Terza Scuola internazionale estiva. Sardegna, il territorio dei luoghi.

Terza Scuola internazionale estiva.
Sardegna, il territorio dei luoghi.
“Paesaggi culturali. Progetti per una capitale europea della cultura 2019”

Cagliari , 4 settembre 2014

Grazie ad Antonello Sanna e a Bibo Cecchini per l’invito ad aprire questa terza Scuola Internazionale estiva “Sardegna, il territorio dei luoghi”, con un tema generale “Paesaggi culturali. Progetti per una capitale europea della Cultura 2019”. Un’iniziativa che vede la preziosa sinergia delle Università di Cagliari e di Sassari attraverso i Dipartimenti di Ingegneria Civile, Ambientale e Architettura (DICAAR) e di Architettura, Design, Urbanistica di Alghero (DADU). Partecipano oggi tanti ricercatori e tanti giovani appassionati studiosi.

La Bulgaria e l’Italia sono chiamate dall’Unione europea fra cinque anni ad esprimere due città Capitali Europee della cultura.

Non ci dimentichiamo che nel 1985 fu la Ministra della cultura greca Melina Mercouri (l’eroina ellenica che  si batté (invano!) per ricongiungere al Atene i marmi Elgin del Partenone conservati nel British Museum) a spendersi  nella proposta di istituzionalizzare la “capitale europea della cultura”, titolo di cui si sono già fregiate 32 città del vecchio continente. E’ una idea fatta propria dal Consiglio dei Ministri dell’UE e con l’appoggio del Parlamento Europeo e della Commissione Europea.

Una città candidata può unire il territorio regionale a sé come hanno fatto Lussemburgo nel 2007 ed Essen nel 2010.

 

La sfida italiana concerne sei città: Cagliari-Sardegna, Lecce, Matera, Perugia-Assisi, Ravenna e Siena scelte fra 21 candidature.

La scelta di una città come Capitale Europea della cultura comporta anche l’ingresso dell’Università della Capitale (e quelle della Regione collegata) nella Rete europea delle Università delle  Capitali della Cultura.

Al di là del risultato finale, un processo lungo di crescita e di difesa dell’immagine e dell’identità della Sardegna, attraverso alcuni momenti centrali, la formazione e la ricerca scientifica che si realizzano, a livello internazionale, in questa terza scuola estiva “Il territorio dei Luoghi”.

A me che sono antichista non sfugge la possibilità di una chiave di lettura sui paesaggi culturali, i paesaggi trasformati dall’uomo, le continuità, le eredità, le innovazioni e le rotture. Ricordiamo che l’articolo 2 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio dichiara che “il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici”.

Cultura e Paesaggio non sono, dunque, due elementi distinti, bensì un fecondo incontro sinergico di uomo e natura, nell’interazione storica dello spirito umano nel quadro del paesaggio.

A questo principio normativo si ispirano le innovative Linee guida, sancite dal D.M. (MIBAC) del 18 aprile 2012,  per la costituzione e la valorizzazione dei parchi archeologici, intesi non come riferiti all’antichità, bensì alle metodologie dell’ ”archeologia globale” che abbracciano tutte le manifestazioni culturali dell’uomo sino ad un progressivo “ieri”.

Fondamentale, in queste linee guida, è la nozione dei «parchi a perimetrazione unitaria», e dei « parchi a rete» che mettono in relazione varie aree, rese coerenti fra di loro dallo specifico progetto culturale.

Nel progetto scientifico per la costituzione di un  parco è parte integrante lo studio paesaggistico, nell’ambito del quale saranno affrontate le problematiche naturalistico-ambientali e architettonico-urbanistiche; le analisi settoriali (archeologia e paesaggio) confluiranno in una sintesi, in cui si comporranno gli assetti e le esigenze di ciascun settore e si porranno le basi per i successivi adempimenti. Il progetto di tutela e valorizzazione affronterà gli aspetti della tutela, della fruizione e comunicazione e dei servizi.

La settimana scorsa, il 29 agosto 2014, il Governo ha riformato il Ministero dei Beni, delle Attività Culturali e del Turismo offrendo la possibilità di una efficace sinergia tra le istituzioni autonome della repubblica (Stato, Regioni, Città metropolitane, Comuni, Università) nella valorizzazione e fruizione dei Beni Culturali e del Paesaggio.

Ecco che questa nostra Scuola estiva  può divenire un servizio alla Città e ai Cittadini e all’Unione Europea, elementi cardine per la costruzione di una Città Capitale europea. I progetti che saranno elaborati nei giorni prossimi della Scuola estiva riguarderanno l’intera Regione Sardegna, compresa la mia Bosa e la mitica Calmedia, ma a me qui preme indicare una strada, nella quale vogliamo essere tutti, istituzioni regionali e comunali, uffici del MIBACT e Università partecipi. Ne abbiamo parlato nei giorni scorsi in un dibattito con Pinuccio Sciola, a proposito del paesaggio fatto delle pietre della Sardegna: ci sarebbero tanti temi da affrontare, magari partendo dalla quinta e dalla sfilata dei giganti di pietra a Monti ‘e Prama, tra il mare di Tharros e gli stagni di Cabras, alla fine dell’età nyragica.

Vorrei parlare brevemente di Karales la urbs urbium ricordata da Floro. Questa nuova amministrazione cittadina, qui rappresentata dal Sindaco Massimo Zedda e dalla giovane assessore alla cultura Enrica Puggioni, si è distinta nell’avviare a soluzione l’annoso problema dell’anfiteatro e  speriamo anche nel riavvio del progetto culturale su Tuvixeddu.

Il cantiere archeologico dell’ Accordo di Programma è fermo da anni, il degrado delle tombe è già ricominciato, e Tuvixeddu è tornato ad essere sinonimo di luogo di abbandono. E’ necessario, senza vizi ideologici, riprendere il cammino intrapreso.

Io credo che non possa più parlarsi di “Parco Archeologico di Tuvixeddu”, con una erronea definizione giuridica, essendo Tuvixeddu un’area archeologica connessa  ad altre che formano l’organismo di una città pluristratificata, o meglio di plurime città sovrapposte e inserite nel paesaggio dei colli.

In un articolo de “ L’ Unione Sarda” del 16 maggio 1944, Per la tutela delle antichità cagliaritane,  Giovanni Lilliu, allora giovanissimo docente dell’ Ateneo cagliaritano, additava il pericolo della sparizione del patrimonio archeologico ed artistico di Cagliari nel fervore delle opere di ricostruzione della città.

In tale articolo G. Lilliu prospettava l’idea di includere le costruzioni, comprese tra il Corso, la via Tigellio e il viale Fra Ignazio nella zona archeologica che, secondo i propositi formulati già nel 1934 dal Comune e dalla Soprintendenza alle Antichità, avrebbe dovuto abbracciare l’anfiteatro e l’Orto botanico.

La valorizzazione del colle di Tuvixeddu-Tuvumannu non può concepirsi isolatamente, scindendo la città antica dei morti  da quella dei vivi, pur nella complessa dinamica della successione, anche topografica, della KRLY cartaginese, della Karalis romana, della Karallos altomedievale, così come del Castellum Castri (Casteddu) pisano, aragonese, spagnolo, sabaudo e regionale sardo, con le ville di Stampace, Marina/Lapola e Villanova.

Seguendo gli indirizzi contemporanei di costruzione dei Parchi archeologici si deve puntare alla creazione del Parco Archeologico di KRLY / KARALIS, il cui perimetro potrebbe definirsi a ponente dalla Laguna di S. Gilla, corrispondente al SIC “Stagno di Cagliari, Saline di Macchiareddu, Laguna di S. Gilla” e alla ZPS “Stagno di S. Gilla” col relativo Ufficio intercomunale per la gestione  ai sensi della Direttiva 79/ 409/CEE, a nord dai confini settentrionali del comune di Cagliari, ad est dal Parco Naturale Regionale Molentargius Saline, istituito con L.R. 26 febbraio 1999, n. 5 e a sud dal litorale marittimo con il Capo S. Elia.

Pensiamo a un progetto di Parco Archeologico mirante ad interventi di architettura del paesaggio (ivi compresa la Land Art) che individuino le porte del Parco Archeologico (per Carta il Parco delle cave), definiscano gli spazi archeologici con una linea coerente e riconoscibile dalle aree più fortemente urbanizzate a quelle naturali, come ad esempio Monte Urpinu e il Monte Sant’ Elia e il Monte San Bartolomeo.

Il Parco potrà sin d’ ora individuare come elementi fondativi:

– La città punica di KRLY sulla riva orientale della laguna e le emergenze archeologiche subaquee della laguna di S. Gilla

– La necropoli punica e romana di Tuvixeddu, Tuvumannu, Sant’ Avendrace.

– L’ anfiteatro romano

– Le domus romane note come “Villa di Tigellio”

– L’ acquedotto romano e le cisterne

– Le aree archeologiche urbane visitabili all’ interno di strutture moderne di Via Nazario Sauro, Viale Trieste 105, Banca d’ Italia, Sant’ Eulalia, Sede INPS di via XX Settembre, Ex Albergo Scala di Ferro, etc.

– La necropoli punica, romana e paleocristiana di Bonaria

– Le aree paleocristiane di S. Saturnino e S. Lucifero.

– Il tempio di Ashtart del Monte Sant’Elia

– Gli insediamenti preistorici di Tuvixeddu-Tuvumannu-Is Mirrionis, Monte Claro, Monte Urpino, Monte Claro, Monte S. Elia.

Come si è detto per un Parco di Karalis è necessario un progetto scientifico relativo al paesaggio e ai beni Culturali, come alla valorizzazione e fruizione.

Le nostre due Università sono pronte alla sfida e si offrono, immediatamente, con spirito di servizio, per lavorare alla costruzione di Cagliari, capitale europea, nel quadro di una Sardegna collocata al centro del Mediterraneo.

Voglio citare il capolavoro del compianto collega statunitense  Robert Rowland, l’ultimo volume, The Periphery in the center: Sardinia in the ancient and medieval Worlds, pubblicato dieci anni fa nella serie dell’Università di Oxford, dove il discorso supera le  formule,  per tener conto della complessità delle situazioni delle quali l’isola che ci ospita finisce per essere l’espressione finale, al centro di un Mediterraneo di pace.




Conferimento del riconoscimento di Stintinese doc a Mariotto Segni.

Incontri stintinesi duemila14
Conferimento del riconoscimento di Stintinese doc a Mariotto Segni
Stintino, 6 settembre 2014

Non conosco bene le ragioni per le quali il sindaco Antonio Diana, l’Assessore Francesca Demontis e il nostro Salvatore Rubino mi hanno scelto a presentare Mariotto Segni in questa solenne occasione per l’attribuzione del titolo di Stintinese doc.  Considero questo incarico un grande onore, per il prestigio del personaggio e per il legame di stima e di amicizia che risale ad anni veramente lontani, prima ancora del mio arrivo a Sassari nel 1980 come assistente di Sandro Schipani e prima degli incontri politici dove lo vedevo all’opera con grande forza, con freschezza e con un forte spirito di iniziativa. In Facoltà di Giurisprudenza al fianco sempre di Antonio Serra.

Ho ritrovato in questi giorni la voluminosa cartella conservata nell’archivio dell’Università di Sassari, che ricorda la sua carriera accademica dopo la laurea a Sassari, iniziata a Padova  nel 1963 come assistente di diritto del lavoro alla scuola del civilista Luigi Carraro. Segue l’incarico di Diritto industriale ad Economia e commercio, assistente ordinario l’anno dopo; nel 1969 supera la libera docenza in diritto civile e a Padova pubblica la sua prima monografia Autonomia privata e valutazione legale tipica, con altri articoli scientifici tra i quali quello dedicato ad un fenomeno che giungeva allora in Italia, la”lettera di patronage”.

Si trasferisce a Sassari il I novembre 1973 come professore incaricato esterno stabilizzato, vince il concorso a cattedre come professore ordinario e prende servizio il I luglio 1977, titolare di diritto civile dal 1980 dopo lo straordinariato. I trent’anni di professore ordinario arrivano fino al mio mandato di rettore, con la proroga di un anno che aveva ottenuto fino al pensionamento il 31 ottobre 2010. In totale 47 anni di servizio di solito a tempo definito, frequentemente interrotti da lunghi periodi di congedo per mandato parlamentare, ministeriale ed europeo, anche se si è sempre considerato un professore prestato alla politica.

Tra le carte ho ritrovato la tessera originale rilasciata dall’Università di Padova credo mai utilizzata alla bella moglie Victoria Pons nata a Montevideo in Uruguay, più giovane di lui di 6 anni.

A Sassari nella Facoltà di Giurisprudenza si manteneva vivido il ricordo del padre Antonio Segni morto l’anno prima, professore di Diritto processuale civile dal 1924 e di Diritto commerciale, anche a Perugia, a Napoli e a Roma, fondatore del Partito Popolare nel 1919, Commissario straordinario del Governo per l’Università nel 1943-44. Rettore dal 1944 al 1951, fondatore della Facoltà di Agraria. Fu Antonio Segni a celebrare come Presidente della Repubblica i 400 anni del nostro Ateneo. A Sassari la famiglia era arrivata nella prima metà dell’Ottocento da Carloforte e a me sembra che questo legame forte intenso identitario con l’Asinara, con Stintino e con il mare passi attraverso le origini tabarchine e genovesi della famiglia, attraverso quel Giobatta Segni che, poco tempo dopo la fondazione della colonia di San Pietro, era stato invitato a far fruttare nell’isola l’esperienza che aveva maturato come amministratore di Ventimiglia; e poi il sacerdote Nicolò, che aveva seguito i suoi compaesani nel doloroso esilio di Tunisi, alleviando con la sua presenza i dolori di centinaia di Carolini nei cinque anni di schiavitù seguiti alla terribile incursione di pirati barbareschi nel settembre del 1798.

Mario ha iniziato a svolgere la sua attività politica nella Democrazia Cristiana. Fu eletto per la prima volta deputato nella VII legislatura repubblicana dopo la campagna elettorale del 1976, l’anno in cui il PCI di Enrico Berlinguer tentò il sorpasso. Si candidò in Sardegna ed ebbe un successo insperato, arrivando secondo dietro Cossiga con 87 mila preferenze. Entrò in un Parlamento in cui la DC, costretta dalla durezza della battaglia ad aprire le liste, aveva più di cento deputati nuovi. Lui stesso ha ricordato: <<c’era uno splendido clima, pieno di fermenti e di speranze>>. Si chiudevano gli anni del compromesso storico. Scrisse più tardi: <<Noi gettammo un seme, quello della liberaldemocrazia, attorno al quale andava costruito un blocco che doveva contrastare la sinistra comunista allora vincente in Italia e nel mondo>>.. Rieletto fino all’XI legislatura, in quegli anni ha ricoperto l’incarico di Sottosegretario all’Agricoltura nel secondo governo Craxi e nel sesto governo Fanfani. È stato Presidente del Comitato di Controllo per i Servizi di Informazione e Sicurezza e per il Segreto di Stato dal 1987 al 1991.Vicecapogruppo della DC alla Camera.

Il 9 giugno 1991 ha promosso il primo referendum elettorale sulla preferenza unica che lo ha reso popolarissimo. Il 31 luglio 1992 Segni fondò, sull’onda del successo referendario, il movimento Alleanza Democratica, per promuovere i referendum per la modifica della legge elettorale da proporzionale in maggioritaria e provocare un rinnovamento radicale nel sistema politico italiano. C’era al suo fianco l’amico Massimo Severo Giannini passato in precedenza sa pur brevemente per il nostro Ateneo. Iniziava l’epopea referendaria, un periodo straordinario, come lui stesso scrisse <<un fiorire di speranze e di tensioni che capitano una volta nella vita, forse una volta al secolo>>.

Il 23 marzo del 1993 abbandonò la DC, colpita dall’inchiesta Mani Pulite. Grazie al sostegno di alcuni leader del centrosinistra italiano, tra cui Achille Occhetto e numerosissimi esponenti della società civile, la consultazione referendaria che si tenne il 18 aprile del ’93 superò trionfalmente il quorum e si concluse con la vittoria del sì. In breve tempo Mario Segni al vertice del Movimento dei popolari per le riforme divenne uno dei leader politici più amati ed apprezzati dall’elettorato italiano, avviando una rivoluzione che però presto si sarebbe arenata..

Poi le delusioni, il frantumarsi del fronte referendario, l’ingresso in campo di Berlusconi, il clima torbido che avrebbe fatto esplodere la corruzione nella politica. .

Nel 1994 fondò, separandosi da Alleanza Democratica, un nuovo movimento politico, il Patto Segni, che operò d’intesa con Martinazzoli ma subì pesantemente gli effetti della nuova legge elettorale che di fatto avvantaggiò Berlusconi. Eletto deputato alle elezioni politiche del 1994 ma solo con il recupero proporzionale (sconfitto nel collegio uninominale di Sassari) alla Camera guidò il Patto Segni verso una linea di opposizione al primo governo Berlusconi, con una piena intesa con le posizioni di Indro Montanelli sui referendum: << Li appoggio perché almeno una volta nella vita spero di vedere una riforma che cambia gli italiani, e non gli italiani che cambiano una riforma>>.  Proprio in quei giorni Mariotto Segni pubblicava il volume La rivoluzione interrotta 1994.

Più tardi manifestò un iniziale interesse al progetto dell’Ulivo di Romano Prodi, ma ne criticò l’eccessivo sbilanciamento a sinistra. Nel 1996, in occasione delle elezioni politiche annunciò il suo ritiro dall’attività parlamentare italiana e tornò all’insegnamento universitario. Ciò che rimaneva del suo partito si federò con la Lista Dini – Rinnovamento Italiano, alleata col centrosinistra.

Rientrò sulla scena politica nel 1999, anno in cui propose un nuovo referendum al fine di abolire quella quota proporzionale che esisteva nel sistema elettorale (il 25%): vinsero i sì, ma per 150.000 voti il quorum non fu raggiunto. Ci riprovò l’anno successivo, ma anche stavolta non si recò alle urne più del 50% degli aventi diritto.

Alle elezioni europee del 1999 fuse quel che rimaneva del suo partito con Alleanza Nazionale sotto il simbolo dell’Elefantino; nonostante il sostanziale insuccesso della nuova alleanza, fu eletto come parlamentare europeo e a Strasburgo si occupò soprattutto degli affari costituzionali e dei rapporti tra l’Unione Europea e l’America Latina. In più occasioni lavorò per la continuità territoriale della Sardegna e per il superamento degli svantaggi dell’insularità.

Presidenzialista, tenace difensore della Costituzione e della partecipazione attiva dei cittadini alle scelte politiche del Paese, Mario Segni ha sempre avversato gli eccessi del berlusconismo, ma, fedele alla sua estrazione di cattolico e liberale, non ha mai voluto accettare avances neppure da L’Ulivo. È stato impegnato a promuovere un ritorno al sistema elettorale maggioritario, nato dal referendum da lui stesso promosso. In occasione del referendum costituzionale del 2006 Segni si schierò per il “no”, contro la riforma voluta dal centrodestra.

Nei primi mesi del 2007 divenne Coordinatore del Comitato promotore dei Referendum elettorali promossi insieme al giurista Giovanni Guzzetta. L’obiettivo era l’abolizione dell’attuale legge elettorale vigente per l’elezione di Camera e Senato detta “Porcellum”. Il 24 luglio dello stesso anno consegnò in Cassazione oltre 800 mila firme per la presentazione dei Referendum elettorali che si sono poi svolti il 21 giugno 2009. Tuttavia il quorum previsto dall’ordinamento italiano non venne raggiunto, ma alla fine del 2013 la Corte Costituzionale ha finalmente dichiarato incostituzionale la legge elettorale Calderoli (chiamata giornalisticamente porcellum).

Non sono un frequentatore del blog di Beppe Grillo, ma mi ha incuriosito una ironica dichiarazione di Mario Segni che è stata rilanciata in questi giorni dai cinque stelle: << Sono Mario Segni, quello che ha perso il biglietto della lotteria. L’uomo che aveva l’Italia in mano, come mi è stato detto molte volte. Ho cercato di spiegare che avevo perso le elezioni, non la lotteria, perché nel ’94 ero candidato contro Berlusconi e lui prese molti più voti di me. Ma sono rimasto quello che ha perso la lotteria. Pazienza, un po’ mi dispiace. Ma non più di tanto, perché so che la vera lotteria erano i referendum e che con quelli abbiamo cambiato il sistema politico, cosa successa nel secolo scorso solo a De Gaulle, in Francia nel ‘58. Il fatto che, senza alcuna carica, sia stato il promotore di tutto questo mi rende orgoglioso. Adesso il biglietto della lotteria lo stanno rubando davvero. Ma non a me, a tutti noi. Con il primo referendum abbiamo mandato a casa Craxi e un bel po’ di politici. Con il secondo referendum, quello sul maggioritario, ci siamo conquistati il diritto di scegliere direttamente sindaco, presidente della Provincia e della Regione. Con il governo il diritto ce lo siamo conquistato a metà. Nel 94 abbiamo scelto Berlusconi e Bossi l’ha mandato via. Nel 96 abbiamo scelto Prodi e i suoi amici l’hanno sbattuto via. Nel 2001 ha vinto Berlusconi ed è rimasto in carica sino alla fine. In fondo questo è il nocciolo della democrazia. Ma ce lo stanno sfilando di mano. Oggi ci assicurano che tutto rimarrà come prima, che il governo continuerà a sceglierlo il cittadino: tutte balle!>>.

Mariotto ha più volte dichiarato di aver fatto battaglie bellissime, per cose in cui credeva, perché l’indifferenza lo angoscia. Ancora oggi continua a considerare la politica uno dei campi in cui un uomo può dare di più agli altri. Ne ha parlato nell’ultimo libro, Niente di personale,  solo cambiare l’Italia del 2010: Che cosa si può dire oggi di queste speranze di cambiare l’Italia? <<Qualche anno fa – racconta Mario Segni – un medico che mi assisteva al pronto soccorso del S. Giacomo mi fece un gran complimento: lei è l’unica persona che ci ha provato sul serio, mi disse. Ma è più facile ragionare con i talebani che cambiare la testa degli italiani. Dunque le speranze dì Montanellì sono state deluse e tutto è rimasto come prima? Eppure queste battaglie hanno traversato per due decenni la politica italiana, hanno acceso una straordinaria messe di passioni e di speranze, e hanno portato all’elezione diretta di sindaci, presidenti dì provincia e governatori. E nei comuni, dove la riforma si è completata, sono nate figure nuove e un nuovo modo di governare. Eppure la battaglia istituzionale, più che mai necessaria, non basta più. Perché si sono persi i valori fondamentali della legalità e del senso dello Stato>>.

Mariotto Segni ama il mare, le barche e i pescatori, partecipa da sempre alle gare di vela latina, con una passione che è stata anche di Enrico Berlinguer, come si può constatare guardando le immagini di Stintino nel 1938 nel recente volume di Giovanni Gelsomino, L’ultimo leader.

C’è nella biografia di due politici come Mario Segni ed Enrico Berlinguer, tanto diversi ma anche tanto radicati e tanto amati, davvero tutta la Sardegna, Sassari, l’Asinara e Stintino.

L’occasione di oggi vuole rinnovare un legame, riconoscere un impegno, costruire una Sardegna nuova.




Incontri stintinesi 2014 in ricordo di Gabriella Mondardini Morelli

Intervento di apertura
Incontri stintinesi 2014 in ricordo di Gabriella Mondardini Morelli

A nome dell’Università di Sassari voglio ringraziare il Sindaco Antonio Diana e la carissima Esmeralda Ughi per questi incontri stintinesi 2014 in ricordo di Gabriella Mondardini Morelli promossi dal Centro studi sulla civiltà del mare e per la valorizzazione del Golfo e del Parco dell’Asinara.

Il 18 agosto ho annunciato con dolore a tutti i colleghi dell’Ateneo la scomparsa di Gabriella, che aveva raggiunto la figlia Laura scomparsa a 47 anni il 22 febbraio di un anno fa. Proprio per l’anniversario ero a Porto Torres quando Assovela, l’associazione dei suoi amici di mare, aveva promosso assieme ad altri amici, enti e associazioni, una giornata per ricordare la figlia Laura, partendo dalla pagina facebook ancora oggi illuminata dalla fotografia di una cascata di acqua cristallina che cade dall’alto delle rocce antiche, scolpite dal tempo, in un luogo remoto della Sardegna: avevo immaginato che alla base della cascata, sulle rive del laghetto, in un ambiente tanto suggestivo Laura avesse vissuto alcuni dei momenti più belli della sua vita, fosse stata felice, magari assieme a Gaetano e ai due ragazzi, Francesca e Lorenzo, che la piangono sempre e che avvertono i morsi della solitudine.

L’acqua limpida di quella cascata mi aveva ricordato il sorriso di Laura, il suo ottimismo, la sua voglia di costruire, la sua passione, il suo coraggio anche negli ultimi giorni. Soprattutto il suo amore per gli altri.

Anche la nostra Gabriella era presente a quell’incontro dove presentavamo un suo libro, un po’ in disparte, in terza fila, accarezzando i nipotini amati; si era emozionata molto e mi aveva confidato, quasi con curiosità e senso di mistero, ma anche con serenità, che avrebbe voluto sapere per quanti mesi ancora sarebbe riuscita a sopravvivere alla figlia. Mi aveva raccontato che era certa che non sarebbe riuscita a superare il dolore per la scomparsa di Laura, ricercatrice di genetica al Dipartimento di scienze della natura e del territorio, con la quale aveva sviluppato anche un lungo e fecondo rapporto culturale e scientifico. Eppure mi è stato confidato che negli ultimi mesi aveva iniziato a fare progetti per una collaborazione con tanti insegnanti di scuola media, riprendendo a vivere grazie all’amore per Vittorio e per tutti i suoi cari.

 

Oggi richiamiamo con questo incontro le passioni di Gabriella, l’amore per il mare le barche i pescatori, le sue curiosità, il gusto per la scoperta che sempre l’ha accompagnata. Ci mancherà il suo sorriso e la sua amicizia, ma anche la sua capacità di investigare, di ricercare, di ottenere dei risultati scientifici, di esplorare una terra incognita alla quale si affacciava con umiltà, sempre piena di desideri.

Per stasera, ho riletto le due corpose cartelle conservate nell’Archivio storico dell’Università, ricostruendo il suo curriculum, che inizia a Magistero presso la cattedra di Igiene il I novembre 1974, un anno dopo la laurea, passa  dall’anno successivo ad Antropologia culturale la sua vera materia come assegnista, ma anche ad antropologia sociale e a teoria della comunicazione, in alcuni laboratori scientifici, nella scuola media, poi come incaricata, ricercatrice confermata, professoressa associata, ordinaria dal 2004, fino al pensionamento il I novembre del 2011, tra l’Istituto di scienze dell’educazione e il Dipartimento di economia istituzioni e società, dal 90 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, nel corso di laurea di Pedagogia poi di Scienze dell’educazione  e presso la Scuola di specializzazione per insegnanti.

Aveva chiesto e ottenuto di mantenere la sua residenza fuori sede a Porto Torres, dove poteva studiare l’attività dei carpentieri, dei maestri d’ascia e dei pescatori, seguire le mostre al Museo del porto, come a Stintino per le tonnare, sull’Asinara per il Parco Nazionale, a Castelsardo, a San Teodoro, ad Alghero, e venti anni fa a Bosa alle origini del futuro Museo del mare.

Ci sono tanti suoi libri che ci sono cari, l’ultimo di pochi mesi fa intitolato Compagne di viaggio, le donne dei paesi di mare si raccontano, ma sono particolarmente legato al volume del 1995 I figli di Glaukos, temi e materiali di culture marinare, che è quello che mi sembra esprima meglio un legame, una passione, un’ammirazione quasi fisica per la gente di mare, per le barche, per i pescatori, per gli strumenti di pesca, per la nautica, per l’economia fondata sulla cultura e sulla produzione alieutica. Ma si era occupata anche di parchi, di donne, di saperi locali, di sanità al femminile come attorno al parto, nei villaggi e nelle città, ma anche lontano dalla Sardegna, come nel 2002 con il volume sull’antropologia della salute in Mozambico, di fronte al Madagascar.

Tra i tenti messaggi di condoglianze ho ricevuto quelli degli amici di Assovela, a firma di Lorenzo Nuvoli, che non dimenticano quello che lei ha fatto per l’Associazione, dove era riuscita a farmi entrare come socio onorario ma solo dopo che avevo faticosamente preso  la patente nautica.

Voglio però citare almeno il messaggio di un suo amico lontano, Luciano Caimi, dall’Università Cattolica di Sacro Cuore. Altri suoi cari amici hanno ricordato che era nata a Sarsina, in provincia di Forlì, la patria di Plauto: ecco oggi vorrei ricordarla per questo suo carattere plautino, per la sua ironia, il suo sorriso, il suo scetticismo verso le piccole cose degli uomini, eppure con la sua fede nell’uomo, questo cosmo meraviglioso in cui fermamente credeva.




Presentazione della mostra di Antonio Ledda “Fuori dalla rotta dei Gabbiani”

Presentazione della mostra di Antonio Ledda “Fuori dalla rotta dei Gabbiani”
Bosa, 9 agosto 2014

Cari amici,

mi sentivo in dovere di presentare assieme a Paolo Sirena questa Mostra di Antonio Ledda  “Fuori dalla rotta dei gabbiani”, che si tiene a Bosa, dentro la casa dove sono nato: un po’ per l’amicizia, un po’ – lo confesso – per il dono inatteso che ho ricevuto, una figuredda, un cavalluccio di legno smaltato in verde; soprattutto per le emozioni che queste opere  suscitano nel visitatore abituato ad un’arte sarda spesso ripetitiva, troppo rispettosa di canoni consolidati, poco originale. Infine anche perché mi sentivo in colpa per aver bruciato la presentazione di due mesi fa al Museo del territorio di Sa Corona Arrubia a Collinas in Marmilla, visto che per un equivoco ero andato a finire a Samugheo e me ne ero rientrato con le pive nel sacco a Sassari.

Il tema del rapporto tra i modelli e l’artista è il tema centrale di questa mostra, dove non mancano i richiami al fondatore del movimento spazialista Lucio Fontana, pittore, ceramista,  scultore, scomparso oltre 40 anni fa. Ma sono evidenti i debiti contratti verso tanti altri artisti, sardi, italiani, internazionali, che restano sempre sullo sfondo, perché Antonio Ledda esprime con strumenti non convenzionali un mondo unico e originale che riemerge dall’interno della sua esperienza, che si è sviluppata attraverso gli studi fatti, i viaggi compiuti, i monumenti visitati, la società che ha conosciuto, le sue sperimentazioni poco convenzionali e molto eterodosse. Anche quando raffigura frettolosamente in acrilico, magari sulle lampade in ceramica, le figure umane (che pure spesso sono assenti dalle sue opere), c’è forse oltre che il riemergere di un ricordo personale profondo, inconsapevolmente anche la pressione della memoria dell’arte classica rivissuta in modo vitale partendo dalla processione di personaggi raffigurati sull’ara pacis augustea a Roma oppure dalla teoria di imperatori e santi sui mosaici bizantini di San Vitale o Sant’Apollinare nuovo Ravenna.

Ci sono due aspetti che vorrei oggi evidenziare.

Da un lato il rito del passaggio tra un “dentro” e un “fuori”: il gigantesco buco nero di Collinas o il più modesto telone di Bosa che si chiama “l’attraversamento del buio” rimandano entrambi alla capacità dell’artista di spostarsi nel tempo e nello spazio, di varcare una soglia, di trovare una dimensione personale.

E poi, ecco il secondo aspetto, più di quanto Antonio Ledda non ammetta, c’è tanta Sardegna, dalla Gallura al Campidano e alla Barbagia, dalle spiagge di Bosa fino a Rema Maiore e ad Aglientu. Ci sono i cieli incombenti e bassi, le stelle, gli universi ultraterreni che in città non si possono scorgere: mi viene da pensare ad Abraracourcix, il capo del villaggio di Asterix, che teme che il cielo finisca per cascargli sulla testa e che viene portato in trionfo su uno scudo del villaggio degli eroici Galli Arverni, uno scudo che assomiglia non poco alle inattese parabole televisive di Ledda.

Ho letto di recente un libro di Mario Medde intitolato Antiles,

Antiles sono gli stipiti in basalto, gli architravi, le porte che occorre varcare e che immettono ad un territorio, ma anche ad una cultura, ad un ambiente sociale, ad un momento della nostra vita, che conserva intatto il sapore della vita vera, il senso delle cose che ci sono care, il profumo della casa che continuiamo ad amare anche quando ne siamo stati sradicati e viviamo in una grande città.

C’è una porta che non si chiude mai tra realtà e fantasia, tra la rabbia e l’amore, tra la fede e la ragione, tra le parole e le cose. Il tema – modernissimo – è quello del rapporto tra segni e significati: per vedere davvero non bastano i suoni, i segni, neppure i fatti: noi non possiamo parlare delle cose, ma delle immagini impresse e affidate alla memoria, perché noi portiamo quelle immagini nella profondità della nostra memoria, come documenti di cose percepite precedentemente. Ma sono documenti davvero solo per ciascuno di noi. Le figureddas in legno stanno lì a ricordare una fanciullezza luminosa e colorata, che si può rivivere non attraverso le cose ma solo partendo dai luoghi che suscitano emozioni, non quei luoghi di oggi tanto diversi, ma quelli della memoria, che evocano le mille immagini di allora. E i luoghi sono quelli, spettacolari, delle marine amate chiuse entro piccole teche di vetro, dei laghetti, delle isole visitate in barca come a Sa Corona Niedda di Tresnuraghes, delle spiagge nere di Bosa o delle rocce della Gallura, anche in notturno. Tutto inserito in dischi e scatole di vetro che debbono proteggere oggetti preziosi, quello che rimane di un mondo che immaginiamo in pericolo e che vorremmo proteggere.

Per capire questa mostra bisogna partire dai due straordinari quadri intitolati Arrastus, l’affannata ricerca delle orme, delle tracce, delle testimonianze lasciate dagli uomini e dagli animali in una cultura pastorale ferita dall’abigeato che continua a vivere nel profondo dell’anima dell’artista e che è rappresentata attraverso gli impasti di terra e il carbone oppure dai campanacci di Tonara o dai cento ritratti di crani di pecore.

Mario Medde racconta nel suo libro la primavera insanguinata del 1922, l’immagine dei mozziconi delle orecchie delle pecore rubate e mutilate, recisi e abbandonati lungo Sa Bia de Cotzula a Norbello verso Domus. Segni della proprietà del bestiame recisi con la mutilazione delle pecore. Segni che proiettano nella memoria quasi in un film la corsa disperata della nonna incinta di 7 mesi verso la chiesa della Madonna delle Grazie ad Orracu, per ritrovare alla fine sconvolta il corpo insanguinato del compagno ucciso su questo caminu de sa fura che conduceva ad Otzana e ai monti della Barbagia dove transitava il bestiame rubato nella valle. Un’ingiustizia, l’uccisione di un testimone scomodo, che i pastori specialisti de s’arrastu, alla ricerca delle orme degli abigeatari, non avrebbero saputo vendicare.

S’Arrastu, ancora su un altro sentiero, quello che da Pranu ‘e lampadas portava a Sa Serra, e che riporta alla mente il tragico ricordo della morte, nel 1953, dell’altro nonno, quello paterno, colpito da una roncolata inferta da un altro pastore: Mario Medde scrive commosso che per anni le pietre insanguinate sul punto dove cadde il nonno restarono così disposte e macchiate, mute testimoni di un delitto orrendo, di una violenza gratuita, di un abuso non più comprensibile.

C’è in questa mostra, attraverso i materiali utilizzati  per rappresentare il passaggio di uomini e animali in una campagna spesso violata, la voglia di capire il passato più doloroso, la violenza, frutto dell’ingiustizia e della prevaricazione in una Sardegna arcaica, in una società agropastorale ormai al tramonto, in un territorio di frontiera.

Ma altre porte, antiles, jennas, jannas, introducono ad altre scene, di gioia e di gioco, come per le figurette espressive che rappresentano le pariglie e i componidoris della Sartiglia di Oristano. O i cavallini variopinti, i tamburini, che certo ricordano Tavolara o Nivola o Sciola o tanti altri, ma con un sapore davvero originale e con un’allegria nuova.

Anche se il maestro tenta di mettere in sordina questo suo radicamento alla Sardegna, eppure il tema esplode in tante opere, nell’allestimento stesso della sua casa, nell’unica berritta scelta per la mostra, nelle pietre, nei sassi, nei ciottoli lavorati dal mare.

C’è innanzi tutto questa circolarità dei tavoli in legno, delle parabole illuminate nella notte stellare, dei quadri che guardano lontano lontano, verso un universo primigenio.

C’è poi il tema del mito e del mistero del mondo che ci circonda, un’arte che si esprime nel suono delle boccittas di piombo che rotolano come pianeti rumorosi sullo spazio dell’antenna parabolica cosmica, nella luce delle stelle, con una costante ricerca di nuovi strumenti espressivi,

Io che sono un appassionato cultore della bizzara serie televisiva su Fox The bing bang theory ho ritrovato tanti stimoli sul tema della gravità, dei buchi neri, della materia oscura, della deformazione dello spazio, delle costellazioni, delle galassie, delle esplosione di una supernova, della teoria dell’universo fatto a stringhe, a grappoli, a ragnatele, con una complessità e una conoscenza dell’astronomia che francamente mi ha sorpreso.  Ma oggi 9 agosto come dimenticare le stelle cadenti di San Lorenzo, io lo so perché tanto / di stelle per l’aria tranquilla / arde e cade, perché sì gran pianto / nel concavo cielo sfavilla.

La clessidra del tempo rende bene il rapporto del presente inesistente rispetto alle enormi voragini del passato e del futuro, che si dilatano fino a raggiungerci e ad agguantarci nel nero del tempo, anche se il tema non è quello del tempo, visto che gli anni luce non misurano il tempo ma lo spazio.

Ma qui oggi a Bosa il titolo della mostra ci rimanda ad uno spazio che è fuori della rotta dei gabbiani: come non pensare alla pittura di Antonio Atza e alle poesie di Orlando Biddau dedicate al volo dei gabbiani dietro il faro e la torre, dove la terra finisce e inizia il mare che conduce alle colonne.  Per Biddau l’Isola Rossa, la foce del fiume, il mare hanno un significato concreto, come se fossero i luoghi remoti, collocati al confine del suo universo, le intatte scogliere, ove cielo e mare si fondono, con i gabbiani che segnano un confine: Respira il mare ed io son vivo, / le barche in secca a un porticciolo di sassi / come ramarri al sole. Venimmo / un mattino a quest’isola verde / per sciogliere il voto, ed il passo/ e il respiro era incerto a violare/ le intatte scogliere, ove cielo / e mare si fondevano. / Candide ali s’aprivano/ sulle braccia nude dei fanciulli, / colombacci marini; tra frusci / d’azzurro e spumeggi / si tuffavano in acqua, emergevano / con un riso acerbo, agguantando/ esultanti un’orata!

Così nella poesia L’ultimo rifugio introdotta da alcuni versi di Montale:  all’estuario del Temo / sconsolati gabbiani planavano lenti sul greto; / più  in là, oltre il molo ed il colle di mirti / intatte spiagge e scogliere lunari, / in scenari a balzi di rocce / ove reciti Amleto i suoi furori. Sono i paesaggi che tornano nella poesia Sas Covas: Ormai fuori di me, barcollavo / cercando fra le rocce / striate e iridate come nuovo/ paesaggio lunare la mia / idendità : mi smarrivo / nella desolazione di crateri / spenti, banchi d’arenaria / rosi da un sole alienato, / luci inaudite, cisterne / di magia, abissali / variazioni oceaniche, / scongiuri ed incantesimi / che mi portassero alla città, alla viva sorgente, al pozzo.

E poi il viaggio per mare: Nel porto dell’antica città  un bianco veliero / ci attende. Salperemo assieme ai gabbiani ubriachi / d’azzurro incantato, alle ultime ore di sole / che reclusi nel limbo d’attesa andiamo cogliendo / lungo muri devastati e macerie e riporti fin sino / alla lastra del mare, e che serbano tutto il sapore / del frutto fuori stagione.

Ci sono tanti livelli di lettura per una mostra come questa, tante performances differenti, financo la danza di Simonaa, tanti punti di vista, tanti orizzonti che si intersecano: forse l’originalità sta proprio nei linguaggi adottati, nella varietà dei materiali utilizzati, nel variare del punto di osservazione.

Anche dall’alto, anche a volo d’uccello, anche spostando il punto di vista, sullo sfondo c’è ancora la Sardegna, come nei tanti quadri che raffigurano i paesaggi visti al volo, con i muretti delle chiudende che delimitano i terreni, rappresentati nelle visioni aeree anche utilizzando in modo originale i tessuti in fustagno con riferimento ai terreni pianeggianti del Campidano oppure in velluto come per i paesaggi del Nuorese.

Infine le pitture ad olio che rappresentano le pecore, con i loro crani di morte: le pecore  sono davvero le protagoniste di questa mostra che rinnega le chentu berrittas di una fastidiosa tradizione locale per immaginare uomini-pecora, personaggi  che tentano di distinguersi con gli occhiali, le collane, le parrucche, i copricapo, le cuffie, le divise: tipi tanto diversi, tutti riassunti da una sorta di autoritratto, su macchu dei tarocchi, che sintetizza una visione ironica e disincantata di chi non intende prendersi troppo sul serio, di chi vuole permettersi di giocare una carta di riserva, di chi vuole leggere innanzi tutto dentro se stesso con distacco e ironia, con nobiltà e voglia di vivere, riconoscendo i debiti nei confronti di chi  l’ha preceduto.

Eppure questa mostra ci fa amare un artista che ora scopriamo pieno di curiosità, di desideri, di passioni, anche di rimpianti: un artista che merita davvero attenzione e una serata come questa.




Gli ottanta anni del maestro Elio Pulli

Gli ottanta anni del maestro Elio Pulli
Comune di Sassari, 8 agosto 2014

Cari amici,

volevo esprimere in apertura la gratitudine al Signor Sindaco per avermi scelto ad intervenire in questa occasione solenne.

Parlare degli ottanta anni di Elio Pulli qui a Palazzo Ducale significa partire dalle straordinarie ceramiche collocate nell’anticamera del Sindaco, donate dal Banco di Sardegna a Gianfranco Ganau qualche anno fa, con questa rappresentazione dei candelieri davvero originale, con il basso e massiccio obriere maggiore con le bandiere che sintetizzano il senso di una festa che nei prossimi giorni la città di Sassari rinnoverà ripensando a una storia lunga, che risale all’indietro fino al Cinquecento spagnolo e che accomuna i Gremi sintesi dell’intera città nella pittoresca Faradda, quale espressione dei ceti produttivi e artigianali, i piccapedre, i viandanti, i contadini, i falegnami, gli ortolani, i calzolai, i muratori, i sarti, i massai, o fabbri, i macellai, i contadini e così via. Una storia lunga che si ripete, coinvolgendo da oltre quattro secoli il Comune, la città, la Chiesa, l’Università. Giovedì ho visto i piccoli candelieri tanto orgogliosi di ereditare una tradizione e di concorrere ad una festa che esprime gioia e simpatia.

Per usare le parole di Pompeo Calvia

Chi canzoni e chi alligria

Vi so sott’a la bandera !

Pari giunta primabera

Anche noi vorremmo che ora venisse davvero la primavera per la Sardegna come nei mandorli in fiore di Elio Pulli, proprio mentre si annuncia la chiusura del Museo Nivola di Orani, si affronta la crisi di tante cooperative impegnate nel settore del patrimonio artistico, si estende la disoccupazione giovanile, ma finalmente si parla anche del  riconoscimento del valore del titolo professionalizzante per gli operatori dei beni culturali.

Se c’è una cosa che caratterizza la produzione artistica di Elio Pulli fin dai primi lavori del 1952 è questo suo entrare in sintonia con la sua terra, con i momenti più profondi della tradizione popolare e religiosa della Sardegna, come nei suoi crocifissi, nelle sue madonne, nei suoi dipinti o nelle sue terrecotte, come a Bancali nella chiesa dei martiri Gavino, Proto e Ganuario. Non so quali generose indulgenze abbia ottenuto l’artista dal parroco di Bancali don Antonio per quel crocifisso doloroso che si inserisce in una storia che ora si affianca al crocifisso seicentesco da lui restaurato e a quel crocifisso disegnato da Eugenio Tavolara e realizzato da Gavino Tilocca, raccontati qualche giorno fa da Pasquale Porcu. E poi la Regina di Bancali, recentemente arrivata fino a Roma e benedetta da Papa Francesco a Piazza San Pietro.

Ma penso alla generosità dell’artista, a favore di tante istituzioni, ad esempio per le nostre cliniche ospedaliere, come a breve in occasione del Congresso Nazionale della Società italiana di ortopedia, dedicato alla traumatologia dello sport. O in tante altre occasioni, religiose, laiche, civili, come per l’inaugurazione della nuova questura di Sassari, con quei proiettili che trafiggono come frecce il corpo dei poliziotti feriti o uccisi.  Penso ai tanti riconoscimenti ottenuti fuori dalla Sardegna, come a Santa Croce di Firenze o a Pisa o a Milano o in tante altre mostre in Italia e all’estero, che l’hanno visto protagonista.

Ho visitato più volte negli ultimi mesi, in compagnia di Eugenia Tognotti, Maria Pina Dore, Pasquale Porcu la bottega, il laboratorio-museo che il Maestro Pulli ha messo su a Tramariglio, all’interno del Golfo delle Ninfe, a due passi dalla Falesia di Capo Caccia e dall’Isola Foradada, un luogo che per Manlio Brigaglia esprime insieme il silenzio marino della sua casa e una solitudine che finisce per essere metafora di un’orgogliosa rivendicazione di originalità rispetto ai modelli tradizionali dell’arte sarda. Accanto ai forni per la lavorazione della ceramica, oltre il campo di bocce, al di là del disordine creativo della bottega che mantiene un sapore antico, c’è una deliziosa saletta-museo dove sono esposte molte opere di pittura, ma soprattutto le spettacolari ceramiche dalle trasparenze metalliche, con i colori immaginati dall’artista prima della cottura. Ecco, il tema dei colori è centrale per l’arte di Elio Pulli, come per i suoi Costantino Spada, Libero Meledina e Antonio Atza, partendo da quella bottega o da quel circolo di artisti in Corso Vittorio e poi in Corte di Cogno sopra la Stazione, per Mario Ciusa Romagna tanto simile a una bottega rinascimentale, dove il padre Giovanni lo aveva incaricato come apprendista di realizzare in ceramica il viso, le gambe, le mani delle madonne fatte di cartapesta, di paglia e di fil di ferro. Qui Elio si occupava di restauro, studiava scultura, intaglio, decorazione, con umiltà e voglia di apprendere.

Oggi, arrivato ad 80 anni di età, Elio Pulli continua ad essere capace di sorprendere e di meravigliare, continua ad emozionarsi e ad emozionare come un ragazzo,. come quando dipingeva dal vivo, con il suo cavalletto portatile, nei campi davanti a Santa Maria di Betlem, le carciofaie sassaresi o gli orti dove si coltivavano le fiorenti piante di tabacco. E poi le conce, Platamona, il porto di Alghero, le barche di Stintino.  Con tante curiosità, con tante passioni, con tanti desideri, con una capacità davvero straordinaria di cogliere un ambiente, un’atmosfera, un mondo che spesso non c’è più ma che sentiamo essere nostro nel profondo.

Elio Pulli è tornato anche di recente a Roma, come in occasione della mostra al Vittoriano: ho letto sul volume pubblicato nell’occasione che Claudio Strinati pensa al maestro come ad un potente artigiano, robusto dominatore di tutte le cose, insieme pittore e scultore sensibilissimo, con radici popolaresche, con una creatività forte e prorompente, con un’assoluta capacità mimetica di fronte al mondo e insieme capace di dare corpo alle fantasie più spericolate. Per Strinati Pulli <<è come impastato di verità, introverso, meditativo e incantato di fronte alla bellezza delle forme che viene elaborando>>, sempre coltivando il legame, mai interrotto, con le origini artigianali e popolari, ma con un’eleganza e una sensibilità davvero finissime.

Gli ultimi dipinti di Elio Pulli ci parlano ancora dei tramonti sulla costa occidentale dell’isola, tra Porto Conte e Capo Caccia, il nostro finis terrae, là dove la terra finisce e dove ci si affaccia sul mare che conduce alle colonne d’Eracle. Oppure le sue marine, le sue barche, l’Ardia scatenata coi cavalli di Sedilo – come non pensare a Melkiorre Melis ? -, le donne sarde in preghiera nel silenzio di un raccoglimento davvero profondissimo. Già dieci anni fa un critico (Pasquale Scanu) parlava di Pulli come di un bambino che gioca con il mondo vivo dei fondi rocciosi, capace di raccogliere squarci della natura ancora intatta, pura e maggiormente purificata dal pennello deciso che gioca quasi con le luci, le ombre, gli spazi infiniti, le varietà cromatiche, riuscendo a riempire la tela di forme ordinate, piene di serenità come l’anima dell’artista che sente il fascino della poesia.

Ecco, penso che l‘aspetto che più colpisce del suo carattere sia questa serenità, questa calma verità di vita, questa pazienza anche di fronte a visitatori molesti che non hanno la sensibilità per mettersi in sintonia con lui, soprattutto con le sue appassionate immagini dipinte.

Ma è la ceramica che veramente è diventata il nuovo grande mestiere di Elio Pulli, come tornando bambino e ritrovando una dimensione nella quale si era distinto il fratelllo Claudio scomparso oltre quaranta anni fa.

Sono orgoglioso di esser riuscito ad ottenere da Pulli una straordinaria opera dedicata ad un mostruoso uccello, un grifone della Sardegna, che ho presentato in occasione della cerimonia degli auguri di fine anno otto mesi fa. L’opera era stata esposta in quella bella Antologica chiusa il 9 ottobre 2013 al Museo centrale del Risorgimento in Campidoglio che tanto ci aveva emozionato, perché non mi aspettavo tanta gente, tante opere, tanta bellezza. Ero a Roma per la Conferenza dei Rettori e per una visita ad un altro museo ed ero stato coinvolto all’ultimo minuto dall’Assessore Dolores Lai. Ero uscito dalla grande sala commosso e davvero colpito, anche per il luogo che aveva ospitato la mostra.

Per me, che ho studiato in passato il vicino tabularium, l’archivio del Senato romano, l’unico edificio di stato di età repubblicana arrivato fino ai nostri giorni, quella era stata un’emozione forte. Tante storie personali che si incontravano presso l’asylum di Romolo, sotto l’auguraculum dal quale i sacerdoti e magistrati romani scrutavano il cielo verso Alba Longa per leggere attraverso il volo degli uccelli la volontà degli dei.

Quella scultura, che ho voluto collocare nell’ufficio del Rettore, rappresenta appunto un uccello, un grifone con tutta la sua apertura alare che trionfa su un cinghiale della Sardegna: esprime in qualche misura il tema della biodiversità, della ricchezza dell’ambiente naturale che amiamo, della varietà naturalistica della nostra isola.

I rapaci occupano da sempre uno spazio significativo nella letteratura sulla Sardegna per rappresentare un ambiente naturale, gli spazi solitari del Gennargentu, ma anche una cultura e una tradizione, frutto di osservazioni e di riflessioni che iniziano nel mondo antico con lo Pseudo Aristotele, che racconta il mito relativo alle favolose colonizzazioni dell’isola dalle vene d’argento e ricorda che questa terra fu prospera e dispensatrice di ogni prodotto: si narra che il dio Aristeo il più esperto tra gli uomini nell’arte di coltivare i campi, produrre il miele, l’olio, il vino, il latte, fosse il signore di Ichnussa, occupata prima di lui solo da molti e grandi uccelli. Come non ricordare che un’isola circumsarda, l’isola di San Pietro, era nell’antichità conosciuta da Plinio e da Tolomeo come Acciptrum insula – Hierakon nesos, l’isola degli sparvieri o dei falchi ?

Il tema dei molti e grandi uccelli che abitano i monti della Sardegna attraversa la letteratura sarda, passa per la Carta de Logu di Eleonora, tocca Francesco Cetti nel 700 per arrivare fino a Grazia Deledda, a Sebastiano Satta, ad Antonino Mura Ena, ad Antioco Casula Montanaru, fino all’ultimo libro di Antonello Monni, Il bambino dalla milza di legno. Infine esplode nelle immagini fotografiche del recente volume di Domenico Ruiu.

Per me i grifoni che volano larghi e si muovono tra le falesie di Capo Marrargiu e i canaloni vulcanici che conducono a Montresta passando per i costoni di Badde Orca continuano a ricordare una giovinezza lontana e luminosa, continuano a rappresentare un simbolo di libertà, un elemento identificativo della biodiversità della nostra isola.

Anche al di là della pittura, con la tridimensionalità della ceramica Pulli riesce a esprimere la profondità di una realtà che spesso ci sfugge e che osserviamo con stupore: nelle immagini degli animali, nelle rappresentazioni naturalistiche sembra quasi “che l’artista diventi un mago abilissimo che ti travolge con una raffica di trucchi inspiegabili e di veri e propri prodigi, che si stenta a spiegare razionalmente, ma che si accettano proprio per la loro fiabesca apparizione”. Le sculture di Pulli, capaci di riassumere un mondo immaginario fatto di bellezza, di fantasia, di creatività, riescono a sintetizzare un sentimento, a far riemergere tanti ambienti naturali che amiamo, tante storie dimenticate, tanti rapporti tra cielo e terra.

Allora vorremmo che tutti riuscissimo a osservare la nostra terra dall’alto, che affrontassimo i nostri problemi con lo spirito di chi è capace di mantenere una distanza e insieme di saper vedere in profondità, al di là delle apparenze, con uno sguardo nitido e intenso, con un atteggiamento di qualità e di nobile distacco. Ho scritto da poco che seguendo il volteggiare dei grifoni abbiamo l’impressione forte di seguire il volo di un dio, di assumere per un istante magico lo sguardo di un genius loci che ancora ci parla.

Ho desiderato che il grifone di Pulli riesca a ricordare a tutti noi che dobbiamo volare alto, dobbiamo pensare il futuro della Sardegna e il futuro della nostra città in un orizzonte più ampio, con più passione, più generosità e più impegno.

Auguri ad Elio Pulli per questi suoi meravigliosi ottanta anni, auguri al Sindaco Nicola Sanna, auguri alla città di Sassari e ai suoi Gremi.




Presentazione del volume “L’ultimo pugno di terra” sul film documentario di Fiorenzo Serra

Attilio Mastino
Presentazione del volume “L’ultimo pugno di terra” sul film documentario di Fiorenzo Serra
Sassari, 18 luglio 2014

Cari amici,

presentare oggi questo volume edito da Maestrale, nella giornata dei funerali della nostra cara Rina Pigliaru, significa per un momento ripensare al ruolo avuto da Antonio Pigliaru nella travagliata preparazione di questo lungometraggio di Fiorenzo Serra restaurato per iniziativa dell’Assessorato Regionale alla PI, della Fondazione Banco di Sardegna, della Cineteca sarda e della Società Umanitaria. Con la consulenza del Laboratorio di Antropologia Visuale del Dipartimento di storia scienze dell’uomo e della formazione del nostro Ateneo, che nel nome ricorda la figura di Fiorenzo Serra, dopo la convenzione del gennaio scorso con la Fondazione umanitaria voluta dall’Assessore Sergio Milia e sostenuta ora da Claudia Firino.

Il filosofo del diritto Antonio Pigliaru ispiratore di un’intera generazione di giovani intellettuali isolani, nel 1949 fondatore di Ichnusa, portava con se il sapore fresco di una sardità profonda, radicata sulle sue origini orunesi e sulla sua Barbagia.  Temi che nel lungometraggio di Fiorenzo Serra esplodono nelle bellissime scene della transumanza delle greggi di pecore da Fonni verso la Nurra, nella rappresentazione della vita dei pastori fatta di solitudine e di sofferenza, ma anche di scoperte quotidiane come l’emozionante nascita di un agnello che perde la placenta, accolto dal gregge quando ancora non riesce a reggersi sulle zampe, collocato con altri agnelli nella tasca di una bisaccia – sa bertula –  sotto la pioggia.

Il nuraghe massiccio della prima scena testimonia le origini preistoriche della pastorizia sarda che continuava a vivere in uno spazio dove il tempo si misurava in altro modo e mi porta immediatamente alla mente quella scena che ho vissuto a Tamuli di Macomer, quando Giovanni Lilliu riuscì ad evocare per noi studenti di Studi Sardi quasi per incanto un mondo antico, una dimensione parallela perduta, indicandoci la figura di un pastore che improvvisamente era apparso dal nulla, del tutto simile ad un personaggio dei tempi eroici protosardi: una figura, quella del pastore, che Lilliu osservava con grande simpatia e rispetto, perché era il testimone finale di una sapienza antica. Del resto già Diodoro Siculo nell’età di Augusto pensava ai pastori sardi per il mito discendenti dai 50 figli di Eracle come a campioni di libertà.

 

Ma in questo film c’è anche l’eco del volume di Pigliaru del 1959 La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, con il corpo del pastore ucciso nelle campagne di Sedilo, vestito d’orbace, con il portafoglio vuoto, le mosche che si accaniscono sul viso, il trasporto della salma dall’ovile, il funerale, la fossa per la bara nera, s’attittidu e il silenzio dei parenti e insieme il pianto della vedova che invita alla vendetta.

Così c’è Pigliaru nell’intervista quasi televisiva al pastore che racconta che i sardi che non sanno rubare sono destinati a restare miserabili, ad essere disprezzati, a non essere amati in famiglia. Ci sono gli animali che vivono con gli uomini, certo le pecore transumanti per tratturi millenari, ma anche gli asini, i cavalli, i buoi, i cani, perfino le volpi temute tanto che non se ne riesce a pronunciare il nome.

Ritorna forte l’impressione del racconto drammatico contenuto nel volume Antiles di Mario Medde: Antiles sono gli stipiti in basalto, gli architravi, le porte che occorre varcare e che immettono ad un territorio, ma anche ad una cultura, ad un ambiente sociale, ad un momento della nostra vita, che conserva intatto il sapore della vita vera, il senso delle cose che ci colpiscono, il profumo della casa che continuiamo ad amare anche quando ne siamo stati sradicati.

Medde racconta la morte del nonno paterno, colpito da una roncolata inferta da un altro pastore, lungo un sentiero di Norbello negli anni 50: scrive commosso che per anni le pietre insanguinate sul punto dove cadde il nonno restarono così disposte e macchiate, mute testimoni di un delitto orrendo, di una violenza gratuita, di un abuso non più comprensibile. E trenta anni prima, durante la primavera insanguinata del 1922, attraverso i drammatici racconti della madre, gli ritorna come se l’avesse vista con i propri occhi l’immagine dei mozziconi delle orecchie delle pecore rubate e mutilate, recisi e abbandonati lungo Sa Bia de Cotzula, a Sas Benas verso Domus. Segni della proprietà del bestiame recisi con la mutilazione delle pecore. Segni che proiettano nella memoria quasi in un film la corsa disperata della nonna materna incinta di 7 mesi verso la chiesa della Madonna delle Grazie ad Orracu, per ritrovare alla fine sconvolta il corpo insanguinato del compagno ucciso su questo caminu de sa fura che conduceva ad Otzana e ai monti della Barbagia, dove transitava il bestiame rubato nella valle. Un’ingiustizia, l’uccisione di un testimone scomodo, che i pastori specialisti de s’arrastu, alla ricerca delle orme degli abigeatari, non avrebbero saputo vendicare.

La Giunta Regionale Corrias e l’Assessore ittirese alla rinascita Francesco Deriu, patrono di Peppe Pisanu, forse non volevano una rappresentazione così dura della Sardegna, con Carbonia ormai quasi decrepita con i suoi casermoni a vent’anni dalla magniloquente fondazione mussoliniana; gli Assessori volevano un lungometraggio capace di esaltare il progresso dell’isola e gli effetti benefici della rinascita a lungo desiderata. E invece, in questo film restaurato, in questa versione ritrovata a fatica partendo dai negativi, dai positivi, dagli spezzoni e dai cortometraggi, c’è in realtà molta emozione, molta tristezza, molta amarezza, molta verità vera di vita, molta poesia che rimanda ad un amore profondo per la propria terra sfortunata. C’è anche molta polemica contro la famiglia esclusiva, quei legami troppo stretti di quello che Edwuard C. Banfield chiamava il familismo amorale dell’interno della Sardegna, che in qualche modo condiziona lo sviluppo della comunità e riduce i diritti di tutti. Debbo dire che il restauro filologico, di cui in questo libro ci vengono raccontate tutte le fasi, ha restituito un documento unico ed emozionante, un vero capolavoro, capace di leggere in profondità la Sardegna, lasciando da parte i luoghi comuni e le leggende, proprio come quella del pugno di terra che il creatore avrebbe utilizzato per collocare la Sardegna in mezzo al mare, imprimendo l’impronta del suo piede destro. Una leggenda da abbandonare, evidentemente un racconto mitico ripreso dal celebre libro Sardegna quasi un continente di Marcello Serra, pubblicato nel 1958, un autore che sicuramente Fiorenzo non amava.

Accanto a Pigliaru ci sono soprattutto Peppe Pisanu e Manlio Brigaglia, autore quest’ultimo di gran parte del commento, c’è Peppino Fiori con i suoi baroni Carta e la sua laguna di Mare ‘e pontis, la sua Società del malessere; c’è  l’antropologo tiesino Luca Pinna, Michelangelo Pira, Giuseppe Zuri alias Salvatore Mannuzzu, c’è la consulenza di Cesare Zavattini. Soprattutto c’è uno straordinario circolo di intellettuali progressisti che era interessato a suscitare nello spettatore reazioni capaci di innescare una rivolta partendo da una riflessione non convenzionale sull’isola, di denunciare i mali della Sardegna, di convincere l’opinione pubblica del diritto della Sardegna ad essere risarcita, di provocare, di stimolare, per raccogliere le forze sane, smuovere la politica, avviare reazioni non di rigetto ma di amore più grande. Per mettere in evidenza l’estraneità di uno Stato esattore e inquisitore, l’assenza totale di investimenti.  Per sottolineare la distanza quasi schizofrenica tra il vecchio che permea di sé quasi tutta l’isola e il nuovo, che ancora non riesce ad affermarsi, se anche Cagliari, <<la città d’acqua>> di Giulia Clarkson è fatta di baracche cadenti a Santa Gilla, di casotti a Giorgino e di edifici distrutti dalle bombe a due passi dalla Rinascente, il luogo più amato da mia zia Vincenza, la nostra seconda madre, quando insegnava fino al 1958 al Dettori.

Il restauro della pellicola ci ha restituito il sapore originario, dopo che l’autore l’aveva profondamente rimaneggiata per poter essere accettata dai sardisti e dai democristiani che governavano la Regione Sarda durante la III e la IV legislatura sotto la presidenza di Efisio Corrias, come l’Assessore all’Industria e commercio: Pietro Melis (P.S.d’A.), ai Lavori pubblici Giovanni Del Rio, al Lavoro e pubblica istruzione Paolo Dettori, alla Rinascita Francesco Deriu.

Con la IV legislatura dal 26 luglio 1961 Paolo Dettori diventava Assessore all’ Agricoltura e foreste, Pietro Melis all’Industria e commercio: Giovanni Del Rio ancora ai Lavori pubblici: Francesco Deriu alla Rinascita.

Pietrino Soddu comparirà solo a conclusione di questa vicenda a partire dal 14 dicembre 1963 proprio come assessore alla rinascita in Viale Mameli, nello scorcio della IV legislatura e della penultima Giunta Corrias.

Fu Pietrino Soddu a venire incontro a Fiorenzo e a chiudere con un compromesso che certamente non riteneva esaltante la vicenda di questo documentario che sarebbe stato poi premiato a Firenze dall’Agis al Festival dei popoli.

Ma il capolavoro non è quello premiato, ma invece quello che la precedente Giunta Corrias non aveva gradito e che voleva impietosamente cestinare.

Tutta la vicenda è ora ricostruita in mille dettagli da Giuseppe Pilleri, Paola Ugo, Gianni Olla, Laura Pavone, Maria Margherita Satta, mentre la figlia Simonetta Serra ci racconta Fiorenzo, scomparso nel 2005, e lo fa con delicatezza e rimpianto.

Per parte mia voglio tornare indietro a 34 anni fa, quando presiedevo ad Isili per la prima volta gli esami di maturità al Liceo Scientifico: ero ancora un ragazzo timido e insicuro e mi spaventò l’arrivo dell’ispettore scolastico Fiorenzo Serra che percorreva in lungo e in largo tutta la Sardegna per verificare la regolarità degli esami: l’armonia in commissione, le modalità delle prove, la qualità dei docenti, l’impegno nella compilazione dei registri. Quando terminate le formalità di rito finalmente risalì sulla sua auto e se ne partì, rivolgendomi un sorriso affettuoso, trassi un respiro di sollievo. L’avrei rivisto più tardi mille volte a Sassari e a Nuoro in tante altre occasioni, soprattutto nelle serate trascorse al Rotary dove ci presentava i suoi cortometraggi, i suoi film, soprattutto quello davvero strabiliante sull’Ardia di Sedilo girato da Mario Vulpiani alla fine degli anni 50, un frammento che documenta tradizioni religiose che sopravvivevano prodigiosamente dall’età antica sul Tirso in ricordo dell’imperatore romano Costantino. Abbiamo rivisto recentemente quelle scene sempre con la sorpresa di scoprire una Sardegna arcaica, che attraversa i secoli, che però lentamente riesce a cambiare.

Del resto L’ultimo pugno di terra ha un prima e un dopo: basta vedere le immagini pubblicate da Delfino per la recente mostra alla British Academy di Roma per rendersi conto di come l’isola descritta da Thomas Asbhy nel 1906 fosse diversa, ancora più preistorica e selvaggia, una terra rimasta prodigiosamente quasi fuori dal tempo, chiusa nella sua identità, irrigidita nei suoi costumi millenari che rimandano ai Sardi Pelliti raccontati da Tito Livio durante la guerra annibalica, che abitavano ancora in capanne o in pinnette come a Paulilatino, che macinavano il grano nelle mole di pietra, che utilizzavano la corrente dei ruscelli per muovere i molini ad acqua. Quella mostra di un mese fa a Roma ci aveva comunicato la memoria fotografica di questa Sardegna archeologica, ma anche paesaggistica e demo-antropologica di un secolo fa, con quelle straordinarie immagini, che raccontano un passato che oggi sembra lontanissimo, ma che a sua volta era lontanissimo dalla prima vera documentazione uscita dalla Sardegna ad opera del can. Giovanni Spano. Sembrano trascorsi millenni, con un’isola che era in realtà una terra incognita, che finalmente si scopriva al mondo, vista da Ashby attraverso l’obiettivo e da Serra attraverso la cinepresa con mille curiosità, con passione, con competenza, con uno sguardo intelligente e partecipe. Una Sardegna lontana, segnata in tutte le sue regioni storiche da un paesaggio dell’età del bronzo, visto attraverso documenti inediti, che ci consentono oggi di ritrovare un mondo che pure ci appartiene nel profondo.

Questo lungometraggio segna un momento diverso, l’uscita dalla guerra: l’isola che abbandona i costumi tradizionali, anche se non a Desulo e in Barbagia; gli uomini sono vestiti con abiti di fustagno o in orbace, anche quelli più logori, recuperati con grandi pezze di stoffa colorata; ci sono tante storie dimenticate, le scene popolaresche come quelle di una stranissima partita a carte, i fumatori di sigaro, i. pastori che sostano per mangiare nel corso del lungo e faticoso viaggio verso i pascoli della pianura. Sono le donne che preparano con un atteggiamento quasi religioso il pane per i loro sposi, i pastori partono a dicembre sotto la prima neve e toneranno alla fine della primavera.

Come non pensare a Desulo e a Montanaru:

Deo affaca a su fogu solu solu

mentras chi forsas mulinas sos nies

penso a bois e canto una canzone,

suspirende ‘e sa rundines su olu.

E conto sas oras, numero sas dies,

de bos bider torrende in s’istradone.

Prima di potersi di nuovo affacciare sullo stradone, i pastori debbono condurre al pascolo i propri animali. E lo fanno con i fischi, i richiami gutturali rivolti al bestiame, che rimandano a una lingua perduta, che precede l’età romana. Ma c’è anche in questo documentario la lingua sarda, che riesce ad esprimere meglio emozioni e sentimenti. E poi la pesca negli stagni gestiti secondo un modello ancora feudale sotto gli occhi del Barone Carta, con i pescatori che indirizzano per la peschiera coi remi ma con difficoltà i fassonis di falasco, i paesi di mattoni di fango e paglia, i ladiris disfatti e cadenti, i lavatoi per le donne di Cabras, la nevicata, le automobili di un tempo lontano, come la giardinetta di mio padre incapace di superare i dislivelli, l’analfabetismo generalizzato, i rapporti sociali arcaici come quelli tra padroni e servi, l’incredibile scena del prete che conta il denaro offerto in dono agli sposi, le difficili elezioni politiche. La crisi mineraria, i licenziamenti di migliaia di operai, gli scioperi, i comizi dei learder comunisti, le gru abbandonate che si coprono di ruggine, i medaus del Sulcis riscoperti per necessità dai più poveri, le città in agonia, la ricchezza e i colori delle tradizioni locali, i Mamuhones di Mamoiada che in qualche modo ci invitano a tradurre la tradizione, è un’espressione di Franziscu Sedda, nel senso di mettere in rapporto l’idea di tradizionalità e di modernità per tradurre nell’attualità elementi provenienti da tempi e luoghi diversi. Questa finisce per essere l’essenza della vicinanza emozionale che lo spettatore di questo film prova dinanzi al travestimento dei mamuthones e alla loro danza ritmata dal suono dei campanacci. Quasi che ad ognuno di noi il suono e il ritmo tintinnante e grave al tempo stesso evochi frammenti di una storia lontana, lontanissima, ma reale, relitti di un passato che improvvisamente si risvegliano e si disvelano pur nel parossismo della finzione rappresentativa del teatro popolare. E questi lontani echi, questa storia antica e contemporanea al tempo stesso è raccontata in questo lungometraggio.

Che dire del commento che accompagna le immagini ? Per Antioco Floris il commento è qualche volta caratterizzato da un’enfasi retorica e da un’impostazione reboante fastidiosa, certo eredità dell’Istituto Luce, ma non mi sono sorpreso se nei giorni scorsi ne ho sentito un’eco ancora nel tono di voce di Bruno Pizzul che commentava i mondiali e la sconfitta dell’Argentina.

Come c’è un prima, allo stesso modo c’è un dopo: possiamo seguire le scene girate da Fiorenzo Serra sulla corriera della Sita che parte da Cossoine per Sassari attraversando Torralba e Bonnanaro con sullo sfondo Monte Arana o le immagini della nave che trasporta gli emigrati carichi di valigie di cartone legate con lo spago; o la  frase sul maledetto treno del mio paese, quanta gente hai portato via. Ce le ricordiamo quelle navi, come la Lazio, piccole, instabili, dove da bambini venivamo stipati come bestiame dai marinai napoletani. E’ questa la transumanza degli uomini che Fiorenzo voleva raccontare, in parallelo con la transumanza delle pecore. Come non pensare alle pagine scritte più di un decennio dopo sull’emigrazione da Gavino Ledda in Padre Padrone ? Noi oggi abbiamo le drammatiche pagine dedicate agli emigranti che partono per l’Australia: la miseria, il dolore, ma anche la rabbia di chi parte e di chi resta, in quello che l’autore descrive come un funerale doppio, dove i morti sono ancora vivi e dove gli abitanti di Siligo che rimangono accompagnano all’autobus, come al camposanto, i parenti che partono per sempre; e dove gli emigranti a loro volta pensano di partecipare al funerale di quelli che restano, condannati ad una miseria senza scampo. La cinepresa di Fiorenzo coglie il pianto dei parenti, la sofferenza profonda, il segno di una sconfitta di un popolo intero di fronte alla miseria del dopoguerra.

E c’è un dopo anche in tanta produzione cinematografica recente sulla Sardegna, come nel film Ballo a tre passi di Salvatore Mereu con le scene invernali girate su una spiaggia orientale che accompagnano la morte del vecchio pastore.

Eppure, nella Sardegna arcaica della fine degli anni 50 c’è prodigiosamente un’apertura internazionale di cui c’è qualche traccia in questo libro e che troviamo raccontata nel recente volume dedicato a Eugene Robert Black, per Kennedy il più grande banchiere della storia,  presidente della Banca Mondiale, protagonista della nascita della Cassa per il Mezzogiorno, sostenitore della cultura dello sviluppo, secondo il modello rappresentato dalla Tennesee Valley Autority, che ha ispirato già Antonio Segni. Ne ha parlato nei giorni scorsi ad Oristano Paolo Savona. Per molti studiosi la Cassa per il Mezzogiorno fu inizialmente una straordinaria intuizione politica, una grande idea di coesione e solidarietà, fondata su esperienze internazionali che sono alla base dell’idea stessa di rinascita all’interno di un’Italia che colmava vecchi squilibri storici.

Questo di stasera è solo un esempio, prezioso e vicino alla nostra sensibilità di oggi, di come la documentazione filmata sull’antropologia possa svilupparsi, attraverso strade nuove, che passano innanzi tutto per un rilancio di Sardegna digital library voluta da Elisabetta Pilia e Maria Antonietta Mongiu e per una valorizzazione degli archivi della Regione Sarda che possono essere davvero una miniera, da riscoprire al di là della documentazione burocratica, per ritrovare foto, filmati, documenti, relazioni che spiegano quello che oggi ignoriamo, banche dati legate anche alla storia della ricerca scientifica dentro e fuori le università, per riscoprire il ruolo che la Regione autonoma ha svolto nel tempo, ben al di là dell’arida rappresentazione di delibere, leggi regionali, regolamenti.

C’è molto da fare in particolare nel settore antropologico e mi auguro che possa sviluppasi una sinergia tra Associazioni, Enti, Università, Istituto Regionale Superiore Etnografico, i nostri colleghi specialisti di storia del cinema, Sardegnafilm Commission, i Cineclub di Sardegna film festival, la Cineteca Sarda, la Società Umanitaria, e così via. Oggi c’è un soggetto nuovo, un futuro protagonista, il Laboratorio di antropologia visuale dell’Università.. Proprio all’ISSRE si deve nel 1990 la prima proiezione pubblica de L’ultimo pugno di terra, premiato a Nuoro alla V rassegna internazionale di documenti etnografici e antropologici come miglior documentario etnografico.

Un anno fa  la Società Umanitaria Cineteca Sarda e il Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione hanno promosso un convegno su Fiorenzo Serra regista etnografico ed intellettuale che, a partire dagli anni ’50, ha realizzato tanti splendidi  documentari sulla Sardegna. Nella stessa occasione è stato presentato, nel teatro comunale della città, un cineconcerto intitolato Isura da filmà, Fiorenzo Serra e la Sardegna filmata in libertà; lo spettacolo è stato realizzato con la proiezione di numerosi spezzoni, girati tra gli anni ’50 e ’60 da Serra e appositamente montati da Marco Antonio Pani; la proiezione del documentario è stata accompagnata dalle musiche di Paolo Fresu e del suo complesso.

Nell’ambito dello stesso convegno sono stati affrontati, secondo differenti prospettive, sia i contesti storico-politici, sia le relative produzioni, sia i particolari e fondamentali interessi etnoantropologici sui quali Fiorenzo Serra ha realizzato gran parte della sua produzione cinematografica. In particolare, sono stati proiettati alcuni documentari chiaramente etnografici: Costa Nord (1954), Pescatori di corallo (1955), Nei paesi dell’argilla (1955), Artigiani della creta (1956), Sagra in Sardegna (1957), Maschere di paese (1962), L’autunno di Desulo (1966), Carbonia anno Trenta (1966), Un feudo d’acqua (1967), Dai paesi contadini (1967), La novena (1969).

Tutti figli di questo lungometraggio.

Oggi che la Sardegna torna a vivere una crisi profonda, oggi che le industrie volute dai politici della Rinascita chiudono una dopo l’altra come a Macomer la Tirsotex  o a Ottana o nel Sulcis, oggi che le zone interne rischiano di diventare il covile di disperati senza lavoro, oggi che la disoccupazione giovanile avanza dappertutto anche in città, questo film di Fiorenzo Serra può davvero tornare al centro del dibattito sul futuro di una Sardegna nuova, che riesca a compatirsi, ad amarsi e a reagire per affermare i diritti di tutti.




Inaugurazione della nuova sede della Biblioteca Universitaria.

Attilio Mastino
L’inaugurazione della nuova sede della Biblioteca Universitaria
Sassari, 8 luglio 2014

Voglio esprimere la più grande soddisfazione della comunità accademica perché la ‘nostra’ Biblioteca universitaria trova una splendida collocazione in questo edificio, l’antico Ospedale SS. Annunziata,  uno dei luoghi dell’identità della città di Sassari, uno spazio rinnovato, ricco di suggestioni significative, adeguato ad accogliere una preziosa collezione di opere che documentano mille e mille curiosità, interessi, ricerche sviluppatesi nel tempo: voglio citare almeno quel  Condaghe di San Pietro di Silki che costituisce il documento iniziale della lingua volgare sarda e insieme testimonia la ricchezza delle eredità culturali classiche nel Regno del Logudoro giudicale.

Si incontrano nella giornata di oggi due storie, la storia dell’Università e la storia della biblioteca universitaria raccontata da Tiziana Olivari e Marisa Porcu Gaias, iniziate insieme oltre quattro secoli e mezzo fa col lascito che il nobile Alessio Fontana, funzionario della cancelleria di Carlo V,  riservò per il Collegio Gesuitico nel 1558. In realtà un’unica storia di collaborazione o addirittura di simbiosi, che oggi si rinnova.  Questo trasferimento a Piazza Fiume segna una tappa importante ma non interrompe un rapporto e una storia lunga di cui siamo orgogliosi.

Questo spazio colloca la Biblioteca e l’Università nel cuore della città, con le epigrafi e i busti che rendono merito alle famiglie locali benefattrici dell’Ospedale SS. Annunziata, quasi a sancire in maniera significativa il senso del profondo legame che nei secoli ha unito Sassari al suo Ateneo. Un legame che, qui e oggi, si consolida ulteriormente per diventare tangibile in questo magnifico complesso monumentale.

In questi locali, i sassaresi hanno trovato cure e assistenza. Magnificamente ristrutturati e ‘rifunzionalizzati’ per rispondere alla nuova destinazione, ospiteranno da oggi l’imponente patrimonio librario accumulato nei secoli, diventeranno un luogo vivo, un laboratorio di idee, un centro di ricerca aperto e inclusivo.  Università e Ospedale, solennemente inaugurato nel 1849 –   hanno  condiviso per più di un secolo storia e uomini, che all’università si formavano come medici, professori, uomini di legge, amministratori della cosa pubblica. Solo pochi anni fa gli ultimi  “Giapponesi”, i medici dell’Istituto di malattie infettive dell’Università che hanno abbandonato l’Ospedale per la nuova clinica che nelle prossime settimane finalmente inaugureremo. Dunque la collocazione della  Biblioteca  in questo edificio si pone in una linea di continuità che ci rende orgogliosi.

Voglio dire che la Biblioteca, pur abbandonando gli spazi occupati fin dal 1611 nel Palazzo dello Studio Generale in cui ha sede il Rettorato, non si separa dall’Università. Nella sua nuova collocazione, essa rappresenta anzi un’ideale proiezione della missione dell’Ateneo nel tessuto sociale ed urbanistico del territorio: una missione di produzione, conservazione e disseminazione del sapere che oggi rappresenta senza dubbio la più alta prospettiva di sviluppo anche per l’economia locale, se è vero che la Sardegna deve aumentare rapidamente il numero degli studenti universitari e dei laureati.

Da tempo la Biblioteca Universitaria, sopravvissuta prodigiosamente fino ai nostri giorni, ha assunto una funzione preziosa di documentazione della produzione editoriale, con particolare riferimento a quella isolana. Tale missione si è rivelata complementare a quella svolta dalle altre nove biblioteche specialistiche dell’Ateneo ora raccolte nel Sistema Bibliotecario, che sono dedicate alla formazione dei nostri studenti, alla crescita dei nostri dottorandi e all’attività di ricerca dei nostri docenti.

Il Sistema Bibliotecario dell’Ateneo di Sassari ha agito ed agirà in simbiosi con la Biblioteca Universitaria, alla quale resteranno riservate le funzioni istituzionali definite nell’ambito del Sistema Bibliotecario Nazionale.  Chiediamo oggi che da parte della Direzione Generale e del Demanio si pensi in tempi brevi alla cessione all’Università degli antichi locali storici in Piazza Università, che debbono mantenere  la stessa destinazione d’uso, impegnandosi l’Ateneo a investire i  fondi Fas disponibili per una completa ristrutturazione in continuità della missione svolta e nel rispetto della testimonianza storica incarnata dagli arredi, dagli scaffali e dagli affreschi originali che caratterizzano quegli ambienti.

Oggi, pertanto, non si ratifica una separazione: la nuova collocazione della Biblioteca Universitaria rinnova piuttosto quell’antica promessa di alleanza tra l’Ateneo e la città, caratterizzata dallo spirito di condivisione di radici culturali e prospettive storiche comuni.

Grazie a coloro che tanto si sono adoperati per la giornata di oggi, le direttrici che si sono succedute fino a Maria Rosaria Manunta, il personale bibliotecario, la Direttrice generale delle Biblioteche Rossana Rummo, la Direttrice Regionale Maria Assunta Lorrai, il Ministro Dario Franceschini e la nostra carissima sottosegretaria Francesca Barracciu. Senza dimenticare il Presidente della repubblica Giorgio Napolitano, che il 21 febbraio 2012 aveva risposto all’intervento del Rettore con il quale sollecitavamo il completamento del Palazzo di Piazza Fiume destinato a ospitare i 300 mila volumi della Biblioteca Universitaria.

Vogliamo che questo diventi il luogo di incontro e di crescita culturale per le nuove generazioni di giovani dell’età digitale, erediti una storia di prestigio e di qualità, vogliamo che il nostro Ateneo, i nostri Dipartimenti, i nostri corsi di laurea si leghino sempre di più alle iniziative portate avanti dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo in difesa del patrimonio. Noi frequenteremo queste sale ospiti dei nostri amici bibliotecari con i quali in tanti abbiamo contratto nel tempo un debito di riconoscenza che non si dimentica. Auguri a tutti.

Il Sistema Bibliotecario dell’Ateneo di Sassari è costituito da nove biblioteche che offrono un servizio organico e coordinato di consultazione, di prestito e di  ricerca di fonti per una media di 56 ore di apertura per settimana (con punte di 84 ore presso la Biblioteca dedicata ad Antonio Pigliaru). Ma, soprattutto, le nostre biblioteche sono diventate punti di incontro e di studio dei nostri giovani ed assolvono ormai un ruolo multifunzionale di aggregazione e condivisione nel panorama formativo e culturale della città.

Il patrimonio documentario delle biblioteche universitarie è costituito da:

  • oltre  600.000 monografie ed altre collezioni;
  • oltre 3.750 periodici cartacei;
  • circa 37.000 periodici elettronici a testo pieno;
  • circa 60 banche dati online ed oltre 9.000 libri elettronici.

Nel solo 2013 il Sistema ha garantito oltre 115.000 prestiti brevi e lunghi e più di 5.500 trasferimenti di documentazione bibliografica da e verso altri atenei del paese. Ogni anno l’Ateneo investe circa 1,5 milioni di euro solo per il potenziamento e la conservazione delle collezioni di monografie e dei periodici cartacei e on line messi a disposizione dell’utenza. Così come nella Biblioteca Universitaria anche nel nostro sistema abbiamo riservato postazioni speciali e attrezzature dedicate alla consultazione delle nostre collezioni da parte degli utenti affetti da disabilità.




Incontro con la Commissione Parlamentare per la nascita dell’Ospedale Bambin Gesù – Qatar Foundation.

Attilio Mastino, Rettore dell’Università di Sassari
Incontro con la Commissione Parlamentare per la nascita dell’Ospedale Bambin Gesù – Qatar Foundation
Olbia, 4 luglio 2014

Caro Presidente Pier Paolo Vargiu, cari deputati, ho molto apprezzato il fatto che l’incontro con la Commissione parlamentare per la nascita del nuovo Ospedale sia stato promosso all’interno di questo straordinario Museo archeologico, che testimonia la qualità ambientale del futuro di Olbia, lo spessore storico, il collegamento tra medicina, salute e cultura, nel segno di Eracle e delle ninfe. Sono presenti per conto dell’Università di Sassari la Presidente della Facoltà di Medicina e Chirurgia prof.ssa Ida Mura, il Prorettore delegato alla sanità prof.ssa Maristella Mura, il direttore del Dipartimento di scienze biomediche prof. Andrea Montella, il consigliere d’amministrazione prof. Francesco Meloni, la prof.ssa Maura Pugliatti, membro del tavolo tecnico per la ricerca.

L’Università di Sassari ha seguito con attenzione e viva simpatia l’azione del Presidente Pigliaru sull’accordo con la Qatar Foundation  (investitore) e l’Ospedale Bambin Gesù (partner scientifico) nell’ex San Raffaele di Olbia, che sarà accreditato nella rete ospedaliera regionale come Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS).

L’Università è stata rappresentata nel tavolo tecnico sulla ricerca di eccellenza, con la prospettiva di sinergie e integrazioni, candidandosi come partner scientifico e come punto di riferimento integrato per l’alta formazione e la didattica.

L’Università ha molto apprezzato il voto unanime della Giunta e della Commissione regionale Sanità, che colma il vuoto pressoché assoluto della sanità privata nella Sardegna settentrionale, recupera un Gap di carenze storiche nel territorio  e decreta la nascita di un nuovo qualificatissimo polo sanitario.

Dunque ci stiamo decisamente avviando su una strada nuova, superando ogni dubbio e perplessità sugli effetti che le nuova organizzazione potrà determinare sulle tradizionali eccellenze sanitarie della Sardegna.

L’investimento ad Olbia, già per la sua entità e per la dimensione internazionale, può essere una straordinaria occasione di modernizzazione della sanità in Sardegna a condizione che le attività assistenziali siano progettate d’intesa con il territorio e con le Università, per evitare inutili doppioni e per legare la formazione degli operatori sanitari, l’alta formazione, la ricerca e l’assistenza. Non pensiamo a forme di concorrenza, ma pensiamo all’integrazione e alla costante consultazione tra specialisti, soprattutto per garantire la funzionalità dei corsi di laurea, dei dottorati e delle scuole di specializzazione, sempre con l’occhio rivolto alla salute dei cittadini.

Francamente non credo che i generosi investitori del Qatar siano animati solo da obiettivi legati al profitto economico e alla rendita: penso che l’occasione da loro offerta possa essere una  straordinaria opportunità per dare un’accelerata al servizio sanitario regionale, che ormai vivacchia cercando ogni giorno di superare gli infiniti ostacoli e gli innumerevoli vincoli burocratici.

E’ una vergogna che l’Azienda Ospedaliera universitaria, istituita nel luglio 2007, non abbia ancora oggi un atto aziendale che ne definisca la struttura. Non intendiamo presentarci al confronto in posizione di debolezza. E’ per questo che abbiamo chiesto ai diversi assessori regionali che si sono succeduti di approvare finalmente l’Atto aziendale, ormai definito nelle sue linee essenziali.  E’ una vergogna che la legge 517 non abbia trovato ancora completa attuazione in Sardegna a distanza di 15 anni.

Chiediamo che si ponga fine ai viaggi della speranza e alla migrazione passiva verso gli ospedali della penisola. In I commissione del Consiglio Regionale abbiamo posto il tema della coesione territoriale, che significa riequilibrio nei modelli di sviluppo, negli investimenti e nei servizi sanitari tra il Nord e il Sud dell’isola.

L’Università con la sua Facoltà di Medicina e Chirurgia che vanta secoli di storia non vuole rinunciare  ai suoi  522 posti letto, alle sue 30 strutture assistenziali complesse, ai suoi 4 dipartimenti assistenziali, perché l’alta formazione ha assoluta necessità di interagire con l’assistenza e la pratica medica, ha necessità di nuove strutture e di tecnologie di altissimo livello.

Credo che l’investimento ad Olbia, con la costruzione della nuova strada di collegamento con Sassari,  possa essere l‘occasione per ripensare anche l’assistenza sanitaria pubblica in chiave moderna, per accreditare adeguatamente tutte le strutture specialmente quelle di eccellenza, per spendere rapidamente tutte le risorse disponibili, come i 95 milioni dei fondi FAS per il nuovo ospedale universitario. Insomma, dobbiamo tutti cambiare passo, accelerare, accettare la sfida, legare ancora di più le ASL di Nuoro, Oristano, Olbia e Sassari all’Università.

L’Ateneo firmerà accordi di collaborazione con la nuova struttura ospedaliera, disporrà comandi e incarichi per i nostri docenti, programmerà la chiamata degli abilitati, chiederà di partecipare ai tavoli tecnici sulla ricerca e sull’assistenza, senza riserve, ma con la voglia forte di far crescere la qualità dell’assistenza in Sardegna e perseguire l’eccellenza.  Con generosità e impegno, anche con la consapevolezza che anche i docenti universitari debbono fare di più a livello di produttività scientifica.

Resta la preoccupazione dell’evidente sottodimensionamento della spesa sanitaria pubblica nella Sardegna settentrionale, a causa del basso livello di PIL pro capite, con la prospettiva che vorremmo fosse scongiurata del taglio di posti letto nelle ASL e nelle AOU, in rapporto alla razionalizzazione della rete ospedaliera sul territorio e al perverso meccanismo che determinerà uno squilibrio nella attribuzione dei DRG.

Durante gli incontri a Cagliari, il Tavolo Ricerca ha di proposito sorvolato sulla questione-Sanità e sui reparti e sui posti letto della nuova struttura: i nuovi reparti di pediatria e chirurgia pediatrica, di ortopedia, urologia, chirurgia vascolare, terapia intensiva e post chirurgica, cardiologia, neurologia, ecc. ci si augura possano efficacemente interagire con i rispettivi reparti universitari.

Ma esiste evidente il tema della convivenza di nuove specialità che rischiano di sovrapporsi con le attuali unità operative di eccellenza di ambito ospedaliero pubblico. Siamo disposti ovviamente a parlarne.

Sono però da tener ben presenti iniziative che cercano da anni di decollare a Sassari (AOU Sassari) col forte impegno di colleghi e operatori sanitari e che a tutt’oggi soffrono di carenze di risorse materiali e umane (es., una ‘breast unit’, un centro per diagnosi e cura della sclerosi multipla, ma solo per citarne alcuni), e che sono di sicuro interesse per l’Ospedale di Olbia e possibile rapido sviluppo. Questi aspetti vanno sicuramente tutelati e possibilmente garantiti nelle strutture sanitarie del territorio.

Aree Tematiche Tecnologiche Scientifiche

Nell’ambito dell’iniziativa per l’acquisizione dell’Ospedale San Raffaele di Olbia, la Qatar Foundation ha espresso il suo interesse a programmi di ricerca scientifica volti a migliorare le conoscenze nei settori biomedici strategici per il sistema sanitario in Sardegna e in Qatar e al tempo stesso inseriti in un contesto di rilevanza scientifica a livello internazionale. A tal fine, si perseguirà l’integrazione dei futuri progetti di ricerca svolti presso il costituendo Ospedale di Olbia con le eccellenze scientifiche operanti nel territorio Sardo. Quale principale consulente di indirizzo clinico e scientifico, la Qatar Foundation intende avvalersi dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù con l’obiettivo di creare le condizioni per trasformare il costituendo ospedale in un Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) nei tempi e con le modalità regolatorie previste.  E’ evidente che anche le due Università si candidano come consulenti scientifici della nuova struttura.

Al fine di perseguire i suddetti obiettivi la Regione Sardegna ha costituito un Tavolo Ricerca a carattere consultivo con rappresentanti dell’Università di Cagliari, Sassari, del CNR e del CRS4. A conclusione delle riunioni del Tavolo al quale hanno partecipato anche rappresentanti della Qatar Foundation, dell’Ospedale Bambin Gesù e della Regione Sardegna, dedicate alla definizione di obbiettivi scientifici comuni, sono state individuate le seguenti aree tematiche tecnologiche scientifiche:

AREE TEMATICHE SCIENTIFICHE

  1. 1. Genetica (genetica di popolazione e di malattie)
  2. 2. Malattie neurodegenerative (ad es., sclerosi laterale amiotrofica, paraparesi spastiche familiari, demenze, malattia di Parkinson)
  3. 3. Malattie autoimmuni (ad es., ad es., sclerosi multipla, diabete mellito di tipo 1, tireopatie, lupus)
  4. 4. Malattie metaboliche, ematologiche e oncologiche del bambino
  5. 5. Malattie oncologiche dell’adulto (ad es., tumore della mammella)
  6. 6. Malattie correlate allo stile di vita e disordini complessi (ad es., obesità, disordini metabolici, steato-epatite non alcolica)
  7. 7. Riabilitazione (ad es., neuro-riabilitazione)
  8. 8. Medicina dello Sport
  9. 9. Invecchiamento

STRUTTURE DI SUPPORTO

  1. 10. Potenziamento dei registri di malattia e dei sistemi di raccolta di dati sanitari a livello di popolazione
  2. 11. Piattaforme e Sistemi informatici e di analisi statistica di dati biomedici ad alto flusso (ad es., dati epidemiologici e genetico-molecolare)

PIATTAFORME TECNOLOGICHE

12. Cell factory/CMO

13.  Metagenomica e proteomica

Aree Tematiche Tecnologiche Scientifiche: Opportunità

–         Individuazione di comuni aree di interesse nella ricerca medica tra Dipartimenti di Medicina (Sassari) e Qatar Foundation

–         Possibilità di collaborazione dei Dipartimenti di Medicina con un (futuro) IRCCS

–         Sviluppo tecnologico e risorse finanziarie per svolgimento di aree di ricerca in comune tra i Dipartimenti e la QF

–         Formazione specifica teorico-pratica di alto livello per gli studenti di Medicina e delle Professioni Sanitarie

–         Incremento della produzione scientifica e degli indici di produttività

Aree Tematiche Tecnologiche Scientifiche: Criticità

–         Necessità di sinergie tra Ricerca c/o l’Ospedale Olbia e Ricerca c/o Dipartimenti Universitari di Medicina: necessità di disegnare una rete regionale di ricerca scientifica di eccellenza in ambito medico di cui il Bambin Gesù di Olbia dovrà far parte

–         Necessità di comprendere bene il ruolo del Bambin Gesù di Roma nel Partenariato Qatar/Istituzioni Sarde (Università)

–         Necessità di comprendere bene il ruolo della Regione Sardegna nel Partenariato Qatar/Istituzioni Sarde

–         E’ a tutt’oggi difficile comprendere la relazione tra le Aree Tematiche di Ricerca e le Aree Assistenziali che verranno attivate al Bambin Gesù. Vi è corrispondenza e/o dipendenza oppure no?

Aree Tematiche Tecnologiche Scientifiche: Alcune Proposte

–         Necessità di ampliare il Tavolo Ricerca con un numero maggiore di Referenti dei Dipartimenti di Medicina (es., includendo i referenti dei comitati di Ricerca nominati dal Consiglio di Dipartimento) nelle fasi decisionali e operative del Partenariato

–         Necessità di un censimento delle aree di ricerca di eccellenza c/o Dipartimenti di Medicina, Università di Sassari

–         Mappatura dei servizi, grandi attrezzature, know-how a disposizione nei Dipartimenti

–         Nell’ottica dello sviluppo di un Polo di Ricerca di Eccellenza a Olbia e della possibilità di collaborare con i Dipartimenti di Medicina, necessità di ridurre il ‘divide’ tra le due realtà verso una collaborazione paritaria e efficace:

  • Individuazione delle criticità e dei limiti della Ricerca c/oi Dipartimenti
  • Garantire l’upgrade delle posizioni dei docenti con abilitazione scientifica nazionale alla I e alla II fascia (es., contributo finanziario alla ‘chiamata’ in servizio dei docenti con abilitazione?)
  • Garantire l’arruolamento di ricercatori a tempo determinato (RTD)

–         Offrire la doppia affiliazione (Dipartimento Universitario di Sassari e IRCCS-Olbia) ai docenti dei Dipartimenti di Medicina di Sassari per reciproco incremento della produttività scientifica




Intervento davanti alla Prima Commissione del nuovo Consiglio Regionale (con il contributo del Prorettore prof. Omar Chessa).

Intervento davanti alla Prima Commissione del nuovo Consiglio Regionale
(con il contributo del Prorettore prof. Omar Chessa)
Cagliari, 10 giugno 2014


1. La guida, il faro del progetto riformatore delle istituzioni sarde dovrà essere l’art. 5 della Costituzione repubblicana. Questa disposizione – pur con la premessa che la repubblica è una e indivisibile – «riconosce e promuove le autonomie locali (…) e adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento».

Anche se nella prima parte si riferisce espressamente solo alle «autonomie locali», per la dottrina non ci sono dubbi che l’intento dei costituenti fosse quello di sancire un generale «principio autonomistico», quale chiave di volta della costruzione repubblicana. Da un lato, infatti, si afferma il carattere unitario della Repubblica – nonostante la sua formulazione articolata – dall’altra, come una sorta di contrappeso, si afferma che l’unità repubblicana deve conseguirsi e preservarsi nel rispetto e sviluppo del principio autonomistico, in tutte le sue declinazioni: cioè come autonomia politica-amministrativa degli enti territoriali (Regioni ed enti locali sub-regionali), come autonomia funzionale (evocata dall’art. 33, ult. comma, della Costituzione, a mente del quale «le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato»), come autonomia personale (cui si richiama l’ampia previsione delle liberta fondamentali e dei diritti sociali).

Non per caso il «principio autonomistico» rientra tra i «principi supremi dell’ordinamento repubblicano», ossia è un elemento identitario essenziale della nostra forma di stato democratica ed è, per questa ragione, sottratto alla stessa possibilità della revisione costituzionale.

2. Ciò premesso, non c’è alcun dubbio che la specialità regionale sia la realizzazione più intensa del principio autonomistico.

 

Sappiamo che in base all’art. 116 della Costituzione «il Friuli Venezia giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige e la Valle d’Aosta dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con leggi costituzionali». Da anni si discute se abbia ancora un senso che, accanto alle regioni ordinarie, ci siano cinque regioni speciali provviste di condizioni particolari di autonomia, garantite da statuti che hanno la forma e il rango di leggi costituzionali (e che perciò sono un “pezzo” della costituzione repubblicana). Sta di fatto, però, che la legge costituzionale n. 3 del 2001, cui si deve un’ampia riforma del Titolo V della Costituzione italiana, ha sostanzialmente riconfermato la formulazione del previgente art. 116, comma primo, ribadendo pertanto le ragioni della specialità regionale.

Sotto questo profilo, il fatto che talune Regioni godano di «forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale», non è un retaggio tralatizio o un corpo estraneo rispetto ai principi di fondo e alla logica che sottendono il diritto regionale italiano. Al contrario, è parte integrante del progetto autonomistico che anima la riforma del Titolo V e che animava l’impianto regionalista delle origini. Calata in questa prospettiva, la specialità è nient’altro che la realizzazione più intensa e la massima espressione del principio costituzionale di autonomia, sancito nell’art. 5 della Costituzione.

Sennonché va detto che il nuovo Titolo V non solo ribadisce la specialità regionale, ma sottolinea la necessità di un suo «adeguamento». Non per caso l’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 prevede che le norme di maggiore autonomia contenute in questa legge si applichino alle regioni speciali, appunto, «fino all’adeguamento» dei loro statuti. La vigenza degli attuali statuti speciali è quindi riguardata come una situazione transitoria, il cui superamento porterà a compimento la riforma del regionalismo italiano. Per certi versi l’adeguamento degli statuti speciali è un obiettivo da cui dipende l’attuazione stessa del Titolo V nel suo spirito di fondo: questo prefigura sì la specialità come la forma di massima autonomia riconosciuta dal diritto regionale italiano, ma a condizione che quanto prima si realizzi una coerente modifica del regime costituzionale delle regioni speciali.

3. A ben vedere, le criticità non mancano. È legittimo chiedersi se la specialità sarda abbia mantenuto, nei decenni della sua vigenza, tutte le sue promesse: quanto è realmente “speciale” la Sardegna? In quale misura realizza un sistema differenziato e autonomo, più competitivo rispetto al complesso delle altre regioni italiane? Proverò a rispondere considerando quattro versanti: l’autonomia statutaria, legislativa, locale e finanziaria.

Inizio con l’autonomia statutaria. È ovviamente opportuno distinguere i due versanti dello Statuto propriamente detto e della Legge statutaria.

Per quanto riguarda il primo versante, qui di certo non ci troviamo dinanzi a un inveramento del modello differenziato-competitivo: la forma costituzionale dello statuto speciale non solo non è espressione di maggiore autonomia (negativa o positiva) rispetto a quanto goduto dalle regioni ordinarie, ma non è neppure espressione di autonomia tout court. Non è un atto di autonomia. Il rilievo è così diffuso e condiviso in dottrina che non merita di essere approfondito oltre.

Quanto alla legge statutaria, la potestà di adottarne una è sicuramente una forma di minore autonomia rispetto alla potestà statutaria delle regioni ordinarie: basti pensare che, diversamente dagli statuti ordinari, le leggi statutarie di regione speciale non sono competenti in materia di «principi di organizzazione e funzionamento» (ciò implica che – diversamente dagli statuti ordinari – le leggi statutarie non dispongono del procedimento legislativo regionale).

Vengo all’autonomia legislativa. Sul piano delle potestà legislative, se guardiamo alla prassi avallata dalla giurisprudenza costituzionale, non esiste una vera differenziazione tra regioni ordinarie e speciali. Anche in seguito alla riforma del Titolo V la Corte ha adottato un orientamento interpretativo che ha progressivamente smussato le differenze tra regioni ordinarie e speciali, sicché il rapporto che la funzione legislativa dello stato ha con le funzioni legislative della regione speciale sarda non differisce granché da quello che ha con le funzioni delle regioni ordinarie. Grosso modo e semplificando moltissimo, quello che lo Stato può fare nei confronti delle competenze delle regioni ordinarie lo può fare anche nei confronti delle competenze delle regioni speciali: il sistema complessivo dei limiti statali alle competenze legislative regionali è sostanzialmente il medesimo per le regioni ordinarie e speciali (analogia tra il modo in cui opera il limite delle norme fondamentali di riforma economico-sociale nelle materie di potestà regionale primaria e i titoli statali d’intervento trasversale nelle materie di competenza regionale residuale).

Per quanto riguarda l’autonomia locale. Qui registriamo una forte differenziazione rispetto alle regioni ordinarie, grazie all’interpretazione riduttiva fornita dalla Corte costituzionale all’art. 10 della legge cost. 3/2001. A seguito di questa lettura, nelle regioni speciali si è realizzata una situazione paradossale: il sistema delle autonomie locali sub-regionali non gode delle medesime garanzie che gli sono riconosciute nelle regioni ordinarie, dal principio di sussidiarietà, alle potestà normative locali. Insomma, gli enti locali delle regioni ordinarie sono più garantiti degli enti locali delle regioni speciali: gli spazi di autonomia di cui possono godere sono più ampi.

4. Dopo l’analisi critica occorre la proposta costruttiva. L’Ateneo turritano, che rappresento, ritiene che il disegno riformatore debba essere ampio e organico. Deve scaturire da un progetto unitario che tenga conto di tutte le criticità segnalate sopra e che offra una soluzione complessiva. Non bisogna cedere alla tentazione di proporre riforme settoriali, come se il volto della nuova specialità regionale sarda possa essere la giustapposizione di tanti, diversi, piccoli aggiustamenti parziali, inevitabilmente scoordinati per via della loro episodicità: è invece necessario un grande piano riformatore unitario, che sappia valutare le profonde connessioni sistemiche tra i vari problemi sui quali si dovrà intervenire.

Fatta questa premessa di metodo, illustro ora, in modo più puntuali, le riforme che l’Università sassarese suggerisce.

5. Posto che attualmente lo Statuto speciale è una legge costituzionale, cioè una legge statale alla cui formazione concorre in modo poco incisivo la Regione interessata, occorre una riforma che accresca sensibilmente il ruolo della regione nella decisione delle modificazioni statutarie, fino al punto di rendere determinante il suo consenso.

Ovviamente si deve conservare la natura costituzionale dello Statuto speciale: poiché questo deroga alla disciplina costituzionale comune, bisogna che sia incorporato in una fonte di pari grado. Trattandosi però di una fonte di rango costituzionale, lo statuto speciale non può certo essere una determinazione autonoma della regione; una determinazione, cioè, che esclude il contributo decisivo del Parlamento nazionale. Sarebbe, infatti, irrealistico pretendere dallo Stato che sia la Regione sarda a definire unilateralmente il proprio regime costituzionale dei rapporti col resto delle istituzioni repubblicane. Di conseguenza, in quanto legge costituzionale di competenza del Parlamento, continuerà ad essere un atto statale. Tuttavia, in coerenza con la declinazione intensa del principio autonomistico di cui si è detto, tale atto non può essere imposto alla regione, ossia adottato contro la sua volontà: il suo contenuto deve essere condiviso dalla Regione.

Ebbene, il procedimento di revisione dello statuto dovrà essere adeguato al principio secondo cui le modificazioni dello statuto debbono essere determinate col consenso della regione.

6. Si è detto che la specialità è (deve essere) la forma più intensa di autonomia compatibile con l’unità e l’indivisibilità dell’assetto costituzionale repubblicano. Ciò implica il diritto di concorrere alla determinazione del proprio regime costituzionale, in posizione di parità con il Parlamento nazionale. Se, etimologicamente, l’autonomia è il dare leggi a se stessi, l’autonomia speciale è il dare leggi costituzionali a se stessi, o perlomeno contribuire in modo decisivo alla loro formazione.

Tuttavia, se non viene riempita di contenuti, l’autonomia è solo una mera “possibilità di fare” e, alla fine, solo un guscio vuoto, di cui non s’intravede la funzione e l’utilità. Sicché il riconoscimento formale di poteri ulteriori ha senso solo se questi vengono esercitati per promuovere il valore della differenza, ossia per valorizzare una peculiarità e un tratto identitario.

Seguendo coerentemente quest’impostazione, l’ordinamento costituzionale differenziato della Sardegna dovrà porsi come obiettivo non soltanto quello, storico, di rimuovere una condizione economica di arretratezza e di sottosviluppo, ma anche quello di preservare e sviluppare l’identità sarda. Di qui la necessità di disposizioni statutarie di principio che, per un verso, fondino la possibilità di un governo autonomo della cultura, della lingua, dell’insegnamento, del territorio e del paesaggio sardi; e per l’altro prescrivano ai poteri regionali l’obbligo costituzionale di tutelare la specificità linguistica, culturale e paesaggistica della Sardegna.

A tale fine, si propone che il nuovo Statuto di autonomia includa i seguenti principi fondamentali:

– I valori e la cultura comunitari che costituiscono il patrimonio storico dei Sardi sono espressione di una originale identità e riconosciuti come un contributo fondamentale all’unità repubblicana dell’Italia.

– La Regione, i comuni e le province della Sardegna sono le istituzioni del governo autonomo dei Sardi. I loro rapporti sono improntati ai principi di leale collaborazione e di sussidiarietà. Più precisamente vale il principio di coesione territoriale indirizzato al riequilibrio e al sostegno alle aree più svantaggiate.

– La Regione collabora lealmente all’esercizio delle funzioni delle istituzioni repubblicane e contribuisce all’integrazione europea, anche attraverso proprie specifiche rappresentanze negli organi della Repubblica italiana e dell’Unione europea.

– La Regione tutela e sviluppa la lingua e la cultura dei Sardi, rispettandone le molteplici espressioni; concorre allo sviluppo della ricerca scientifica e della formazione universitaria; organizza l’istruzione garantendo a tutti la formazione e la crescita culturale.

– La Regione preserva il territorio, il paesaggio e le identità dell’Isola.

– La Regione promuove tutte le azioni necessarie per integrare pienamente la Sardegna nelle grandi reti di comunicazione e di distribuzione dell’energia, superando lo svantaggio dell’insularità.

7. Una questione nodale è il rapporto che dovrà instaurarsi tra Statuto speciale e Legge statutaria.

Per inquadrare correttamente il tema occorre anzitutto sottolineare una differenza strutturale tra i due atti sotto il profilo del principio autonomistico. È vero che attraverso la disciplina pattizia del procedimento di revisione statutaria lo Statuto sarà probabilmente destinato a divenire l’atto con cui la Regione sarda negozia con lo Stato la propria posizione costituzionale. Però è anche vero che si tratterà pur sempre di un atto bilaterale che non ricadrà interamente nella nostra disponibilità. Potrà essere modificato solo se c’è il consenso dei Sardi, ma a questo dovrà comunque aggiungersi il consenso delle istituzioni politiche nazionali.

Al contrario, la Legge statutaria è atto interamente deciso dal processo politico regionale, perché è approvato – come sappiamo – con una legge regionale rinforzata. Per tale ragione occorre finalizzare la revisione dello Statuto speciale alla valorizzazione più estesa possibile della Legge statutaria. In altre parole, la revisione dello Statuto dovrà servire soprattutto per porre la Legge statutaria nella condizione di fare ciò che attualmente le è precluso. A tal fine occorrerà estendere la competenza della Legge statutaria ben oltre i confini attuali; e ben oltre gli stessi confini che cingono la potestà statutaria delle regioni ordinarie[1].

Ciò dovrà avvenire in due modi: a) varando una massiccia decostituzionalizzazione di materie che altrimenti sarebbero di rango statutario; b) sancendo espressamente la prevalenza della Legge statutaria sulla legge regionale ordinaria, in ogni materia di competenza regionale.

8. Per quanto riguarda l’autonomia legislativa della Regione sarda, occorrerà raggiungere un accordo su un nucleo duro di competenze normative non scalfibili dal legislatore nazionale. Senza alcuna pretesa d’esausitività se ne suggeriscono alcune, soprattutto tenendo conto di quanto detto prima con riguardo ai principi che caratterizzano la specialità sarda in senso culturale-identitario. Sicché la Regione dovrà avere potestà legislativa esclusiva nelle seguenti materie:

–              tutela e valorizzazione dei beni culturali immateriali e materiali e del patrimonio;

–              insegnamento della lingua e della cultura sarda;

–              governo del territorio e tutela del paesaggio;

–              organizzazione della giustizia di pace;

–              porti e aeroporti civili;

–              sviluppo economico regionale e locale, sistema tributario sardo e patto di stabilità interno;

–              tutela della salute;

–              istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche

–              ordinamento, legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali degli Enti locali»

Ovviamente, l’esercizio di queste competenze legislative dovrà avvenire nel rispetto di tutti i vincoli che la Costituzione repubblicana pone a carico di tutte le potestà legislative, siano esse statali ovvero regionali. Oltre a questi vincoli, però, non ve ne dovranno essere altri, stabiliti in Statuto, come accade per quello ora vigente. Pertanto nel testo di riforma non dovranno più figurare i limiti alle potestà legislative sarde, costituiti da: l’«interesse nazionale», i «principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica» e le «norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica».

Inoltre, il legislatore sardo sarà, ovviamente, tenuto al rispetto dei «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» (art. 117, primo comma, Cost.). Tuttavia lo Statuto dovrà contemplare l’intervento regionale sia nella fase ascendente di formazione del diritto comunitario, sia nella fase discendente attuativa. A tale proposito si potrebbe prevedere che la Regione nelle materie in cui ha competenza partecipi con propri rappresentanti alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e alla stipula degli accordi internazionali; e che nello stesso modo partecipi alla formazione degli atti comunitari e internazionali che trovano applicazione nel proprio territorio.

9. La disciplina dei principi in tema di autonomie locali dovrà essere una delle parti più qualificanti e innovative del nuovo Statuto speciale. Su questo versante si giocherà una partita decisiva per il rilancio della specialità.

Come si è detto, la specialità avrà ancora un senso se costituirà un’espansione del principio autonomistico sancito dall’art. 5 della Costituzione. Questo però riguarda non solo l’autonomia regionale, ma altresì l’autonomia di tutti gli enti territoriali di cui la Repubblica si costituisce. La specialità perciò dovrà essere un’espansione di tutte le autonomie territoriali costituzionalmente riconosciute. Diversamente non sarebbe una realizzazione più intensa dei principi di equiordinazione, sussidiarietà e leale collaborazione (cioè del “sistema”del Titolo V), ma – ancora una volta – un elemento spurio rispetto a questi, se non proprio la loro negazione.

In coerenza con questa linea guida, il nuovo Statuto dovrà, per un verso, recepire i “principi di sistema” di cui sopra, con ciò colmando il gap che separa il nostro regime speciale dal regime comune; per l’altro offrirne una declinazione più intensa.

In particolare, l’innovazione più sensibile dovrà riguardare il Consiglio delle Autonomie Locali (CAL). Il nuovo Statuto dovrà raffigurarlo come organo necessario della forma di governo regionale e, ovviamente, come organo rappresentativo delle autonomie sarde, sia quelle degli enti territoriali sub-regionali, sia quelle “funzionali”, come – ad esempio – le Università sarde.

Sotto il profilo della dotazione funzionale del CAL lo Statuto dovrà predisporre una disciplina che corregga sensibilmente la portata dell’art. 123, ultimo comma, Cost., laddove prevede il CAL come «organo di consultazione tra Regione ed Enti locali». In particolare è necessario che lo Statuto speciale riqualifichi il CAL sardo, superando eventuali limiti che possono discendere dalla sua espressa definizione costituzionale quale «organo di consultazione». A tale fine si può prevedere che il CAL partecipi al procedimento di formazione delle leggi regionali con un ruolo consultivo rafforzato, cioè con il potere di rendere parere vincolante nelle materie di interesse locale e sui progetti di modifica dello Statuto speciale e della Legge statutaria, e che il detto parere – qualora fosse negativo – possa essere superato solo da una nuova deliberazione del Consiglio regionale a maggioranza qualificata. Inoltre, dovrà godere del potere di iniziativa legislativa e del potere di richiedere alla Giunta regionale l’impugnazione di leggi statali lesive delle competenze locali e delle autonomie funzionali.

10. È soprattutto con riferimento al tema della forma di governo che deve emergere il carattere minimale della disciplina statutaria.

La riscrittura dello Statuto speciale dovrà prendere atto che la determinazione della forma di governo sarda è una scelta che spetta interamente al processo politico regionale. Ciò che lo Statuto speciale dovrà fare è semmai rafforzare e ampliare il margine di scelta riservato alle istituzioni politiche rappresentative dei Sardi, creando la condizione perché tale processo decisionale si esprima nel modo più libero e ampio possibile.

A tal fine, sarà necessario che lo Statuto si limiti ad individuare gli organi costituzionali della Regione e le loro funzioni fondamentali, rimettendo tutto il resto alla competenza della Legge statutaria. Quest’ultima, pertanto, salvo i vincoli espressamente previsti dal nuovo Statuto, potrà determinare liberamente la forma di governo regionale, senza soggiacere ai limiti che sono attualmente previsti dall’art. 15 del vigente Statuto. In particolare verrà meno il vincolo costituito dalla regola del simul stabunt simul cadent nei rapporti tra Presidente e Consiglio. Sarà il legislatore sardo di riforma a decidere se conservare questa regola o se superarla nella prospettiva di una diversa configurazione del sistema dei rapporti tra le istituzioni politiche che rappresentano i Sardi.

11. L’art. 59 dello Statuto dell’Autonomia dell’Università di Sassari pubblicato il 22 febbraio 2014 disegna le Relazioni con la Regione Sardegna: «L’Ateneo è aperto al confronto con la Regione Sardegna allo scopo di inserire l’attività universitaria nei processi di sviluppo, operando per il progresso culturale, civile, economico e sociale della Regione e per diffondere nel territorio le conoscenze scientifiche e le esperienze didattiche più avanzate a livello internazionale. Stipula con la Regione un’intesa triennale che consenta di interagire positivamente con le politiche regionali e di indirizzare gli investimenti sugli obiettivi strategici di medio e lungo termine nel campo dell’alta formazione, della ricerca, del trasferimento tecnologico, dell’assistenza, con definizione di meccanismi competitivi e di forme di premialità». L’articolo 12 indica come obiettivo la promozione del progresso: «L’Ateneo promuove il libero confronto delle idee e la diffusione dei risultati scientifici anche allo scopo di contribuire al progresso culturale, civile, sociale ed economico, operando in una prospettiva internazionale e favorendo lo sviluppo sostenibile e la tutela dell’ambiente, intesi come un unico sistema di risorse naturali, sociali ed economiche.

L’Ateneo ritiene che la conoscenza sia un bene comune e ne favorisce pertanto libera circolazione e la più ampia diffusione; a tal fine, esso promuove l’accesso aperto alla letteratura scientifica, sostiene pratiche di condivisione e di contenuti aperti e lo sviluppo del sistema bibliotecario di Ateneo.

In particolare, può partecipare alla definizione delle politiche pubbliche e delle scelte fondamentali relative allo sviluppo territoriale e può agire in accordo con gli operatori economici, il mondo produttivo, gli ordini professionali, i sindacati e le altre espressioni del mondo della cooperazione, del volontariato e del terzo settore.»

12. Un punto specifico che vorrei segnalare in questa sede è la posizione assunta dall’Università di Sassari in materia di lingua sarda, in forza proprio dell’art. 59 dello Statuto: «L’Ateneo promuove la tutela e la conoscenza dei beni e delle fonti dell’identità locale, con particolare riferimento alle lingue delle minoranze e alla lingua sarda nelle sue articolazioni territoriali, alle risorse naturali, ai beni storici, culturali, ambientali, paesaggistici e architettonici, ai saperi e alle tradizioni locali».

Voglio ribadire oggi che l’Ateneo è fortemente impegnato per la difesa della lingua sarda e delle altre lingue del territorio come lingue dell’oggi e del domani, come segni di identità e come elementi distintivi per le culture e per le tradizioni della Sardegna. L’Ateneo promuove il plurilinguismo, ma per la lingua sarda chiede – così come recitano le linee guida approvate dalla Regione – che si parta dalle radici, che si rispettino e si valorizzino le varietà locali in una reale ottica di protezione delle minoranze, che si difendano i territori senza atteggiamenti di dirigismo linguistico che sarebbero nefasti, pur in una prospettiva di semplificazione ortografica e, sul piano scritto, di standardizzazione progressiva.


[1] Non bisogna dimenticare, infatti, che rebus sic stantibus la potestà statutaria delle regioni ordinarie è, per estensione ed incidenza, più ampia della competenza che gli Statuti speciali riservano alla Legge statutaria.




Claudio Martelli, Ricordati di vivere.

Claudio Martelli, Ricordati di vivere.
Sassari, 29 maggio 2014

Il titolo di questo libro Ricordati di vivere si collega in maniera singolare all’esigenza che l’autore manifesta pressantemente negli ultimi anni di ricordare le proprie radici, di recuperare  la formazione filosofica tanto amata ma che rischia di finire per essere quasi una gabbia di tipo intellettualistico che poteva rischiare di mettere in secondo piano  emozioni e impegni personali tale dai rallentare il flusso della vita activa intesa come impegno politico forte deciso e pratico soprattutto quando Martelli raggiunge l’apice della carriera politica, esercitando dopo Claudio Vassalli il ruolo di Guardasigilli; Primum vivere, deinde philosophari recita la massima, attribuita ad Hobbes, ma di sicura derivazione classica (già presente all’interno della Politica di Aristotele nella contrapposizione tra vita attiva e otium speculativo). O non sarà alla rvescia, un rimpianto per aver trascurato la vita vera per inseguire la politica ?

Giunto ora all’otium dopo la guerra combattuta, Martelli sente il dovere di testimoniare,m di spiegare, di ricollegare tanti fili sparsi, di dare una sua versione che sveli retroscena e ragioni profonde.

Certo è che questa autobiografia di Martelli nella sua prima parte può essere considerata un romanzo di formazione, la formazione di un giovane, laureatosi in filosofia all’Università di Milano e forse destinato alla carriera universitaria che parallelamente segue un percorso politico prima con i repubblicani mazziniani, poi con l’adesione nel 1966 all’Unità socialista e le particolarità del suo ‘68; seguono la brillante ascesa nella direzione nazionale del partito socialista di Craxi (1976), l’elezione a deputato nel 1979 (collegio di Mantova e Cremona) e la vicesegreteria insieme a Valdo Spini in occasione del Congresso PSI a Palermo del 1981. E’ l’epoca delle definizioni che tutto sommato segnano una carriera politica e rimangono a volte spiacevolmente connotative: l’enfant prodige (mi chiedo quante volte stasera verrà usata questa espressione un poco sbrigativa e non più di moda, almeno per Renzi), il giovane rampante, in un quadro storico, quello del passaggio dagli anni ottanta ai novanta del secolo scorso estremamente complesso. La difficile trattativa sull’abolizione di quattro punti della scala mobile (1984), la figura di Craxi vincente e anche un po’ supponente a livello politico, l’Italia dell’imprenditoria e in parallelo l’ambiente icastico della “Milano da bere” costituiscono un milieu dal quale Martelli sembra essere abbastanza equidistante, con la definizione di enfant prodige cucita addosso, egli prosegue la sua ascesa politica: Vicesegretario unico del PSI (1984), Europarlamentare, nuovamente Deputato ( 1987), Vicepresidente del Consiglio (1989 Governo Andreotti).

Il pater Craxi incombente, sullo sfondo rende la biografia di Martelli difficile da leggere sul piano psicologico: senza voler arrivare a ipotizzare un rapporto edipico, l’amicizia e l’affetto reciproco del pater verso il filius politico e  viceversa si trasformano in abbandoni, rinfacciati reciprocamente, in recriminazioni dell’entourage craxiano, in pietas del figlio nei confronti del proprio antico mentore stanco, malato e quasi alla fine, nella villa di fronte alle fortificazioni di Sousse sul mare di Hadrumetum in Tunisia.

 

Del resto i momenti maggiormente interessanti della carriera di Martelli corrispondono ad un progressivo affrancamento da Craxi e tutto sommato appaiono anticipatori di tematiche di grande attualità: il decreto legge sull’immigrazione (legge Martelli 1990) pur con i suoi limiti (soprattutto espulsione, nascita dei primi centri di accoglienza che in qualche modo daranno origine alle strutture antidemocratiche dei  Centri identificazione ed espulsione della Bossi-Fini) rappresenta un punto di partenza in merito all’accoglimento e alla precisazione della figura dei rifugiati politici e dei richiedenti asilo.

A mio parere dal punto di vista umano e professionale il rapporto con Giovanni Falcone rappresenta nella storia di Martelli, dal 1991 Ministro di Grazia e Giustizia, un luminoso momento di crescita e devo dire che furono assai coraggiose le scelte dell’allora Ministro nel volere il magistrato a capo della Direzione Generale degli Affari Penali e nel coinvolgerlo come protagonista nella progettazione della Direzione Nazionale Antimafia: Martelli e soprattutto Falcone dovettero subire attacchi durissimi, il Ministro fu accusato da pentiti del calibro di Angelo Siino e Nino Giuffré di aver operato in contrasto rispetto alle tradizionali linee della politica socialista in Sicilia, se Martelli veniva accusato dai pentiti di perseguire una politica molto dura di lotta alla mafia ( lo definirono “crastu” = cornuto insieme a tutti gli altri socialisti).

Del resto di recente, dopo il drammatico scontro a distanza con l’ex ministro Mancino, circa il supposto ruolo del Ros dei carabinieri in una trattativa con Vito Ciancimino, Martelli è tornato a parlare delle tante stranezze nei rapporti tra apparati dello Stato e personaggi molto discussi, già condannati per mafia, come Ciancimino, un tema scottante che tante polemiche ha suscitato e suscita anche in rapporto ad una delegittimazione dei magistrati antimafia come attualmente accade per Nino di Matteo.

E’ francamente sorprendente come questo impegno tanto forte e una carriera così importante abbiano subito una brusca battuta di arresto nel 1993 nell’era di Tangentopoli, quando esplose quello scandalo che ancora oggi lascia l’amaro in bocca in quanti credono nella civiltà della politica “bene comune”. Le dimissioni da  Ministro di Grazia e Giustizia di Martelli segnano una cesura, una ferita che non si rimargina.

Ciò che emerge da questo libro è un ritratto fatto di contraddizioni, di grandi slanci ideali, di precipitose cadute, di coraggio, di voglia di ricostruirsi continuamente, di riannodare i fili di un’esistenza personale e politica analizzata con severità ma anche con un po’ di sana indulgenza per le proprie debolezze, spesso anche sotto i riflettori del gossip. Ma credo che Martelli, e la giornata di oggi lo dimostra, abbia ancora molto da dire per il futuro del nostro Paese.