito con uno zoccolo la roccia. Intorno a questa fonte si riunivano le Muse per cantare e danzare. L’Elicona torna più volte nei canti dei poeti registrati in questo libro e la musa ispiratrice dei poeti è la bellezza, il garbo, la grazia, della donna che amiamo.  Ci sono tanti richiami che si incrociano più o meno consapevolmente perché in Sardegna all’alba del tempo lungo – scrive Pillonca – era la poesia femminile, che esisteva e resiste nei penetrali della memoria del popolo sardo, non come ricordo nostalgico ma come viva espressione di sentimenti, di passioni, di una forza arcana che da tempi remoti affida alle donne il governo poetico dei punti fermi dell’esistenza, a partire dai canti della culla: ho scritto in passato sull’opera di Antonio Mocci professore di diritto romano nell’Università di Sassari (1866-1923) che per la rivista “Archivio per lo studio delle tradizioni popolari” di Giuseppe Pitré (1841-1916) e Salvatore Salomone-Marino (1847-1916) – aveva pubblicato le   Ninne-nanne sarde raccolte in Oristano e Duru Duru Canti bambineschi sardi (1892-93). Un po’ come Angelo De Gubernatis (1840-1913) nella “Rivista delle tradizioni popolari italiane”, che avrebbe visto la partecipazione attiva di Grazia Deledda (1871-1936). Temi, quelli etnografici legati al canto, che erano in qualche modo marginali e sui quali spesso si ironizzava.

Ma poi ci sono le nozze, i funerali, il dolore, come nel film L’ultimo pugno di terra di Fiorenzo Serra, con il corpo del pastore ucciso nelle campagne di Sedilo, vestito d’orbace, con il portafoglio vuoto, le mosche che si accaniscono sul viso, il trasporto della salma dall’ovile, il funerale, la fossa per la bara nera, s’atitidu e il silenzio dei parenti e insieme il pianto della vedova che recitava una nenia interminabile.

Paolo Pillonca parlava di un legame ancestrale che talora si esprime con un registro alto, facendo fiorire la genialità pura, come in Bannedda Corraine, l’arcana atitadora della disamistade di Orgosolo del primo Novecento, e in molte altre sibille ignote a gran parte dei giovani del terzo millennio eppure fisse nei cunicoli dei ricordi lunghi del nostro popolo. Paolo ricordava il giudizio di Michelangelo Pira su tzia Bannedda: l’estasi popolare nei suoi confronti traeva origine dalla sua bellezza, dal portamento fiero e dignitoso, ma soprattutto da “come sapeva mettere le parole” in poesia e in prosa.

La poesia orale popolare femminile si è persa quasi completamente, per quanto le atitadoras, sas meres de su prantu a Orune, abbiano svolto nei secoli un ruolo riconosciuto e apprezzato. Questioni contenute nel volume di Piera Cilla su Sa poesia de sas feminas dae su 700 a sos annos chimbanta de su 900, che è stato presentato qualche anno fa alla Biblioteca comunale  di Sassari da Maria Sale, Anna Cristina Serra, Carmela Arghitu,  Clara Farina. Gli studi su questi temi sono stati avviati all’inizio dell’Ottocento da Vittorio Angius, Giovanni Spano l’archeologo esonerato dall’insegnamento dal Magistrato sopra gli studi all’Università perché distratto da “le inezie della lingua vernacola” e dai “gingilli dell’archeologia”‘; ma troviamo altre personalità ancor più di rilievo come Sebastiano Satta.

Ci restano molti nomi di poetesse estemporanee di Osilo, patria di Pillonca, Maria Cherchi, le due sorelle Dore, Bella Marongiu, Domenica Pilo, Bella Sini. Ben sei poetesse improvvisatrici sulle 13 che conosciamo meglio.

Certo altra cosa sono le poetesse che scrivono a tavolino e si presentano ai premi, come per il Premio città di Ozieri dove ho avuto il piacere di ascoltare tante di loro, argute, immaginifere, capaci di confrontarsi alla pari, piene di intelligenza, di curiosità di speranze e desideri: negli ultimi 5 anni ne abbiamo premiato decine. Non sono poche le cultrici della poesia in lingua sarda che il nostro Premio ha fatto emergere: nella giuria ho avuto il piacere di seguire con ammirazione Anna Cristina Serra di San Basilio, alla quale Pillonca dedica il capitolo 19, intitolato il lascito delle antenate, con una bella intervista che fa emergere un animo gentile, positivo, un ottimismo senza confronti, formata alla scuola della zia Onoria, una cantadora nodia. Sulla sua tomba Cristina e i suoi non fanno mancare mai un fiore.

Presentando questo volume a Ozieri il 20 febbraio 2019, per la 60° edizione del Premio,  a un anno dalla scomparsa dell’autore, avevo espresso l’emozione di tornare a recitare un rosario di versi conosciuti e ritrovare una serie di parole che ci sono care e che ci emozionano; soprattutto per incontrare di nuovo un amico perduto, per metterci in sintonia con il suo carattere riflessivo, rispettoso, generoso, pacato, positivo. Noi che abbiamo avuto il privilegio di conoscerlo e di averlo avuto come amico possiamo ora percorrere con lui un lungo viaggio nel mistero della gara poetica partendo da Ozieri, da quel 15 settembre 1896 e dall’idea geniale di Antoni Cubeddu di offrire al pubblico in piazza le dispute in versi: sas galas, per anni relegate a momento di svago nelle feste private (tosature, matrimoni, battesimi etc.). Questo lungo periodo è ricostruito attraverso immagini, aneddoti e ricordi di un passato che ci appartiene. Il volume di Paolo completa l’analisi contenuta in Chent’annos – Cantadores a lughe ’e luna, pubblicato da Soter nel 1996, che già tracciava quella strada originale dalla quale nasce il miracolo della creazione improvvisata del verso logudorese: forse il suo capolavoro, pubblicato dalla sua casa editrice Soter a Selargius nel 2003. Sempre alla ricerca del percorso straordinario dal quale sgorga la creazione improvvisata del verso logudorese, <<una caminera ‘e virtude pro su tempus benidore ‘e unu pòpulu chi leat alénu dae s’istoria sua pro poder atopare a cara franca cun ateros pòpulos de su mundu>>.

Questo è ora l’ultimo contributo postumo dell’autore dedicato allo studio della poesia orale: dalla magia della creazione all’analisi dei tempi di esecuzione, dal ruolo delle donne a quello della critica, fino ad arrivare alle difficoltà degli ultimi tempi che, a causa del profondo cambiamento della società sarda, ne mettono a rischio la stessa esistenza.

Oggi però guardiamo al futuro, facendo tesoro di tante cose che sono evidenti, già nel titolo dell’opera che, con la bella Musa virgiliana, ci indica una via alta per la promozione della lingua, della cultura e della storia della nostra isola. I poeti hanno questo dono speciale, suscitano emozioni, spingono le persone ad agire per obiettivi nobili e positivi, raccolgono eredità e riescono a darci emozioni e sentimenti.

Paolo Pillonca si sforzava di studiare la poesia orale, di far emergere i poeti erranti (sos ch’andan a sos palcos in tottue) che non si limitano a scrivere in solitudine in su disisperu ‘e battor muros, perché – cantava Barore Sassu a Banari – in piatza bi gheret resisténzia, / logica cun retòrica e prontesa / disinvoluta, geniu e franchesa, / paradas e puntadas improvisas, / mimica, acentu e sillabas concisas, / campanilismu, impetu e irruenzia. Il confronto con la folla, il palco, le piazze, d’inverno il canto in spazi chiusi.

Ci sono tante scoperte ad ogni pagina di questo libro, che ha voluto mettere al centro il tema della madre immortale, metafora perenne della poesia al femminile. Con una visione più positiva rispetto a quella, tremenda, di Orlando Biddau: l’angoscia che la madre trasmette per l’assenza del padre ancora in guerra, angoscia irrevocabile, che durerà tutta una vita; poi la morte della madre, una donna semplice e triste, che ha lasciato in lui un’impronta profonda: «Sempre più arduo, solitario e smarrito / è il mio sentiero dacché tu non sei più / a consolarmi con le tue mani diafane / e la voce trepida e apprensiva / di chi timida visse in silenzio / un’attesa di lunghi anni d’infamia / e di condanna sognando di visitare di notte una tomba / col mio nome infangato e infranto / che ripulivi con furtive lacrime». E quando ritrova la memoria si dispera: «T’ho trovato, madre, nel buio / miele d’una lunga insonne notte / d’inverno. Il focolare spento, e il vento ramingo ululava con la gola / nera e insondabile della malaventura, dal camino deserto».

Lo sguardo di  Paolo Pillonca era più limpido e positivo: la sua profondissima cultura classica che emergeva ogni volta che c’incontravamo, tra Omero, Cicerone, Orazio, il Padre Dante, con citazioni che mi sembravano puntualissime e davvero felici e che pensavo fossero dedicate espressamente a me, anche se non era così.  Questa conoscenza professionale di dettaglio della poesia in lingua sarda, in particolare questa sistematica schedatura della folta schiera degli improvvisatori, che si estendeva nel tempo dai grandi del passato, copriva spazi geografici impensabili, raccontava una passione, una curiosità, una sensibilità che ci commuoveva e ci incantava. I suoi interventi erano davvero godibili e apprezzati da un pubblico eterogeneo e vivace. Tante volte l’avevo interrogato su aspetti marginali, sui poeti dei miei territori, Giovanni Nurchi a Bosa, Pittanu Morette a Tresnuraghes, Gavino Delunas a Padria oppure Remundu Piras a Villanova, trovandolo sempre preparato e capace di penetrare il senso profondo, l’eleganza, la qualità della produzione poetica isolana, la sua ispirazione profonda, le sue radici. Nel premio Ozieri l’avevo visto all’opera durante le riunioni della giuria e quando conduceva assieme a Nicola Tanda una cerimonia davvero complessa:  coglievo tutte le occasioni per assorbire da lui idee, suggerimenti, indicazioni, giudizi, come quando censurava con severità la frequente zoppìa nella metrica adottata da molti poeti che partecipavano al premio Antoni Sanna o quando esaltava i risultati straordinari ma meno noti della poesia per il canto, come nel Premio Gurulis Vetus a Padria o nel Premio Antoni Cubeddu o a Osilo o in tanti altri premi letterari ai quali partecipava come presidente o come giurato, in tutta l’isola, con questa serenità che lo distingueva da tanti esagitati e incompetenti cultori, difensori di un orticello sempre più piccolo, pronti ad irritarsi sul piano grammaticale per una doppia: con la voglia di estendere la rete dei rapporti, di allargare la documentazione negli archivi, di approfondire la conoscenza della vita dei poeti, di coinvolgere tutti, di recuperare il carattere plurilingue della Sardegna, di non abbandonare le varianti storiche, di confrontarsi sul tema degli standard con un profondo rispetto per le posizioni di tutti ma senza rinunciare ad una ricchezza e ad un rapporto diretto con la lingua materna dei Sardi.

A Sassari poi  negli anni Novanta, Nicola Tanda, io stesso e il preside Giuseppe Meloni, l’avevamo chiamato a tenere vari corsi e seminari sulla poesia verbale nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Sassari, molto seguiti dagli studenti, partendo da figure come Gavinu Contene di Siligo, Antoni Cubeddu di Ozieri, Antonandria Cucca di Ossi, Antoni Farina di Osilo, Pitanu Morette di Tresnuraghes, Zuseppe Pirastru di Ozieri, Barore Testone di Bonorva, tutti poeti di quella che possiamo definire la prima generazione a noi nota. Le lezioni si erano poi trasformate con la partecipazione alternata di cinque improvvisatori: Mario Màsala, Francesco Mura, Antonio Pazzola, Giovanni Seu e Peppe Sozu.

Questo volume cerca di spiegare i meccanismi della poesia estemporanea, la molla che spinge gli aedi improvvisatori a manifestare la loro creatività eccezionale, il demone  che muove il canto, che Antoni Cubeddu nel 1938 spiegava a Pedru Casu con la sofferenza dell’anima che favorisce la creatività, in su meu propriu dolore / cun pius estru e pius vena.  Paolo – raccontando lo scontro tra Remundu Piras e Juanne Seu di Chiaramonti – parlava di un’onda misteriosa della creatività, mossa spesso dall’infelicità e dalla tristezza che fanno sbocciare per incanto versi meravigliosi, con un’emozione che è legata ai sentimenti, alle passioni, alle curiosità che influiscono anche sui tempi di esecuzione nella creatività poetica.

Tornano in questo volume i nomi di grandi poeti della tradizione sarda; Remundu Piras (ero stato a Villanova alla presentazione dell’opera omnia nel 2009), Barore Tucone, Pepe Sozu, Antoni Piredda, Barore Sassu, Franziscu Mura, Juanne Seu, Marieddu Masala, tanti altri capaci di evocare immagini, ricordi, esperienze, attraverso le parole ed i segni, perché come ci ha recentemente ricordato Mario Medde nel volume Antiles, riprendendo Agostino noi non possiamo parlare delle cose, ma delle immagini impresse e affidate alla memoria, perché noi portiamo quelle immagini nella profondità della nostra memoria, come documenti di cose percepite precedentemente: li raccontano ancora  questi poeti di un tempo scontrarsi a coppie a Tresnuraghes per San Ciriaco, a Montresta per San Cristoforo, in anti altri luoghi della Sardegna, come a Silanus dove in questi giorni è stata inaugurata Sa domo de sa poesia cantada dedicata ai poeti a bolu Mario Masala e Francesco Mura, ma lo sguardo è verso il progetto Pizzinnos a bolu, i giovani, partendo da Totore Cappai e Alessandro Arca.  Per Pillonca, come al solito colto e allevato alla poetica classica, i poeti estemporanei di questa Sardegna piena di eredità romane variano in continuazione la poiesis e si immolano con un moto perpetuo sull’altare della dea Bona Muta alla sarda, quando una poetessa è veramente in forma e velocissima, puledra indomabile – scrive Pillonca – della loro esistenza professionale.  E poi il rispetto per le norme non scritte, gli agrafoi nomoi, la legge orale di Antigone nell’immortale tragedia di Sofocle.

Il mio ricordo più lontano di una gara poetica improvvisata è a Lanusei, 45 anni fa, durante la settimana della Scuola di specializzazione in studi Sardi, alloggiati all’Hotel Seleni, quando Giovanni Lilliu – maestro anche di Paolo Pillonca – ci aveva fatto seguire una gara poetica che mi è rimasta indelebilmente nel cuore: avevo 25 anni e vivevo emozioni e sentimenti per me del tutto nuovi con un gruppo di colleghi e colleghe che amavo. Del resto per apprezzare la poesia occorre anche essere sensibili e forse feriti nei sentimenti.

Questi poeti hanno conosciuto la solitudine dell’ovile, vera scuola impropria dei pastori di talento, ben diversa da quella infelice e disperata della tragica esperienza di Gavino Ledda, perché ora le campagne sono amene e le valli fiorite;  perché per Remundu Piras S’umile musa mia si dirigit / a cuddos bellos saltos ue s’ama / su pastore guidat e currigit  / e-i s’anzone de sùere in brama / in mesu a milli mélidos distinguet / da s’annile su mélidu ‘e sa mama, la mia umile musa – ancora una volta – si dirige / a quelle amene campagne dove il gregge / è condotto e corretto dal pastore / e dove l’agnello voglioso di succhiare  / in mezzo a mille belati distingue / dal recinto la voce materna.   La vita in campagna diventa un incanto, mentre al capraro che assegna i cuccioli scintillano gli occhi.

E poi i difficili rapporti con la Chiesa sarda dopo il concilio dei vescovi ad Arborea del 1924 che attaccava coloro che volgarmente venivano chiamati poeti estemporanei, qui vulgo poetae extemporanei dicuntur, che dovranno astenersi dal trattare argomenti e tematiche che richiedono una conoscenza scientifica del dogma.  Tatano Curcu a Cuglieri nel 1975 attaccava i preti che imbrogliano il mondo con chiacchere e a da poi in cuddas notes fritas / in su letu si corcan sas teracas. Ma la polemica era esplosa sul piano sociale già con Raimondu Piras, che criticava la differenza tra lo sfarzoso funerale di un ricco e quello di un povero: su ricu che lu lean canta-canta / cun dogni reverénzia e discassos / pro su pòverru acèleran sos passos, / b’at finas diférentia in s’andata.

La poesia vive sui contrasti, sulle rivalità, sulle differenze, su una critica sferzante che tende a giudicare, per migliorare e crescere: gli scontri sul palco tra Antoni Cubeddu e Andria Ninniri, tra Remundu Piras e Barore Tucone, Francesco Scarpa e Barore Sassu,  Mario Masala e Bruno Agus, gli allievi di Melkiorre Murenu o di Pittanu Morette. I vari accoppiamenti; la scelta delle tematiche affrontate, la difesa del tema, il botta e risposta, dalla creazione del mondo alla guerra, alla pace, con una conoscenza della poesia classica che appare generalizzata e pervasiva; il progressivo declino denunciato da Piras: It’an a narrer cuddas noe musas, / ch’in Sardigna creian s’Elicona / pro comente estadas sun delusas ? Declino confermato da Pillonca anche nel titolo, perché la competenza linguistica in alcuni luoghi, non qui ad Orgosolo, è crollata paurosamente, come una notte senza luna. Proprio ad Orgosolo ci porta Paolo Pillonca per ricordare la difesa fatta da Jubanne Piredda per il poeta Remundu Piras che aveva perso la prima serata sul palco (p. 122).  L’ultimo allievo dell’antica scuola dell’ovile per Paolo Pillonca è Bruno Agus di Gairo in Ogliastra, con la bella intervista fatta ad Irgoli qualche tempo fa. E poi Mario Porru di Tonara ora a Serramanna.

Un capitolo è dedicato agli intellettuali sardi che sono rimasti colpiti dalla poesia orale: Antonio Gramsci, Aligi Sassu, Paolo Fresu, Michelangelo Pira, Giovanni Lilliu, Antonello Satta, Francesco Masala, Nicola Tanda, Antonio Sanna, Salvatore Zucca, Nereide Rudas, Anthony Muroni premiato ad Ozieri e tanti altri. Penso innanzi tutto al nostro Bachisio Bandinu.

Quasi fosse un giornalista radiotelevisivo Pillonca ha raccolto registrazioni, interviste, materiale inedito che viene pubblicato alla fine di questo volume come la gara di Seui del 1992 e lo scontro nella Festa de sa Montagna tra Franziscu Mura e Mariu Masala, pubblicata in una vera edizione critica, con l’esordio in 40 strofe misurate una per una; segue il primo tema (dinàri e onore) con almeno 50 strofe, il secondo tema (Furare e Pedire) con 38 strofe  di lunghezza vicina ad un minuto e infine la rapida duina con 25 interventi brevi e fulminei, da 10 secondi e le 14 batorinas da 20 secondi. Chiude la doppia dispedida da custa bella festa ‘e sa montagna, che ci lascia davvero incantati, convinti che tanta bellezza e profondità debbono esser stato frutto non solo di una competenza coltivata nel tempo ma anche di letture, fatte da uomini colti e sensibili.

A distanza di anni dalla scomparsa di Paolo, voglio ringraziare gli amici di Orgosolo perché forse solo ora riusciamo a capire cosa la Sardegna intera abbia perduto, siamo per un momento in grado di cogliere la fortuna di chi l’ha conosciuto e valutare il senso di un’eredità luminosa che sono certo vorremo tutti raccogliere con rispetto e gratitudine.




Presentazione del volume di Luciano Carta, Dal Galles alla Sardegna: Benjamin Piercy e le Ferrovie, Associazione culturale “Benjamin Piercy Bolotana”, 2021.

Bolotana, Badd’e salighes
Presentazione del volume di Luciano Carta, Dal Galles alla Sardegna: Benjamin Piercy e le Ferrovie, Associazione culturale “Benjamin Piercy Bolotana”, 2021
Badd’e Salighes, 20 giugno 2021 ore 11


Cari amici,

Dopo un anno torniamo a Badd’e Salighes un poco abbruttiti dalla pandemia, in mezzo al verde ed ai luoghi che amiamo, per rivedere la Biblioteca che allora avevamo inaugurato, con lo spirito – per usare le parole attribuite all’imperatore Adriano da Marguerite Yourcenar – di scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti.

Penso naturalmente alla cascata di Mularza Noa, che ho visto d’inverno scorrere sotto la neve.  Stamane con Susy Trova e con Ignazio Camarda ci siamo fermati a Santa Maria Sauccu e prima ancora a Padru Mannu, a questo incredibile borgo abbandonato sulla strada romana al punto culminante della Campeda, trasformato in un’enorme fattoria quasi medioevale che mantiene l’autenticità originaria presso la chiesa restaurata del Sacro Cuore; qui sono conservati i resti del giovane Gerald Piercy trasferiti da Punta Palai, 1200 m, dopo la morte a Scala di Giocca sul side-car nel 1923.  Presto speriamo un luogo del cuore del FAI.

Allora torniamo a parlare dei temi che ci sono cari: il 26 luglio dell’anno scorso eravamo qui per discutere sul diario di Donna Vera Mameli Piercy Nel Mezzo della vita (figlia di Benjamin Herbert e Mildred Sawree)  oggi per presentare questo volume di Luciano Carta Dal Galles alla Sardegna, Benjamin Piercy e le ferrovie, pubblicato per iniziativa dell’Associazione Benjamin Piercy Bolotana e dedicato a Giorgina e a suo figlio Marcantonio che hanno fornito molti dei documenti studiati: l’associazione nata il 29 ottobre 2019 è rappresentata in questo volume dal Presidente Mario Bussa che nella Presentazione riflette su un’identità culturale profonda, sulle eredità multiple, su un territorio illustrato nelle pagine di Patrizia Onnis dedicate ai beni culturali e ambientali di Bolotana: l’inquadramento geologico dei geositi fino alla vetta di Punta Palai a 1200 metri, la flora nella sua incredibile biodiversità studiata da Ignazio Camarda, l’archeologia, le grandi opere megalitiche, i circoli rituali di Ortachis, le domus de janas, i circa 50 protonuraghi e nuraghi, i pozzi sacri, le tombe di giganti, la fortezza punica di Pabùde, i tanti insediamenti romani degli Ilienses del Maghine-Goceano, i bizantini con i monaci Armeni, l’età giudicale con l’itinerario verso il castello di Burgos, la chiesa di san Bachisio, fino ad arrivare a Padru Mannu e a questo castello incantato in quella foresta di lecci, roverelle, sughere che tanto aveva colpito il viaggiatore inglese e i suoi discendenti. Il crescere nel tempo della consapevolezza del valore di questi luoghi, l’impegno della Comunità Montana, la svolta con la legge regionale 31 del 1989 per l’istituzione e la gestione dei parchi, delle riserve e dei monumenti naturali, nonché delle aree di particolare rilevanza naturalistica ed ambientale; il progetto del Parco del Marghine-Goceano della provincia di Nuoro negli anni 90, i Siti di interesse comunitario previsti da Rete Natura 2000, il Piano Paesaggistico Regionale del 2005, il Piano di Assetto idrogeologico, a breve il Piano Urbanistico comunale. Una strada lunga e accidentata che ha visto molti amministratori intelligenti impegnati e attivi.

Il nostro amico Edward Burman visiting dell’Università di Liverpool, scomparso a Sassari sei mesi fa, ci ha lasciato alcune delle pagine più straordinarie sulla storia di questo territorio e in particolare sull’originaria tenuta dei Piercy, in una prospettiva inconsueta, cogli occhi di uno straniero curioso e appassionato. Traduco da un inglese delizioso sfogliando il bel volume Sardinia, Island of Myths, Giants and Magic uscito nel 2019 con lo splendido diario dei viaggi che avevamo fatto insieme con la sua famiglia, a partire dal 2018, al rientro da Pekino:  “un altro inatteso pezzo di storia prettamente sarda è reso manifesto dall’edificio noto come Villa Piercy vicino a Bolotana nella foresta di Badd’e Salighes 30 chilometri a ovest di Nuoro”.

Edward ricostruisce l’avventurosa vita del gallese Benjamin Piercy (1827-1888)  originario della contea di Mongomery tra Londra, la Francia, l’India, la Sardegna, per l’impresa della nascita delle ferrovie per iniziativa di un gruppo di inglesi italo-fili: il progetto iniziale per l’isola, la modifica del percorso con la riduzione dei tunnel sulle montagne dagli originari 20 km a soli 3 km e il conseguente risparmio finanziario, partendo dalla nascita a Londra il 2 giugno 1863 della Compagnia Reale delle Ferrovie Sarde per opera di William Webb Wenn, con l’atto notarile firmato presso il notaio John Wenn e figli, col coinvolgimento del Marchese Gustavo Benso di Cavour, fratello maggiore del Conte Camillo; il Conte Alberto La Marmora; lo stesso Benjamin Piercy e altri inglesi compreso il deputato Thomas Barnes, presidente della Compagnia delle ferrovie del Lancashire e dello Yorkshire e Henri Riversdale Grenfell deputato e governatore della banca d’Inghilterra.  Tutto ciò testimonia oggi la dimensione dell’impresa internazionale, del diretto coinvolgimento inglese nell’Unità d’Italia, come ben sappiamo. Del resto siamo a tre anni di distanza dalla Spedizione dei mille e a due anni da quel 17 marzo 1861 quando fu ufficializzata la nascita del Regno d’Italia. Questioni che si legano con l’esilio a Londra di Giuseppe Mazzini (+ 1872), con l’amicizia di Piercy con Giuseppe Garibaldi e con Gaetano Semenza (1825-1882) rifugiatosi a Londra tra il 1851e il 1866. Semenza, imprenditore e patriota, fornitore della stoffa rossa per le divise delle camicie rosse, è un vero protagonista della vicenda delle ferrovie, firmatario della convenzione originaria del 1862 col Governo, con l’incarico dei lavori alla Ditta Smith per la linea ferroviaria. Una vicenda drammaticamente naufragata per debiti.

Eppure il discusso Semenza, autore di un accordo con il truffaldino impresario torinese Giorgio Carlo Bertlin, sarebbe diventato uno degli esponenti di punta del Risorgimento italiano, deputato del Regno d’Italia tra il 1865 e il 1874 tra Torino, Firenze e Roma capitale, fondatore del giornale economico milanese “Il Sole” (dal 1865 al 1946, quando divenne Sole 24 ore).

Ha scritto recentemente Antonio Saletta che “l’intraprendenza di Gaetano Semenza si manifesta nel 1862, quando riesce a coinvolgere esponenti della City londinese nell’impresa di costruire linee ferroviarie in Sardegna, con la costituzione della società “Compagnia Regia delle Strade Ferrate in Sardegna” formata a Londra il 2 giugno 1863. L’interesse dei finanzieri inglesi è rivolto alla possibilità di ottenere dei terreni su cui coltivare quel cotone che la guerra di secessione americana aveva sottratto all’Europa, oltre a poter collocare i prodotti ferroviari (binari, locomotive, vagoni) di cui l’Inghilterra è la maggiore produttrice. Il progetto per ottenere la costruzione di una linea ferroviaria da Cagliari ai due porti del nord dell’Isola, Terranova Pausania e Porto Torres, si rivela subito difficile a causa di problemi finanziari e politici. Sono le inadempienze e l’ambiguità del Governo italiano a provocare malumori tra i finanzieri inglesi, che, nel 1872, abbandonano l’impresa, costringendo il Semenza a coinvolgere la Banca Italo-Germanica che impiega i soldi della Compagnia in affari poco sicuri. Semenza vede andare in fumo i propri soldi e rinuncia al contratto di costruttore. Gaetano Semenza, che in Sardegna ha perso enormi capitali, è costretto a liquidare il suo patrimonio. Nel suo libro “Memorie sulle Ferrovie sarde”, scrive di aver perso una fortuna compromettendo anche la salute. Nel frattempo la Compagnia ritorna in mano alla City londinese che conclude, il I luglio 1880, nella sua estensione completa, la linea ferroviaria”.

Ma andiamo con ordine: già nel 1864, approvato il progetto, Piercy è ingegnere capo con l’impresa Smith Knight and Co. di Londra; egli mette inizialmente la sua base a Cagliari ma poi trova naturale spostarsi a Macomer dove si sarebbero incrociate le ferrovie per Ozieri e Sassari con i due tronchi a scartamento ridotto progettati in futuro per Bosa e per Nuoro. A Macomer presso la stazione costruisce la sua casa, attualmente in completo abbandono, dopo esser stata utilizzata come hotel della stazione e ristorante. Burman è rimasto colpito dalla vastità delle due uniche stanze a pianoterra destinate a uffici e poi da quelle, del primo piano dove fu offerto – scrive la nipote – un banchetto con 200 ospiti; stanze più numerose, per la famiglia al secondo piano, 9 figli, personale di servizio, ecc.    Sarebbe piuttosto un blocco monotono – scrive Edward – se non fosse per la struttura centrale a torre che contiene un’imponente scalinata.  Quello di Badd’e Salighes – scrive Burman – fu invece inizialmente un casino da caccia a mille metri di altitudine entro una tenuta di 3700 ettari di foreste nel territorio di Bolotana, Macomer, Bortigali, Lei e Silanus, trasformato dal secondo figlio Henry Egerton Piercy in un elegante edificio simile a un castello su una piazza in un vicino villaggio che ora è quasi deserto; ma forse Burman pensava anche al caseificio di Padru Mannu.

Piercy fu come sappiamo amico di Giuseppe Garibaldi, che lo convinse a coinvolgere il figlio Ricciotti nell’impresa ferroviaria in Assam nell’India  nord orientale. Il suo ritiro a Marchwiel Hall presso Werexham  e la sua morte a Londra nel 1888 arrivano al termine dell’indagine del deputato Robert Tennant  (autore dell’inchiesta sulle risorse minerarie, le cui conclusioni sono confluite nel libro La Sardegna e le sue risorse 1885). Il cognato Charles Davies fratello della moglie Sarah sposata nel 1857, sarebbe scomparso a Cagliari nel 1891. Burman segue i discendenti a Porto Pino, Chia, Sant’Antioco, alla foresta di Oriddu. L’attività del penultimo figlio  Benjamin Herbert nato nel 1871 a Badd’e salighes, l’allevamento dei cavalli di razza, la prima produzione di latte sterilizzato in Italia. Infine Donna Vera scomparsa nel 1979 e Giorgina Mameli-Piercy Giustiniani, nata nel 1942.

Luciano Carta aveva ricostruito queste vicende già 35 anni fa sulla rivista Quaderni Bolotanesi di Italo Bussa, partendo dalla storia della famiglia di 9 figli, dal diario della terzogenita Florence con molte pagine ambientate a Cagliari, dal volume di Benjamin Herbert, l’ottavo figlio, La Sardegna nei miei ricordi, utilizzando il testo di Lorenzo Del Piano e molti documenti che in realtà fanno emergere il ruolo svolto dalle amministrazioni provinciali di Cagliari e Sassari nella fase progettuale del 1860, col coinvolgimento della ditta Baratelli e Co. Il vincolo sui terreni ademprivili rimasti indivisi dopo la nascita della proprietà perfetta in Sardegna, oltre 470 mila ettari, la metà dei quali furono inizialmente ceduti alla società concessionaria.  Il testo viene ora aggiornato e in questo volume sono raccolti documenti importantissimi: la Convenzione del 14 luglio 1862  che fissava tra il 1865 e il 1866 dunque entro appena tre anni la conclusione dei lavori per le linee da Decimomannu a Iglesias (37 km), da Cagliari a Decimomannu e Oristano (95 km), da Oristano a Ozieri (121 km), da Ozieri a Portotorres per Sassari (66 km), da Ozieri a Terranova  (69 km) o Golfo degli Aranci: seguono il Capitolato d’oneri, con la lunghezza delle rotaie (5,40 metri in ferro battuto, 33 kg a metro),  poggiate su 6 traversine e su una via larga 5 m, lo scartamento di 1445 mm sul modello inglese (scartamento Stephenson), mentre sappiamo che nel 1879 lo scartamento delle linee secondarie Macomer-Bosa, Macomer-Nuoro, Isili-Sorgono e Isili-Villacidro, Sassari-Sorso, Sassari-Alghero ecc. sarebbe stato di 950 mm.  Le caratteristiche delle stazioni, dei principali edifici, dei ponti, dei passaggi a livello con cancelli o barriere, il raggio delle curve, le pendenze non superiori a 25 per mille, la presenza di un doppio binario in alcuni punti e incroci, la larghezza a 4,50 metri delle gallerie, con un’altezza di 5,50 m. e nicchie per i guardiani, la palificazione per i collegamenti telegrafici. E poi le tariffe, le garanzie, i contatti dal 1869 con l’ambiente sardo, l’incontro con l’on.le Quintino Sella e con la Commissione d’inchiesta sulle condizioni morali, economiche e finanziarie della Sardegna del 1869 presieduta da Agostino Depretis.

I lavori effettivamente iniziarono con l’impiego di oltre cinquemila operai, ma si arrivò come si è detto al fallimento dell’impresa Bertlin e al crollo della Compagnia per i dissidi tra i soci e alcune truffe. L’unico elemento di continuità è rappresentato dalla figura di Benjamin Piercy, che i documenti descrivono come ingegnere capo rappresentato in loco a sua volta da altri ingegneri, al quale si affidano pieni poteri, quasi di vita e di morte sugli operai e sui servants. Secondo il critico Antonio Canessa egli era diventato giudice e parte, perché Piercy figurava nel contratto nella duplice veste di ingegnere capo della compagnia concessionaria e della ditta costruttrice di cui era divenuto socio, dunque Piercy sorvegliava Piercy, senza un vero interesse pubblico.  Dietro queste pagine lasciatemi dire c’è il Luciano Carta, l’allievo di Girolamo Sotgiu, che abbiamo conosciuto quaranta anni fa, intollerante con i cattivi amministratori, impegnato a denunciare gli interessi di parte, gli imprenditori venuti dall’esterno, animato da un salutare spirito critico che in parte oggi abbiamo tutti perduto.

Eppure, pur con queste riserve e valutando pesantemente il danno che fu causato all’economia della Sardegna privata di tante risorse, i lavori si avviarono ormai a concludersi: la convenzione del 24 marzo 1869 approvata l’anno dopo dal Parlamento spostava a fine 1871 l’entrata in esercizio della linea Cagliari-Oristano, un mese dopo la Sassari Porto Torres, due mesi dopo la Decimomannu-Iglesias, due anni dopo (31 dicembre 1874) da Sassari alla stazione vicina ad Ozieri, Chilivani. La compagnia ottenne un’indennità chilometrica di 12.000 lire a km. Burman scrive, parlando della ferrovia per Bosa, che solo i maligni possono pensare (parlava di me) che le giravolte della linea tra Tresnuaghes e il mare erano determinate più che dalla pendenza dalla volontà di incassare le indennità governative fissate a chilometro.

Con un documento datato Sassari 13 febbraio 1873 possediamo ora una bella sintesi sulla costruzione delle ferrovie in Sardegna tra il 1871 e il 1873 pubblicata in appendice.

L’ultimo documento presentato in questo volume è del 15 maggio 1873 e riguarda la linea D delle ferrovie sarde tra Sassari e Porto Torres: da Giovanni Spano sappiamo che i lavori portarono alla distruzione di gran parte dell’acquedotto romano già nel 1870: Iulius Euting, dotto bibliotecario di Tubinga “passando da Sassari a Porto Torres per prender imbarco per Marsiglia”, potè osservare con dolore una fase della distruzione dell’acquedotto di Turris Libisonis. Egli poté raccontare allo Spano le sue impressioni in una lettera successiva forse dei primi mesi del 1870: “quum ex urbe Sassari discederem, juxta viam viros vidi qui antiquum aquae ductum Romanorum, barbarorum more in latomiarum modum despoliantes, ferro et igne saxula deprompserunt, non sine dolore!”.

E comunque i lavori sotto la direzione ferrea di Piercy si conclusero tutti rapidamente e su questa linea viaggiò sabato 27 ottobre 1877, tra Sassari e Portotorres un altro tedesco, il celebre storico Theodor Mommsen «dentro il carrozzone della ferrata» che lo doveva portare alla nave “Lombardia”, in partenza per Livorno e quindi per Roma. Il Mommesn, accompagnato da Salvatore Sechi-Dettori e dal Regio Ispettore degli scavi Luigi Amedeo, incaricò quest’ultimo di studiare le iscrizioni di Olbia, dopo le straordinarie scoperte effettuate a Terranova da Pietro Tamponi: «prima di partire raccomandò al prof. Amedeo la ispezione accurata di alcuni luoghi, dove suppone debba trovarsi copia di quelle antichità romane, delle quali con tanta fama e lustro si occupa, non che della lettura di alcune iscrizioni in Terranova. Il giovane prof. accettò di buon grado l’incarico».  Proprio  Salvatore Sechi-Dettori raccontava che il Mommsen aveva raccomandato di scrivere ora <<la vera storia delle carte d’Arborea» e dovevano essere resi di pubblica ragione i fatti «da alcuni conosciuti e tacciuti ad arte»: si ricordava il viaggio in treno tra Sassari e Portotorres, quando il Mommsen aveva invitato il Sechi e l’Amedeo a porre pubblicamente alcune domande: «dove? come? quando? da chi furono esse trovate queste famose carte d’Arborea». E dunque il De-Castro veniva invitato a fare i nomi, «senza alcun riguardo alle persone vive, moribonde e morte». La Sardegna usciva – per usare le parole di Mommsen – dal suo letargo e iniziava la lotta contra saecularem ignaviam tenebrasque vetustate consecratas. Ma la voglia di costruire una storia di plastica per la Sardegna non si è ancora oggi del tutto sopita.

Anche da questo episodio risulta chiaro che la storia delle ferrovie in Sardegna è ancora da scrivere: questa Biblioteca della villa Piercy può diventare il motore di nuove ricerche scientifiche e ritengo che la promessa dell’Associazione e dell’Università di andare alla ricerca dei molti documenti ancora inediti, sarà un impegno che attende gli studiosi per i prossimi anni.




Roma, Institutum Romanum Finlandiae, 16 giugno 2021.

Attilio Mastino
Roma, Institutum Romanum Finlandiae, 16 giugno 2021


Presentazione del volume Il Mediterraneo e la Storia, III, Documentando città portuali documenting port cities, Atti del convegno internazionale, Capri 9-11 maggio 2019, a cura di Laura Chioffi, Mika Kajava, Simo Örmä, Roma maggio 2021, Acta Instituti Romani Finlandiae, 48, Institutum Romanum Finlandiae, pp. 325

Questo volume 48° degli Acta Instituti Romani Finlandiae curato da Laura Chioffi, Mika Kajava e Simo Örmä, nell’ambito delle ricerche sul Mediterraneo e la storia (terzo dopo i convegni di Napoli del 2008 e di Ischia del 2015), studia in profondità molte città portuali e rappresenta mille punti di vista diversi e complementari su territori collocati tra terra e mare, con attenzione agli aspetti archeologici, epigrafici, scientifici in un orizzonte di incontro tra culture, con un aggiornamento bibliografico davvero unico, a distanza di due anni dal convegno internazionale di Capri (9-11 maggio 2019).

Letto il volume, arrivato alle ultime pagine, ho provato un senso di gratitudine per l’impegno, l’intelligenza, la passione dei quasi trenta autori, che sono stati capaci di sintetizzare tematiche difficili e di raccogliere dati che saranno utilissimi per chi vorrà tornare in futuro su questi argomenti; ciascun intervento presenta un aggiornamento bibliografico davvero rilevante e l’opera si colloca con una sua dimensione autonoma e originale all’interno delle decine di ricerche delle Università e di molti Istituti di ricerca.

In copertina compare il bel mosaico di età augustea dalla Villa Grande di Nettuno, con la rappresentazione dell’immagine tipica di un arsenale (navalia). Il tema iconografico, le arcature di navate costruite dentro le mura cittadine (di cui si si individuano sullo sfondo i  merloni)  con elementi tipici delle navi militari, ostra, aplustra di poppa con ornamenti, è molto comune nei mosaici ed in alcune pitture parietali (e.g. Perugia).  Le ampie lacune del mosaico raccontavano la quantità di informazioni andate irrimediabilmente perdute ed ora testimoniano l’impegno dei ricercatori per ricostruire in questo volume i singoli frammenti di un quadro complesso e articolato. Come non ripensare alle bitte per l’approdo nel bacino del porto di Leptis Magna, che tanto ci avevano colpito dieci anni fa ? Il quadro complessivo è omogeneo, anche se le competenze degli studiosi sono molto diversificate, mettendo comunque a frutto tanti altri incontri dedicati in passato a tematiche analoghe, come per il XIV convegno de L’Africa Romana “Lo spazio marittimo nel Mediterraneo occidentale in età romana: geografia storica ed economia” (Sassari 2000): in quell’occasione avevamo affrontato temi quali lo spostamento della linea di costa, le installazioni portuali, le industrie derivate dalla pesca, le cave litorali, le rotte, gli itinerari, le isole, i fiumi, i geografi.

Più in generale questo volume, idealmente dedicato a Simon Keay, invita a guardare un po’ al futuro delle città del Mediterraneo, sulla riva Nord e sulla riva sud: per i prossimi decenni  vorremmo progettare città antifragili e resilienti come quelle definite da Nassim Nicholas Taleb e dalla sua scuola, che non possono essere immaginate senza partire dalla profondità della storia e dalla complessità delle culture diverse. Le Corbusier nel 1965 sosteneva: <<Essere moderni non è una moda, è uno stato: Bisogna capire la storia: e chi capisce la storia sa trovare la continuità tra ciò che era, che è e che sarà>>. Questo volume rinnega quell’idea di “mare nostrum” che Franco Cassano ne Il pensiero meridiano considera <<odiosa per il suo senso proprietario>>: essa <<oggi può essere pronunziata solo se si accetta uno slittamento del suo significato. Il soggetto proprietario di quell’aggettivo non è, non deve essere, un popolo imperiale che si espande risucchiando l’altro al suo interno, ma il “noi” mediterraneo. Quell’espressione non sarà ingannevole solo se sarà detta con convinzione e contemporaneamente in più lingue>>. Il fatto che la scena si estenda dalla preistoria in qualche caso fino ai giorni nostri ci dice molto sulla nuova impostazione della ricerca archeologica come scienza.

Nell’Introduzione Mika Kajava dell’Università di Helsinki (I porti del Mediterraneo. Introduzione, pp. 9-18) sintetizza splendidamente tutti gli interventi sui porti del Mediterraneo, anche quelli non pubblicati, con una lucidità che davvero gli invidiamo.

Nel suo intervento Michel Gras socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei (Approccio al litorale. Litorale e potere, pp. 19-26) tenta una sintesi generale sul rapporto tra litorale e potere, ricordando anche gli studiosi che in passato si sono occupati attivamente del tema, partendo da personaggi che amiamo come Umberto Zanotti Bianco per Sibari, l’americano John D’Arms per il golfo di Napoli, il generale Giulio Schmiedt nel Tirreno o Mario Torelli per Gravisca il porto di Tarquinia e il suo recinto sacro; ma non solo: lo sguardo si spinge a Mozia, ad Olbia, a Utica e Cartagine, a Cherchell e Tipasa, a Lixus e a Hueva, e poi a Lindos nell’isola di Rodi, a Creta, a Cipro, all’isola sacra di Delos, ad Alessandria, Pozzuoli, Roma. La geografia lascia immaginare che in futuro assisteremo ad una litoralizzazione (neologismo della geografia moderna) dell’urbanizzazione, gli spazi vuoti diverranno pieni: nel senso che <<le grandi città di domani saranno sul litorale>> e il turismo nautico si affiancherà alle tradizionali linee di utilizzo dei litorali. Dunque il tema è quello di definire le nuove funzioni per questo lungo nastro litoraneo percorso da tanti nodi, ripensando al variare del rapporto con il potere collocato inizialmente all’interno, almeno fino a quando la Fenicia riuscì a cambiare in Occidente le regole del gioco e si andò affermando il modello di Tiro e Sidone, così a Gades, a Cartagine, a Nora, ma anche a Marsiglia e a Roma. Più ancora dei Greci furono i Fenici a determinare il nuovo orientamento urbanistico e a ridefinire i rapporti di potere, con il crescere degli scambi e la sua conseguenza diretta, lo sviluppo della scrittura che diventa in questo quadro effetto e non causa di un nuovo modo di vivere. Il modello fenicio sembra esser stato recepito da quello che diverrà il modello greco euboico di Eretria e soprattutto di Calcide, con la fondazione di Pitecussa, di Cuma e di Megara Hybleaea. Il rapporto antico della polis col suo emporion, un concetto che Michel Gras spiega come un luogo di sbarco aperto prevalentemente verso il mare, isolato però sulla terraferma, in greco epineion , ancoraggio (penso ad un luogo deputato  per il commercio internazionale legale), è un rapporto lungo e contrastato, che evolve e finisce per portare al concetto romano, e quindi medievale e moderno, di porto, che non si distingue più dalla città e che esiste in funzione della città. Roma ha in Ostia non un emporium ma una rada (non un avamporto) controllato dai procuratori ad annomam, al suo servizio; così avviene a Pozzuoli con la Procuratio sexagenara Puteolis ad annonam rivestita ad es. da Q. Marco Macrino, originario di Uchi Maius, con funzioni che potrebbero essere limitate al noleggio delle navi onerarie in porti vicini. E poi il porto fluviale sul Tevere, l’olio della Betica al Testaccio, le profonde trasformazioni del commercio mediterraneo, in un rapporto più fecondo tra città, il suo porto e la sua chora, il suo territorio: una prospettiva – quella del rapporto tra litorale e potere con il consolidarsi di un legame politico, economico e culturale – che significa molto anche nel mondo di oggi.

Christophe Morhange dell’Université d’Aix-e-Provence, Maria Giovanna Canzanella-Quintaluce del Centre Jean Bérard di Napoli, David Kaniewski dell’Université de Toulouse, Nick Marriner dell’Université de Franche-Comté, Marinella Pasquinucci dell’Università di Pisa, Elda Russo Ermolli dell’Università di Napoli Federico II, Matteo Vacchi dell’Università di Pisa, in un articolo a più mani dedicato alla memoria della geoarcheologa Paola Romano (Perché studiare l’ambiente dei porti antichi?, pp. 27-39) sintetizzano lo sviluppo dell’”archeologia totale” dei bacini portuali, che si pone nella prospettiva di un approccio olistico e ambientale attraverso l’applicazione di una pionieristica metodologia archeologica pluridisciplinare, che ha incluso progressivamente la geomorfologia, la (bio)sedimentologia, la biologia, la geochimica, le datazioni al radiocarbonio, le analisi dei paleo-inquinanti nei sedimenti con isotopi stabili del piombo. Il focus si concentra sul tema delle oscillazioni relative del livello del mare che può essere accertata attraverso studi di bio-stratigrafia. I casi più di successo sono stati quelli di J.-P. Goiran et alii nel 2009 nel bacino di Claudio a Portus Romae nel delta del Tevere, partendo dalla zonazione verticale degli organismi marini sessili (genere Chama e Ostrea).  Attraverso un esame di dettaglio dei singoli marcatori, è stato possibile accertare l’innalzamento del livello del mare da partire dal III secolo d.C. di circa un metro, il che consente di stabilire una paleoprofondità del bacino di Traiano di 7 m. Più variata è la evoluzione del livello del mare nel bacino portuale di Napoli, in relazione alla vulcano-tettonica; fino al V secolo, dopo un periodo di stabilità, il livello del mare è fissato a 1,6 metri sotto il livello attuale, preceduto e seguito da periodi di subsidenza con risalita del livello del mare. Celebre è la testimonianza del mercato romano di Pozzuoli (erroneamente tempio di Serapide), che testimonia con evidenza i fenomeni di bradisismo intensi, con 3 innalzamenti di 7 metri del livello del mare, avvenuti nel V secolo, all’inizio del medioevo e prima dell’eruzione del 1538. Analoghe analisi sono sintetizzate per Portus Iulius presso Puteoli. Attraverso analisi geofisiche è stato possibile localizzare le strutture portuali di Cuma e di Portus Pisanus a Livorno nel delta dell’Arno, incrociando i dati sugli apporti sedimentari, in particolare dei depositi alluvionali, con le dinamiche meteo-marine continentali. Una costante dei porti a mare sembra esser stata l’ipersedimentazione all’interno dei bacini portuali ben protetti, che ha richiesto nei secoli ripetuti interventi di dragaggio, fino al progressivo impaludamento. I progressi delle geoscienze consentono ora di misurare l’impatto dell’antropizzazione e dell’inquinamento da piombo dei sedimenti, in considerazione allo sversamento di reflui delle città antiche e alla presenza di attività commerciali. Lo sguardo può spingersi fino a Marsiglia, Sidone, Alessandria, Forum Iulii, Fréjus e ancora a Portus, dove si è calcolato il raddoppio degli isotopi del piombo in età augustea. Infine l’archeopalinologia e l’analisi pollinica hanno fornito preziose informazioni a Pisa, Portus, Neapolis, nel rapporto tra foreste naturali, macchia mediterranea, vegetazione produttiva, in zone pianeggianti o oggi acquitrinose. La conclusione è lapidaria e di estremo interesse per i nostri tempi: <<le attività umane riducono la resilienza della natura costiera>>, <<la vulnerabilità socio-economica è determinata più dall’attitudine culturale di una società ad avere a che fare con gli impatti dei cambiamenti naturali dei sistemi litorali che dalle sue capacità tecniche di contrastarle>>: ciò senza quelle che Kajava definisce le sfumature neocatatrofiste.

Pekka Niemelä dell’Università di Turku e Simo Örmä dell’Institutum Romanum Finlandiae (Shipworms (Teredinidae) and ancient Mediterranean harbours, pp. 41-49) riflettono sui così detti vermi navali della famiglia delle Teredinidae, molluschi xilofagi che hanno un impatto nettamente differente a seconda delle latitudini, della temperatura, della salinità del mare, dal Mediterraeo al Baltico: gli autori dimostrano in maggiore o minore quantità lo sviluppo degli Shipworms xilofagi destinati ad avere un impatto gravissimo sul legname delle navi e sulle palificazioni dei moli, associando la loro azione a quella di insetti, funghi, alghe. Viene studiata la biologia dei vermi di mare, in particolare del Teredo navalis Linnaeus (in greco, Teofrasto lo chiama τερηδών). Un problema sottovalutato dagli studiosi, che incide sulla ricostruzione delle rotte e la localizzazione dei navalia (che però avevano le fondamenta in pietra), ma anche in relazione alla durata di vita delle navi o piuttosto al ritmo delle manutenzioni, alla localizzazione dei cantieri di rimessaggio invernale, ai primitivi sistemi di protezione dello scafo sommerso con piombo e poi con vernici velenose; la calafatura compare solo nel V secolo d.C. in Egitto. Torniamo a Portus Romae, a Leptis Magna, ad Alessandria, a Ravenna, a Naroda in Dalmazia per vedere come il problema poteva essere contenuto e comunque valutato già nella fase di progettazione dei porti; il rapporto dei vermi di mare con i cantieri navali era già noto a Teofrasto e a Plinio; Vitruvio consigliava la costruzione dei navalia verso nord, per evitare la putrefazione del legname in rapporto all’azione di tarli, tineae, teredines, reliquaque bestiarum nocentium genera. Era di solito necessario costruire gli scali di alaggio per tirare a secco le navi e proteggerle, come nel caso più celebre, quello dell’isolotto dell’ammiragliato nel porto militare di Cartagine.

Simon Keay dell’University of Southampton (Reflections upon the Challenges in Documenting Portus Romae, the Maritime Port of Imperial Rome, pp. 51-70), scomparso purtroppo il 7 aprile 2021 a soli 66 anni di età, torna a parlarci con una straordinaria competenza dei temi e delle sfide scientifiche che gli erano cari, incrociando archeologia, geomorfologia, epigrafia, storia di Portus Romae, nell’ambito dei progetti del Parco Archeologico di Ostia antica, che vede coinvolti anche colleghi dell’Università di Cambridge. Emerge la complessità del delta del Tevere, con i canali naturali e i canali artificiali a Nord dei quali si sviluppa il Campus Salinarum Romanarum; e poi l’Isola Sacra con le sue necropoli, la fossa Traiana, il porto di Claudio (esteso per 200 ettari), la Darsena (poco più di un ettaro), e il bacino ottagonale di Traiano scavato quasi settant’anni dopo (32 ettari); i navalia, il palazzo imperiale, una vera e propria villa marittima col suo anfiteatro, o suoi lussuosi mosaici; la strategia portata avanti dagli archeologi tra il 2007 e il 2015 nei grandi magazzini di Settimio Severo; il tutto presentato con una straordinaria storia degli studi che inizia dal Settecento, illustrando le nuove sfide che ora Simon lascia in eredità ai suoi allievi attraverso gli accordi istituzionali tra la sua Università e il Parco Archeologico, per documentare e mappare il porto, con un metodo e una visione pluridisciplinare che saranno un vero e proprio modello per altri porti e per altri territori meno complessi; l’utilizzo di nuove tecnologie digitali, il georadar GPR e la tomografia ERT; lo sviluppo di giganteschi database informatici interattivi (IADB), la modellizzazione del porto oggi integralmente interrato. Ancora un riesame di molte iscrizioni, come quella datata al 46 d.C. con la VI potestà tribunicia di Claudio, con la sintetica descrizione dei lavori alla foce: fossis ductis a Tiberi operis portu[s] caussa emissisque in mare urbem inundationis periculo liberavit, un testo che conferma la diretta relazione attraverso il Tevere tra Ostia e la Capitale (CIL XIV 85). E poi i tre porti aperti ad accogliere i naviculari provenienti dall’Egitto, dall’Africa, dalla Sardegna, dalla Narbonense, dall’Adriatico, con un commercio che viene ricostruito in dettaglio attraverso le ceramiche, i vetri, i marmi; la vitalità del porto ancora negli ultimi anni di Costantino, con la statua collocata dai Portuenses per esaltare l’opera di L. Crepereio Madaliano consul(aris) molium, fari at(que?) purgaturae, certo con riferimento al dragaggio periodicamente necessario (CIL XIV 4449); ma la piena operatività del porto è documentata per tutto il VI secolo.

Arja Karivieri dell’University of Stockholm e Presidente dell’Institutum Romanum Finlandiae (Scientific Methods in the Research on the Harbour City of Ostia: Recent Developments, pp. 71-78) ci riporta ancora ad Ostia, per presentare i risultati della metodologia scientifica non invasiva per lo studio di alcune aree, in collaborazione col Centro Studi Pittura Pompeiana Ostiense alla Casa delle Ierodule, nelle Case a Giardino, nell’Insula dei dipinti, all’Isola Sacra: prospezione geofisica, scansione laser, fotogrammetria, modelli 3D, analisi dei pigmenti sui dipinti murali, l’osteoarcheologia, con un approfondimento sui resti faunistici e di conseguenza sul rapporto tra la pesca e l’alimentazione. Emerge un quadro di sintesi molto diverso delle abitudini alimentari degli abitanti di Ostia, se confrontato con i risultati delle analisi degli isotopi stabili, campionate dagli individui della necropoli dell’Isola Sacra: secondo T. Prowse nel 2005 e 2007, i risultati suggerivano una dieta ricca di prodotti della pesca; la proporzione di pesce e frutti di mare sarebbe stata maggiore nella dieta del popolo di Portus rispetto alla dieta della popolazione rurale. Tali risultati sono ora discussi con il metodo della zooarcheologia e coi calcoli effettuati nel 2014 da M. MacKinnon che, pur non considerando molluschi e crostacei, ritiene che la dieta degli abitanti di Ostia e Portus fosse più varia di quanto non si sia fin qui pensato, più ricca di carne e dipendente da un esteso pastoralismo. Ma l’autore e noi stessi non siamo totalmente convinti di questi risultati.

Ad ambito strettamente epigrafico e artistico ci porta Lena Larsson Lovén dell’University of Gothenburg in Svezia (Male and Female Work in Images and Inscriptions from Ostia and Portus, pp. 79-92), con un articolo dedicato alle rappresentazioni iconografiche e alle iscrizioni di Ostia e Portus relative al lavoro maschile e femminile nell’ambito dell’economia portuale: artigiani, venditori, medici e mediche, operai impegnati nel porto, con la loro cultura, la loro religione, le loro abitudini funerarie. E poi i collegia, come quello dei pistores o dei fabri tignarii, il rilievo di Titus Aelius Evangelus impegnato in un telaio per la manifattura tessile, i lanarii pectenarii e i lanarii carminatores, i venditori di frutta e verdura, i proprietari delle tante tabernae delle diverse insulae ostiensi. Più significative ad Ostia le molte professioni legate al mare, gli imprenditori come i domini navium Afrarum <item Sardorum> collegati in un collegio, i navicularii, ma anche gli operai del cantiere navale, i fabri navales riuniti in collegium con 13 patroni, 14 quinquennales, una mater collegii, gli honorati e la plebs (CIL XIV 256); i saccari, i phalangarii portatori di anfore, i sommozatori, urinatores, i mensores frumentarii che riempivano i modii rappresentati nel mosaico dei navicularii et negotiantes Karalitani, i codicarii che portavano il grano sul Tevere fino a Roma: una realtà brulicante di vita, con lavori legati al commercio, al trasporto marittimo e fluviale, agli affari, spesso a grande distanza dalle famiglie di origine. In un quadro dominato dal genere maschile, compaiono sia pure in netta minoranza molte donne impegnate nel commercio marittimo o addirittura armatrici e protettrici di collegia, come quella ricchissima benefattrice Iunia D.f. Libertas proprietaria di orti, edifici e tabernae (AE 1940, 94).

Laura Chioffi della Seconda Università degli Studi di Napoli (Antium romana e i suoi porti, tra epigrafia ed iconografia, pp. 93-110) continua un suo straordinario filone di ricerca, emerso nei convegni precedenti su Il Mediterraneo e la Storia e proprio in questi giorni nel bel volume Portus operis sumptuosissimi e dintorni, uscito per le edizioni Quasar, con gli Atti della giornata di studio su Antium romana, Anzio, 25 ottobre 2019, che ha seguito di poche settimane il Convegno di Capri. La notizia più antica, dei primi anni della repubblica, è in Livio 2,63 con riferimento ad un oscuro oppidum degli Antiates chiamato Caenon o Cerion, con la convincente proposta di emendamento del testo liviano con cothon, già in Servio che pensa ad un manufatto portuale interno, da riferirsi ad un emporion latino-volsco forse collocato sulla riva sinistra del fiume Astura;  eppure Cothon non compare mai al di fuori del mondo punico, probabilmente  si tratta di un’omofonia approssimativa per il punico  Knyn. Ma che senso ha allora ha il passo di Strabone che definiva Anzio alìmenos se non si poteva approdare nel Golfo di Anzio e neppure accedere attraverso l’estuario del fiume e si doveva arrivare allo scalo di Astura ancora più a Sud ? È chiaro che le cose stanno diversamente, se abbiamo la testimonianza di un gubernator e di tre altari con i supporti per l’aggancio di cavi di ormeggio, datate all’età della sconfitta di Sesto Pompeo. La Chioffi propende giustamente per ridimensionare il giudizio di Strabone: non ci sarebbe stato un porto protetto, con moli, magazzini, attrezzature necessarie per l’attracco e l’imbarco di passeggeri e merci; e ciò fino a Nerone nato proprio ad Anzio, dove secondo Svetonio l’imperatore volle anche un nuovo portum operis sumptuosissimi (Nero 9,4) Un’iscrizione dalle paludi della vicina località Clostra Romana (Borgo Grappa nel Parco del Circeo), datata dalla Chioffi alla fine dell’età repubblicana ma leggermente più tarda per Kajava (AE 2011, 225), ricorda un liberto Phaenippus, apparentemente un duoviro della colonia di Anzio, che a sue spese realizzò un [opus pilarum ? conc]ludentium et substruc[tiones] di un’opera portuale, con alcuni confronti con le arcate sostenute da pilae che si conoscono presso le residenze imperiali ed a Pozzuoli: un po’ come è rappresentato nel citato mosaico di Nettuno che compare sulla copertina, collocato sicuramente a ridosso delle mura di cui si intravvedono i merloni. In realtà la ricostruzione della lacuna epigrafica è dubbia e le pilae per quanto ne sappiamo non sono normalmente strutture “concludentes” bensì maggiormente protezioni laterali del canale d’ingresso; opus pilarum è un’espressione che occorre  solo a Pozzuoli per distinguere  il toponimo “Pilae” e la strutture (opus) restaurate da Adriano; del resto né pilae né moli (a cassettoni) hanno substructiones.

Ma l’articolo testimonia lo sviluppo del porto di Anzio con i moli in muratura e con le significative testimonianze archeologiche ed epigrafiche, come quella del legionario C(aius) Vedennius C.f. Quirina Moderatus Antio, richiamato in servizio da Nerone per 23 anni come arc(h)itectus armament(arii) imp(eratoris), cioè incaricato per il genio militare di armare con catapulte le navi della flotta da guerra e le navi mercantili (CIL VI 2725 = 37189); allo stesso scopo nei cantieri navali operavano i fabri Antiatini riuniti in collegio. La storia prosegue con il porto articolato in due bacini, uno dei quali al servizio del palazzo imperiale con Adriano e ben oltre il regno dei Severi, se durante il Bellum Gothicum Procopio racconta che alcune navi bizantine riuscirono a scaricare i rifornimenti destinati alla capitale assediata (I, 26).

Marco Buonocore della Pontificia Accademia Romana di Archeologia (Porti e commercio sul litorale medio-adriatico della regio IV Augustea in età romana pp. 111-124) ci presenta un quadro della portualità medio-adriatica partendo dal 302 a.C. e dalla spedizione di Cleonimo raccontata da Livio (che parla di importuosa litora traducendo da una fonte greca con ἀλίμενος) e da Strabone 8, 5, 10 C 317, che definisce ἀλίμενος la costa adriatica a differenza di quella illirica infestata dai pirati: ma ἀλίμενος non significa “privo di porti”, bensì “privo di aree riparate” (naturali, meno spesso artificiali) di notevoli dimensioni. Plinio il vecchio, descrivendo la regio IV augustea attribuisce al flumen Trinium il titolo di portuosum. Risalendo verso Nord, a Termoli l’iscrizione di Pacuvius posta dall’alum[na] Tryfer’a’ è una bella prova dei contatti con l’altra sponda adriatica, visto che a Salona una Pac(uvia) Tryfera dedica l’epitafio all’alumnus Pacuvius Lucidus (CIL III 2325). Altri porti attivi sono quelli di Histonium dei Frentani dediti alla pirateria nel precedente sito di Punta Penna, a breve distanza dalla foce del fiume Trinium portuosum; altre insenature naturali sono citate dalle fonti tarde a Trave, Casarza, Meta e Concadoro (da quest’ultima località proviene il frammento che farebbe pensare a lavori idraulici nell’area, analoghi a quelli citati nell’iscrizione teatina (CIL IX 3018). L’epigrafe di M. Vitorius C. Osidius Geta su una tegola ritrovata presso il Trave e la lastra di Casarza CIL IX 2861 che fa pensare ad un [curator annonae Histo]niens(ium) et In[teramnat(ium)] portano l’a. a concordare con Davide Aquilano per il quale si può parlare di un vero e proprio sistema portuale di tipo diffuso, con molti punti di approdo nel territorio di Histonium, anche presso dei foci dei fiumi. Se passiamo a Buca (forse Campomarino) immediatamente a nord della foce del Tifernus e Anxanum (Lanciano) rimangono testimonianze anche interne della vitalità commerciale di alcuni centri: proprio a Lanciano Diocleziano secondo una dubbia iscrizione avrebbe costruito il ponte romano (CIL IX 305*). Il municipium di Hortona poco più a Nord ci ha conservato strutture portuali alla foce del Torrente Peticcio, in loc. Lo Scalo, dove sappiamo in età bizantina della presenza del principale approdo della flotta in Abruzzo, lungo la rotta tra Ravenna e Costantinopoli. Seguiva il vicus Aterni (o gli Ostia Aterni), approdo dei Vestini, Peligni, Marrucini nel punto terminale della via Claudia Valeria presso l’attuale Pescara-Portanuova ((la strada è citata sul miliario di Claudio nell’ottava potestà tribunicia: viam Claudiam Valer[iam] a Cerfennia Ostia Ate[rni] (CIL IX 5973). Vicus Aterni (in greco πóλισμα, acropoli, in  Strabone 5,4,2, 241-42) che possiamo immaginare capoluogo di un pagus del municipio di Teate Marrucinorum, pochi chilomentri a monte della foce dell’Aternus. Qui debbono essersi svolti imponenti lavori nell’età di Claudio. Molto significativa per i collegamenti della adriatica tra Termoli e Pescara con la costa dalmata è l’iscrizione di Lanciano che nel III secolo è stata posta dalla salonitana Ulpia Candida per ricordare il marito un nauclerus qui erat in colleg(io) Serapis Salon(itanus), con l’espressione in versi che l’a. traduce poeticamente: <<a te, sempre sbattuto sui mari, sulle onde, sui flutti, per freta per maria traiectus saepe per und(as) non sarebbe stato destino, morendo, rimanere ad Aternum; ma, se non hai voluto vivere con me come coniuge, ti avessi almeno accompagnata sull’eterno Stige o sulla nave dei morti” (CIL IX 3337). Aternus, il fiume o il nome del defunto, compare anche in CIL IX 3338 col collegio di Iside e la rappresentazione di una nave oneraria, il che ci rimanda forse alla cerimonia del navigium Isidis. Si aggiunga che ad Ostia presso il teatro conosciamo la statio del corpus naviculariorum maris Hadriatici, un’associazione di appaltatori di trasporto della Regio IV in funzione dell’approvvigionamento di Roma: vino e olio prodotti nelle numerose ville rustiche locali e marmi arrivati dall’oriente.

Gianfranco Paci dell’Università di Macerata (Ancona e il suo porto: gli scavi 1998-2002 e le nuove conoscenze, pp. 125-136) presenta le nuove conoscenze sul porto di Ancona dopo gli scavi del 1998-2002, che hanno messo in evidenza un impetuoso sviluppo del porto collegato con Zara in Dalmazia a partire dall’età medio-repubblicana, mentre in parallelo si assiste al declino di Numana immediatamente a Sud, dopo la nota fioritura di età più antica. Il porto di Ancona, a SE dell’arco di Traiano, è stato tra i primi ad esser scavati in Italia, con le sue strutture murarie per il ricovero delle imbarcazioni, i magazzini, le cisterne in piena attività fino all’età medioevale. Paci esclude la tradizionale ricostruzione di un porto greco originario, ampio e protetto da moli, con un prolungamento delle propaggini orientali del M. Conero e di un successivo porto di Traiano interno, in rapporto all’espressione incisa sull’arco eretto all’inizio del molo Nord (CIL IX 5894),  in occasione della 19° potestà tribunicia: quod accessum Italiae, hoc etiam addito ex pecunia sua portu, tutiorem navigantibus reddiderit (in proposito rimando all’articolo di Francesca Cenerini in Pro merito laborum, Miscellanea epigrafica per Gianfranco Paci, che si sofferma sulla presenza sull’arco delle dediche a Plotina Augusta ed alla sorella di Traiano Diva Marciana Augusta, l’impegno imperiale per l’Italia anche attraverso l’istituzione alimentaria): come è noto Traiano si è molto impegnato per i porti italici, da Portus Romae con il bacino ottagonale, a Centumcellae, Tarracina, Puteoli, Ariminum. Dunque quod etiam addito non si riferisce ad un secondo porto aggiunto ad Ancona bensì all’intero bacino portuale, divenuto pericoloso e insicuro e comunque ancor più necessario per rifornimenti annonari, nell’ambito della providentia imperiale. È oggi possibile ipotizzare la progettazione del molo principale, quello che proteggeva dai venti di NE, che si appoggiava nel tratto finale su un isolotto artificiale con tecnica analoga a quella di Civitavecchia; per il porto più antico, riferito ora solo al II secolo a.C., si segnalano le analogie della tecnica muraria con l’opus quadratum delle mura urbiche, ben successive alla fase greca della città. Ciò non toglie che nell’età dell’imperialismo e delle guerre illiriche e macedoniche, Ancona abbia avuto uno sviluppo commerciale davvero significativo, in relazione con le merci di lusso introdotte dall’Oriente: lo testimoniano le necropoli ellenistiche, con vasellame d’argento, anelli, strigili, coppe vitree con raffinati motivi decorativi. Questa è forse la ragione per la quale Strabone parlava di Ancona come “città greca”, comunque inserita nella cultura ellenistica. Abbiamo ora una sintesi dello sviluppo della cultura materiale, dalle ceramiche tardo-classiche di provenienza attica, rodia e magnogreca (IV secolo a.C.). Alla sigillata orientale A di provenienza siriaca e cilicia del I secolo subentra la ceramica corinzia decorata a matrice di II-III sec. e l’africana, con le ultime produzioni (africana D) che arrivano al VII secolo; si affiancano alle sigillate focese e cipriota tarda. Ricco il materiale anforario, dall’età tardo-repubblicana per il vino alle anfore brindisine per l’olio, ma anche per la salsa di pesce e altri prodotti. Nell’età alto e medio-imperiale i porti di partenza sembrano Rodi, Cnido, Alessandria e medio-oriente; come di consueto gli affusolati spatheia tardi rimandano al commercio di olive, lenticchie, salse di pesce e vino dall’Africa e nel VI-VII secolo non manca il vino palestinese e il vino bizantino assieme a lenticchie, miele e olio, spesso anche dall’area istro-pontica. Ancora contenitori per unguenti, sostanze aromatiche, prodotti per cosmesi, lucerne, marmi, mattoni bollati, monete, altri reperti mobili. Gli scavi sul lungomare Vanvitelli saranno oggetto di un volume in preparazione, che testimonierà l’apertura di Ancona ai rapporti marittimi con tutto il Mediterraneo, in particolare quello orientale, con un contributo fondamentale fornito dalle esportazioni di prodotti provenienti dall’entroterra piceno, dall’agro gallico e della vicina Umbria.

Alfredo Buonopane dell’Università di Verona (Vivere e morire in un porto militare: aspettativa di vita e anni di servizio dei classiarii della Classis Ravennas, pp. 137-152) affronta con metodologie rinnovate il tema dell’aspettativa di vita dei classiarii di Ravenna, della durata del servizio militare, dell’età di arruolamento partendo da oltre un centinaio di epitafi e da una decina di diplomi militari, provenienti da Ravenna, Rimini, Miseno, Cuma, Roma, Centumcellae, Lorium, Populonia, Luna, dalla Corsica e dalla Sardegna, Salona, Nicopolis, Chalcedon, Seleucia di Pieria, Atene, fino a Siscia e Sirmium in Pannonia. Conoscevamo la tendenza ad arrotondare gli anni di vita con multipli di cinque; dal punto di vista demografico ben il 44% dei classiarii raggiunge la fascia tra 40 e 60 anni, superando nettamente l’aspettativa di vita di 25 anni considerata comunemente come normale in età romana. L’a. ritiene che le cure mediche e la buona qualità di vita dei classiarii, l’attività fisica, la presenza di impianti termali e sportivi possano aver pesato positivamente sulla salute dei marinai che viceversa dopo il congedo e soprattutto a partire dai 50 anni di età conoscono un immediato declino che va messo in rapporto con un peggioramento degli stili di vita (il tema è ben noto per tutti i militari). I deceduti in servizio si concentrano tra i 31 e i 50 anni (66%), forse in relazione a viaggi pericolosi, incidenti, guerre. Se confrontati con i classarii di Miseno studiati da Valerie Hope nel 2020 e di altre flotte studiati da Steven Tuck nel 2015, i marinai di Ravenna sembrano aver avuto una maggiore aspettativa di vita. La ricerca è estesa agli anni di permanenza in servizio, che raramente arriva ai canonici 26 anni, anche se poi conosciamo una quindicina di casi di marinai trattenuti in servizio da uno a sette anni, in rapporto a guerre o pressanti impegni; infine l’età all’arruolamento era di solito compresa tra i 18 e i 23 anni, ma il range va dai 15 ai 40, testimonianza forse della difficoltà di reperire reclute per la marina.

Fulvia Mainardis dell’Università di Trieste (Aquileia (Regio X) nelle reti commerciali mediterranee: persone e merci dalla documentazione epigrafica, pp. 153-176) fornisce una sintesi sulla posizione di Aquileia nelle reti commerciali mediterranee, con la navigazione adriatica e fluviale, col suo sistema portuale al servizio dei mercanti di vino: i principali collegamenti sembrano essere quelli col porto liburnico di Iader (Zara in Dalmazia) e con il municipio norico di Celeia in direzione di Carnuntum in Pannonia. La lista dei 12 mercatores e dei negotiatores ci rimanda all’area transalpina, a Roma, a Forum Cornelii, alla Dacia, perfino alla Colonia Agrippinensis, luoghi di commercio e forse di origine di alcuni. Il negotiator vicanalis di Aquileia sembra aver raggiunto il monopolio nei mercati nundinari dei vici di minori dimensioni in area adriatica o addirittura oltre il confine nord-orientale fino alla vicina provincia del Norico. La vicenda di Lucius Tettienus Vitalis, nato ad Aquileia, sepolto ad Augusta Taurinorum, ci racconta un apprendistato ad Emona al limite dell’Italia (edocatus Iulia Emona) e un’intensa attività mercantile in area gallica e danubiana fino alla morte desiderata: terras nec minus et maria impuri aqu(a)e Padi et Savi ira(m) quod optavi mihi tamen pervenit. perpetuam requiem pos(c)o. L’attestazione di due mercanti consistentes Aquileiae a Singidunum (Belgrado) rimandano a rapporti commerciali con la Mesia, fino alla confluenza tra Sava e Danubio. Il commercio è ricostruito anche sul piano archeologico partendo dalle guerre illiriche con una progressiva centralità di Aquileia come stazione doganale già in età repubblicana (l’Aquileiense portorium di Cicerone) e soprattutto nell’età degli Antonini con l’organizzazione del publicum portorium Illyrici. L’instrumentum domesticum, come si esprime Kajava, fa di Aquileia imperiale non solo un luogo di consumo e di mercato per il transito di merci, ma anche centro produttivo di derrate alimentari. Temi che continuano ad essere documentati nell’editto dei prezzi dioclezianeo che colloca Aquileia nel IV secolo come importante punto terminale del commercio con l’Oriente e con Alessandria, facendone una metropoli. L’epiteto chrysopolis Aquileia su una tessera plumbea difficilmente falsa, richiama l’epiteto di Forum Traini in Sardegna in età bizantina (Maurizio Buora, Aquileia Chrysoplis: Geschichte einer Legende, in “Anodos. Studien on ancient world”, 8, 2008, pp. 109-114).

Fabrizio Oppedisano della Scuola Normale Superiore di Pisa (L’amministrazione dei porti nell’Italia ostrogota. pp. 177-196) mette in rilievo molti fenomeni di continuità tra l’impero tardo antico e la res publica di età ostrogota, attingendo a piene mani alle Variae di Cassiodoro: emergono le eredità, all’interno di una piramide di funzionari quanto mai articolata e, per usare l’espressione di Kajava, spesso asimmetrica. Le funzioni del comes Portus urbis Romae erano quelle di impedire con fermezza forme di concussione a danno dei mercatores; alle dipendenze del prefetto urbano erano il praefectus annonae con compiti circoscritti alla città, il praefectus vigilum, il comes formarum per il controllo urbanistico e  il comes riparum et alveii Tiberis et cloacarum, funzioni essenziali, sopravvissute pari pari durante l’occupazione ostrogota, ma che conosciamo già identiche come titolatura nella Notitia dignitatum. Meno sicuri siamo sulla sfera d’azione del vicarius (o centenerius) Portus responsabile di un corpo di polizia portuale, anch’egli sottoposto al prefetto urbano e probabilmente addetto ai singoli porti del regno ostrogoto; esattamente come coloro che si prendevano cura delle merci che transitavano nei porti (curas portus agentes), incaricati di dare applicazione alle norme contro l’esportazione del lardo o di disciplinare l’esportazione di merces inlicitae, controllare le attività speculative e garantire le forniture militari, assistiti dai curiosi distaccati dalla schola degli agentes in rebus per la cura portuum et litorum, sotto l’autorità del comes sacrarum largitionum. Il sistema in realtà era molto più complesso e comprendeva varie innovazioni, con la nascita dei comites di Napoli, Siracusa, Ravenna, Portus Romae, cariche affidate a ostrogoti più fedeli, responsabili di quella che già il Codice Teodosiano chiamava litorum et itinerum custodia con funzioni militari e civili al servizio diretto del re.

Antonio Ibba dell’Università di Sassari (Porti (e non approdi) in Sardinia, pp. 197-228) fornisce un bilancio complessivo dei risultati delle ricerche su molti porti della Sardegna connessi ad un abitato urbano e ben strutturati su un litorale che è il più esteso tra le isole del Mediterraneo: le colonizzazioni fenicie sulla costa occidentale che si affaccia verso l’Hispania e meridionale verso l’Africa, le eredità puniche, le banchine, i magazzini, i cantieri per consentire il rimessaggio e la manutenzione invernale delle imbarcazioni, i mercati, il foro, con qualche cenno sugli aspetti doganali, sulle peschiere, sulle attività economiche fondate sulle risorse marine, il corallo, i tonni, i pesci. Si trattava, per usare un’espressione cara a Pascal Aurnaud, di ‘porti diffusi’, poco strutturati, che si appoggiavano alle foci dei fiumi, alle lagune, agli isolotti, ai promontori, alle insenature naturali, luoghi di strepitosa bellezza come Nora scelti per la facilità di atterraggio e di sosta; porti spesso come a Carales “policentrici”, allungati, estesi dal santuario di Astarte Ericina a Capo Sant’Elia fino a Bonaria, da qui alla darsena e allo stagno di Santa Igia, superata la duna che collega La Scaffa con Giorgino, una serie di approdi allungati per oltre tre miglia (si ricordi tenditur in longum Caralis di Claudano, Gild. 521). A Carales, città culturalmente aperta sulla rotta tra Myriandum in Siria e Gades sull’Oceano, Antonio Ibba attribuisce ora la poco nota lex de Portu di Donori studiata da Theodor Mommsen, emanata sotto l’imperatore Maurizio Tiberio (582-602) (EE VIII 721, di reimpiego), con una tariffa doganale legata all’ingresso di minerali, frumento, animali (ovini e bovini), verdure, anfore di vino, merci trasportate sui fiumi (credo il Cixerri e il Fluminimannu) fino al porto lagunare su delle naucellae. Gli aspetti più significativi sono legati alla necropoli dei classiarii della flotta di Miseno in Viale Margherita e all’esportazione del sale, raccolto soprattutto a monte delle spiagge del Poetto e di Quartu: il recente articolo di Andoni Llamazares Martín dell’Université Paris I-Panthéon-Sorbonne nel volume Fiscalità ed epigrafia nel mondo romano curato da Cristina Soraci ha confermato la correzione della lettura tradizionale di Giovanni Garbini del testo punico sulla trilingue conservata al Museo di Torino, mantenuta da Ibba, dove Cleone sarebbe “soprintendente ai recinti delle saline”: il testo in realtà sembra ricalcare il latino Cleon salari(oum) soc(iorum) s(ervus). Il ruolo di negotiator o addirittura di mercante di schiavi per L. Tettius Crescens (expeditionibus interfuit Daciae bis, Armeniae, Partia et Iudaea) rimane dubbia per la presenza sulla stele funeraria del bassorilievo di un’aquila legionaria, nonostante la brillante ipotesi di M. Pucci Ben-Zeev.

Per Turris Libisonis, in un’area che conosciamo adattissima alla pesca del tonno, abbandonato l’approdo fluviale alle origini dell’insediamento in età triumvirale, furono effettuati lavori imponenti nell’attuale darsena: la targa marmorea relativa ai lavori iniziati Dextro II et Prisco consulibus nel 196 (AE 2014, 547) continua a mantenere aspetti problematici in relazione ai lavori effettuati per volontà di Settimio Severo, conclusi probabilmente prima del 209 (se è di Geta Cesare il nome eraso a linea 3), con la costruzione di due moli, quello di Aquilone forse il Grecale di NE (a destra) e quello di sinistra, a protezione dal vento di NW, il Circius-Maestrale. Marc Mayer ha di recente messo in rapporto gli Allii di Turris con quelli di Valentia in Spagna.  La questione delle riscossioni doganali è legata alle attestazioni dei procuratores ripae (un cavaliere e un liberto imperiale), responsabili di un intero distretto che con tutta probabilità arrivava fino a Bosa, Cornus e Tharros; ma anche delle esenzioni tributarie come per la naucella marina (un cunbus) detta Porphyris di proprietà della vergine vestale massima Flavia Publicia, in relazione all’esportazione del frumento dalla Sardegna a Roma nell’anno del millenario: in quegli stessi giorni un distaccamento di Vigiles raggiunse la Sardegna con una missione che sembra ugualmente legata alle necessità dell’annona.

Sulla costa occidentale della Sardegna si segnala il ritrovamento di alcune ancore in piombo in parte inedite, come quella di L. Fulvius Euthichi(anus) che a Nord di Cornus aveva la disponibilità dei vasti latifondi occupati dagli Euthichiani: una combinazione di produzioni agricole e pastorali e trasporto marittimo verso Ostia dalla Sardegna e dalla Sicilia; analoga l’ancora di L. Fulvius Dio(nysius ?) inedita conservata al Museo Sanna di Sassari (sul personaggio vd. un omonimo in CIL V 2957, Patavium, Caius). Sono documentati collegamenti del porto  di Tharros, ben ridossato nel mare interno dal promontorio di San Giovanni, con Marsiglia e di Neapolis con Ostia per l’importazione di bipedales e tegulae. Infine Sulci, sempre sulla costa occidentale, collocata nell’isola Plumbaria, contermina alla Sardinia, è nota per i suoi porti e per l’arrivo da Bengasi nell’età di Adriano degli ebrei Beronicenses inizialmente forse condannati a lavorare nei metalla dell’Iglesiente, più tardi incolae associati al municipio.

Il capitolo su Olbia conclude l’intervento di Antonio Ibba con le dieci navi bruciate e affondate in porto durante il passaggio dei Vandali alla vigilia del sacco di Roma del 455; in alternativa si può pensare da alcuni dettagli (non tutti pubblicati) che alcune di queste barche siano state riempite di pietre è affondate molto prima per fondare pontili, come in tanti altri porti: un episodio che segna davvero una fase nuova per l’intera Sardegna, che nel Medioevo finisce per ripiegarsi al suo interno e allontanarsi dalla costa, come con Fausiana rispetto ad Olbia, Sassari a Turris, Cuglieri a Cornus, Aristiane a Neapolis, Carales a Nora, solo per fare qualche esempio. Da qui nasce quella “mitica ritrosia dei Sardi verso il mare” evocata da Mika Kajava nell’introduzione.

Il discorso potrebbe estendersi agli ultimi numerosi studi sull’evoluzione della linea di costa dall’antichità ai giorni nostri, come a Nora o nell’area nord-occidentale della Sardegna, oggetto di recente di molti studi di geologi e geografi (vd. p.es. D. Carboni, S. Ginesu, The Evolution of the Coastline in Some Archaeological Sites in North-West Sardinia, in: Department of Earth and Environment National Research Council of Italy (CNR) (Eds), Marine Research at CNR, Roma, CNR, 2011, pp. 1013-1024; D. Carboni, S. Ginesu, Variazione della linea di costa lungo il Golfo dell’Asinara (Sardegna settentrionale) sulla base delle morfologie sommerse, emerse e dei dati storici e archeologici, in F. Benincasa (a cura di), Terzo Simposio – Il monitoraggio costiero mediterraneo – problematiche e tecniche di misura, Livorno, 15-17 giugno 2010, Firenze, CNR -IBIMET, pp. 413-432; D. Carboni, S. Ginesu. (2006). Evoluzione della linea di costa in alcuni siti archeologici della Sardegna nord occidentale, in n F. Benincasa (a cura di), Atti del I Simposio il Monitoraggio costiero mediterraneo. Problematiche e tecniche di misura, Sassari, 4-5-6-ottobre 2006, Firenze, CNR-IBIMET, 2006, pp. 301-308.

Marc Mayer i Olivé dell’Università di Barcelona (Algunos aspectos de los puertos de la costa de la Hispania citerior (conven­tus Tarraconensis y Carthaginiensis), pp. 229-248) percorre la costa dell’Hispania citeriore e delle Baleari confrontando i dati geografici e le ricche fonti, da Plinio alla Geografia di Tolomeo, alla tabula Peutingeriana con i risultati dell’archeologia dei porti, tutti nodi  fndamentali per lo scambio commerciale e culturale col Mediterraneo intero: le merci e i prodotti ad iniziare dalle esportazioni, il vino Lauronense (Llerona), il marmor Tarraconsensis (pietra di Santa Tecla), la “pedra de Flix” di Dertosa, la “pedra azul de Sagunto”, il travertino di Carthago Nova e il marmor Saetabitanum di Xàtiva, i metalli come il piombo; e le importazioni come il marmo di Lunae: testimonianza dello scambio di merci che richiedevano solide strutture portuali. Possiamo arrivare al comando militare che a Tarraco aveva al vertice un praefectus orae maritimae; i punti più significativi  (fluviali o marittimi) sembrano Emporiae, Dertosa, Tortosa sulla sinistra del delta dell’Ebro; e poi Sagunto collegata via mare con i greci di Delos, Valentia sul rio Turia oggi deviato, che sembra in rapporto con gli Allii di Turris Libisonis in Sardegna forse per la presenza di navicularii; Dianium, poi la Denia di Mogahid, Saitabis Augustanorum oggi Xàtiva coi veterani della legione VIII che hanno partecipato alle guerre cantabriche; ancora Lucentum (presso Alicante), il portus Illicitanus al servizio di Illici, con stretti rapporti di contributio con gli Icositani di Algeri secondo Plinio il vecchio. Ancora Carthago Nova con le sue miniere sfruttate a partire da Amilcare, il cui porto secondo Servio sarebbe stato descritto da Virgilio I, 159 a proposito del viaggio di Enea nella Cartagine africana di Didone (Hispaniensis Carthaginis portum descripsit), tema sul quale ha recentemente scritto Antonello Greco (Nugae Hispanicae excerptae a litore Sardo. Osservazioni topografiche e antiquarie in Virgilio e Svetonio).  Poi le Baleari e in particolare le Pytiussae, Iamo, Mago, Palma, Pollentia ed Ebusus, sottoposte entro il conventus Carthaginiensis all’altro praefectus orae maritimae con base a Cartagena. Un quadro strutturato, ricco, pieno di vita, che oggi possiamo solo immaginare percorrendo il litorale dominato da Peñíscola, versante decisivo tra mondi diversi.

Lázaro Gabriel Lagóstena Barrios e José Antonio Ruiz Gil, entrambi dell’Universidad de Cádiz (El puerto romano de Gades: nuevos descubrimientos y noticias sobre sus antecedentes, pp. 249-264) presentano le nuove scoperte nel porto di Gades sull’isola di Erizia dove si localizza ora Neapolis; sulla terraferma alla sinistra del fiume Guadalete e nella baia gaditana, partendo dalla fase arcaica, fenicia di IX secolo e dal tempio di Melkart-Reschef, con un sistema portuale molto complesso in parte interrato dal Rio San Pedro: dall’Antipolis di San Fernando si arriva a Puerto Real ed al Puerto fluviale de Santa Maria. Vista dal mare la costa ha molti punti in contatto con Beirut, Tiro, Sidone, se vogliamo con Cartagine e Cagliari, con le paludi, gli stagni, i costanti apporti alluvionali. Le ricerche avviate nel 2016 dall’Unidad de Geodetección y Georrreferenciación del Patrimonio dell’Università di Cadice hanno consentito di scoprire l’insediamento punico fortificato di La Martela ed hanno raccolto un’imponente database partendo dalle prospezioni col georadar per definire le variazioni del percorso fluviale dal cothon di età punica. E’ stato messo in luce un impianto cittadino di tipo ippodameo, dimostrando l’esistenza di un modello polinucleare per la baia. In epoca repubblicana la civitas foederata di Gades sviluppa gli impianti per la lavorazione del pesce e la produzione del garum.  Celebre è la visita di Annibale al santuario di Melkart e poi quella di Cesare; Posidonio di Apamea documentò a Gades l’andamento delle maree sull’oceano attorno al 70 a.C., una vicenda tramandata da Strabone. Il santuario di Ercole Gaditano continua ad esser un punto di riferimento per la città, che inizia ad accogliere molti immigrati italici; forse a qualcuno di essi dobbiamo la rielaborazione del mito dell’esperide Erizia che inizia ad esser collegato coi viaggi di Ermes-Mercurio verso la Sardegna e con la fondazione di Nora. Gades era collegata per via terra dalla via Augusta con la vicina colonia Hasta Regia, alla foce del Guadalquivir ancora in Betica, pochi km da Jerez de la Frontera: correggendo le sintesi precedenti, sembra ora possibile localizzare il Portus Gaditanus voluto da Cornelio Balbo il giovane a El Puerto de Santa Maria, con una forte presenza della struttura dell’annona imperiale, al servizio delle produzioni nel territorio di Hispalis.

Emilio Rosamilia dell’Università di Pisa (Quando una città non parla del suo porto: Leptis Magna pp. 265-290) raccoglie i dati relativi all’incredibile porto di Leptis Magna alla foce dell’uadi Lebda. Il passo dello Stadiasmo è interpretato di seconda mano (seguendo Di Vita) in base al testo corretto dal Müller, non al testo del manoscritto. Il porto di Homs (post-augusteo) è troppo tardo rispetto alla documentazione dello Stadiasmo in questa zona. Non è un riferimento ad uno dei molti  capi che prendono il nome di Hermaion ma probabilmente allude al tempio di Mercurio noto da dediche, una delle quali è stata rinvenuta a ovest del tempio di Nettuno. A est di esso, a Nord del Foro Vecchio sono pietre di ormeggio e un approdo. Oltre, il faro, il tempietto del molo ovest, il porticato neroniano e il molo ovest allungato in età severiana; al margine del bacino verso l’interno l’area del tempio flavio, l’inizio della via colonnata in quella che era stata la foce dell’Uadi Lebda, il tempio di Giove Dolicheno; e infine sul molo orientale le terme di levante e la torre semaforica. Interessante il sacello in pietra arenaria (pre-augustea) non menzionato nel articolo con due figure di divinità di stile punico, una maschile, l’altra femminile, col kalathos sopra testa. Le fonti geografiche ed epigrafiche ci aiutano poco per ricostruire la vita di un porto monumentale che ancora impressiona per la presenza dei moli, degli attracchi, delle scale per accedere alle imbarcazioni, delle bitte e degli anelli in pietra. L’a. ricostruisce i risultati degli scavi di Pietro Romanelli e Renato Bartoccini, questi ultimi pubblicati nel secondo dopoguerra, e presenta una decina di testimonianze epigrafiche: tra esse emerge il tardo monumento a forma di tetrapylon con la rappresentazione di navi sui plinti anteriori, Amatori patriae et civium suor[um qu]od ex indulgentia sacra civibus suis feras dentatas quattuor vivas donavit ex decreto splendidissimi ordinis bigam decrev(eru)nt Porfyri Porfyri, AE 2010, 1780.

Se lasciamo da parte il frammento di architrave con iscrizione neopunica relativa alla costruzione di un podio per il tempietto dell’isola fluviale  LYD[–], possiamo segnalare il grande architrave del tempio di Nerone nella sua ottava potestà tribunizia parzialmente restituita (IRT 341), con la doppia dedica ora rettificata relativa ai porticati, alle colonne e agli architravi sul porto da parte del patrono del municipio, il proconsole Servio Cornelio Orfito, accompagnato dal legato P. Silio Celere. I lavori sono stati effettuati da Itymbal Sabinus Tapapius, figlio di Arin, flamine del divo Augusto, nella sua qualità di curator pecuniae publicae: per la prima volta Leptis compare con la condizione di municipio sufetale costituito da Claudio, meno probabilmente da Nerone (e non da Domiziano), prima della costituzione della colonia traianea. L’a. propende per lavori iniziati per volontà di Claudio, che comprendono anche la diga per deviare l’Uadi Lebda e parte dei moli del nuovo porto. Sul porto sui affacciava il Tempio Flavio realizzato sotto Domiziano nel 93, IRT 348, di cui sono stati recentemente rinvenuti ulteriori frammenti che testimoniano l’azione di uno dei sufeti in carica come curatore testamentario della evergete Claudia Pia (il sufeta aveva aggiunto 60.000 sesterzi agli 80 mila della defunta). Sempre in area portuale fu eretto il tempio di Giove Dolicheno ancora in età domizianea, IRT 349a. Nel II secolo conosciamo un vil(icus) mari(timus) et XX hered(itatium) Lepc[is] Magn(ae), IRT 302.

Alla imponente fase severiana già Bartoccini riferiva il rifacimento delle banchine sul lato Ovest del bacino, il molo orientale con i suoi magazzini, il faro, i tempietti all’imboccatura del porto; ma è l’intero complesso che assume davvero una dimensione nuova, come se Settimio Severo avesse voluto lasciare in patria l’orma del suo immenso potere. La dedica dell’altare di Giove Dolicheno effettuata da T. Flavio Marino prima del 205 ricorda erroneamente tre Augusti e Plauziano prefetto del pretorio in occasione del reditus imp(eratorum trium) in urbem [s]uam, interpretato comunemente con un viaggio a Leptis Magna della famiglia imperiale, celebrato l’11 aprile per l’anniversario della nascita di Settimio Severo, esattamente come a Tamuda in Tingitana nel 210 ( AE 1991, 1743) e in decine di altre località come Lunae nel 200 (CIL XI 1322), a Roma nel 210 (CIL VI 3287),  Portus Romae nel 195 (CIL XIV 169); Ostia antica (CIL XIV 168), Brixia (CIL V 4449);  proviene probabilmente dal tempio flavio dedicato al culto imperiale. La dedica a Giove Dolicheno da parte di un militare è normale; una divinità militare sul porto commerciale avrebbe poco senso.

L’attività portuale, documentata nei secoli successivi, fu progressivamente rallentata dai fenomeni alluvionali ed ostacolata dall’insabbiamento dell’angolo SE del bacino forse a seguito del crollo della diga a monte della città dopo il terremoto del 365 (comunque entro il 320 e il 440), tanto che in età giustinianea secondo Procopio la città era quasi completamente coperta dalla sabbia. Un nuovo frammento studiato da Ignazio Tantillo, IRT 769 testimonia il restauro dell’acquedotto danneggiato dalla piena dell’uadi. Seguiamo le vicende dell’area fino all’XI secolo, quando Al Idrisi ricorda il forte situato a bordo del mare a Lebda e occupato da artigiani.

Kristian Göransson dell’University of Gothenburg in Svezia (Port cities in ancient Cyrenaica 291-298) presenta i porti della Cirenaica, partendo da Apollonia, al servizio di Cirene fino all’età imperiale,  sull’altopiano del Jebel Akhdar, nei luoghi dove si localizzano gli amori di Apollo con la sua ninfa e la nascita di Aristeo, allevato dalle ninfe sulla Mirtousa; seguono in piena espansione il porto ellenistico di Ptolemaide, al servizio della città interna in crisi Barce, già Virgilio parlava dei Barcaei late furentes; poi Taucheira, Euesperides greca abbandonata nel III secolo a favore dell’adiacente Berenice (a Sidi Khrebish).  La localizzazione dei diversi porti già per G.D.B.Jones è stata fortemente condizionata dalla geografia e dalla possibilità di approdo, in una provincia che giungeva fino alle pericolose sabbie delle Arae Philenorum nella importuosa Grande Sirte.

L’ultimo lavoro di questo volume è scritto a quattro mani da Eugenia Equini Schneider (Le ricerche a Elaiussa Sebaste: studi multidisciplinari su una città portuale dell’Anatolia sud-orientale, pp. 299-306) e da Annalisa Polosa entrambe dell’Università di Roma Sapienza  (Ricerche recenti a Elaiussa Sebastè, pp. 307-321), che presentano i risultati degli studi multidisciplinari su una importante città portuale della Cilicia Tracheia, la parte più orientale della provincia, Elaiussa Sebasté, oggi Ayaş-Kumkuyu. Qui si sono svolte finora  24 campagne di scavo dal 1995 (Università Sapienza e Trieste) che hanno interessato il grande tempio del culto imperiale eretto sulla collina che sovrasta il porto meridionale della città. Poi il quartiere abitativo, il teatro, le terme, gli altri edifici monumentali, tra i quali spicca il complesso palaziale costruito nel V secolo sull’istmo: un centro imponente presso il porto settentrionale definito dal III secolo sulle monete metropolis paralios (città situata sul mare) e navarchis (sede del comando della flotta o meglio fornitrice di navi) a conferma di importanti funzioni commerciali e militari dei due porti (Oğuz Tekin 1999, pp. 319-326), come testimoniano le prospezioni subacquee. Gli studi negli ultimi anni si sono estesi ai carotaggi per l’analisi dei sedimenti, alle indagini geomagnetiche e geomorfologiche nell’area dei porti antichi, alle analisi polliniche. Tra le principali attività produttive emerge la documentazione relativa alle anfore Late Roman 1, l’esportazione di olio, l’estrazione della porpora soprattutto nel bacino meridionale. La prospettiva cambia con l’occupazione araba avvenuta fin dal 672 d.C.

Con questo volume credo per la prima volta abbiamo un quadro articolato del paleoambiente, delle interazioni culturali, delle merci, delle relazioni sociali tra porto e la vicina agorà, soprattutto dei culti per le divinità protettrici della navigazione, ad es. Iside Pelagia o Eracle Monoikos a Monaco.

Come Kajava anch’io voglio chiudere una piccola vicenda ben conosciuta:  quella del naufragio di Fintone figlio di Baticle, nativo di Ermione (all’estremità orientale dell’ Argolide nel golfo chiuso dall’Isola Hydrea), di cui è forse eco in un epigramma del poeta-viaggiatore Leonida di Taranto nell’Anthologia Palatina. Secondo una brillante ipotesi di Paola Ruggeri, il naufragio sarebbe avvenuto in Sardegna, su un’isola sperduta dell’arcipelago maddalenino, nel Fretum Gallicum, forse a Caprera: Plinio e Tolomeo serberebbero nel nesonimo localizzato nello stretto Taphros tra le Cuniculariae la memoria di un antico naufragio causato dall’impetuoso vento di Settentrione scatenato da Arturo, la temuta stella della costellazione di Bootes, detta anche di Aquilone come nell’epigrafe del porto di Turris Libisonis. La vicenda del marinaio Fintone che si perde nel mare in burrasca ci ricorda come già nel III secolo a.C. il tema dei porti sicuri e della conoscenza dei venti e delle correnti, così come delle costellazioni e delle stelle fosse vitale per i marinai ansiosi di essere accolti nei porti sicuri, con la protezione degli dei.




La scomparsa di Bruno Luiselli (Latina 1933-Roma 2021)

La scomparsa di Bruno Luiselli (Latina 1933-Roma 2021)

Con dolore annunciamo la scomparsa de nostro caro Maestro prof. Bruno Luiselli , professore emerito di Letteratura latina dell’Università di Roma “La Sapienza”, docente all’Istituto patristico Augustinianum, Accademico dei Lincei.

Lo ricordiamo a Cagliari negli anni della contestazione tradurre per noi la Peregrinatio Egeriae, il pellegrinaggio di Egeria in Terra Santa agli inizi del V secolo, facendoci scoprire il mondo meraviglioso della Gerusalemme di Girolamo e delle aristocratiche romane, il Calvario, il Santo Sepolcro, l’orma dell’imperatore Costantino e di sua madre Elena. Aveva affrontato con serenità nel 1969 una valanga di contestatori che protestavano per la severità dell’esame scritto di Latino.

Trasferitosi a Roma, fondò la rivista “Romano-barbarica”, lo strumento attraverso il quale aveva messo in contatto cultura germanica e cultura classica. Consideriamo il suo capolavoro il volume su “La formazione della cultura europea occidentale”, Editore Herder 2003 nella Collana di cultura romano-barbarica, come un manifesto e una riflessione profonda sulle componenti diverse ma in costante confronto- incontro dialettico alla base della cultura occidentale europea.

Più di recente ci invitava ai seminari del dottorato di ricerca a Monte Sant’Angelo (Foggia), sede del santuario patrimonio UNESCO, luogo di frequentazione cristiana sin dal VI secolo. Lì si vivevano momenti di straordinario confronto ai quali partecipavano allievi di generazioni diverse, in una suggestiva “aula carsica” e sotterranea che conservava il sapore degli antichi pellegrinaggi cristiani.

L’ultima sua opera, di due anni fa, è stata “Gustav Mahler e l’incontro mistico di poesia e musica. Morte, risurrezione, dolore, amore, estasi”: nel sottotitolo anticipava l’esprimersi del misticismo di Mahler attraverso il sentimento di morte – risurrezione – dolore – amore – estasi, in particolare l’estasi contemplativa cristiana immaginata e musicalmente interpretata: per Luiselli, Mahler visse questa vita guardando verso l’altra Vita, l’Unsterblich Leben, la vita immortale.

Con commozione e nostalgia rivolgiamo le nostre condoglianze alla Signora Anna Maria Fadda Luiselli, a tutta la sua famiglia, ai suoi allievi che oggi lo piangono, in particolare ad Antonella Bruzzone. Tra tutti i suoi antichi colleghi e amici carissimi, la prof.ssa Giannina Sotgiu e Mons. Pietro Meloni.

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Qui di seguito un breve profilo fatto dagli allievi

Si è spento mercoledì 2 giugno 2021, all’età di 87 anni, Bruno Luiselli, professore emerito di Letteratura Latina alla ‘Sapienza’ Università di Roma, dove nel 1977 è succeduto al suo Maestro, Ettore Paratore. È stato membro di prestigiosi istituti e accademie, fra cui l’Accademia Nazionale dei Lincei, l’Istituto Nazionale di Studi Romani, l’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli, l’Accademia letteraria “Arcadia”, la Società Romana di Storia Patria.

La produzione scientifica di Luiselli, a carattere storico-culturale, letterario, linguistico, filologico, metricologico, riguarda tutte le epoche della latinità dall’età arcaica al Medioevo, passando per l’età classica e tardoantica.

Ma gli interessi di Luiselli si sono concentrati soprattutto sulla lunga e complessa vicenda dei rapporti fra mondo romano e mondo barbarico (ha fondato, fra l’altro, la rivista «Romanobarbarica» e la Collana Biblioteca di Cultura Romanobarbarica,), alla quale egli ha dedicato numerosissime pubblicazioni, in Italia e all’estero, concernenti in modo precipuo il versante del rapporto romano-germanico e il versante del rapporto romano-celtico. Se ne può trovare una significativa per quanto parziale esemplificazione in Romanobarbarica. Scritti scelti, Firenze 2017. I vertici delle sue ricerche in tale ambito sono il volume Storia culturale dei rapporti tra mondo romano e mondo germanico, Roma 1992 (per il quale l’Autore ha ricevuto in Campidoglio il “Praemium Urbis”), e il volume La formazione della cultura europea occidentale, Roma 2003.

Dotato anche di ampie competenze musicologiche, Luiselli ha dedicato a questo settore intense riflessioni (Poesia e Musica, Roma 2013; Gustav Mahler e l’incontro mistico di poesia e musica. Morte, risurrezione, dolore, amore, estasi, Roma 2018; Riflessioni sulla musica in dialogo con Lorenzo, Selci-Lama 2019).

È in corso di stampa presso l’editore Studium il volume Sacramentum amoris sul Mistero Eucaristico.