Tomasino Pinna (1949-2016)

Tomasino Pinna (1949-2016)

Tomasino Pinna è scomparso il 25 giugno dopo otto mesi di terribili sofferenze iniziate il 30 ottobre con l’incidente in Ogliastra: a 66 anni di età, lascia nel dolore Luciana e Adriano, ma anche tanti amici di una vita che, come me, lo conoscevano da quasi cinquanta anni, partendo dai luminosi anni della Facoltà di Lettere di Cagliari, dove era cresciuto alla scuola di Alberto Mario Cirese e della sua Clara Gallini.

Ho consultato in questi giorni lo stato matricolare di Servizio elettronico, rilasciatomi dall’Area del settore personale dell’Università: dopo i 15 anni trascorsi alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Cagliari, si era trasferito il 20 aprile 1988 a Sassari come ricercatore confermato a tempo pieno nel gruppo di discipline n. 30, assegnato all’Istituto di Antichità, Arte e discipline etnodemologiche della Facoltà di Magistero. Supplente di Storia delle religioni ininterrottamente dal 1991 (quasi sempre a titolo gratuito), dal 1992 era passato all’Istituto di studi etnoantropologici della Facoltà di Lettere e Filosofia  e poi dal I gennaio 1999 al nostro Dipartimento di Storia.

Nel 2004 aveva superato il difficile concorso di professore associato di storia delle religioni e aveva preso servizio il 23 dicembre  ancora come non confermato presso il Dipartimento di storia, titolare di Storia delle religioni M-STO/06.

Superato il giudizio di conferma in ruolo, il 23 dicembre 2006 diventava professore associato a tempo pieno. Una malattia lo aveva obbligato a mettersi in congedo straordinario per motivi di salute per tutto il 2010. Con decorrenza I gennaio 2012 aderiva con tutti noi al nuovo Dipartimento di storia, scienze dell’uomo e della formazione, ancora come professore associato confermato di storia delle religioni in Sardegna e di Storia delle religioni.

Dopo l’incidente a fine 2015 si era messo in congedo straordinario e in aspettativa per malattia, arrivando nel frattempo alla V classe stipendiale.

Al momento della scomparsa, lascia tra i colleghi, gli studenti, i laureandi il ricordo di un uomo buono e generoso, coerente con se stesso, severo anche con gli amici, rigoroso nel suo lavoro di ricercatore pieno di curiosità, di passioni, di interessi, che partivano dal mondo antico con il Satyricon di Petronio (l’arbiter elegantiarum) per arrivare a Gregorio Magno e poi all’inquisizione spagnola e giungevano addirittura ai nostri giorni. Sempre con l’impegno di ritrovare in tutte le società complesse i sistemi mitico-rituali inquadrabili entro la categoria della “magia”, delle “superstizioni” e del “sacro” nelle tradizioni popolari della Sardegna.

Con quel suo linguaggio criptico scriveva per me: <<La diversità dei referenti sacri non nasconde le somiglianze dei bisogni e dei meccanismi ierogenetici sottesi alla regolazione rituale di rapporti conflittuali>>.

Eravamo molti diversi come formazione, lui così laico e razionale (una delle sue ultime lezioni all’Università della terza età il giorno di martedì grasso del 2014 era stata sul tema “Cos’è la religione! Qualche teoria e qualche risposta”). Eppure proprio questa nostra diversità aveva consentito di scrivere insieme l’articolo sul preside della Sardegna Massimino, amico nel IV secolo d.C: di un mago sardo capace di evocare le anime dannate e trarre presagi dagli spiriti (Negromanzia, divinazione, malefici nel passaggio tra paganesimo e cristianesimo in Sardegna: gli strani amici del preside Flavio Massimino, in Epigrafia romana in Sardegna. Atti del I Convegno di studio, Sant’Antioco, 14-15 luglio 2007 (Incontri insulari, I), a cura di F. Cenerini e P. Ruggeri, Carocci Roma 2008, pp. 41-83): lì avevamo studiato ancora le terribili bithiae, dalla doppia pupilla, i violatori delle tombe, i sistemi di divinazione oracolare riconosciuti ai massimi livelli ufficiali nell’ecumene romana (che dimostrano come la Sardegna comunicasse con la cultura diffusa nell’impero), gli altri metodi divinatori, come il rito ordalico-giudiziario legato alle acque prodigiose, che presenta, come spesso avviene in ambito rituale, una valenza polisemica, in quanto svolge una doppia funzione: divinatoria e terapeutica insieme. Le fonti calde e salutari (le Aquae Lesitanae, le Aquae Ypsitanae con il santuario delle Ninfe e di Esculapio, le Aquae calidae Neapolitanorum) servivano per guarire le fratture delle ossa, per neutralizzare l’effetto del veleno del ragno detto “solifuga” e per guarire le malattie degli occhi; ma servivano anche come mezzo per scoprire i ladri, i fures: costretti al giuramento sull’accusa di furto, se essi giuravano in modo falso dichiarandosi innocenti, al contatto con quelle acque diventavano ciechi, mentre la vista diventava più acuta se avevano giurato il vero.

Insomma, era tornato alle tematiche che più l’avevano appassionato da ragazzo, sotto l’influenza della Gallini, sulle religioni del mondo classico.

Dopo la pace religiosa e l’affermazione del cristianesimo, <<i riti magici e divinatori persisteranno in Sardegna, in un contesto sincretistico, nei secoli successivi, e così i malefici, le evocazioni dei morti e le formule cristianizzate di maledizioni, con una impressionante stratificazione culturale. Ci troviamo di fronte a quella che è stata definita una “mobilitazione magica del pantheon cattolico”, in cui l’orizzonte religioso cristiano viene recepito e reinterpretato in base alle esigenze dei gruppi che vi ricorrono (i banditi, i ladri, i maléfici), che filtrano sulla base dei loro interessi la percezione e l’utilizzazione dei santi e dei simboli cristiani, piegati alle esigenze connesse ai loro specifici problemi e ai loro vissuti esistenziali>>.  Alcuni santi gli sembravano <<invocati e ritualmente coinvolti (in un rapporto definito nei termini della costrizione magica) ad agire come potenza di morte contro i nemici: lontani eredi del Marsuas dell’óstrakon di Neapolis, delle divinità infere delle tabellae defixionum e delle anime noxiae dell’amico sardo di Massimino>>.

E poi Julia Carta, la “strega” perseguitata di Siligo, che aveva studiato nel celebre volume del  2000 della EDES e ripreso per me nel 2003. E il nostro contrasto dialettico sul tema “Culture egemoni e culture subalterne” del vecchio lavoro di Cirese, come a proposito del suo articolo sui linguaggi simbolici subalterni o sul diavolo nell’orizzonte magico subalterno. In un mondo attraversato dal terrorismo islamista (che osservavo da Herat in Afganistan), capivamo entrambi che queste categorie risultavano ormai da superare, la realtà finiva per essere più complessa delle formule. E poi San Nilo di Rossano (Edizioni Parallelo, 2011), la sorprendente amicizia con Ileana Chirassi Colombo, che considerava la più grande storica delle religioni italiana; i nostri amici comuni. Con Raimondo Turtas si scambiavano recensioni più o meno affettuose, come a proposito di Gregorio Magno o sulla storia della chiesa in Sardegna (2008), lui sempre attento alle reinterpretazioni popolari e alla repressione inquistoriale, come a proposito del culto dei morti e dei santi.  Tra le mie carte ho ritrovato i suoi estratti su Il diavolo di Sorigueddo con documenti scovati presso nel 1998 l’Archivo Histórico Nacional di Madrid e  Un auto de fe in Sardegna del 2000.
Due anni fa mi aveva regalato il libro che più amava, scritto da Ernesto De Martino, dedicato alla crisi causata dalla morte, che esplodeva nel pianto rituale nel mondo antico e che riproponeva il tema della riduzione antropologica del sacro (nell’edizione del 2008): ne avevamo discusso a lungo, riflettendo sul tema della presenza e dell’assenza, che finisce per essere una delle categorie sulle quali costruire un’idea diversa di Sardegna, partendo dagli “eroi” del rito incubatorio della Fisica di Aristotele e dai Giganti di Mont’e Prama, per i quali secondo Tomasino doveva presupporsi un apparato ideologico-celebrativo, che si concentrava a partire dal prestigio sociale riconosciuto dalla comunità dell’estrema età nuragica ai giovani rappresentati sulle statue.

Tra i suoi lavori più recenti: Il viaggio del signor inquisitore (Bollettino di Studi Sardi), 2014; la monografia Il sacro, il diavolo e la magia popolare. Religiosità, riti e superstizioni nella storia millenaria della Sardegna pubblicata nel 2012 da EDES; nel 2007 aveva pubblicato lo straordinario capitolo Magic in  The Blackwell Encyclopedia of Sociology.

Un suo allievo il 28 giugno ha scritto su “Il Manifesto”, come ci segnala Sandra Parlato: <<Ho un ricordo personale di Tomasino Pinna perché è con lui che ho sostenuto l’ultimo esame prima di laurearmi. E quando mi ha chiesto con chi avessi intenzione di preparare la tesi mi rammaricai di non averlo incontrato prima. Ricordo bene il suo corso di Storia delle religioni, le sue dispense su Bourdieu, fino al suo appassionato spiegare la disposizione delle caste e infine il suo libro imperdibile in cui ha ricostruito la storia di Julia Carta, una donna che nel 1596 è stata accusata di stregoneria dall’inquisizione. Quel volume ha contribuito alla storia delle tradizioni popolari in Sardegna e non solo. Oltre alla storia della stregoneria, tutta. Tomasino Pinna se ne è andato in silenzio, come in silenzio e con un sorriso gentile e garbato ha vissuto la sua esistenza. Con una grande finezza di pensiero che spesso, anche se non necessariamente, viene a incontrarsi con una certa dose di umiltà. Non ha strepitato o sbraitato neppure quando, non più tardi del 2012, la prefettura di Sassari negò al comune di Siligo, in cui era vissuta Julia Carta, la dedica di una via. In fondo cosa c’era da intitolarle, così disse la prefettura, era pur sempre una strega, un pessimo esempio e non certo una martire, piuttosto una appartenente a un “giro oscuro”. Consultato in quel frangente, si  limitò a ribadire cosa aveva fatto sotto il profilo della ricostruzione storico-scientifica, un lavoro di anni basato su documenti raccolti a Madrid. Insomma, la via poteva esserle intitolata di certo, ma non era questo il punto della vicenda. Era invece, come è anche adesso, raccontare la storia di chi non ha avuto voce per poi constatare amaramente che, una volta compiuta l’impresa, c’è sempre qualche cortocircuito che riporta al punto di partenza>>.

Oggi non apprezzerebbe un discorso sulle virtù del defunto.

Ma faremo tesoro della sua lezione alta e profonda.

Attilio Mastino




La Brigata Sassari compie cento anni: la vicenda di Graziano Mastino e la battaglia di Monte Zebio ad Asiago (7 luglio 1916). L’amicizia con Emilio Lussu Presentazione del volume del Maggiore Gerardo Severino, a Sassari e a Bosa.

GERARDO SEVERINO
con la collaborazione di Paolo Mastino

E GRAZIANO ANDÒ ALLA GUERRA !
BREVE STORIA DI UN TENENTE DELLA
“BRIGATA SASSARI”

Delfino Editore Sassari

Chi ha assistito agli avvenimenti di quel giorno, credo che li rivedrà in punto di morte.

Mentre la nostra mitragliatrice sparava, il bombardamento cessava. Il nemico aveva attaccato nello stesso istante in cui l’artiglieria sospendeva il tiro

Emilio Lussu a Monte Fior il 7 giugno 1916 (Un anno sull’Altipiano)

PRESENTAZIONE

Questo straordinario volume dedicato a Graziano Mastino sotto-tenente della prima “Brigata Sassari”, scritto dal Maggiore Gerardo Severino (direttore del Museo Storico della Guardia di Finanza) racconta una storia come tante, nell’anniversario della “Grande Guerra” che in questi mesi abbiamo iniziato a ripercorrere: leggendo queste pagine sono rimasto colpito dalla ricchezza della documentazione e dalla capacità dell’autore di indagare, di scoprire verità nascoste, di ricostruire episodi che conoscevamo solo superficialmente e per tradizione familiare.

Rimane forte una gratitudine, un apprezzamento, una riconoscenza perché ora tanti tasselli sparsi si riuniscono restituendoci un mondo che aveva subito un’irreparabile perdita di senso.

In questi giorni ho voluto sfogliare ancora una volta Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu, che mi emoziona sempre, per quell’«accento inconfondibile di verità» che ispira ogni pagina: si ritrovano personaggi e situazioni che rimandano al dramma della guerra, alla vita in trincea, all’inutile assalto che si accompagna alla certezza della morte inevitabile, con il perenne contrasto tra il riso e il pianto che caratterizzano tanti momenti davvero paradossali o addirittura grotteschi.

In famiglia era sempre rimasto un dubbio, quello che il tenente Mastini raccontato da Emilio Lussu, suo giovane compagno di università a Cagliari, caduto a Monte Zebio nel luglio 1916, fosse effettivamente Graziano, il fratello di Attilio, mio nonno.

Questo libro straordinario dimostra tante cose, illumina tanti aspetti, racconta la piccola storia di un giovane ventitreenne, partito volontario, che amava la cultura classica: un giovane sotto-tenente che sull’altopiano di Asiago, nel cuore della guerra, citava Ettore, Achille, Diomede, riprendeva i versi di Omero dall’Iliade e dall’Odissea. Scherzava sul vino e sul cognac che riusciva a infondere coraggio ai soldati destinati alla morte, anche a causa dell’incompetenza dei comandanti. Ripercorriamo ora i momenti della sua morte avvenuta un secolo fa, mentre Lussu piange l’amico che all’improvviso non c’è più, quasi lo raccoglie mentre il destino irrevocabile lo travolge.

Sullo sfondo rimangono quelli che sarebbero stati gli sviluppi successivi, il tema dell’indipendentismo della Sardegna, il movimento dei combattenti, la nascita del Partito Sardo, l’antifascismo di Attilio, gli stretti legami di parentela con l’avvocato nuorese Pietro Mastino, deputato già dal 1919, fondatore due anni dopo con Emilio Lussu e Camillo Bellieni del PSd’Az, nel secondo dopoguerra componente dell’Assemblea Costituente.

Ma questo non è un libro sulla nostra famiglia: nell’anno che apre le manifestazioni per ricordare la Grande Guerra, è innanzi tutto un libro su un ufficiale della “Brigata Sassari”, un’istituzione militare oggi di veri professionisti, alla quale ci legano tante storie comuni e con la quale prosegue un impegno che si sviluppa sempre più sul piano umanitario, operativo e militare, in tanti teatri diversi.

Sono stato recentemente in Afganistan, subito dopo aver letto il bel libro di Elisabetta Loi e Pier Luigi Piredda Sotto il cielo di Herat: la Brigata Sassari in Afghanistan, che ci parla del cielo basso e sconfinato di una terra che abbiamo imparato ad amare, all’interno di una società difficile, che però oggi inizia a concepire tante speranze. Quelle immagini, quei colori, quel cielo ci rimandano al romanzo di Khaled Hosseini Il Cacciatore di Aquiloni, ambientato a Kabul negli anni dell’intervento militare sovietico e nei tragici momenti successivi: con un’emozione che taglia le gambe sono raccontati i problemi dei rapporti con i Talebani, il futuro dei monumenti storici sintetizzato dalla devastazione dei Budda patrimonio dell’umanità, tanti luoghi, tanti fiumi, tanti laghi, montagne e ambienti naturali di un paese che abbiamo iniziato a conoscere. Ho osservato dall’elicottero la splendida città di Herat che si vuole corrisponda a quella Alessandria Aria fondata da Alessandro Magno nel suo viaggio verso l’India misteriosa e irraggiungibile, la Moschea blu e l’antica cittadella Arg, recentemente restaurata, costruita in pisé di terra, questi straordinari mattoni di fango e paglia solidi e capaci di regolare la temperatura.  E poi i quattro altissimi minareti dell’antica Scuola coranica, la madrassa e il musalla distrutti dai Britannici, l’oratorio e il vicino Mausoleo della Regina Gawarshad, le mura dell’originaria vastissima fortificazione islamica. I luoghi italiani in Afghanistan: Bala Morgab, Herat, Farah, Campo Arena.

Ma ovviamente conosciamo gli altri impegni della Brigata, in Sardegna e fuori della Sardegna, in tanti altri teatri operativi. E credo che si faccia bene oggi a interrogarsi sul senso di questo impegno e sul futuro della Brigata, per quei territori nei quali la Brigata ha speso risorse e ha pagato in qualche caso anche con il sangue, soprattutto presso quelle popolazioni che si trovano in difficoltà e che non vorremmo fossero abbandonate. E dunque penso che il volo degli aquiloni che riprende nel cielo di Kabul sia l’immagine più viva che possiamo concepire, dopo questo periodo lunghissimo di guerra e di devastazione, proprio nei giorni in cui esplode l’irrazionale terrorismo criminale che ha come epicentro il califfato islamico del Daesh.

Infine vorrei veramente cogliere l’occasione per evidenziare l’attenzione con la quale la Sardegna segue le attività della Brigata, che sente come un elemento identitario legato all’Isola, legato alla vita delle famiglie, legato alla nostra Regione, in un momento in cui si torna a parlare di sovranità della Sardegna. Rinnoviamo, anche con questo volume, il senso di appartenenza, il valore di un rapporto profondo, il contenuto di relazioni, le radici lontane della Brigata, dalle quali bisogna partire per camminare verso un mondo nuovo fondato sulla pace, per aprire orizzonti di cooperazione, contro le chiusure e le intolleranze, verso una nuova dimensione internazionale, per una classe dirigente che sia all’altezza delle sfide alte e nobili che ci attendono. Per un dialogo tra popoli, per profonde relazioni tra culture diverse in un mondo globale che chiede rispetto per tutti e che respinge la guerra.

Attilio Mastino

L’AUTORE

Gerardo Severino. Il Maggiore della Guardia di Finanza Gerardo Severino è nato a Castellabate (Salerno) il 26 ottobre del 1961. Arruolato nel Corpo nel 1981, vi ha percorso una brillante carriera operativa che, fra l’altro, lo ha visto impegnato anche presso il Tribunale di Palermo alle dirette dipendenze del compianto Giudice Giovanni Falcone. Promosso ufficiale per meriti eccezionali nel 2003, dopo aver prestato lungamente servizio presso il Gruppo d’Investigazione sulla Criminalità Organizzata (GICO) di Roma, è stato posto alla direzione del Museo Storico del Corpo, nonché a capo di due Sezioni dell’allora Ufficio Storico del Comando Generale della Guardia di Finanza. Il Maggiore Severino è autore di numerosi libri, saggi ed articoli di storia militare e locale, molti dei quali pubblicati dalle principali riviste italiane ed internazionali. Molti dei suoi libri sono stati acquisiti dalla prestigiosa Libreria del Congresso Americano, così come da altre Librerie internazionali. Notevole è, poi, la sua competenza nell’ambito delle ricerche storiche necessarie per le proposte di conferimento di ricompense civili o militari alla Bandiera di Guerra del Corpo, ovvero ai singoli militari. In tale ambito, varie sono state, infatti, le proposte che portano la sua firma. Anche grazie alla sua attività sono stati recentemente ricordati le centinaia di Fiamme Gialle cadute in Istria e Dalmazia, spesso vittime delle foibe. Per l’eccezionale contributo offerto al panorama culturale italiano, soprattutto nell’ambito del servizio svolto presso il Museo della Guardia di Finanza sin dal 1994, nel febbraio 2000 è stato insignito dal Presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi della Medaglia d’Argento dei Benemeriti della Scuola della Cultura e dell’Arte, su proposta del Ministro per i Beni e le Attività Culturali e dal Presidente Giorgio Napolitano dell’onorificenza di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, il 27 dicembre 2013. Per gli stessi motivi gli sono state conferite, da alcuni Stati Esteri, altre prestigiose onorificenze. Attualmente ricopre l’incarico di Capo della Sezione Storia del Corpo e Tradizioni Militari dell’Ufficio Storico e Affari Militari del Comando Generale della Guardia di Finanza, nonché l’incarico di Direttore del Nucleo di Ricerca al quale il Comandante Generale della Guardia di Finanza ha affidato il compito di ricostruire le azioni umanitarie delle quali si resero protagonisti i Finanzieri in favore dei profughi ebrei e dei perseguitati dal nazi-fascismo dopo l’8 settembre 1943. Innamorato da sempre della Sardegna, il Maggiore Severino è cittadino onorario di San Nicolò Gerrei (Cagliari) e di Chiaramonti (Sassari).




Nicola Tanda, 22 dicembre 1928 – Londra 4 giugno 2016

Nicola Tanda, 22 dicembre 1928 – Londra 4 giugno 2016

È scomparso ieri a 88 anni di età a Londra, assistito dal figlio Ugo, il nostro maestro e amico Nicola Tanda, presidente onorario della giuria del Premio Ozieri e attivo protagonista di altri importanti Premi letterari in Sardegna, punto di riferimento per tante generazioni di poeti e scrittori sardi. La lunga stagione di Nicola Tanda ha avuto molti successi e molta forza. Sullo sfondo c‘è una scelta non scontata, la progressiva codificazione e circolazione letteraria plurilingue che è alla base anche dell’edizione del Premio Ozieri negli ultimi anni.

Presiedeva il Centro di studi filologici sardi nato nel 1980 e ne ha diretto la collana, che continua a pubblicare (con la casa editrice Cuec) le edizioni critiche delle opere degli scrittori sardi. Il Centro promuove gli studi sulla cultura sarda e sulle lingue impiegate nell’uso scritto in Sardegna in epoca medioevale e moderna. Dirigeva inoltre la collana di letteratura sarda plurilingue “La biblioteca di Babele”, che ha scoperto progressivamente intelligenze nascoste, facendo emergere molti colleghi, allievi, autori non sempre noti. Dal 1997 faceva parte del Consiglio direttivo nazionale dell’Associazione Internazionale per gli Studi di Lingua e Letteratura Italiana.

 

È stato professore di Letteratura italiana e di Filologia sarda presso le Facoltà di Magistero e poi presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Sassari, Presidente del Corso di laurea in Lettere, Direttore di Dipartimento. Era uno tra i maggiori esperti di Teoria della letteratura applicata a periodi di transizione come l’Umanesimo e l’Illuminismo. Nel volume Contemporanei ha offerto un quadro criticamente aggiornato della letteratura italiana del Novecento (1972). Ha proposto un’osservazione del fenomeno letterario italiano dal punto di vista dello spazio geografico e delle differenziazioni linguistiche “regionali”, una definizione sulla quale discutevamo e che poteva essere solo una tappa di un percorso ben più ambizioso. Ha pubblicato edizioni critiche della produzione letteraria contemporanea in sardo e in italiano.

È  il vero scopritore di Antonino Mura Ena, in particolare con il volume Recuida, un ritorno, un viaggio conoscitivo di riappropriazione condivisa della sua comunità d’origine. Per i poeti e gli scrittori sardi la terra-madre, appassionato oggetto di scrittura, non è stata semplicemente un luogo, ma il luogo, e anche l’altrove è stato sempre il qui adesso immerso nello spazio-tempo dell’isola. Il luogo d’origine diviene così l’unico luogo possibile e l’insieme delle opere letterarie ci restituisce, dunque, un’immagine dell’isola che è la testimonianza del modo in cui una comunità, attraverso la sua più alta espressione intellettuale, percepisce e intende la terra in cui si è nati e alla quale ci si è uniti, da un fortissimo legame di nostalgia e amore.  Ma dietro le pagine del capolavoro di Mura Ena rilette da Nicola Tanda, c’è la profondità di una storia, quando la parola poetante e narrante si fa memoria, ossia recupero di un mondo originario, ancestrale, primitivo. Quel mondo che nell’atto stesso della creazione artistica, paradossalmente ritorna ad essere centro e non più periferia. I pensieri e i ricordi si rapportano ai luoghi sentiti, percepiti sensorialmente ed emotivamente, luoghi vissuti e amati. Lo spazio fisico e naturale si traduce in luogo dell’anima, condizione dell’essere e dell’esistere, talvolta sentimento inesprimibile, ai limiti dell’incomunicabilità.

Nicola Tanda è stato battagliero membro dell’Osservatorio della lingua e della cultura sarda – istituito in applicazione della legge della Regione Sardegna n. 26 del 1997 e della legge dello Stato italiano 482 del 1999 – che tutela, difende, promuove la cultura, la lingua e la letteratura della Sardegna.
Tra le sue opere, quelle che più amava: Dal mito dell’isola all’isola del mito. Deledda e dintorni, Roma, Bulzoni, 1992; Un’odissea de rimas nobas: Verso la letteratura degli italiani, Cagliari, Cuec 2003. Nel 2007 aveva pubblicato con Dino Manca l’Introduzione alla letteratura, questioni e strumenti, Cagliari, Centro di studi Filologici Sardi / Cuec.

Ci mancheranno le sue frequenti visite a Palazzo Segni, la sua pazienza e un poco anche le sue sgridate. Abbiamo contratto nei suoi confronti un debito di riconoscenza che rende il dolore per la sua scomparsa ancora più grande. Ci aveva chiamato una settimana fa, quando partiva per Londra: lo avevamo sentito sereno e Ugo ci raccontava oggi che se ne è andato tranquillo, nel sonno, magari pensando da lontano alla sua terra, a Sorso innanzi tutto, alla Romangia e alla Sardegna. Credo senza il ripianto di non aver saputo parlar chiaro.

Nel momento in cui cessa una presenza costante per noi e inizia una assenza che pesa come quella di una persona ricca di idee e di voglia di costruire cose nuove, mi piace usare le parole di un poeta che amava, Orlando Biddau: se il comune sentiero dovesse biforcare, <<la tua assenza s’addolcirà nel tempo come sorba o dattero o corbezzolo, solo per il calore assicurato a una casa>>.

Attilio Mastino




Presentazione del volume di Paolo Savona: Dalla fine del laissez-faire alla fine della liberal-democrazia.

Presentazione del volume di Paolo Savona
Dalla fine del laissez-faire alla fine della liberal-democrazia.
L’attrazione fatale per la giustizia sociale e la molla di una nuova rivoluzione sociale
,

Rubettino, 2016
Sassari, martedì 31 maggio 2016

Solo la mia incoscienza può giustificare il fatto che io abbia accettato l’invito di Carlo Delfino e oggi sia seduto qui a questo tavolo a presentare questo difficile e ruvido volume  di Paolo Savona, un vero e proprio manuale per studiosi di economia, dedicato alla formazione dei giovani economisti, che in modo inusuale si muove lungo i secoli, attraversa la storia e si interessa delle radici filosofiche del pensiero politico, partendo da figure che amiamo, come Pericle, Platone, Aristotele ad Atene, Cicerone, Orazio e Marco Aurelio a Roma, Agostino a Ippona, fino ai grandi pensatori dei nostri tempi, tra i quali James McGill Buchanan scomparso negli Stati Uniti appena tre anni fa, Ralf Gustav Dahrendorf in Germania e Robert Nozick a Cambridge, ultimo dei 100 componenti il Pantheon dei liberali più amati dall’autore. Proprio in Inghilterra, nel Nuffield College dell’Università di Oxford del resto questo libro è stato scritto, a breve distanza da quel Christ Church College fondato dal Cardinale Thomas Wolsey sotto Enrico VIII, dove anch’io ho studiato per qualche tempo l’epigrafia romana, frequentando l’annessa cattedrale anglicana e mangiando nella grande sala decorata coi ritratti dei professori, con sulla tavola  i piatti e le posate che ostentano lo stemma cardinalizio cinquecentesco. Un rimpianto lontano per la chiesa di Roma.  Luoghi che amiamo per la dimensione raccolta dei centri di ricerca, degli archivi,  delle biblioteche, perfino dei musei, ma anche per i fiumi e i canali con le  gare di canottaggio, i ponti, i boschi, il verde dei prati, gli edifici gotici e medioevali, soprattutto per il silenzio e il rispetto verso chi è impegnato in una ricerca.

Ma questo lavoro in realtà è iniziato nel silenzio e nella bellezza della natura di San Giovanni di Sinis in Sardegna, per opera di un autore che in un’altra vita ho conosciuto come ministro dell’industria del commercio e dell’artigianato nel Governo Ciampi, nel 1993, quando rappresentavo la Provincia di Nuoro nel grandissimo tavolo di confronto di Via Veneto, sopra la scalinata monumentale. Tempi lontanissimi e davvero oggi rimpianti, soprattutto per questa capacità del Ministro di ascoltare, di costruire, di affrontare i problemi, fi fare sintesi – lo abbiamo constatato stasera – senza trascurare l’ironia.

Ho letto velocemente queste pagine difficili, aspre, talvolta impietose, nel corso del mio ultimo lungo e tormentato viaggio in Algeria, con attese anche di 10 ore in aeroporto e con negli occhi l’impressione fortissima della spirale di inefficienze, ritardi, incapacità che si accompagna alla crescente minaccia del terrorismo, che impone al mondo che viviamo tempi e strategie sempre più complesse e temo inefficaci, di fronte al salto di qualità, all’inventiva e alla crescente capacità tecnica di chi vuole mettere ostacoli alla libera circolazione e al rapporto tra le due rive del Mediterraneo. A Constantine poi la mia impressione incerta sul contenuto dei primi capitoli di queste pagine era rafforzata vedendo il ruolo che, a dispetto della modernizzazione, la religione nelle sue forme più arcaiche continua ad occupare ancora oggi nella storia. E poi gli schizofrenici controlli di polizia sotto le autovetture, i visti d’ingresso e le pratiche doganali. Eppure qualcosa si muove, se è vero che la società del Regno Unito Mariott ha costruito a Constantine un hotel a 5 stelle senza uguali in Italia o la Società Pizzarotti di Parma, ha realizzato una metropolitana di superficie ben migliore di quella costruita dalla stessa impresa a Sassari. E Constantine ha celebrato l’anno scorso il suo ruolo di capitale mondiale della cultura araba con i finanziamenti dell’ALECSO, ovviamente dimenticandosi del Museo Archeologico di Cirta, rimasto purtroppo in una dimensione Ottocentesca e coloniale, condannato ad un antistorico culto per l’antiquariato che appare sgradevolissimo a chi lavora come me in questo campo al confine tra culture e guarda verso il futuro del patrimonio. Non ho taciuto questa mia impressione e questo mio disagio.

Tornando a questo libro, di fronte ad un impianto storico quanto mai ampio e articolato, ad una ricostruzione accuratissima del pensiero liberale, inizialmente l’interpretazione di fondo dell’autore non mi aveva convinto: e cioè che la ricetta da adottare per lo sviluppo fosse semplicemente il ritorno al liberalismo classico, ad uno Stato minimo, ad una assistenza sociale meno costosa e meno diffusa, ad un calmieramento delle pretese di chi si aspetta dal Governo interventi miracolistici senza impegnarsi personalmente davvero. Non siamo abituati a mettere in discussione il tema di una “giustizia sociale” che per Savona è più una formula astratta che crea aspettative sempre più ampie in un orizzonte di attese che – a causa dei vincoli oggettivi del contesto – non potranno realizzarsi pienamente o che provocheranno scompensi e ingiustizie ulteriori, senza proteggere le libertà degli individui e senza favorire l’impegno personale, la fatica necessaria per raggiungere i risultati, le veglie, il meccanismo di competizione che determina il successo o l’insuccesso delle persone come delle imprese e dei paesi. Dunque il tema della sostenibilità economica della giustizia sociale e dello sviluppo sostenibile pur con il riconoscimento del valore della proprietà privata, partendo dalle diverse posizioni politiche, filosofiche, economiche attraverso il pensiero di grandissimi maestri, oggi però in un mondo sempre più globale, nel quale teorie diverse finiscono per incrociarsi inquinandosi a vicenda.

Insomma, nel confronto che si è sviluppato soprattutto nell’ultimo secolo tra i due estremi del Capitalismo senza regole e del Comunismo, per Savona entrambi ormai da abbandonare dopo il loro evidente insuccesso, a vincere non sarebbe stato il liberalismo puro o classico ma il socialismo che prometteva ricette miracolistiche a buon mercato, attraverso lo stato sociale che sembrava garantire protezione per le persone, ma con un livellamento sempre più verso il basso.  E insieme poneva al vertice i diritti della società, a scapito dei diritti individuali. La scomparsa quasi ovunque della liberal-democrazia non è per Savona un fatto positivo, perché da quando l’individuo ha compreso che poteva esser assistito per raggiungere il benessere, ha cessato di guadagnarselo lottando e percorrendo una propria strada.

Il più maturo liberalismo classico è ben rappresentato nel decalogo sul modello interpretativo dell’economia che Savona ha ricavato (a p. 179) dalla Scuola di Chicago dei premi Nobel George Stigler e Milton Friedman e dalla Scuola austriaca di Economia di Carl Menger, che sotto la definizione di neoclassici  comprende liberisti e liberali conservatori, tutti personaggi attivi nel mondo contemporaneo, che testimoniano la fortissima attualità degli studi compiuti dall’autore negli ultimi mesi, alla ricerca delle novità di pensiero sulle possibili strade dello sviluppo.

Viceversa il decalogo attribuito in parallelo a p. 180 ai liberali riformisti della Scuola inglese di Cambridge, al Nobel John R. Hicks della Scuola di Oxford e a Lawrence R. Klein, che vengono classificati come neo classici keynesiani, testimonia come prioritario un obiettivo di per sé secondario, quello di conquistare consensi elettorali in Europa e negli Stati Uniti e dimostra come i liberali riformisti tendano a scivolare progressivamente verso il socialismo, adottando metodi estranei al pensiero originario dei liberali, inquinando e snaturando così l’originario messaggio di innovazione e giocando a favore dell’avversario, che però continua ad avere più frecce al proprio arco perché gioca in casa. Il passaggio da De Gasperi alla ultima democrazia cristiana in Italia gli sembra un passaggio dal liberalismo alla socialdemocrazia, per quanto già l’articolo 1 della Costituzione con l’enfasi posta sul lavoro alla base della Repubblica solleva il problema quasi ontologico della non costituzionalità della disoccupazione giovanile, che pure di fatto oggi ci travolge.  Del resto ai nostri giorni ormai anche il socialismo finisce per diventare obsoleto e arcaico.

Il rischio che ovviamente si corre in queste circostanze è quello di banalizzare un pensiero profondo, di non riuscire a cogliere la carica positiva e propositiva di quest’opera monumentale, che nasconde una personalità ricca, un autore colto, ricco di esperienze internazionali, attento a non dire cose che possano semplicemente accattivargli la simpatia del lettore, ma interessato a tagliare chirurgicamente il cancro dei nostri tempi, prima che le basi stesse della democrazia vegano distrutte dal fallimento dello stato sociale causato in Italia dal mostruoso debito pubblico, da politiche economiche errate che non garantiscono una sostenibilità nel tempo, da attese sociali che rischiano di travolgere tutti, ricchi e poveri.

Il nostro compianto Preside Marco Tangheroni, polemizzando con il marxismo, citava un aforisma fulminante di Nicolás Gómez Dávila, un arguto pensatore colombiano morto vent’anni fa:  «quello che non è complicato è falso». Si parlava allora di storia, una storia che doveva essere più capace di mettere l’uomo al centro del dibattito, che doveva superare interpretazioni schematiche e superficiali, dominate dalle forze materialistiche così come proposto da una storiografia marxista, che tendeva a concentrarsi su una sola causa, mentre la storia è frutto di più cause concomitanti e diverse. Gli storici marxisti ormai obsoleti e stanchi erano costantemente oggetto di ironia e di polemica, perché rischiavano di trasformare la storia in una disputa teologica, dimenticando l’oggetto stesso della ricerca, proponendo generalizzazioni che apparivano agli studiosi di un’ingenuità che inteneriva, come a proposito dei rapporti tra struttura e sovrastruttura, i concetti di rifeudalizzazione o di crisi della borghesia, il tema meccanicistico del determinismo e della necessità causale. Del resto Gómez Dávila aveva osservato che un lessico di dieci parole era sufficiente al marxismo per spiegare la storia.

Naturalmente anche quella di Tangheroni era una ingenua e ingiusta esemplificazione datata – proprio come quella marxista – nella quale non mi ritrovo pienamente, che deve rimanere sullo sfondo, partendo però dalla consapevolezza che la realtà è più complessa: non capiremmo l’espandersi dell’economia cinese negli ultimi anni, diceva ieri Savona presentando il volume di Paolo Fadda sulla “storia di successo” della famiglia Pinna; né capiremmo, mi permetto di aggiungere, il debito che il mondo di oggi ha nei confronti di giganti che hanno animato l’antifascismo come Antonio Gramsci, tra gli operai di Torino, la Pietrogrado d’Italia.

Ora che i partiti – se ancora esistono – non possono più chiamare in causa il pericolo del comunismo, divenuto un vero e proprio fantasma, nessuno riesce più a mobilitare gli elettori contro il nemico da battere, magari utilizzando la scomunica della Chiesa: allo stesso modo nell’antica Roma l’età terribile della rivoluzione graccana era iniziata solo quando era stata distrutta Cartagine e si era spenta l’enorme energia fondata sul metus hostilis, la paura per il nemico, che  aveva sostenuto e reso dinamica l’età dell’imperialismo ma che non aveva più ragione di esistere con la pace.

Questo libro ha il merito di tentare di render conto della complessità del mondo di oggi, nel quale il liberalismo è in pena ritirata per il suo cedimento anche culturale di fronte al socialismo, per la sua incapacità di parlare alla gente, di spiegare criticamente i meccanismi dell’economia, di sostenere la competizione contro l’assistenzialismo, di formare persone consapevoli dei propri doveri, di affermare la responsabilità individuale, di costruire partiti che non siano solo interessati ad una miope politica di acquisizione di consenso ma che siano in grado di guardare lontano.  Del resto in uno Stato minimo con un mercato libero e competitivo, la democrazia massima significa non affidarsi pigramente alla guida di élites che si auto-proclamano in grado di interpretare astrattamente i bisogni dei cittadini ma siano effettivamente capaci di costruire meccanismi decisionali tali da non pregiudicare il futuro per un Paese.

Osservazioni che forse possono essere poco digeribili per lo stomaco delicato ma che è fondamentale capire se si vuole garantire uno sviluppo crescente e sostenibile delle nostre società, affermando il rispetto della legge e combattendo la corruzione, l’evasione fiscale e il malgoverno, senza caricare il fardello dei nostri debiti sulle spalle delle generazioni future, a causa del crescere malsano della finanziarizzazione dell’economia (penso ai contratti derivati e alla speculazione finanziaria):  proprio l’economia che conosciamo lamenta una evidente scarsità di risorse reali.  Sullo sfondo per Savona rimane limpida la lezione di Croce che sottolinea il valore assoluto della libertà individuale rispetto a quello relativo di giustizia sociale: <<come potevano osare, questi impenitenti e sprovveduti neo democratici, cattivi filosofi e cattivi politici, mettere insieme sullo stesso piano, vero e proprio “ircocervo” [animale mitologico per metà caprone e per metà cervo] un principio filosofico come la libertà e un concetto empirico come la giustizia ?>>.  Del resto le libertà non possono essere barattate con il benessere.

Anche l’innovazione tecnologica può essere un rischio: emerge da queste pagine l’insoddisfazione profonda di un democratico vero per il processo di globalizzazione ancora confuso e contraddittorio, che porterà comunque a superare i vecchi vizi, oligopoli, stati invadenti e accentratori,  populismi, nazionalismi, poteri economico-finanziari forti, concentrazioni di capitali.

Oggi sono all’ordine del giorno privatizzazioni, liberalizzazioni, interventi a favore di imprese e banche, accompagnati da un depotenziamento del potere sindacale dei lavoratori, con una solo rituale richiesta di ridimensionamento del welfare e della burocrazia, mentre i due accordi internazionali del libero scambio nell’area dell’Atlantico TTIP e del Pacifico TPP rischiano di aprire la strada ad una nuova forma di colonialismo, il colonialismo economico. Nuovi poteri si affermano, nuovi sovrani dematerializzati impongono il proprio ruolo.

Il tema allora è quello del rapporto tra democrazia, sovranità nazionale e globalizzazione economica. L’ex sindaco conservatore di Londra Boris Johnson ha parlato di Unione Europea come nuovo Hitler che rischia di trascinare il vecchio continente in una tragedia. Certo Savona non condivide questi toni rozzi e sguaiati, ma non ignora i pericoli di una burocrazia europea capace di espropriare gli individui e gli stati. Dunque gli errori di chi dirige le banche centrali, perfino la Banca d’Italia che non è più quella di Guido Carli, la progressiva socializzazione delle perdite (penso a Banca Etruria) e la progressiva privatizzazione dei profitti. Le  distorsioni di un capitalismo senza governo di uno stato democratico, espropriato comunque dei suoi poteri. Una moneta, l’euro, senza stato; e uno stato federale, un super-stato, l’Europa, che ancora non nasce e che comunque non ha una moneta unica e un’autorità centrale davvero forte che possa competere  con la Federal Reserve. Un euro ben diverso da quello sognato inizialmente, che è anche diverso dalla bizzarra moneta internazionale (il bancor)  immaginata fin dal 1943 negli ultimi scritti di John Maynard Keynes, di cui al recente volume curato da Luca Fantacci per Il Saggiarore, sul tema della Moneta Internazionale, un piano per la libertà del commercio e il disarmo finanziario. Un’idea concepita nel cuore della guerra e naufragata l’anno dopo nella conferenza di Bretton Woods.  Allora stravinse il dollaro, oggi l’euro non riesce ad allargarsi a tutti gli stati europei.

Ancora oggi permane l’esigenza di ripensare il rapporto tra Banca Mondiale, Banche Centrali, Fondo Monetario Internazionale; è necessario progettare il superamento delle distorsioni nel regime di cambio. Naturalmente abbiamo in mente la recente riflessione di Paolo Savona e di Giovanni Farese per Rubettino su Eugene R. Black, il banchiere del mondo, il Presidente della Banca mondiale negli anni della ricostruzione mondiale, teorico della cultura dello sviluppo. Quella cultura di cui si avverte oggi l’assenza, anche e soprattutto all’interno dell’Unione economica e monetaria. Fu la Banca di Black, nello scambio con Donato Menichella e con gli economisti italiani, ad ispirare la stagione migliore della Cassa per il Mezzogiorno, lo strumento voluto da De Gasperi nel 1950 per esprimere una solidarietà non solo di facciata per recuperare ritardi storici, non fondata sull’assistenzialismo ma proiettata verso lo sviluppo in una Sardegna che ancora oggi deve sconfiggere il suo isolamento.

Proprio sullo sviluppo, c’è in questo libro una chiara presa di coscienza: l’Unione Europea non può esprimere comportamenti favorevoli allo sviluppo, non essendo configurata per farlo, avendo il mandato di garantire solo la stabilità monetaria e fiscale. Questo spiega il succedersi delle crisi, i problemi della Grecia, il disagio del Regno Unito, l’insoddisfazione in Italia. Forse – diceva ieri Savona – uno shock come l’Uscita del Regno Unito potrebbe essere salutare per introdurre innovazioni fiscali e superare la dimensione monetaria.

In un quadro così ampio, che parte dall’analisi del pensiero politico, economico, filosofico soprattutto degli ultimi secoli, c’è un po’ di spazio anche per la Sardegna, per quel Francesco Cocco Ortu del PLI che fu il leale avversario di Malagodi nel 1954, nipote del più celebre ministro omonimo che nel 1922 fu uno dei pochi liberali che votò contro il governo Mussolini; un po’ di spazio soprattutto per il suo più stretto collaboratore il cui ricordo continua ad essermi davvero caro, Antonio Romagnino, scomparso nel 2011. Ho visto che in questi giorni Savona lo ha ricordato con affetto sulla stampa: io oggi vorrei ricordare il suo ruolo nel Liceo Dettori, più tardi in Italia Nostra e negli Amici del libro. Avevo ammirato la sua serenità di fronte degli attacchi dell’estremismo studentesco nell’aula magna proprio del Dettori, il suo sdegno, il suo spirito critico.  Mi legavano ad Antonio Romagnino rapporti di stima e di amicizia profondi, che si sono sviluppati nelle grandi battaglie degli anni 70 per la difesa dell’ambiente, lui presidente ed io segretario regionale di Italia Nostra, un’associazione allora certamente unica protagonista di tanti eventi fondamentali per il futuro della Sardegna.

Debbo dire che gli ultimi capitoli correggono non poco l’amarezza iniziale, affermano l’ottimismo della volontà, ricordano che non c’è niente di cui veramente disperarsi se si confida nella forza della ragione, perché non siamo arrivati alla fine della storia, ma esiste ancora una strada maestra, quella di coltivare i talenti che sono stati affidati a ciascun individuo, secondo la parabola raccontata da Matteo 25, 14-30.  E’ proprio nelle ultime pagine di questo libro che Paolo Savona dimostra di non essere affatto un conservatore ma di essere un progressista vero, forse più di sinistra, se così posso esprimermi, di quanto egli non voglia ammettere, con questa sua insistenza sul tema dei diritti degli individui, sulla libertà di parola e di espressione, sulla libertà dal bisogno e dalla paura per usare le parole di Franklin Delano Roosvelt forse con un debito nei confronti proprio di Eugene R. Black, sulla consapevolezza delle differenze di partenza tra individui, gruppi sociali, stati, continenti che debbono recuperare ritardi storici, combattere la povertà e l’emarginazione sociale che genera disperazione, estremismo, intolleranza e aggressività. Sulla necessità di tener conto delle distorsioni provocate dal mercato e dalle politiche di integrazione sovrannazionali: dunque il rifiuto delle dittature, il diritto all’istruzione, il completamento della parità dei diritti delle donne e la tutela dell’ambiente, la lotta alla burocrazia, l’occupazione, il benessere materiale; la libertà di pensiero e di movimento. In questo campo vedo qualche differenza rispetto alla posizione espressa proprio in questi giorni da Vincenzo Boccia il nuovo presidente della Confindustria in tema del rapporto tra salario e produttività, anche se la meta è identica, quella della necessità di crescer di più, di eliminare i freni dello sviluppo, di confrontarci alla pari in una prospettiva europea e internazionale.

Temi sui quali il liberalismo classico ha assunto storicamente una posizione nel tempo che purtroppo è – secondo Savona – tuttora disorganica e priva di una vera unità logica per l’incrociarsi di riflessioni collocate in luoghi e in tempi differenti, opera di studiosi di altissima levatura europei e statunitensi e non solo, più o meno sensibili al tema dello sviluppo, pur con un minimo comune denominatore: i diritti della collettività non possono essere mai considerati più importanti dei diritti degli individui, il populismo non può essere la misura per giudicare i governi, le fondamenta della società partono dalla formazione consapevole dei singoli individui che votano spesso solo obbedendo a istinti, mode passeggere, suggestioni, forse nella più totale ignoranza. In questo senso Savona si colloca in una posizione di aristocratico distacco, ma pure esalta un’educazione civile che tenga conto degli svantaggi e consenta anche ai più poveri di accedere ad un ascensore sociale anche partendo dai piani più bassi, solo che ci sia impegno, responsabilità, senso del dovere, merito.  Il ruolo della Scuola e dell’Università.

Il Presidente Francesco Pigliaru nei giorni scorsi diceva in Aula Magna qui a Sassari che gli investitori cinesi non chiedono alla Regione se esistono industrie in Sardegna, ma solo se ci sono due università qualificate, competitive, internazionali.

Contro le politiche conservatrici, Savona pensa dunque ad una società mobile nella quale l’individuo diventi il vero protagonista della propria sorte,  non si illuda di poter essere protetto dalla culla alla tomba da uno Stato che lamenta sempre di più la scarsità di risorse reali. Savona ritiene che ci sia spazio anche in politica per un liberalismo che non si metta all’inseguimento di una giustizia sociale che non ha confini, perché l’orizzonte lontano che di volta in volta si profila non verrà mai raggiunto, provocherà illusioni e fallimenti, introdurrà regimi autoritari, finirà per ridurre i posti di lavoro, mentre l’incompetenza la farà da padrone.

Forse è un’utopia, l’autore ne è lucidamente consapevole, ma l’occasione che le nuove generazioni hanno davanti è preziosa, se si vuole superare l’arretratezza e la povertà, dopo tanti fallimenti del capitalismo liberistico, due guerre mondiali, il fanatismo religioso, l’attuale depressione dell’economia. Occorre allora allargare gli spazi delle libertà individuali, ridurre il ruolo dello Stato, favorire l’iniziativa privata, soprattutto combattere l’incompetenza e formare il vero sovrano dei nostri tempi, il popolo.

La soluzione è forse a portata di mano: anche sul tema della distribuzione del reddito e della ricchezza va applicato il criterio della giusta misura delle Satire di Orazio: C’è una giusta misura nelle cose, ci sono giusti confini al di qua e al di là dei quali non può sussistere la cosa giusta: Est modus in rebus, sunt certi denique fines | quos ultra citraque nequit consistere rectum.

Allo stesso modo deve essere apprezzato il punto critico di Luigi Einaudi, che non può essere determinato a priori, ma che in una società aperta si colloca nel tempo e nello spazio sulla base della buona volontà degli uomini, in possesso di diritti inviolabili, posti alla base dei sistemi di libertà.Lezioni antiche che mantengono un valore e un’attualità oggi.




PRESENTAZIONE DEL VOLUME: Atti del XX Convegno Internazionale di studi “L’Africa romana. Momenti di continuità e rottura: bilancio di trent’anni di convegni”

 

Roma, 12 maggio 2016 – Istituto Nazionale di Studi Romani, Piazza Cavalieri di Malta, 2
PRESENTAZIONE DEL VOLUME

Atti del XX Convegno Internazionale di studi “L’Africa romana. Momenti di continuità e rottura: bilancio di trent’anni di convegni” (Alghero – Porto Conte Ricerche, 26-29 settembre 2013). A cura di Paola Ruggeri (con la collaborazione di Maria Bastiana Cocco, Alberto Gavini, Edgardo Badaracco, Pierpaolo Longu). Tre volumi. Carocci editore, Roma 2015

PER INIZIATIVA DEL CENTRO DI STUDI INTERDISCIPLINARI SULLE PROVINCE ROMANE DELL’UNIVERSITÀ DI SASSARI E DELL’ISTITUTO NAZIONALE  DI STUDI ROMANI

  • Saluto di Paolo Sommella, Presidente dell’Istituto Nazionale di Studi Romani
  • Saluto di Marco Milanese, Direttore del Dipartimento di storia, scienze dell’uomo e della formazione dell’Università di Sassari
  • Introduzione di Attilio Mastino, coordinatore del Dottorato di ricerca in Archeologia dell’Università di Sassari
  • Presentazione di Sergio Ribichini, Scuola Archeologica Italiana di Cartagine
  • Presentazione di Isabel Rodà de Llanza, Universitat Autònoma de Barcelona, Ciències de l’Antiguitat i de l’Edat Mitjana Department
  • Conclusioni di Mario Mazza, Accademia Nazionale dei Lincei
  • Presentazione della Rivista “Cartagine Studi e Ricerche” e della “Collana di Monografie della SAIC” di Antonio M. Corda, Dipartimento di Storia, Beni culturali e Territorio dell’Università degli studi di Cagliari
  • Firma dell’accordo tra l’Agence de Mise en Valeur du Patrimoine et de Promotion Culturelle della Tunisia e la Scuola Archeologica Italiana di Cartagine

INTRODUZIONE DI ATTILIO MASTINO

La prestigiosa ospitalità dell’Istituto Nazionale di studi romani e dell’amico e maestro Paolo Sommella ci conduce oggi a Roma a presentare gli Atti del XX Convegno internazionale de L’Africa Romana svoltosi ad Alghero nel settembre 2013, pubblicati dall’Editore Carocci a cura di Paola Ruggeri, con la collaborazione di Maria Bastiana Cocco, Alberto Gavini, Edoardo Badaracco e Pierpaolo Longu. Il volume è compreso nella collana del Centro di studi interdisciplinari sulle province romane e del Dipartimento di storia, scienze dell’uomo e della formazione dell’Università di Sassari (rappresentato oggi dal Direttore Marco Milanese) e tratta il tema di Momenti di continuità e rottura: bilancio di trent’anni di convegni L’Africa Romana. Lo abbiamo pubblicato grazie alla consueta generosità della Fondazione Sardegna e del suo presidente il sen. Antonello Cabras.

Grazie alla collaborazione di Massimiliano Ghilardi, torniamo in questo prestigioso Istituto dove il 17 dicembre 2012 avevamo presentato il XIX volume, curato da Maria Bastiana Cocco, Alberto Gavini e Antonio Ibba. Anche questa volta sono presenti tanti amici dell’Institut National du Patrimoine di Tunisi, dell’Agence de Mise en Valeur du Patrimoine et de Promotion Culturelle della Tunisia rappresentata da Samir Aounallah e delle Università del Maghreb. E sono trascorsi 33 anni da quando, il 16 dicembre 1983, nella sede della Camera di Commercio, si apriva a Sassari il I Convegno de L’Africa Romana, al quale parteciparono un campione degli Studi Africanisti, quale fu Marcel Le Glay, indimenticabile maestro e amico, e altri nostri cari colleghi, come Hedi Slim con la Signora Latifa, e poi Ammar Mahjoubi, Naidé Ferchiou, Giancarlo Susini e Angela Donati, Giovanna Sotgiu, Cinzia Vismara, l’allora Ispettore della Soprintendenza Archeologica di Cagliari Raimondo Zucca.

Lasciatemi tornare indietro commosso a quel momento lontano, ripercorrendo per un attimo tante storie e tanti avvenimenti, un pezzo lungo significativo e felice della vita di tanti di noi, un percorso che è stato di studi, di ricerche, ma anche di curiosità e di passioni vere.

Volgendoci indietro, quella di oggi è anche l’occasione per ripercorrere una storia lunga, intensa, stimolante, che ha prodotto risultati scientifici, numerose novità e significativi progressi nelle nostre conoscenze e nei nostri studi e insieme un ulteriore consolidamento di quella che è diventata negli anni una vera e propria rete di collegamento tra antichisti a cavallo tra le due rive del Mediterraneo, un rapporto di collaborazione paritario e stimolante tra studiosi di formazione e di provenienza tanto differenti.

Diverse generazioni di studiosi si sono susseguite con passione civile, fornendo contributi di grande interesse e presentando un’enorme quantità di materiale inedito.

È soprattutto grazie ai colleghi provenienti dall’Algeria, dal Marocco, dalla Tunisia e dalla Libia, che i nostri convegni hanno raggiunto nel tempo uno straordinario ampliamento territoriale e geografico, abbracciando la storia del Nord Africa nel suo insieme, al di là della stessa denominazione letterale: l’Africa, intesa non come singola provincia ma vista in alternativa all’Europa e all’Asia, come una delle tre parti dell’oikoumène romana, con un allargamento di orizzonti e di prospettive che permette di superare – scriveva Azedine Beschaouch – la visione ristretta del Mar Mediterraneo, prevalentemente basata su un asse Nord-Sud e di ricordare quello che fu il bilinguismo ufficiale dell’impero dei Romani. L’Africa può allora diventare una parte essenziale del più ampio bacino mediterraneo, un’area costiera non isolata ma che è in relazione con tutta la profondità del continente, trovando nel Mediterraneo lo spazio di contatto, di cooperazione e se si vuole di integrazione sovrannazionale.

A distanza di tre anni dal nostro Convegno il quadro generale del Mediterraneo è notevolmente modificato: le primavere arabe si sono rivelate “inverni” terrificanti, prosegue inarrestabile l’emorragia di profughi che partono dalla Libia e non solo, esposti ad una incivile tratta di persone disperate, soprattutto di bambini; l’insicurezza ha travolto alcuni paesi, il 18 marzo 2015 l’attentato al Museo Nazionale del Bardo è stato un colpo terribile inferto all’economia della Tunisia libera e democratica, ai beni culturali, al patrimonio, soprattutto alle relazioni tra studiosi. Eppure non mancano notizie straordinarie, come il premio Nobel assegnato per la pace al “quartetto” tunisino, espressione dell’ Unione Generale Tunisina del Lavoro (“Union Générale Tunisienne du Travail”, UGTT); della Confederazione Tunisina dell’Industria (“Union Tunisienne de l’Industrie, du Commerce et de l’Artisanat”, UTICA), della Lega Tunisina per la Difesa dei Diritti dell’Uomo (“Ligue Tunisienne pour la Défense des Droits de l’Homme”, LTDH), dell’Ordine Nazionale degli Avvocati di Tunisia (“Ordre National des Avocats de Tunisie”, ONAT).

E poi la presenza dal I ottobre 2015 di 100 studenti magrebini che studiano in Sardegna presso le due Università grazie all’impegno di Unimed e della Fondazione Sardegna (nei prossimi 5 anni si parla di 500 studenti). Altri giovani magrebini che partecipano ai dottorati e agli scavi archeologici europei, come in passato gli studenti dell’Institut Supérieur des Métiers du Patrimoine. L’Agence ha pubblicato il prestigioso libro Je suis Bardo e presentato a Tunisi, per iniziativa del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale e dell’Ambasciata d’Italia il 18 marzo 2016, questo XX volume degli Atti de L’Africa Romana e gli scavi archeologici tuniso-italiani.

A Sassari il 22 febbraio 2016 è stata costituita la Scuola Archeologica Italiana di Cartagine, oggi arrivata a 112 associati, interessata ad operare in campo internazionale. Il Consiglio scientifico si è riunito a Tunisi presso l’Istituto Italiano di Cultura il 18 marzo (in occasione delle cerimonie per ricordare l’attentato del Bardo), l’assemblea il 6 aprile a Sassari e oggi a Roma presso l’Istituto Nazionale di Studi Romani. Firmeremo tra poco la convenzione della Scuola Archeologica Italiana di Cartagine con l’Agence de Mise en Valeur du Patrimoine et de Promotion Culturelle della Tunisia. La convenzione prevede l’assenso del prof. Ridha Kacem direttore generale dell’Agence per l’assegnazione in comodato d’uso di aule e locali di segreteria per la SAIC, con attività comuni, in particolare la pubblicazione di una Guida di Cartagine plurilingue. La SAIC si propone di favorire opportunità di ricerca, formazione e diffusione delle conoscenze sul patrimonio relativo alle civiltà preistoriche e protostoriche, preclassiche, classiche, tardo-antiche, islamiche, moderne; valorizzare gli apporti di ogni singola iniziativa in questo campo, mantenendo una visione ad ampio spettro e un coordinamento funzionale; contribuire attivamente al dialogo interculturale e alle politiche di sviluppo della Tunisia (e più in generale dei Paesi del Maghreb).

Lavoreremo d’intesa con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale e con gli Istituti Italiani di cultura. Il Rettore dell’Università di Sassari prof. Massimo Carpinelli e il Presidente della Scuola archeologica italiana di Cartagine hanno firmato una convenzione quadro per coordinare l’attività di formazione, soprattutto all’interno del Dottorato di ricerca “Archeologia, storia, scienze dell’uomo” dell’Università di Sassari. Ma altri accordi sono in fase di elaborazione.

Dal nostro osservatorio, constatiamo che, nonostante le preoccupazioni, possono moltiplicarsi ora le grandi imprese di collaborazione internazionale. Questo volume vuole restituire l’unità della conoscenza, sbriciolata in mille rivoli dalle pratiche accademiche, quasi che s’assaporasse la condanna divina della confusione delle lingue di babelica memoria. Qui è restituita la lingua delle origini, che parlano all’unisono storici, archeologi, epigrafisti, numismatici, giuristi e scienziati delle scienze esatte che combinano i loro saperi a quelli umanistici, tutti provenienti da tanti paesi.

Da questa polifonia è restituita la lingua delle origini prima di Babele che parlarono gli uomini prima che i fratres in humanitas fossero separati dall’ignorantia, dall’incapacità di ascolto della parola, unica, di tutti gli uomini.

Cari amici, noi tutti abbiamo creduto che la nostra azione non potesse esaurirsi nell’attività di ricerca e di trasmissione di conoscenza: in questi anni abbiamo tentato di cooperare, con i nostri studenti, fianco a fianco con gli studenti e gli archeologi del Maghreb, in Tunisia e in Marocco, forse anche in una Libia non più lacerata dagli esiti terribili del colonialismo e della dittatura. Vogliamo oggi ripercorrere con orgoglio la strada percorsa, del resto torneremo presto in questo Istituto per raccontare le imprese africane di Antonino Di Vita raccolte nei due volumi recentemente pubblicati da L’Erma di Bretschneider.

Lasciatemi in chiusura ricordare due maestri che ci hanno lasciato di recente, Nicola Bonacasa (scomparso il I dicembre scorso, qualche settimana fa ricordato a Palermo) e un altro maestro che abbiamo ugualmente amato, Josè María Blázquez Martínez, scomparso a Madrid il 27 marzo. Avremo modo di ricordare la Sua opera davvero straordinaria, tra Preistoria, Storia Antica, Archeologia, Storia del cristianesimo, in Spagna ma più in generale nel Mediterraneo antico. Oggi vorrei presentarlo come un amico generoso de L’Africa Romana fin dal Congresso del 1989, come Maestro capace di spaziare tra tante discipline diverse, come punto di riferimento per tante generazioni di studiosi. Lascia un rimpianto tra i giovani ricercatori che hanno avuto la fortuna di incontrarlo a Sassari, a Tunisi, a Tozeur, a Djerba, a Rabat, a Siviglia, proprio in occasione dei nostri convegni, parlando soprattutto di mosaici. Non è mai mancato ai nostri incontri, ha presieduto le sessioni di lavoro ed ha scritto le conclusioni con generosità e affetto. Si è sempre fatto accompagnare da amici ed allievi, che ora continuano a coltivare le sue passioni e le sue curiosità. Con me è stato davvero un amico grande e fedele, solo se penso alla sua finestra sull’Oceano, nella Cadice che amava.

 

Presentazione di Sergio Ribichini

Confesso di avere accettato il compito di presentare questo volume con molto piacere e con un certo disagio. O per dire meglio: con un certo piacere e con molto disagio.

Con piacere, giacché l’invito veniva da Attilio Mastino, che ho conosciuto nel 1985 a Sassari, per il III convegno di Studi sull’Africa romana; che ho rivisto più volte e con il quale ora collaboro, per la Scuola Archeologica Italiana di Cartagine, la SAIC.

Dunque non solo non potevo dire di no, ma anzi dovevo ricambiare l’onore che Attilio mi faceva chiamandomi a questo ruolo.

Anche con disagio, però; perché nel libro c’è già una bella presentazione[1] e soprattutto perché Attilio è come un auriga sempre in corsa, che spinge il carro delle sue iniziative a velocità impressionante.

Ho scritto questi appunti con la mano sinistra, perché la destra era fissa sulle caselle di posta elettronica, dove i suoi messaggi arrivano in quantità notevole, per assicurare uno slancio laborioso alla nuova impresa della SAIC, che ci unisce, ci trascina, ci appassiona.

Con disagio, poi, perché non è facile rendere l’omaggio dovuto ai curatori del libro, a Paola Ruggeri che dal 1992 ha affiancato Mastino nel duro ed efficace impegno editoriale, e che per questa occasione si è avvalsa della collaborazione di Maria Bastiana Cocco, Alberto Gavini, Edgardo Badaracco e Pierpaolo Longu. Nomi che rappresentano gli epigoni di una scuola sarda di africanisti affermata a livello internazionale.

Con disagio, infine, perché è difficile trovare un criterio capace di compendiare gli atti di un grande convegno che è anche il bilancio di trent’anni di appuntamenti internazionali, con centinaia di partecipanti.

Un libro con oltre 2500 pagine: non potevo leggere tutto. Non avrei fatto in tempo per questo incontro e non sarei davvero riuscito ad assimilare tutti i contributi.

Consapevole dei miei limiti, lo stesso Attilio mi ha proposto di presentare solo i saggi più vicini ai miei interessi. E in tal senso mi sono accordato con Isabel, cui spetta il lavoro maggiore.

Scorrendo l’indice, ne ho selezionati una quarantina: dedicando un minuto ciascuno, avrei bisogno almeno del doppio del tempo di cui dispongo.

E farei giusto in tempo a dire i titoli. Forse.

Dovrei trascurare ad esempio, tra le presentazioni di volumi, quella degli Studi in ricordo di Giovanni Tore, che rende onore alla saggezza dell’amico punicologo precocemente scomparso[2].

Dovrei presentare chi propone una riflessione sulle forme di traduzione letterale o piuttosto di adattamento da una lingua all’altra, come nel caso delle bilingui libico-puniche e libico-latine di Dougga, quali espressioni di un preciso disegno politico avviato dal re numida Massinissa[3]. Dovrei riassumere decenni di ricerche d’epigrafia punica[4] e progetti di corpora per testi incisi, graffiti o dipinti su oggetti ceramici[5].

Dovrei riproporre problemi d’iconografia monetaria e il contenuto ideologico di rappresentazioni divine in Mauretania[6].

Dovrei presentare bilanci e prospettive di numismatica maghrebina, per lo studio delle serie monetali conservate nei musei tunisini[7].

Ma certo non avrei tempo per esaminare tutto con calma.

Dovrei inoltre spaziare tra geografia e storia: politica, economica e religiosa, per parlare di siti e di circolazione di beni nell’articolazione territoriale dei possedimenti cartaginesi[8]. Dovrei discutere d’inediti antroponimi d’origine punica in nuove epigrafi latine della Tunisia[9]. Dovrei evocare il sistema delle rotte tra il litorale nordafricano e la penisola iberica, agli inizi della colonizzazione fenicia[10].

Dovrei segnalare i progetti imperialistici di Alcibiade ricordati da Tucidide come elementi costitutivi dell’impero nella retorica di Aristide e Plutarco[11].

Dovrei dire di avere trovato l’eco di una tesi di dottorato su Massinissa come eroe letterario, della quale ho seguito gli esordi e presto ne vedrò il compimento[12].

Dovrei anche introdurre l’esame dei contributi che trattano dei rapporti tra mondo punico e quello numidico, sul piano linguistico e politico[13].

Ma il tempo di cui dispongo è davvero poco.

Ho pensato allora di selezionare gli studi sulla religione, specie quella punica, seguendo un percorso da spigolatore che potrebbe andare bene: non offenderebbe chi resta escluso e sicuramente coinciderebbe col primo impulso d’ogni lettore, giacché chiunque, in un libro appena edito, va subito a curiosare le cose a lui più vicine.

Potrei così elogiare la presenza di studi sulla sempre problematica interpretazione dei cosiddetti tofet, nella loro specificità e nel passaggio dal culto del Baal cartaginese a quello del Saturno africano[14].

Potrei questionare su significato e sopravvivenza del rito molk nell’Africa romana[15]. Potrei valutare la nozione della divinità presso gli antichi Libici[16] e la venerazione del dio dell’oasi di Siwa[17]. Potrei discutere di pluralismo religioso, sulla scia di un progetto sulle strategie di appropriazione religiosa dell’Africa romana[18].

Potrei anche rammentare, con Arnobio di Sicca, le statue che uscivano dai forni, gli dèi fabbricati col martello, i nastri appesi agli alberi, le pietre cosparse d’olio di oliva, secondo tradizioni indigene e finanche puniche[19].

Ma rischierei di sovrappormi a quanto dirà tra poco la collega Isabel.

Dovrei soffermarmi alquanto anche sui progressi degli studi sul culto di Sardus Pater ad Antas e su quel tempio in suo onore, per il quale si presentano qui alcune tematiche della decorazione architettonica fittile, pertinente alla fase repubblicana, e una ricostruzione grafica del personaggio divino[20].

E non potrei certo dimenticare l’attenta rilettura dell’iconografia di un anello d’argento recuperato nel corredo di una tomba d’epoca tardo-romana, che porterebbe ad escludere l’interpretazione offerta nel 1976 da Robert Du Mesnil du Buisson, che vi leggeva il nome di Sid Babi[21].

E finirei così, inesorabilmente, troppo lontano.

Dovrei poi dare spazio agli studi dei corredi funerari delle necropoli fenicie e puniche in Sardegna[22], ai cataloghi di materiali conseguenti che ne illustrano la tipologia[23] o l’uso continuativo in tarda età tardo-punica e nella successiva età romana[24].

Ma andare in cerca dei contributi che più m’incuriosiscono, rifletterebbe una preferenza comunque soggettiva, fatta di silenzi e di elogi; e perderei la vostra attenzione.

Sono allora tornato a sfogliare i tre volumi con un occhio rivolto ai fatti religiosi e l’altro al tema del convegno: “momenti di continuità e di rottura”. Mi son detto che avrei potuto additare la presenza di studi su interazioni e mutazioni nel credo; interferenze, tradizioni e cambiamenti nel culto, con l’attenzione rivolta all’esame dei rapporti tra Fenici, Greci, Romani e popolazioni indigene, sia in nord-Africa che in Sardegna, nonché sulle ripercussioni che per queste tematiche si rilevano nella storiografia antica e recente[25].

Ma erano davvero troppi i contributi che comunque avrei dovuto affidare al commento di Isabel.

Per non dire dell’attenzione da prestare agli studi sulle interferenze tra Sardi e Fenici, sulla nascita di nuove realtà sociali e comunitarie[26], sulla continuità tra il periodo punico-ellenistico e l’età romano-repubblicana[27]; come pure sulle relazioni tra Etruria e Sardegna agli inizi dell’età del ferro[28], e sui processi di formazione urbana e dei gruppi elitari delle comunità tra IX e VIII secolo, in ragione delle risorse agricole e minerarie[29] e con forme legate alla diffusione d’ideologie[30] e modelli orientali[31].

Da studioso di cose puniche, avrei potuto segnalare vari contributi sul territorio sulcitano in epoca punica e romana, con i risultati d’indagini archeologiche in siti e materiali specifici[32], su particolari strutture edilizie[33] o sulla caratterizzazione del patrimonio storico-archeologico di tutta la zona e in un periodo ancora più ampio[34].

E non potrei farcela, in ogni caso, a entrare nel dettaglio.

Né avrei dovuto dimenticare i più numerosi contributi dedicati a un altro importante insediamento, che costituiscono un corposo caso di studio, con la presentazione di obiettivi e primi risultati di un progetto di ricerca ad ampio spettro[35], le analisi archeometriche e le indagini subacquee[36]; le operazioni di scavo in settori ancora inesplorati[37]; i materiali da costruzione impiegati nelle diverse fasi edilizie dell’insediamento stesso[38]; i frammenti ceramici e i contenitori anforici che consentono di ricostruire i flussi commerciali[39] o si presentano come possibili indicatori di tensioni, nei rapporti commerciali del Mediterraneo antico[40].

Insomma: prediligere un argomento a detrimento di altri era comunque una scelta difficile; nè Isabel ed io potremmo certo presentare tutti gli articoli dei tre tomi, come ci ha scritto con ansia Attilio Mastino, qualche giorno fa, scorrendo lo scambio di mail che concordava i nostri interventi.

Oltretutto, non avrei voluto né dovuto sovrappormi a quanto ha già scritto Guido Clemente nel primo tomo[41], dove ha ricostruito la storia dei Convegni e sottolineato l’ampia collaborazione con Istituti di ricerca, Università, Società scientifiche nazionali e internazionali.

Né dovrei ripetere quello che lo stesso Mastino ha sostenuto nel saluto introduttivo, sulla rete di rapporti, relazioni, amicizie, informazioni, che sono il risultato dell’esperienza vissuta nei vari decenni di attività.

E non vorrei oltretutto perdere tempo a considerare il patrimonio di conoscenze raggiunto con questi convegni e nei volumi che lo testimoniano: libri che s’intitolano all’Africa Romana ma danno largo spazio anche al mondo fenicio e punico, a quello berbero e libico, al mondo nuragico e prenuragico, alle civiltà italiche e alle altre del Mediterraneo antico.

E certo avrei dovuto anche replicare a chi discredita la dimensione monumentale di questa cinquantina di tomi, a chi critica la vastità e la dispersione degli argomenti trattati. Risposta facile, peraltro, e semplice da argomentare, ponendosi a fianco di chi loda la varietà degli interessi, di chi apprezza il metodo interdisciplinare e la veste editoriale, di chi elogia l’immediatezza e la puntualità della pubblicazione, nonché la diffusione capillare dei volumi nelle biblioteche di antichistica.

Dovrei, potrei, vorrei: il tempo si va esaurendo e più non sono in grado di affermare.

Però, mentre scrivevo gli appunti per denunciare la mia insipienza, mi rendevo conto che una scelta comunque l’andavo facendo; che in fondo, e con il mio sinuoso cammino tra i contributi, andavo rispondendo all’invito dell’allora Rettore dell’Università di Sassari promotore dell’incontro di studio.

Quasi senza volerlo, mi andavo così convincendo che avrei potuto riprendere queste note, citando studi e mostrando argomenti; avrei offerto, almeno, una qualche idea del contenuto di questa Ventesima Africa Romana.

E potevo dunque confidare d’avere anche mostrato in questo modo quanto il Mediterraneo antico fosse luogo di confronto e di dialogo; quali spunti da esso e con le pagine dell’Africa Romana possiamo ancora trarre, per obbligare le nostre discipline a capirsi, in nome d’una fiducia reciproca, di raffronti costruttivi, d’una contaminazione scientifica fatta di rispetto, attenzione, apprezzamento.

Ripeto dunque, a mo’ di conclusione, l’auspicio di Mastino e il suo parere su questi Atti, scritti e pubblicati nel desiderio d’un incontro e d’una speranza, da rinnovare e alimentare anche negli anni terribili e difficili che andiamo vivendo[42].

 

PRESENTAZIONE DI ISABEL RODÀ DE LLANZA

L’evento di oggi commemora realmente un vero e grande successo. Ringrazio moltissimo per l’onore che mi è stato dato, di potere parlare in questa prestigiosa sede; e debbo confessare che la scelta e la distinzione mi ha commosso. Il programma stabilisce che sia quasi l’ultima, ma non per questo voglio omettere di riconoscere il grande merito di Attilio Mastino, che in 30 anni ha saputo non fermarsi nè disperarsi mai, nella continuità dell’organizzazione di 20 Convegni e la pubblicazione puntualissima degli Atti corrispondenti. Volumi che consolidano ancor di più il ponte storico tra la Sardegna e l’Africa, con un intenso e fluido scambio tra ricercatori europei e dei paesi del Nord-Africa e con il supporto di diverse istituzioni, in modo speciale quelle della Tunisia, come viene giustamente esposto nella presentazione di Claude Briand-Ponsart. È stata per Attilio una fatica di Ercole, ma per fortuna in questo caso non è rimasto da solo. Tutti sappiamo e riconosciamo il coraggio e la costanza del Professore e amico, Attilio Mastino, meritatamente nominato Socio Onorario dell’Associazione Nazionale Archeologi (ANA). È stato veramente lui il grande imprenditore; ma il “capitano della nave” ha avuto un equipaggio bravissimo e ha saputo lasciare a ciascuno un suo ruolo, protagonista e importante, incominciando per gli entusiasti professori e ricercatori dell’Università di Sassari come Giovanni Brizzi, Raimondo Zucca, Cinzia Vismara, Piero Bartoloni, Marco Milanese, Antonio Ibba, Alessandro Teatini … e un lungo altro elenco. A tutti loro va la mia testimonianza di ammirazione e di gratitudine perché hanno reso possibile questo punto di riferimento per la storia antica, l’archeologia e la filologia.

Il nostro omaggio sincero a Paola Ruggeri, direttrice adesso del Centro di Studi Interdisciplinari sulle province romane, diretto in precedenza da Raimondo Zucca. La prof.ssa Ruggeri è l’editrice di questi monumentali Atti del Convegno tenuto a Alghero-Porto Conte dal 26 al 29 di settembre di 2013, con l’aiuto inestimabile di Maria Bastiana Cocco, Alberto Gavini, Edgardo Badaracco e Pierpaolo Longu. Sono 3 volumi con 2570 pagine e un totale di circa 200 contributi, molti con diversi autori. È difficile immaginare il lavoro di coordinamento, con tanti interventi che non sempre arrivano puntuali e tutti prima o poi siamo stati amichevolmente e gentilmente sollecitati, così da arrivare in tempo alla pubblicazione finale. Stabilire un ordine, in questi condizioni, è opera ciclopica, e utilissimi sono gli indici alla fine.

Gli Atti di questo ventesimo Convegno sono, emotivamente, dedicati alla memoria delle vittime del terribile attentato del 2015 al Museo Nazionale del Bardo. Pagine sincere e piene anche di emozione sono quelle dedicate a coloro ci hanno lasciato, sempre troppo presto: Claude Lepelley, Enzo Aiello, Emilio Gabba, ai quali dobbiamo ora aggiungere la scomparsa di Nicola Bonacasa e, nel mese di marzo, del prof. Josè M. Blázquez che è stato per tanti anni un grande maestro, di molte generazioni di professori universitari in Spagna.

Mi è stato affidato il compito di parlare sui contributi di argomento romano, anche se in tanti saggi si parla di continuità dall’epoca protostorica fino quella romana e medievale, come del resto è giusto che sia, visto il tema principale del Convegno: “Momenti di continuità e rottura”. Fare un commento approfondito di ognuno è un’impresa impossibile, nella mezz’ora assegnata. Sarebbe come spiegare la guerra dei Cento anni incominciando: “alle ore 8 del primo giorno” …

Apriamo con i contributi del primo volume, che per il periodo romano comincia nella pagina 215 con tre magnifici articoli su Leptis Magna che toccano il Complesso Severiano, l’utilizzo del marmo pentelico, le maestranze e i modelli decorativi, per esaminare anche le recenti indagini nell’anfiteatro e le sue tre fasi costruttive, con una proposta di restauro. Andiamo subito ad un altro anfiteatro della Libia, quello di Sabratha e la sua tecnica edilizia, tenendo conto dei marchi di cava. Ancora in ambiente dei ludi, si esaminano le tabulae rinvenute nell’anfiteatro di Cartagine che offrono una nuova luce sulla organizzazione delle venationes e le emozioni che destavano tra gli spettatori e gli stessi venatores, di cui tratta la tesi di dottorato dell’autrice del contributo. Continuiamo a Cartagine per riesaminare gli altari augustei e giulio-claudii, tra i quali un pezzo capitale è l’ara gentis Augustae e anche due lastre scoperte tra l’anfiteatro e le cisterne; non sfugge all’autore la problematica del tempio sulla collina di Byrsa.

L’articolo seguente tratta delle piscinae o vivaria dell’Africa, con esempi a Cartagine, Thuburbo Maius e Bulla Regia. Quindi si presenta una nuova cartografia basata su tale tematica, per la zona di Thala-Haïdra, al centro della Tunisia.

Passiamo alla scultura. Una bella statua giovanile rinvenuta a Chemtou e databile al 200 d.C., viene qui considerata una replica del Ragazzo di Dresda, attribuibile a un originale policleteo. Segue un articolo molto ampio, che disegna lo sviluppo del ritratto romano nelle province africane d’epoca severiana fino all’invasione vandala; prova a rintracciare l’eredità indigena, ma forse in un’epoca assai tarda e personalmente ritengo che i rilievi funerari di Ghirza debbano essere esaminati sotto un’altra luce e su altri binari.

Si continua con una serie di contributi sui mosaici, a cominciare da una riconsiderazione dei Mamuralia nell’ambito dell’ideologia augustea, partendo della scena di un mosaico della “Maison des Mois” di Thysdrus, il celebre calendario figurato. Si discute poi della continuità e rottura nei mosaici nordafricani con riferimento al tema dei ludi pugilum, a proposito di committenti e artigiani in epoca vandala e bizantina. E arriviamo al contributo che pure ha avuto il tempo di consegnare lo scomparso Josè Mª Blázquez, su miti e leggende omeriche nei mosaici della Hispania e del Nord-Africa, con un repertorio molto completo di temi mitologici che l’Autore si proponeva di continuare, in un futuro che sfortunatamente non arriverà per lui. Il nostro ricordo e l’omaggio più sincero per il Professore Blázquez.

Viene quindi un gruppo di saggi dedicati ai mosaici, che s’inizia con l’articolo sulla continuità di circolazione di un modello orientale maschile, con tunica manicata, anaxyrides e berretto frigio, utilizzato in una assai ampia serie iconografica. Un nuovo mosaico è stato scoperto nel frigidarium delle terme della Colonia Iulia Neapolis, nel corso della campagna 2013, che ha messo in luce, grazie a prospezioni subacquee, anche quattro officinae per salsamenta.

Nella parte consacrata alle iscrizioni, incominciamo con le cosiddette “Bauinschriften”, che nell’Africa sono assai ricche d’informazioni e suggerimenti. L’epigrafia illumina anche lo status giuridico dei terreni dei templi costruiti dai cittadini di Thugga. Più avanti vediamo come un elenco di 88 iscrizioni consente di avanzare proposte sulla organizzazione di epula, banchetti offerti da cittadini evergeti, quali sono rappresentati in parecchi mosaici. Lo studio delle iscrizioni di Thibilis consente d’immaginare l’élite e le strutture sociali della città.

In parte collegati all’epigrafia, diversi contributi si dedicano alla rete viaria, prima dell’entroterra settentrionale di Hadrumetum e poi con un inquadramento generale dei problemi di viabilità antica nell’Africa Proconsolare, da non disgiungere dai rapporti di Roma con le popolazioni locali. Chiude questa sezione lo studio del limes africano, con un’analisi del dispositivo militare romano alla frontiera sud.

Andiamo avanti con Numidia e Mauretania e troviamo un quadro generale della storiografia sulla Numidia e la sua popolazione fino il regno di Giuba I. Nella regione dell’antica Satafis apprendiamo che scoperte accidentali hanno consentito di intravedere meglio lo sfruttamento delle campagne. Un articolo significativo è quello che parla della decorazione architettonica con foglie di acanto in Numidia e Mauretania, con un influsso dei modelli italici ed egei. A proposito del nome di Guelma, l’autore fa una riflessione sul peso del sostrato berbero. Proveniente da Calama è anche un tesoretto d’epoca alto-imperiale con 69 monete; finora nella regione si conosceva soltanto un altro tesoro, scoperto nel 1953.

E arriviamo al Marocco, cominciando per le vie settentrionali e per gli itinerari marittimi, tra l’antichità e il medioevo. Si continua con la valutazione della fondazione di tre colonie nella politica organizzativa romana nella fine del I secolo a.C. Entriamo nell’ambito dell’etnografia col tema del cambio e della continuità tra i Getuli del Sud della Mauretania Tingitana. Ingressi, porte e finestre sono per la prima volta studiati nel loro insieme a Volubilis, dove l’onomastica degli abitanti permette di distinguere tra autoctoni e forestieri, venuti soprattutto dall’Italia e dalle Hispaniae. Di Sala si studia un mosaico che è un pavimento di un frantoio. Nel quadro della numismatica, si analizza l’immagine della Mauretania nelle monete del regno di Adriano.

I tre ultimi articoli del primo tomo offrono quadri generali. Due saggi propongono una valutazione d’assieme di 30 anni d’archeologia funeraria nei Convegni L’Africa Romana e sulle prospettive di questa linea di ricerca. Un terzo presenta, dalla sponda meridionale, il cosiddetto “Cerchio dello stretto di Gibilterra”.

Il secondo tomo, con un totale di 71 contributi, per lo più di tematiche romane, continua con l’archeologia del Marocco, iniziando con una rivisitazione del sito di Tamuda, presso Tetuan, e le vicende della sua identificazione. Si continua ancora con Tamuda, in due lavori consecutivi firmati da una medesima équipe di ricercatori, che offrono i risultati della campagna di scavo del 2011 agli inizi del castellum e del suo urbanesimo e cronologia. Seguono contributi sui doni votivi nell’Africa romana, con una bella indagine sui votivi anatomici fittili come elemento di continuità culturale. Molto interessante è poi la riflessione sull’importanza delle culture native nella creazione e sviluppo dell’idea di città-stato e il salto allo “Stato” territoriale; in questo senso, la Grande Numidia di Massinissa ebbe un ruolo eccezionale.

A partire dalla pagina 955 si pubblicano articoli sui viaggi in Cirenaica nel XVIII e XIX secolo e sullo sviluppo dell’archeologia italiana in Libia durante la seconda guerra mondiale, con una notevole differenziazione osservabile tra la Tripolitania e la Cirenaica, come accade ancora oggi. Seguono un bilancio delle conoscenze su Cherchel, con le ricerche dal 1840 fino ai nostri giorni, e un riesame della storiografia sul Marocco antico. Una riflessione sulle gentes o nationes serve per analizzare l’organizzazione provinciale nel sud della Pronconsolare e della Cesariense.

Ritorniamo al Marocco col contributo sulle ricerche a Volubilis, nel periodo dei Mauri, e con le analisi della tabula Banasitana che permettono un approfondimento sugli spostamenti del personale equestre di alto ceto, secondo le interpretazioni lasciate dal grande H.-G. Pflaum più di 50 anni orsono. Viene in seguito uno studio su briganti e ribelli nelle campagne africane del III secolo.

Compaiono poi lavori d’insieme, relativi alla tarda antichità. Prima, sulla creazione della Mauretania Sitifense; poi, sui lavori di manutenzione dei templi dell’Africa proconsolare in epoca tetrarchica e costantiniana. Si parla anche del contrasto tra l’Imperatore e l’Usurpatore nei Panegirici latini costantiniani. Una riflessione d’insieme molto ampia e valida è quella che rientra nella attività commerciale mediterranea fra l’età imperiale e l’età tardo-antica, che diminuisce verso la fine del V secolo e scompare nel VII. È molto utile rivisitare anche la questione della fine dello sfruttamento delle cave, tramite il riesame del sito di Chemtou, l’antica Simithus, e dell’impianto di un ergastulum. La testimonianza di Agostino serve per parlare della conversione degli Ebrei al cristianesimo. Poi si analizza lo sviluppo del centro di Cartagine nel V e VI secolo. Si continua con un bilancio degli studi sulla tarda antichità e sul cristianesimo nei Convegni dell’Africa Romana, dal 1983; poi con un contributo su una tematica di lungo sviluppo, qual è il rapporto tra cristianesimo e Impero, in questo caso sotto la luce dottrinale di Agostino. Un dibattito tuttora aperto è anche la sopravvivenza del donatismo dopo il 411.

Identifichiamo quindi una parte consacrata alle fonti scritte, letterarie ed epigrafiche, incominciando con l’Anthologia latina, come è intitolata nei tempi moderni e come è l’obiettivo di molte ricerche recenti. Di seguito, si parla di Arnobio di Sicca, nella conversione dal paganesimo al cristianesimo. Un’iscrizione di Tipasa serve per tentare l’identificazione dei martiri venerati.

Entriamo nella parte dedicata all’epoca bizantina. Riletture di diversi autori servono per esaminare l’amministrazione provinciale dell’Africa sotto Giustiniano. La testimonianza del vescovo Gregorio di Agrigento permette d’indagare sul porto della sua città e lo stretto collegamento col Nord-Africa. Segue un lavoro sulla difesa dell’Egitto bizantino, zona davvero strategica per l’Impero romano-bizantino.

Passiamo adesso alla Cirenaica, per esaminare l’esercito privato di Sinesio contro gli Austoriani o Ausuriani, e per studiare anche le nuove strategie difensive, da Sinesio a Giustiniano.

Transitiamo quindi in Sardegna, per seguire il vescovo africano Fulgenzio, esiliato nell’isola per la sua fede ortodossa, e anche per seguire il Rutilius Palladius, autore del celebre Opus agriculturae e zio dello scrittore Rutilio Namaziano.

Un approccio all’esame della tradizione tardo-antica è ora possibile attraverso un esame dell’opera di Carlo Magno, fondatore del nuovo ordine in Europa.

Dopo queste pagine, entriamo in una parte consacrata alle produzioni artistiche ed epigrafiche. Prima, la musiva, con una nuova proposta di lettura del mosaico di Cartagine con uno splendido catalogo di animali e una iscrizione frammentaria di alto interesse. Segue la strana vicenda di una statua di Mustis consacrata a Giove Ottimo Massimo.

Entriamo con questo nella conoscenza di siti poco noti, grazie alle prospezioni e alle scoperte epigrafiche nella regione di Bou Arada in Tunisia, che consentono di approfondire l’onomastica degli abitanti romani; l’analisi dell’epitafio di Peculiaris permette di procedere verso il sito antico di Ksar Bou Khriss a un centinaio di chilometri dalla capitale Tunisi. Le iscrizioni rendono possibile determinare l’origine africana degli funzionari dei secoli II e III, e di apprendere che 61 spettacoli furono offerti in Numidia da 33 evergeti. I termini pubblici sono l’elemento più sicuro per determinare i confini, come in Mauretania, dove sei cippi terminali si riferiscono a proprietà imperiali.

Continuiamo in ambito epigrafico con la notevole presenza di iscrizioni imperiali di Mauretania Cesariense e Sitifense, che dimostrano più continuità che discontinuità. Sono esaminate le tabulae di ospitalità e di patronato, in particolare una tessera di Leptis Magna. Interessante è la presenza femminile nella medicina dell’Africa romana, con iscrizioni che parlano di 6 obstetrices e 1 medica. L’analisi della tegola di Palermo serve per un erudito esame, con tante considerazioni ipotetiche che non chiudono il dibattito sulla proprietà o no dei Minicii Natales Barcinonenses nell’Africa Proconsolare. Saltiamo a Luni, dove si rivisitano le epigrafi di imperatori e notabili di origine africana. Un’ampia visione del paesaggio epigrafico in Sardegna, Betica e Africa è breve, ma con interessanti suggerimenti.

Ancora sul piano dell’epigrafia, usciamo del territorio africano dapprima con una lettura dei tituli picti su anfore betiche rinvenute a Modena e Parma, e poi con lo studio degli graffiti latini del santuario di Son Oms, sito preistorico di lunga sopravvivenza nell’isola di Maiorca, la cui romanizzazione iniziale viene studiata alcune pagine più avanti (1651 ss.). L’epigrafia è stata una scienza che ha utilizzato molto precocemente le nuove tecnologie e qui si offrono i risultati attraverso un laser scanner 3D di un progetto di ricerca dell’Università degli Studi di Sassari. Continuiamo con la Sardegna, esaminando la nascita della praefectura provinciae Sardiniae, sicuramente dovuta a Tiberio. Infine, i supporti funerari consentono di considerare tipi concreti, come i cippi e le cupae.

Andiamo sulla capitale, Roma. Roma fondata dagli Etruschi? con punto interrogativo; la risposta dell’autore è positiva. Più avanti (p. 1689 ss.) si identificano i resti monumentali rinvenuti a Palazzo Valentini, che consentono l’identificazione col templum Divi Traiani et Divae Plotinae, e si analizzano anche i resti della domus B, molto attiva nel III secolo (p. 1717).

Dopo questa domanda sulla fondazione etrusca di Roma, rientriamo in continente africano, con una riflessione sulle influenze dell’Occidente romano su Marina-el-Alamein, in Egitto. Presentando esempi dall’Africa Proconsolare e dall’Hispania, si studiano i mosaici come documento della cultura letteraria. Si parla successivamente dell’Africa romana nei pavimenti musivi di Lusitania.

Siamo dunque in ambiente ispanico. In primo luogo, le Baleari con la romanizzazione iniziale nell’isola di Maiorca, lo studio dell’epigrafia e la vita municipale di Pollentia e gli initerari tra questa città e Palma. Un parallelismo che si dimostra in parecchie occasioni tra Hispania Citerior e Dalmazia, si può stabilire con l’attribuzione dello ius Italicum alle rispettive comunità sotto Augusto. Per continuare in Dalmazia, si presentano le evidenze epigrafiche di Dalmati nelle provincie africane.

Chiudono questo secondo tomo due articoli, il primo con l’analisi delle importazioni africane nella costa tirrenica cosentina, molto intense tra il III e il V secolo, e finalmente, un secondo che offre i risultati della ricerca archeologica nelle isole pontine maggiori, con un quadro cronologico della media e tarda età imperiale.

E arriviamo al terzo volume con 57 contributi, tutti meno 4 (pp. 2133-2177) dedicati alla archeologia in Sardegna. Di questi, 33 appartengono all’epoca romana.

Noi cominciamo dalla pagina 1807 dove troviamo un bell’articolo sulle produzioni ceramiche tra il II secolo a.C. e il I d.C., l’ una a vernice nera e l’altra conosciuta come sigillata sarda.

Dopo, entriamo in una parte molto ricca, centrata in differenti aspetti della città di Nora, oggetto di ricerca da parte di Università diverse. Dal tempio del culto imperiale a Nora è apparsa la dedica epigrafica a Mulciber. Più avanti nel volume, si analizza il contesto ceramico del pronao e, sempre a Nora, si esaminano anche contenitori anforici che permettono di conoscere meglio i flussi commerciali di Nora e della Sardegna meridionale. Non si trascura la continuità di vita a Nora nella tarda antichità fino al VIII secolo con lo studio della ceramica ad impasto.

Immediatamente dopo troviamo una sintesi sul territorio del Sulcis nel sudovest della Sardegna dove anche una équipe spagnola porta avanti un progetto per inventariare il ricco patrimonio. Più oltre si tratta delle ville e strutture produttive del territorio di San Giovanni Suergiu.

All’età repubblicana appartengono le terrecotte architettoniche del tempio di Sardus Pater ad Antas e di questa località si analizza anche un anello in argento con simbolismo giudeo-cristiano. In contesto alto-medievale si situano le strutture scavate a Selargius, ma i frammenti epigrafici consentono di scorgere l’ hinterland rurale di Cagliari.

Altri contributi ci portano all’anfiteatro di Aquae Ypsitanae-Forum Traiani con i recenti scavi che hanno messo in luce un terzo del monumento. In seguito andiamo al periodo tardo e bizantino della città romana di Cornus e al progetto di approfondire lo studio del paesaggio antico e dello sfruttamento di miniere di ferro. Continuiamo con l’archeologia del paesaggio tra le città di Tharros e Cornus tra il I e il VII secolo. Un altro contributo presenta lo scavo archeologico del ponte sul Rio Palmas, costruito sotto Traiano, mentre l’articolo successivo tratta della viabilità romana in territorio di Tuili. Continuità e rotture, tema centrale del Convegno, si rintracciano nei territori di Teti e Villanova Tulo dove è stato individuato nel 2012 un ambiente di età romana.

Entriamo poi nell’area di Turris Libisonis con due lavori che fanno conoscere importanti indagini archeologiche recenti su questa colonia. Parecchie pagine dopo (2425) si offre la scoperta nel 2013 di un nuovo tratto del suo acquedotto di 106 metri; un altro articolo pubblica una bella gemma vitrea decorata con una scena di caccia al grande felino che si collega ad un modello sulla figura di Alessandro Magno.

Seguono 2 articoli con i nuovi dati delle prospezioni subacquee nell’arcipelago della Maddalena, che offrono nuova luce sui relitti in questa zona di passaggio, chiave per le rotte marittime.

L’utilizzo del termine “Sardo Pellita” viene sottoposto a un’analisi in funzione dei modelli storici utilizzati nelle varie epoche.

Nell’hinterland di Cagliari sono state realizzate prospezioni nel territorio di Settimo San Pietro in età romana e hanno dimostrato un’intensa produzione agraria nei secoli romani e una occupazione capillare.

Proseguendo con i paesaggi rurali, andiamo nel centro della Sardegna, dove la presenza di comunità romanizzate appare più antica di quanto si credeva, come dimostra la villa rustica di Ortueri.

Andiamo avanti nel tempo, con le recenti indagini all’esterno della cattedrale di San Pietro di Bosa eretta nell’XI secolo; nell’area settentrionale sono state scoperte ceramiche africane A, C e D e altre ceramiche di mensa e dispensa dalla fine IV e gli inizi del V secolo. Continuiamo nella valle del Temo, tentando di ricostruire il paesaggio antico di Bosa, molto diverso di quello attuale.

Dopo, andiamo ad Alghero dove si studia una nuova iscrizione funeraria della necropoli di Monte Carru, appartenente a un personaggio della gens Caecilia.

Chiude il volume un bell’articolo d’insieme su continuità e trasformazione di flussi commerciali tra le Baleari, Sardegna, Corsica e alto Tirreno in epoca romana, rivalorizzando il carattere di ponte delle isole nel bacino del Mediterraneo Occidentale e le zone del continente.

Rimane soltanto da fare un breve riassunto degli 4 lavori nella parte centrale del volume (p. 2133 a 2186) che escono dell’area sarda per ritornare all’Africa e a soggetti generali. In primo luogo si tenta di distaccarsi della considerazione generale della provincia come un confine, per fare un elenco dei fines, delle arae e dei termini epigrafici che consentono di intravedere l’identità provinciale. Segue una sintesi sui mausolei romani dell’Africa Proconsolare, con un ricco paesaggio funerario di 400 monumenti all’incirca, molti inediti e in cattivo stato di conservazione; per questo il progetto appare di alto interesse, tenendo conto della distribuzione spaziale, delle tipologie architettoniche e, naturalmente, dell’epigrafia e del rango sociale degli defunti e le loro famiglie. Un terzo articolo parla, in un modo generico, della continuità iconografica in taluni mosaici romani di zone molto diverse. Il quarto articolo di questo blocco tocca il soggetto delle immagini scultoree della gente di colore, discusse al di là delle impostazioni dipendenti da pregiudizi razzisti o etnici: sono i cosiddetti “etiopi” delle fonti letterarie; solitamente rappresentano schiavi o prigionieri.

Con questo arriviamo alla fine del nostro percorso, un percorso di una grande densità e ricchezza, che dimostra una volta di più come la conoscenza del Mediterraneo occidentale non sarebbe la stessa se non avessimo avuto questi 30 anni di Convegni sull’Africa Romana.

Vivant, crescant, floreant !!!


CONCLUSIONI DI MARIO MAZZA



[1] Claude BRIAND-PONSART, Présentation: pp. V-XV.

[2] Attilio MASTINO, Presentazione del volume Epì oínopa pónton. Studi sul Mediterraneo antico in ricordo di Giovanni Tore, a cura di C. Del Vais: pp. 107-113.

[3] Intissar SFAXI, Expériences de traduction dans l’univers libyque: l’apport des inscriptions bilingues.

[4] Alessandro CAMPUS, L’Africa romana per l’epigrafia punica: trent’anni di ricerche.

[5] Paola CAVALIERE, Danila PIACENTINI, Epigrafia del quotidiano nel mondo fenicio e punico d’Occidente.

[6] Elena MORENO PULIDO, Melqart-Herakles nella monetazione mauritana.

[7] Zakia BEN HADJ NACEUR-LOUM, Trente ans de numismatique maghrébine: quel bilan et quelles perspectives?

[8] Alessandro DE BONIS, Distribuzione di siti e circolazione di beni nella Tunisia punica.

[9] Ali CHERIF, Prospections archéologiques et découvertes épigraphiques dans la région de Bou Arada (Tunisie).

[10] Caterina Maria COLETTI, Alcune considerazioni sugli itinerari marittimi del Marocco settentrionale tra l’antichità e il medioevo.

[11] Emilio GALVAGNO, Atene, Cartagine, Roma e la retorica di Elio Aristide.

[12] Mathilde CAZEAUX, Masinissa, traître loyal: paradoxes d’une figure héroïque chez Tite-Live. Cf. Mathilde CAZEAUX, « Dia tèn pros te theous kai tous anthrôpous athesian » (Polybe, XIV.1.4). Les alliés numides de la seconde guerre punique dans leurs rapports aux dieux et aux hommes, in « Guerre et religion dans les conflits entre Carthage et Rome. Traces et représentations ». Colloque Jeunes Chercheurs tunisiens, français et italiens, organisé par Corinne Bonnet, Mohamed Tahar et Sergio Ribichini. Toulouse, 31 mai – 1er juin 2016.

[13] Mansour GHAKI, Dougga, le libyque horizontal et la punicisation.

[14] Bruno D’ANDREA, Continuità e rottura in Nord Africa nel passaggio dall’età punica all’età romana: l’esempio delle stele votive, tipologie formali, iconografie e iconologie.

[15] Luis Alberto RUIZ CABRERO, «Non potevo fumare l’erba sul prato di mio padre». La supervivencia del molk en el África romana.

[16] Josuè RAMOS-MARTÍN, Antonio TEJERA GASPAR, La concepción de la divinidad entre los antiguos Libios.

[17] Najoua CHEBBI, Ammon: identité, espace et populations.

[18] Valentino GASPARINI, L’Africa romana, laboratorio di mutazioni religiose. Nuove prospettive su preferenze individuali e spazi di negoziazione. Gli obiettivi principali di un progetto di studio triennale Introducing New, Re-interpreting Old Gods. Religious Pluralism and Agency in Africa Proconsularis and Numidia (146 BC – 235 AD).

[19] Ridha KAABIA, Arnobe de Sicca du paganisme au christianisme: l’évolution cultuelle d’un lettré romano-africain.

[20] Giuseppina MANCA DI MORES, Il Sardus Pater ad Antas e la tarda repubblica romana.

[21] Paolo Benito SERRA, Su un anello d’argento da Antas-Fluminimaggiore e su un sigillo in bronzo da Scano Montiferro.

[22] Piero BARTOLONI, Le necropoli fenicie di Sulky. 1: le collezioni private.

[23] Elisa POMPIANU, La necropoli di Villamar nel contesto della presenza cartaginese nella Marmilla.

[24] Sara MUSCUSO, Le urne cinerarie di età ellenistica dalla necropoli sulcitana.

[25] Stefan ARDELEANU, Au-delà du couple “continuités et ruptures”. Problèmes de périodisation en Numidie entre le IIe s. av. J.-C. et la fin du Ier s. ap. J.-C. ; Nouzha BOUDOUHOU, Témoignages littéraires et archéologiques de circulations aux confins des Maurétanies aux époques préromaine et romaine. Orietta Dora CORDOVANA, Note su alcune dinamiche di relazioni culturali in Africa romana. Serena ZOIA, Rotture e continuità nel paesaggio epigrafico mediterraneo di età romana: un confronto. Carlo TRONCHETTI, Continuità e trasformazione nella Sardegna romana tra repubblica e primo impero. Hamid ARRAICHI, Le Maroc antique dans l’historiographie contemporaine: continuité, rupture ou mutation? Marco Edoardo MINOJA, Carlotta BASSOLI, Valentina CHERGIA, Fabio NIEDDU, Una città sul mare. Ricerche archeologiche a Bithia. Maria Adele IBBA, Alfonso STIGLITZ, Maura VARGIU, Paesaggi rurali dell’hinterland di Cagliari: il territorio di Settimo San Pietro. Elisabetta GARAU, Marco RENDELI, Ignazio MURA, Noemi FADDA, Enrico SARTINI, Sant’Imbenia: gli ambienti commerciali e la piazza. Beatrice Alba Lidia DE ROSA, Studi archeometrici preliminari su alcune ciotole carenate dell’età del Ferro dal sito nuragico di Sant’Imbenia.

[26] Jeremy Mark HAYNE, Emanuele MADRIGALI, Andrea ROPPA, Continuità e innovazioni formali nei materiali da S’Urachi: un riflesso di interazione tra Nuragici e Fenici.

[27] Michele GUIRGUIS, Rosana PLA ORQUÍN, Monte Sirai tra età punica e romana (IV-II secolo a.C.). Trasformazioni urbane e continuità culturale nella Sardegna di età ellenistica.

[28] Matteo MILETTI, Stefano SANTOCHINI GERG, Le relazioni fra Etruria e Sardegna nella Prima e Seconda età del Ferro.

[29] Mauro MARIANI, Sant’Imbenia e i processi di formazione urbana in Sardegna nell’età del Ferro.

[30] Paolo BERNARDINI, Tradizione e cambiamento, continuità e rottura in Sardegna nella Prima età del Ferro: l’esempio di Monte Prama.

[31] Alessandra GOBBI, Teresa MARINO, La Prima età del Ferro a Pontecagnano. Dinamiche insediative e topografia delle necropoli.

[32] Giovanna PIETRA, Il Sulcis in età romana. Antonella UNALI, Sulci in età repubblicana: la cultura materiale.

[33] Felicita FARCI, Gianfranca SALIS, Un contributo allo studio del Sulcis punico-romano: l’intervento 2011-12 in località Su Landiri Durci (Carbonia).

[34] Oliva Rodriguez GUTIERREZ, Jacinto SANCHEZ GIL DE MONTES, Araceli RODRIGUEZ AZOGUE, Alvaro FERNANDEZ FLORES, “In campis myrteis”. Un proyecto para el análisis diacrónico del territorio de la región sulcitana: una primera aproximación metodológica al estudio de la época antigua.

[35] Jacopo BONETTO, Anna BERTELLI, Filippo CARRARO, Giovanni GALLUCCI, Maria Chiara METELLI, Ivan MINELLA, “Nora e il mare”: ricerche e tutela attorno agli spazi costieri della città antica.

[36] Michele AGUS, Stefano CARA, Andrea Raffaele GHIOTTO, Le terrecotte figurate rinvenute nelle ricerche subacquee di Michel Cassien a Nora: uno studio integrato tra archeologia e archeometria.

[37] Romina CARBONI, Emiliano CRUCCAS, Luca LANTERI, Nora (Pula-Cagliari). Progetto Isthmos. Campagna di Survey e scavo 2013.

[38] Jacopo BONETTO, Giovanna FALEZZA, Caterina PREVIATO, Archeologia dell’edilizia a Nora (Sardegna). Dalla cava di Is Fradis Minoris ai monumenti della città.

[39] Eleonora Maria CIRRONE, I contenitori anforici dal riempimento della vasca-cantina dei vani V e Z dell’area AB a Nora.

[40] Bianca Maria GIANNATTASIO, Ceramica “greco-orientale” dall’area artigianale di Nora, come indicatore di rottura.

[41] Guido CLEMENTE, Momenti di continuità e rottura: bilancio di trent’anni di convegni dell’Africa romana: pp. 41-56.

[42] Attilio MASTINO, Saluto introduttivo: pp. 29-32.




La scomparsa di Pinuccio Sciola (San Sperate, 15 marzo 1942 – Cagliari, 13 maggio 2016)

La scomparsa di Pinuccio Sciola (San Sperate, 15 marzo 1942 – Cagliari, 13 maggio 2016)

Con grande dolore comunico la scomparsa dell’amico Pinuccio Sciola, ricordandolo con le parole di qualche anno fa, a proposito del libro di Ottavio Olita su San Sperate e poi del romanzo Il futuro sospeso, che racconta la guarigione del protagonista. Per un singolare gioco beffardo del destino, mentre Ottavio esce dall’angoscia della malattia, l’amico di sempre Pinuccio Sciola scopre in parallelo di avere un tumore, racconta sulla stampa la diagnosi e la sentenza dei medici, l’operazione che ha rimosso lo stomaco, la stanchezza estenuante che ora lo tormenta. Ma anche lui riprende a vivere e a sognare, a raccontarsi come a Banari, a Bosa, a Sassari, in tanti altri luoghi, a piedi scalzi, con la voglia di utilizzare al meglio il tempo che ormai gli rimaneva, di coltivare le amicizie vere, di indicare una strada per coloro che sarebbero venuti dopo di lui.

La lunga primavera di San Sperate è iniziata cinquanta anni fa, nel 1968, all’indomani del viaggio di Pinuccio Sciola in Spagna e poi nella Parigi sconvolta dal vento della contestazione del maggio studentesco e poi in Messico, alla ricerca di una dimensione mitica immaginata e desiderata a lungo: col volume su San Sperate curato da Ottavio Olita siamo condotti per mano attraverso le interviste dei tanti protagonisti di allora a riscoprire le ragioni per le quali il paese contadino del Campidano è uscito da un sonno millenario, quando i suoi abitanti tutti all’improvviso si sono appassionati di arte, hanno creduto nella rivoluzione del sorriso, hanno compiuto un percorso culturale che è stato anche un’esperienza collettiva che possiamo riconoscere ormai entrata nella storia della Sardegna. Le immagini in bianco e nero raccontano più delle parole con una profondità di campo che impressiona, fanno rivivere i tempi lontani del grigio paese di fango dall’aspetto spettrale che all’improvviso è diventato candido, ha riscoperto i colori, le figure, le emozioni, ha condiviso la passione, le curiosità, i desideri di un ragazzo come tanti, chiamato a guidare tutta la sua gente, che non è rimasta a guardare ma si è fatta incantare e quasi sedurre, ha vissuto e sofferto quasi una malattia come se fosse vittima di un’epidemia benefica.

Leggendo queste pagine mi è venuta in mente la vicenda straordinaria raccontata da Luciano di Samosata nel suo arguto volume Come si deve scrivere la storia che non dimostra i suoi quasi duemila anni: <<dicono che durante il regno di Lisimaco dopo la morte di Alessandro Magno, una malattia colpì gli Abderiti, gli abitanti di Abdera, una città della Tracia: dopo esser andati a teatro ed aver sentito l’attore tragico Archelao che recitava l’Andromeda di Euripide, dapprincipio tutti in massa presero la febbre, subito forte fin dal suo apparire e persistente; poi intorno al settimo giorno alcuni versarono abbondante sangue dal naso, altri si coprirono di sudore, abbondante anch’esso, che li liberarono dalla febbre. Ridussero però le loro menti in uno stato pietoso. Tutti infatti deliravano per la tragedia, facevano risuonare giambi e levavano alte grida. Soprattutto cantavano le monodie dell’Andromeda di Euripide e davano un’interpretazione canora del discorso di Perseo. E la città era piena di tutti questi tragedi del settimo giorno, pallidi e smagriti, che a gran voce urlavano dei versi. E questo per molto tempo, fino a quando l’inverno sopraggiunto con gran freddo li fece cessare dal loro impazzimento>>.
Il morbo abderitico, questa sorta di epidemia artistica, si era diffuso ai tempi di Luciano quando tutti si misero a scrivere la storia e non vi sembri offensivo se ho pensato di collegarlo con l’improvvisa passione e l’entusiasmo che ha colpito in un colpo gli abitanti di San Sperate, come ipnotizzati tutti assieme e coinvolti nella passione per la pittura e per l’arte.

Questo volume conserva memoria delle controverse fasi della trasformazione dell’antico paese contadino, tormentato in continuazione dalle alluvioni dei due fiumi, il Rio Mannu-Flumini ed il Bonarba, caratterizzato da tradizioni quasi preistoriche, da un’economia di baratto e di sopravvivenza basata sulle antiche professioni, sul trasporto animale a dorso d’asino, sul frumento impiantato in età romana in un’isola che fu per Cicerone uno dei tria frumentaria subsidia rei publicae.

Un paese che poi ha recepito il canto di sirena del mito, un messaggio di armonia, pace e cultura, portato dagli artisti provenienti da tutto il mondo come Eugenio Barba col suo Odin Teatret, i tedeschi Elke Reuter, Rainer Pfnurr, l’olandese Meiner Jansen, lo svizzero Otto Melcher, tra i sardi Foiso Fois, Giorgio Princivalle, Primo Pantoli, Gaetano Brundu, Giovanni Thermes, questi ultimi caratterizzati da un forte astrattismo e simbolismo: allora i muri vengono dipinti di bianco, vengono intonacati i mattoni di fango, i caratteristici ladiris che ricordano una tecnica edilizia documentata in Sardegna dallo scrittore Palladio nel VI secolo d.C., i mattoni di argilla e di paglia prodotti in primavera ed descritti nel de lateribus faciendis. Arrivano i murales astratti, simbolisti, neorealisti, espressionisti, cubisti, che parlano di un mondo più grande attraverso immagini schematiche spesso spiegate con didascalie, una forma nuova di epigrafia popolare destinata a durare per poco tempo. Ma l’obiettivo non è quello di rendere bello un paese brutto, è soprattutto quello di trovare un pretesto per un grande momento di partecipazione comunitaria e di dibattito intorno all’arte popolare. Contemporaneamente l’Ente Flumendosa bonificava il territorio comunale ed avviava le canalizzazioni che ancora oggi consentono l’irrigazione di una campagna destinata a fiorire in modo straordinario, con i suoi frutteti e le sue campagne lussureggianti.

Questa non è però un’opera celebrativa perché in realtà Ottavio Olita è riuscito a restituire il senso delle polemiche di allora, i contrasti tra artisti, la durezza di uno scontro che ha appassionato e diviso il paese, tanto che c’è qualcuno che rimpiange i tempi nei quali l’amministrazione comunale di destra era ostile ai murales e all’arte.

Giganteggia in queste pagine la figura carismatica di Pinuccio Sciola, accanto ai suoi maestri e mecenati, Foiso Fois, Guido Vascellari, a Salisburgo Emilio Vedova e poi Giacomo Manzù: nelle parole di chi l’ha conosciuto ragazzino, Pinuccio compare senza neppure le scarpe ai piedi, ma già circondato da affetto, stima, speranza, affezionato alla vita del paese che si sviluppa con una straordinaria socialità nelle cantine e nelle cucine, integrata nella campagna, ma insieme pieno di curiosità, desideroso di lasciare una traccia di sé su quella pietra che raramente si incontra nelle campagne campidanesi: dunque innanzi tutto la raccolta delle macine sparse in campagna, chiamate a decorare le piazze, poi il lavoro con gli amici, le tante idee bizzarre.

E poi i viaggi, a Firenze, nella Madrid franchista alla Moncloa, a Barcelona, poi a Parigi, a Salisburgo, nel lontano Messico alla scuola di Davide Alfaro Siqueiros, attraverso suggestioni visive e stimoli che vanno dall’arte pre-colombiana al realismo socialista. Per Renata Serra, che è la studiosa che per prima ha riflettuto su questi temi con una straordinaria profondità, Sciola non assorbe indistintamente dati qualunque delle culture messicane ma opera una scelta consapevole, che cade non sulla figuratività maya, distinta da un accentuato horror vacui, da un decorativismo ossessivo, da un barocco ante litteram, bensì sulla mitica età dell’oro dell’immaginario precolombiano, sulla stagione classica per l’elaborazione di un sistema euritmico di griglie geometrizzanti entro cui si struttura l’immagine.

Nominato ispettore archeologo della Soprintendenza, Pinuccio fu in rapporto con i più qualificati studiosi sardi, come Giovanni Lilliu, Alberto Boscolo, e Salvatore Naitza, di cui ci rimangono in queste pagine due preziosissime testimonianze di rara profondità: io personalmente ricordo l’amicizia di Pinuccio con Renata Serra e con Giovanna Sotgiu, che mi ha fruttato in occasione del mio matrimonio il dono di una scultura in legno di olivo di una madre e di un bimbo e insieme un dipinto a tempera sullo stesso soggetto, quasi un murale con le mani e i piedi deformati come in un manifesto. E poi più di recente una pietra musicale, che conservo gelosamente tra Bosa e Sassari.

Tra gli estimatori di allora c’è ancora Gianfranco Pintore, direttore del periodico bilingue Sa Sardigna, espressione della cooperativa, come ci sono i tanti artisti coinvolti a San Sperate, come Aligi Sassu, innamorato del paese dipinto, come lo chiamava, ma criticato per i suoi cavalli dai ragazzi del paese, pronti a mobilitarsi per testimoniare come si deve veramente dipingere. Del resto passarono per San Sperate persone come Arnoldo Foà o Dario Fo.

Pinuccio fu il motore della trasformazione del suo paese, che ben presto diventa il paese museo, con il parco megalitico, i murales, il cineforum, il teatro, la musica come il jazz di Alberto Rodriguez, in un vulcanico e magmatico succedersi di proposte contraddittorie e confuse, alcune portate avanti e poi accantonate, facendo leva sulle piccole occasioni di incontro, una processione, la sagra delle pesche, le scoperte archeologiche. Dunque la nascita della cooperative, il paese che si apre, le case che iniziano ad ospitare gli artisti, i cortili, l’impegno per difendere la fisionomia di un centro storico povero ma pieno di significati e di memorie, le resistenze degli amministratori ottusi ed incompetenti.

C’è del resto veramente lo scontro con le autorità locali e nel 1975 con la giunta municipale di destra, con il duro intervento delle forze di polizia e dei carabinieri, le perquisizioni e le intimidazioni, il processo davanti al pretore di Decimomannu, che segnò anche il riconoscimento del valore morale e culturale delle iniziative e l’impegno per difendere tutte le forme di espressione artistica, continuamente tormentata da scritte offensive, dai piccoli interessi di bottega, da invidie locali. Infine il lento pendio che porta Pinuccio ad abbandonare la politica attiva sia pure moderata e sardista ed a distinguersi sempre più nettamente dalle amicizie compromettenti, dall’arrivo di amici delle brigate rosse, dagli assistenti di Toni Negri che in quegli anni circolavano in Sardegna, dalle strumentalizzazioni politiche, nelle quali era rimasto invischiato – scrivono Antonio Sciola e Nanni Pes – per la sua eccessiva ingenuità, per il suo candore, per la sua fiducia negli altri. Lui stesso scrive oggi di aver rischiato di finire in galera come uno scemo, senza rendersi conto dei pericoli che correva.

Ma più mi hanno sorpreso la durezza dei giudizi di Primo Pantoli su Pinuccio, accusato di essere politicamente debole, un istintivo che si è abbandonato ad una grande ingenuità.
Per alcuni Pinuccio avrebbe sempre rifiutato il mondo della cultura, rinunciando al compito degli intellettuali che sarebbe quello di selezionare e di conservare. Voglio ricordare i riconoscimenti accademici di Pinuccio, che sembrano sottovalutati se si pensa alla rete di amicizie che ha coltivato e se io stesso dieci anni fa come preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Sassari avevo avuto modo di proporlo per un contratto di insegnamento al fianco di Aldo Sari e Gino Kalby, un’occasione per far entrare aria nuova nel mondo dell’Università che su L’Unione Sarda era stata apprezzata da Antonangelo Liori.

Quello degli uomini e delle donne di San Sperate non è stato allora quaranta anni fa un impazzimento di cui vergognarsi, una malattia contagiosa e molesta: è stata soprattutto l’occasione per trovare la sintonia tra il microscopico paese del Campidano ed il mondo di fuori, soprattutto tra l’arte di oggi ed una storia lunga che non si è voluta in nessun modo rinnegare, ma di cui andare orgogliosi, con una consapevolezza nuova.




La scomparsa del prof. Ugo Carcassi (Cagliari, 12 agosto 1921 – Cagliari, 16 maggio 2016)

La scomparsa del prof. Ugo Carcassi
(Cagliari, 12 agosto 1921 – Cagliari, 16 maggio 2016)

Ho appreso mentre mi trovavo in Algeria la notizia della scomparsa, il 16 maggio, del prof. Ugo Carcassi, maestro e amico indimenticabile, che avevo incontrato per la prima volta grazie ad Eugenia Tognotti. Per noi a Sassari qualche anno fa (il 22 maggio 2014) aveva presentato il volume   ‘Un medico in Sardegna’, per le edizioni di Carlo Delfino: un testo che apriva uno squarcio sulla sua vita operosa di medico, ricercatore infaticabile, scienziato di livello internazionale, professore universitario, Preside di Facoltà, Direttore di Clinica Medica. Sempre per l’editore Delfino, Carcassi aveva studiato le patologie di personaggi come Giuseppe Garibaldi (in tre diversi volumi), Giacomo Casanova, Galileo Galilei, Vincenzo Bellini, Nicolò Paganini, Carlo V. Ma Carcassi si era occupato assieme ad Ida Mura della pubblicazione del volume Sardegna e malaria e soprattutto aveva studiato la vicenda della salma di Garibaldi a Caprera.

Il libro si apre con le preziose testimonianze dello scrittore Giorgio Todde e dell’amico e collega prof. Franco Pitzus, professore onorario di Medicina interna e promotore della organizzazione sanitaria nel Marghine e nella Planargia, che col professor Carcassi ha condiviso decenni di vita accademica e collaborazione scientifica. Giorgio Todde in quella sede gli aveva fatto il miglior complimento che un docente, un ‘maestro’ può ricevere: lo considerava, con pochi altri suoi professori, di cui conserva memoria – cioè Gian Luigi Gessa, Antonio Cau e qualcun altro – un <<pedagogo>>, nella migliore accezione del termine: <<il pedagogo non trasferisce solo conoscenza – per la quale basterebbero i libri. Ma gli strumenti per accedere alla conoscenza, metodo e regole per organizzare, classificare e ordinare il sapere>>.  Dunque un personaggio capace di appassionare, di trasmettere emozioni, curiosità, stimoli ai suoi numerosi allievi. Eugenia Tognotti e Maristella Mura avevano ripercorso – seguendo il filo dei ricordi sapientemente intrecciati nel libro – il lunghissimo e brillante percorso accademico e ricostruito  l’intensissima attività scientifica e professionale.

Io avevo ricordato che il professor Carcassi si era laureato nel nostro Ateneo. Nell’Archivio storico dell’Università di Sassari  si conserva il fascicolo personale con la tesi di laurea. Dopo essersi iscritto, nel 1940, alla Facoltà di Medicina (proveniente dal Liceo Azuni) aveva dovuto interrompere gli studi con lo scoppio della guerra. Arruolatosi come volontario dei ‘carristi’ aveva trascorso qualche tempo in un Ospedale da campo in Africa settentrionale. Col ritorno al tempo di pace aveva ripreso gli studi, sobbarcandosi un carico notevole di esami per recuperare il tempo perduto; cosa che riuscì a fare laureandosi con lode nel 1946. Il prof. Carcassi ricordava vividamente ogni nome di maestri e condiscepoli, degli Istituti e delle Cliniche come quella di Patologia medica, in Viale San Pietro, richiamando con brevi pennellate le figure di maestri che hanno avuto un’enorme influenza nella vita e nella carriera scientifica come il professor Flaviano Magrassi, allievo del famosissimo patologo e clinico Cesare Frugoni di cui aveva seguito le lezioni, a Roma, durante la guerra. E, ancora, il prof. Giuseppe Pegreffi dell’Istituto Zooprofilattico e i collaboratori Antonella Quesada e Dionigi Mura, padre di Ida e Maristella.

Gli anni di Sassari furono decisivi: a Sassari conseguì il diploma di Malariologia ed è qui che impostò una rete di produttivi rapporti scientifici che si rivelarono negli anni successivi in cui avrebbe dato un contributo fondamentale agli studi pionieristici sul rapporto che lega due malattie così diverse come la talassemia, malattia genetica e la malaria, malattia infettiva. I suoi studi sulla talassemia in Sardegna, in parallelo con le ricerche condotte da altri studiosi in varie aree italiane, avrebbero consentito di costruire la nuova mappa della diffusione della talassemia in Italia. In quell’occasione avevamo sentito il racconto delle esperienze in alcune condotte mediche del sassarese, come medico condotto supplente, fatte ad panem, come si dice, per racimolare qualche soldo con cui integrare il magrissimo stipendio di assistente universitario.  E’ in queste descrizioni di ‘casi’ di malattia, i più vari, che emergeva la statura di medico del prof. Carcassi che s’imponeva anche nella bella immagine di Giorgio Todde: <<ricordo che quando, con un gesto istintivamente teatrale, scopriva un malato, Ugo sembrava più grande, più alto e più imponente perché il gesto gli era connaturato ed esprimeva tutto un mondo>>.

Un medico, un clinico, ben lontano dal borioso medico Simmaco, seguito da un codazzo di assistenti, su cui ironizza Marziale nel I secolo d.C., un tipo di medico che noi tutti ci auguriamo di non dover mai incontrare (V, 9): <<Non stavo bene, languebam: ma tu, Simmaco, prontamente venisti da me, accompagnato da cento discepoli. Cento mani gelate dalla Tramontana mi palparono, centum me tetigere manus aquilone gelatae; non habui febrem, Symmache, nunc habeo: non avevo febbre, Simmaco, ora ce l’ho>>.

Ero a Cagliari quando Ugo Carcassi, assieme a Pasquale Mistretta, il 12 giugno di due anni fa, aveva inaugurato il Policlinico Universitario, ricordando il Rettore Duilio Casula, predecessore di Giovanni Melis e Maria Del Zompo. Abbiamo avuto tante altre occasioni felici, come per il ricordo di Tito Orrù che io avevo tenuto in Municipio a Cagliari il 28 marzo 2014 o più di recente, un anno fa a Sassari per la sua straordinaria conferenza di storia della medicina tenuta al Rotary Club.  Ricordo la figura di un personaggio capace di entrare in sintonia con tutti, attento e sensibile, interessato ad ascoltare gli altri. Un gentiluomo d’altri tempi che rimpiangiamo davvero.

Attilio Mastino




Jugurtha contre l’impérialisme romain à la tête de la natio des Numidae.

Attilio Mastino – Stefania Frau

Jugurtha contre l’impérialisme romain à la tête de la natio des Numidae
Constantine (Algérie), 14 mai 2016
Colloque sur Massinissa

Centre National de Recherche Préhistorique, Anthropologique et Historique.

1. L’admiration de Salluste pour Jugurtha est bien connue. Dans le chapitre VI du Bellum Iugurthinum, juste après l’introduction contre la dégénération morale de la nobilitas romaine, aspect qui provoque en lui une profonde indignation et un dégoût total de la politique, Jugurtha est décrit comme un personnage positif. Jugurtha rappelle sous de nombreux aspects son grand-père Massinissa : dès sa première jeunesse il apparaît physiquement vigoureux, pollens viribus, beau, decora facie, mais surtout doué d’un caractère énergique, sed multo maxume ingenio validus (Iug. 6,1) ; actif et vif. Il ne se laissait corrompre ni par les plaisirs ni par l’oisiveté, non se luxu neque inertiae conrumpendum dedit ; mais suivant l’usage du peuple des Numides, il montait à cheval, lançait le javelot, luttait à la course avec ses amis ; il se consacrait à la pratique aristocratique de la chasse au lion et bien que l’emportant sur tous il était pourtant cher à tous (6, 1). Salluste énumère les qualités du prince numide et suit avec admiration et presque avec enthousiasme son éducation : après son émargination initiale à la cour, Jugurtha parvint ensuite à une position prestigieuse, qui indiquait qu’il était un chef charismatique, un protagoniste destiné à régner grâce à l’exercice de la virtus et à son application et à sa modération ; il était reconnu au centre du système politique et culturel du royaume de Numidie.

Selon Tite Live, Massinissa, élevé à Carthage mais profondément berbère, possède lui aussi ces qualités : il n’existait pas dans toute la Numidie de chevalier plus courageux; personne ne résistait mieux que lui à la fatigue et aux longues chevauchées dans le désert sans boire ni manger. Sa générosité envers les siens était sans limites, mais il n’avait aucune pitié des traîtres ; les échecs ne le décourageaient pas, il avait confiance en l’avenir et, dès que possible, il recommençait à lutter.

 

Les qualités de Jugurtha se retrouve chez les Numides et rappellent sous de nombreux aspects celles des barbares Germains décrits par Tacite : ils supportaient la soif parce qu’ils se nourrissaient de lait et de viande, sans ajouter de sel ou d’autres assaisonnements épicés ; la nourriture ne servait qu’à les rassasier et à étancher leur soif et non pas à satisfaire un désir de vice et de luxe. Les Numides étaient en bonne santé, rapides à la course, résistants aux fatigues ((genus hominum salubri corpore, velox, patiens laborum) (17, 6), surtout les chevaliers et les archers habiles, à l’armure légère. On retrouve cette description positive chez les poètes de l’époque d’Auguste lorsque, par exemple, les chevaliers massyles assistent au noces d’Enée et de Didon : cette représentation favorable avait été probablement influencée par le souvenir de Massinissa qui avait unifié le royaume numide au cours des dernières années de la guerre d’Hannibal grâce justement aux Massyles lesquels, selon Servius, étaient originaires de Syrte.

Micipsa lui-même apprécia initialement la virtus de Jugurtha, prompt à l’action et désireux de gloire militaire (manu promptus et adpetens gloriae militaris, 7, 1). Micipsa considérait qu’un personnage aussi populaire – homo tam acceptus popularibus (7, 1) – pourrait avoir un rôle positif pour le royaume, surtout grâce à la vive sympathie que les Numides avaient pour Jugurtha (studia Numidarum in Iugurtham adcensa, 6,3 ; cf. omnibus … carus esse, 6, 1). Le roi reconnut toutefois très vite les symptômes de graves défauts, la nature humaine étant avide d’autorité, natura mortalium avida imperi, et prompte à satisfaire sa propre ambition et praeceps ad explendam animi cupidinem (6, 3).  L’étalage de la virtus aurait pu le perdre : mais au cours de l’expédition contre Numance, aux côtés de Scipion Emilien, expédition voulue par Micipsa dans le but d’exposer Jugurtha aux périls de la guerre et défier la chance, ce dernier réussit à plaire profondément aux Romains (7, 4 ; 9, 2), surtout grâce à son enthousiasme, à son dévouement et à son obéissance modeste ; il défiait les dangers, en se montrant audacieux au combat et sage dans ses décisions et proelio strenuos erat et bonus consilio, 7,5) : sa prudence (providentia) ne se transformait jamais en timidité, son audace en imprudence et témérité, de sorte qu’il réussissait dans tous ses projets. Ils possédait d’autres vertus : la générosité de son cœur (munificentia animi), la finesse de son esprit (ingeni sollertia) (7, 7), le refus de la médiocrité, l’astuce barbare, la calliditas (107, 3), une qualité qui le rapprochait d’Hannibal. Ce fut justement la maxuma virtus (8, 1 ; 9, 2) du prince numide qui poussa Scipion à le mettre au nombre de ses amis (in amicis habere, 7, 6) et à lui promettre le royaume.

D’ailleurs, en 149 av. J.-C., lorsque la troisième guerre punique éclata, Massinissa avait chargé Scipion Emilien de disposer sa succession comme si désormais la Numidie appartenait à part entière à Rome et était soumise à la famille des Scipions ; plus tard, des rapports personnels étroits de dévotion avaient lié Micipsa et Caius Gracchus, petit-fils de Scipion et fondateur de Carthage ; même la succession de Micipsa, après la mort de Scipion Emilien, pourrait avoir été décidée par Marcus Porcius Cato, neveu de ce dernier, consul en 118 av. J.-C., mort à Utique à la fin de cette même année.

L’idée que la Numidie dépendait de Rome est clairement énoncée dans le discours d’Adherbal au Sénat, l’un des huit superbes discours inspirés par Thucyde et inclus dans la monographie de Salluste : au moment de sa mort, Micipsa avait précisé qu’il ne laissait à ses fils que l’administration du royaume dont la possession revenant de droit et de fait aux Romains praecepit uti regni Numidiae tantummodo procurationem existumarem meam, ceterum ius et imperium eius penes vos esse (14, 1) ; pour Micipsa et Adherbal, mais pas pour Jugurtha, les Romains devaient être considérés non seulement comme des alliés mais aussi comme des consanguins et des parents du roi, presque des cognati et affines. En outre la Numidie, enlevée à Syphax, était un don, un beneficium, des Romains à Massinissa (populus Romanus … regi dono dedit, 5,4) : et à présent, ajoutait Adherbal, vostra beneficia mihi erepta sunt (14,8 ; cf. 24,3). Saumagne se demandait si le problème, objet de discussion à Rome entre les nobilitas et les populares, consistait dans le fait que le royaume de Numidie pouvait être considéré comme un élément du patrimoine romain, un Etat vassal, une “Numidie romaine”, selon la thèse des populares et d’Adherbal, ou s’il ne fallait pas plutôt le considérer comme un Etat indépendant, lié à Rome par des accords internationaux seulement, un royaume allié, une “Numidie numide”, ce dont étaient convaincus la nobilitas et Jugurtha, vainqueur d’une guerre civile dans laquelle Rome voulait intervenir pour imposer ses propres intérêts. La deditio de Jugurtha aux mains de Calpurnius Bestia et de Scaurus (29, 5) ne fut pas confirmée précisément parce que, pour les populares, le roi ne pouvait être qu’un fonctionnaire de Rome ; la possibilité d’une redditio étant exclue, il ne restait que la voie de la révocation du procurator rebelle à l’imperium : une solution que le roi Jugurtha n’appréciait certainement pas car il considérait la deditio non pas comme une reddition inconditionnée mais seulement comme un moyen de garder le pouvoir, selon les promesses que les optimates lui avaient faites ; et ce même plus tard, à l’occasion des négociations engagées par Bomilcar (62, 8) et après la défaite finale, tout au moins d’après l’impression du fidèle Aspar (112, 2). Sous la pression de Caius Memmius, Jugurtha fut appelé à Rome comme accusé et témoin ; par la lex Memmia de Iugurtha Romam ducendo datant de l’automne 111 av. J.-C., Memmius donnait ses instructions au préteur Cassius Longinus afin de lui délivrer un laissez-passer (32, 1) ; le roi barbare risquait cependant de se transformer en juge de l’honneur de certains parmi les plus illustres personnages romains. D’où le veto du tribun C. Bébius qui indigna tellement ses contemporains (34, 1), l’expulsion de Jugurtha (35, 9) et la lex de bello Iugurthae indicendo qui fut votée par les comices centuriates au lendemain de l’assassinat de Massiva. Un tribunal spécial, voulu par la lex Mamilia de coniuratione Iugurthina (plébiscite proposé par le tribun Mamilius Limetanus) et présidé par Scaurus, fut alors constitué ; certains parmi les plus importants représentants de la nobilitas romaine furent condamnés (40, 1; cf. 65, 5) : dans le Brutus, Cicéron rappelle avec indignation que furent impliqués le pontife Galba et quatre consuls, L. Calpurnius Bestia, C. Caton, Sp. Postumius Albinus, L. Opimius.

L’intervention des tribuns de la plèbe et du peuple réuni en assemblée semble donc décisive, pendant cette période, pour définir la position de Rome vis-à-vis de la Numidie ; d’ailleurs, les précédents étaient tous favorables à la thèse que soutenaient les populares : dès 148 av. J.-C., Scipion Emilien, en disposant la succession du grand Massinissa, avait agi en complète autonomie ; il avait pu exclure de la succession les enfants nés des concubines de celui-ci et avait partagé le royaume entre les fils légitimes : Micipsa, Gulussa et Mastanabal. Micipsa avait eu le trône et l’administration générale du royaume et de sa capitale Cirta ; Gulussa avait eu le commandement militaire et Mastanabal devait s’occuper de la justice. En fractionnant le pouvoir Scipion Emilien avait totalement violé la coutume numide et, semble-t-il, la volonté même de Massinissa qui n’avait laissé sa couronne qu’à Micipsa.

Par la suite, après la disparition prématurée de Gulussa et de Mastanabal et alors que la mort de Micipsa s’approchait, Scipion Emilien se sentit de toute évidence légitimé à disposer à nouveau la succession en indiquant Jugurtha comme roi de Numidie. Au cours de la rencontre qui se tint à Numance, à la fin de la guerre, il avait explicitement encouragé Jugurtha : si permanere vellet in suis artibus, ultro illi et gloriam et regnum venturum, s’il réussissait à persister dans ses vertus, il obtiendrait sans aucun doute la gloire et le royaume (8, 2), un royaume promis à lui seul (solus) par les novi et par les nobiles romains présent à Numance (8, 1). Dans la lettre envoyée à Micipsa, Scipion Emilien louait Iugurthae tui … virtus et ajoutait : habes virum dignum te atque avo suo Massinissa, donc un homme digne de succéder à son oncle le roi et à son grand-père Massinissa (9, 2 ; voir aussi 7-8). L’expression utilisée par Scipion, avus suus, chasse nécessairement tout doute à propos de la légitimité dynastique de Jugurtha, quant à la volonté de Massinissa même (5, 7). Micipsa avait donc été presque contraint d’abord de l’adopter et ensuite de lui reconnaître le rôle d’héritier. Mais en cette circonstance, la volonté de Scipion avait été forcée car dans son testament Micipsa finit aussi par nommer comme ses héritiers ses fils Hiempsal et Adherbal qui étaient plus jeunes et qui, initialement, avaient probablement été exclus du trône. Un autre fils de Mastanabal, Gauda (demi-frère de Jugurtha), et Massiva, fils de Gulussa devaient figurer comme héritiers en second : plus tard, à Rome, tous deux manœuvrèrent  pour obtenir la succession (35, 2 ; 65, 3).

A propos de l’illégitimité présumée de Jugurtha, ortus ex concubina (5, 7 et 6, 1) élevé avec les fils du roi mais laissé dans une condition privée à cause d’une décision douteuse de Massinissa (privatum dereliquerat, 5, 7), la position traditionnelle des experts doit être désormais corrigée. D’ailleurs, Salluste lui-même précise que, chez les Numides et les Maures, chacun selon ses ressources pouvait prendre plusieurs épouses, certains dix, d’autres davantage ; les rois pouvaient en avoir un grand nombre. L’affection du mari étant ainsi partagée entre de nombreuses épouses, aucune d’elles n’était considérée comme une compagne et il faisait aussi peu de cas des unes que des autres (nulla pro socia obtinet, pariter omnes viles sunt) (80, 6). En réalité, Salluste ne comprit pas bien la polygamie africaine (5, 7 ; 11, 3 ; 108, 1), pas plus que Tite Live, Appien et Ammien, lesquels parlent de concubines dans le sens hellénistico-romain en déformant l’ancien concept berbère d’ “épouse inférieure”, dont le fils, dans la société numide, avait les mêmes droits que le fils de l’épouse principale. Pour la succession, c’est l’ancienneté des agnats qui comptait : le status de Jugurtha qui pouvait sembler pour les Romains celui d’un fils illégitime ne l’était donc pas pour les Numides puisqu’il était justement le plus âgé des aspirants au trône, surtout après son adoption par Micipsa, probablement en 122 av. J.-C.

Indépendamment des justification romaines, la guerre de Jugurtha avait en réalité son origine dans ce fait et surtout dans la volonté de Jugurtha de se rebeller de toutes ses forces à une injustice commise envers lui, injustice qui frappait non seulement sa personne mais aussi les groupes qui se reconnaissaient en lui et qui se teintèrent progressivement de nationalisme et d’indépendantisme. Cette clé de lecture permet probablement d’interpréter les hésitations et les réticences du sénat, les tentatives répétées de médiation et la position de Scaurus, que Salluste accuse, de façon simpliste, de s’être fait corrompre par le roi en même temps que tous ceux qui étaient impliqués dans l’enquête qui s’était conclue par la quaestio Mamilia. Il n’y eut donc pas seulement la volonté du sénat d’éviter un engagement trop lourd pour les troupes romaines en Afrique dans l’imminence d’une invasion des Cimbres et des Teutons, après la défaite de Cn. Papirius Carbo à Noreia. Il nous est impossible d’approfondir ici les aspects de politique intérieure posés par le Bellum Iugurthinum de Salluste en ce qui concerne la période qui suivit la chute de Carthage et le dépassement du metus hostilis (41, 2) qui , jusque là, avait permis à la classe dirigeante romaine de rester unie ; les intérêts de la nobilitas s’étaient sans aucun doute peu à peu opposés à ceux des equites, lesquels s’intéressaient aux affaires et à une présence plus agressive en Afrique du Nord.

De Sanctis avait observé comment le jugement de Salluste sur Jugurtha s’était lentement modifié que l’admiration initiale avait fait place au mépris le plus complet : ce qui serait un indice du caractère tendancieux et politique de l’œuvre de Salluste. Pourtant, Salluste connaissait les justifications du comportement du roi : Hiempsal n’avait pas été tué par Jugurtha mais par des hommes du peuple numide en raison de sa cruauté ; Adherbal, le véritable agresseur, après sa défaite, était venu à Rome se plaindre de ne pas avoir réussi à faire de mal aux autres (15, 1) ; c’est lui qui avait attenté à la vie de Jugurtha (23, 4) ; la commission décemvirale présidée par Lucius Opimius chargée de diviser le royaume n’avait pas pris parti pour Jugurtha puisqu’elle avait attribué à Adherbal la partie orientale du royaume (avec Cirta pour capitale), c’est-à-dire la portusior et aedificiis magis exornata ; Salluste sait parfaitement qu’il ne dit pas la vérité lorsqu’il affirme que Jugurtha bénéficia de la partie la plus fertile et la plus peuplée du royaume, la plus proche de la Maurétanie : quae pars Numidiae Mauretaniam attingit, agro virisque opulentior (16,5 ) : les décisions d’Opimius n’avaient pas favorisé Jugurtha mais, bien au contraire, elles lui avaient nui. La volonté de Salluste de forcer les faits semble donc évidente ; il suffit de rappeler les contradictions du comportement de chaque personnage : Scaurus, le sénateur hostile à Jugurtha qui s’était fait corrompre et qui ensuite, par une incroyable acrobatie, avait réussi à présider la commission d’enquête ex lege Mamilia contre ses complices ; Spurius Postumius Albinus, protecteur de Massiva, qui avait découvert l’assassin de celui-ci et ses mandants, partisan de la guerre à outrance contre Jugurtha, et qui finit par être condamné par un tribunal institué par le plébiscite de Mamilius, après la défaite de son frère Aulus à Suthul.

 

2. Sur son lit de mort, Micipsa avait loué la virtus de Jugurtha, sa gloria, mais surtout il l’avait engagé à respecter la fides : nam concordia parvae res crescunt, discordia maxume dilabuntur (10, 6). Pour Salluste, le roi n’aurait pas tenu la promesse qu’il avait faite à Micipsa ; par le meurtre de Hiempsal dans sa capitale Thirmida, chez un ami, il n’aurait pas respecté la fides (12, 3). Plus tard, violant les accords de paix, contra denuntiationem senatus, il avait fait massacrer Adherbal, les numides adultes et les negotiatores italiens à Cirta (26). Enfin, à Rome, il avait tramé le meurtre du prince Massiva, fils de Gulussa et petit-fils de Massinissa, qu’il avait fait éliminer en secret par le fidèle Bomilcar, lequel échappa à la condamnation à mort grâce à de puissantes complicités romaines (35, 6 ss.). Même s’il pouvait se permettre de mépriser la nobilitas romaine – rappelons le célèbre urbem venalem et mature perituram, si emptorem invenerit ! (35, 10), mais déjà à Numance il avait appris qu’à Rome omnia venalia esse (8, 1 ; cf. 20, 1 ; cf. 28, 1) – le Jugurtha de Salluste, avait fini par changer profondément, en passant progressivement de la virtus à l’ambitio ; l’ingenium validum était désormais devenu un ingenium avidum ; le jeune ambitieux des premiers chapitres du Bellum Iugurthinum, devenait un roi aveuglé par son désir de pouvoir ; il agissait désormais sans les bonae artes (1, 3 ; 4, 7, cf. 43, 5, Metello ; 63,3, Marius), il n’utilisait son ingenium que pour satisfaire la cupido, le désir effréné de pouvoir (6, 3 ; 20, 6). Mais surtout, Jugurtha, lui qui était si fin et en mesure de traiter d’égal à égal avec les représentants les plus importants de l’aristocratie romaine, avait désormais révélé sa nature cruelle et primitive, son animus ferox, faisant mettre en croix les parents d’Adherbal ou les livrant aux bêtes féroces (14, 15). Dans le discours prononcé devant Bocchus à la fin de la guerre, Sylla l’aurait défini pessumus omnium (102, 4).

Jugurtha est désormais vu comme un tyran perfide, cruel, capable de corrompre avec de l’argent pour réaliser tous ses projets, prêt à se débarrasser de ses ennemis, sans scrupule, en proie à une ambition sans limite. Comme tous les barbares, le roi avait un caractère inconstant, changeant ; il était dépourvu de fermeté et d’autocontrôle ; on a observé que la férocité barbare n’est qu’un trait secondaire si on la compare à la faiblesse morale, à l’émotivité, à la duplicité, à la sensualité attribuées aux barbares. Jugurhta était coléreux ; il était sujet à de terribles crises de nerfs, au désespoir ; il changeait d’opinion selon les circonstances. Dans la dernière période, après la trahison de Bolmilcar et de Nabdalsa, Jugurtha ne connut plus de tranquillité : à partir de ce moment-là, il se méfia de tout lieu, de toute personne, de toute circonstance ; il était agité d’une terreur qui ressemblait à la folie ita formidine quasi vecordia exagitari (72, 2).

Le cliché du barbare africain utilisé par Salluste semble en réalité absolument inapproprié : rappelons les nobles traditions de la dynastie de Massinissa, l’une des expressions les plus civiles de la culture punique et hellénique en Afrique. Ce n’est pas un hasard si la bibliothèque de Carthage avait été donnée par Scipion Emilien aux souverains de Numidie. Les Numides parlaient une langue libyenne s’articulant en de nombreux dialectes, langue qui nous est parvenue grâce à de brèves inscriptions funéraires et de caractère sacré, mais le punique s’était répandu parmi eux et avait été adopté comme langue officielle même par les rois Numides. C’est en punique que le roi Hiempsal, qui était certainement le fils de Gauda, pourrait avoir écrit son œuvre historique, précieuse source pour Salluste (18). Jugurtha avait certainement une connaissance parfaite du latin dès la période de Numance (101, 6). Des études récentes ont montré comment s’est faite l’intégration progressive entre les cultures hellénique et punique et la culture locale de la Numidie des IIIe et IIe siècles av. J.-C : citons les recherches archéologiques en cours sur le mausolée royal de Dougga, sur les stèles puniques du tophet de El Hofra à Cirta, sur les constructions du forum de Simitthus dans les carrières de marbre numide “giallo antico “, sur le gigantesque mausolée royal de Médracen en Numidie du Sud, véritable synthèse entre la tradition libyenne des bazinas et les apports phéniciens et helléniques, soulignés par la présence des colonnes doriques.

En fait, Salluste a désormais abandonné Jugurtha pour un nouveau modèle, Marius, le chef des populares, investi du commandement africain par la lex Manlia de bello Iuguthino de 108 (plébiscite proposé par le tribun C. Manlius Mancinus qui rectifiait un sénatus-consulte précédent favorable à Metellus) : depuis sa naissance Marius avait, comme le roi, un integrum ingenium (63, 3) et il avait réussi à s’élever parmi ses pairs ; son humble origine n’avait pas été un obstacle ; comme Jugurtha, il avait grandi en pratiquant de nombreuses activités physiques mais il avait complètement négligé sa formation culturelle, notamment l’apprentissage du grec (63, 3). Büchner a souligné qu’après l’avaritia de Calpurnius Bestia (28, 5 ; 29, 1), après l’imperitia d’Albinus (36, 2 ; cf. 38, 1) et après la superbia de Metellus (64, 1), le choix de Marius marquait un tournant bienfaisant pour Rome (85, 45). Son industria (63, 2), son innocentia (85, 4 et 18), sa probitas (63, 2), sa virtus (73, 5 ; 85, 17 ; 92, 2), sa valeur (andragathia) justifiaient son succès final ; les cicatrices dues aux blessures reçues sur les champs de bataille valaient plus que les imagines des ancêtres exhibées par Metellus (85, 29). Pourtant Salluste passe rapidement sur la dette politique de Marius envers la famille des Metelli et manifeste une certaine perplexité à propos de la réforme qui allait conduire à une professionnalisation de l’armée, ne cachant pas l’ambitio consulis (86, 2-3).

En entamant son second consulat, le 1er janvier 104 (114, 3), Marius triomphant traîna en chaînes le roi numide comme un fauve affolé. Pourtant, dans la description de Plutarque, Jugurtha fou de douleur semble un géant comparé à ses persécuteurs. Ces derniers le jetèrent nu dans les souterrains du Tullianum, lui lacérèrent violemment sa tunique, et pour lui enlever plus vite ses boucles d’oreille en or ils lui arrachèrent les lobes ; le roi, agité, se moqua sarcastiquement de ses ennemis.

 

3. Soulignons que les défauts de Jugurtha correspondent exactement à la description des Numides par Salluste : perfides, inconstants, avides de changement (genus Numidarum infidum, ingenio mobili, novarum rerum avidum, 46, 3). Ils étaient rusés (dolus Numidarum, 53, 6) ; inconstants dans leurs sentiments (tanta mobilitate sese Numidae gerunt, 56, 5). D’ailleurs, les rois africains étaient eux aussi instables (plerumque regiae voluntates ut vehementes sic mobiles, saepe ipsae sibi advorsae, 113, 1) ; et c’est également le cas de Bocchus, roi de Maurétanie socius et amicus populi Romani (104, 5), qui trahit Jugurtha et le laissa aux mains de Sylla : il possédait une grave mobilitas ingeni (88, 6) et jusqu’à la fin l’expression de ses yeux et de son visage exprimait l’instabilité de ses propos (vultu <colore, motu> corporis pariter atque animo varius, 113, 3). Les Numides aspiraient à la discorde et à la sédition, ils étaient contre une vie calme et pacifique (volgus … Numidarum ingenio mobili, seditiosum atque discordiosum erat, cupidum novarum rerum, quieti et otio advorsum, 66, 2). On ne pouvait absolument pas faire confiance aux habitants de Capsa et les Romains ne purent les contrôler ni par la crainte, ni par les bienfaits : genus hominum mobile, infidum, ante neque beneficio neque metu coercitum (91, 7). Les compagnons de Jugurtha étaient de nature déloyale, comme Bomilcar, ingenio infido (61,5). Dans les guerres, ils agissaient plutôt comme des bandits que comme des soldats, avec beaucoup d’inexpérience, comme des ennemis inconstants, vani hostes (103, 5).

Salluste se contente d’accepter le lieu commun sur la caractérisation des barbares africains : les Numides sont plusieurs fois mentionnés dans l’« Enéide », ils sont représentés sur le bouclier d’Enée parmi les peuples soumis par Auguste ; parmi les ennemis de Didon, aux côtés des Libycae gentes, figurent aussi les Nomadum tyranni, les prétendants numides repoussés et devenus hostiles.

Salluste inclut parmi les peuples de la Numidie les Gétules et les Libyens qui, dans la préhistoire, étaient des peuples farouches et incultes, asperi incultique, se nourrissant de la chair des animaux sauvages et de l’herbe des champs, comme des bêtes ; sans coutumes, ni lois, ni chefs, ils erraient dispersés et s’arrêtaient là où la nuit les surprenait (18, 1-2). Malgré cela il constituaient une natio.

En suivant le mythe de la mort d’Héraclès en Occident, Salluste imagine que ses compagnons s’étaient mélangés au peuples locaux ; il nous fournit toute une série de détails ethnographiques provenant peut-être de Posidonios et plus probablement des Libri Punici du roi Hiempsal. Les Perses s’unissant aux Gétules allaient d’un lieu à un autre, comme des nomades, et de là dériverait leur nom : Numides. Ils étaient belliqueux et occupèrent une grande partie de l’Afrique du Nord, notamment la région près de Carthage, la Numidie (super Numidiam) (19, 5) ; les Gétules habitaient au sud de ces terres, mais aux nord des terres des Ethiopiens ; une partie d’entre eux errait sans lois et sans chef, une partie habitait dans des taudis, les mapalia, cabanes de forme allongée ayant une couverture cintrée, qui selon ce même mythe auraient été construites avec les carènes des bateaux d’Héraclès (18, 8). Salluste connaissait probablement très bien la situation des populations africaines pendant la période historique ; cependant, il insistait délibérément sur la grossièreté des barbares d’Afrique : à l’époque de César, les Numides étaient désormais un ensemble de tribus occupant les côtes d’Afrique du Nord, entre la Maurétanie et la Cyrénaïque ; leur nom avait perdu tout lien avec son origine étymologique, c’est-à-dire toute référence à des groupes de bergers nomades, sans domicile fixe, à la recherche de pâturages, qui s’étaient stabilisés au contact de la Cyrénaïque grecque. Aldo Luisi a parcouru à rebours l’histoire du nom, que l’on retrouve déjà chez Hécaté de Milet et chez Hérodote, démontrant que le terme Nomàdes désignait à l’origine un groupe de peuples compris entre la Petite Syrte et Cyrène, avec les deux groupes principaux des Massyles et des Massaessyles. Ce n’est que plus tard, à partir de Polybe, qu’apparaît le nom Nomadia, région occupée par Massinissa à l’ouest de la Petite Syrte. Le latin Numidae semble un emprunt très ancien au grec, qui a peut-être son origine au IIIe siècle à travers la Sicile punique : il était déjà utilisé par Ennius pour indiquer une catégorie de vaillants cavaliers. L’auteur anonyme du Bellum Africum, qui traite de la guerre africaine de César, semble très informé. Selon lui les Numides se distinguaient des autres peuples non pas par le nomadisme des origines mais parce qu’ils étaient imprévisibles et impétueux au combat : sans armure et sans selle, les cavaliers numides se déplaçaient très rapidement, ils étaient habiles à l’arc, capables de mener une véritable guérilla, attaquant, se dispersant et revenant à la charge avec une tactique primitive mais efficace par laquelle ils épuisaient leurs adversaires sans leur donner de répit. Les cavaliers numides se lançaient à l’assaut de l’ennemi de tous les côtés et ils lançaient leur javelots de loin ; si l’adversaire cédait, ils le mettaient en déroute ; s’il résistait, ils l’attaquaient à nouveau avec l’aide de détachements d’infanterie auxiliaire ; en cas de nécessité, ils utilisaient aussi des troupes de réserve faiblement armées ; quand ils étaient en difficulté, ils se retiraient sans laisser de traces, en évitant le corps à corps, mais prêts à affronter une nouvelle bataille quelques jours après ; ils se réfugiaient provisoirement sur les montagnes, dans les steppes désolées et inhospitalières pour l’ennemi.

Au IIIe siècle av. J.-C., alors que Syphax d’abord et Massinissa ensuite avaient unifié les Numides, les Gétules conservaientt, plus au sud, une certaine autonomie : ils apparaissaient désormais comme une vaste confédération de tribus, parfois hostiles aux rois numides qui imposaient à leur sujets le paiement d’impôts. Selon Elizabeth Fentress, le terme Gaetulus pourrait indiquer tout le groupe des tribus dissidentes mais liées à Jugurtha. Dans la poésie de l’époque d’Auguste, le terme Gaetulae est utilisé pour qualifier les Syrtes, parce qu’elles étaient habitées par les Gétules, un peuple tout à fait hostile au Troyens et ensuite aux Romains. Les Syrtes étaient un des lieux dangereux où Enée ne souhaitait pas vivre puisque c’est là que vivaient les Gétules, les nouveaux ennemis qui s’ajoutaient aux Grecs, les adversaires de toujours. Dans le livre IV de l’Enéide, Anna invite Didon à s’unir à Enée car les dangers contre Carthage sont désormais trop nombreux : les Gaetulae urbes, un genus insuperabile bello, avec la Syrte inhospitalière, les Numides sans freins et les furieux Barcaei, aux frontières avec la Cyrénaïque. Dans la course gagnée par Euryale, Enée donne à Salius, comme prix de consolation, la peau d’un lion gétule, chassé en Afrique ; d’ailleurs, Ascagne exprime plusieurs fois le désir de chasser un lion et l’on connaît bien l’importance de la chasse au lion dans la paideia des princes africains : Giovanni Cipriani a récemment écrit à propos de Jugurtha héroïque chasseur de lions. Florus, écrivain d’origine africaine affirma expressément qu’à l’époque d’Auguste les Gétules étaient établis dans l’arrière-pays des Syrtes et étaient, avec les Musulames, accolae Syrtium.

Les Gétules étaient un ensemble plutôt hétérogène de tribus non urbanisées (Virgile parle de Getulae urbes), avec des caractéristiques raciales mixtes, qui allaient des Syrtes à l’Atlas, le long des régions intérieures de la Province proconsulaire, de la Numidie et de la Maurétanie. À l’époque de la guerre contre Jugurtha, les Gétules, déjà mentionnés par Artémidore, étaient déjà certainement entrés en contact avec les Romains ; il s’agissait, selon une évidente exagération de Salluste, d’un genus hominum ferum incultumque et eo tempore ignarum nominis Romani (80, 1) ; Aldo Luisi a observé que Salluste altère les faits puisqu’en réalité les mercenaires Gétules avaient prêté service en Italie dans l’armée d’Hannibal. Selon le cliché historiographique, les Gétules restèrent, même plus tard, des barbares non soumis : Servius précise que le terme Gaetulus se réfère à des lieux déserts et hostiles. Salluste appelle bandits les Gétules qui avaient attaqué les ambassadeurs du roi maure Bocchus, accueillis par Sylla, Gaetuli latrones (103, 4). Leur nomadisme est bien évident chez Salluste et chez Orose lesquels se rattachent pour cet aspect à Posidonios Gaetulos incultius vagos agitare (19, 5) ; Gaetulos latius vagantes. Pourtant Varron présente les Gétules comme des bergers civilisés vêtus de peaux de chèvre ; Juvénal rappelle lui aussi les chèvres des Gétules ; Pline rapporte qu’aux environs des Syrtes les populations tondaient les chèvres et s’habillaient avec leur toison. Pomponius Mela rappelle que les Gétules étaient particulièrement laborieux et qu’ils produisaient une pourpre de grande valeur. Salluste, au contraire, les qualifie de barbares et décrit des coutumes grossières comme, par exemple, celle de danser et de crier pendant toute la nuit après une escarmouche victorieuse, pour souligner qu’ils n’avaient pas fui devant l’ennemi (98, 6). Au plan de la stratégie militaire, ils apparaissaient comme totalement ignorants : Salluste parle de imperitia hostium (99, 1) ; d’ailleurs ils se lançaient contre les troupes de Métellus et de Marius en marche – les nostri (38, 7 ; 50, 6 ; 58, 2 ; 59, 2 ; 60, 7 ; 75, 10 ; 94, 4 ; 106, 6 ; cf. 7, 4 ; 43, 1 ; 101, 6) – sans ordre et sans aucun schéma tactique, mais au contraire en masses réunies au hasard. Jugurhta avait essayé de les instruire, dans l’intention de constituer une véritable infanterie sur le modèle romain, modèle qu’il connaissait depuis la période de Numance : il les avait rassemblés en grand nombre, il les avait peu à peu habitués à marcher en rangs ordonnés, à suivre les enseignes, à obéir aux ordres et à suivre les autres règles de la vie militaire ((80, 2 ss.). Pour Salluste, les Gétules ne manquaient pas de courage à la guerre et ils étaient plus belliqueux que les Libyens, c’est-à-dire que les autres peuples africains, c’est pourquoi Virgile les considérait comme un genus insuperabile bello.

Il a été récemment observé que dans le Bellum Africum les Gétules sont présentés de façon plus positive, comme un véritable peuple possédant une identité nationale précise, qui habitait dans des villes et qui avait su développer son autonomie culturelle, qu’ils étaient habiles à la guerre, experts en stratégies militaires, capables de conclure des alliances et d’entretenir des relations politiques compliquées. Césarien comme l’auteur du Bellum Africum, Salluste ignore complètement les mérites que les Gétules pro-romains avaient obtenus en combattant aux côtés de Marius et ensuite des populares ; ils recevaient avant l’an 100 av. J.-C. les terres de part et d’autre de la Fossa Regia et la citoyenneté romaine et, plus tard, ils se rangèrent aux côtés de César, la veille de la bataille de Thapsus. Il nous semble toutefois excessif d’affirmer, comme Aldo Luisi, que l’hostilité de Salluste à l’égard des Gétules était toute personnelle et liée au ressentiment des peuples africains pour la mauvaise administration du premier gouverneur de l’Africa Nova.

 

4. Il paraît certain que même s’il disposait de sources bien documentées, parmi lesquelles Posidonios, Salluste a parfois altéré les faits ou a délibérément survolé certaines circonstances de la guerre africaine ; la qualité de ses sources est prouvée par exemple par le fait qu’il déclare de suivre les Libri Punici du roi Hiempsal (18) ; il est évident qu’il a plusieurs fois utilisé l’œuvre de P. Rutilius Rufus, lié à Métellus, témoin oculaire de la bataille du Muthul qui fut chargé en 107 d’effectuer l’échange de consignes avec Marius dans le but d’éviter une rencontre embarrassante des deux généraux (86, 5) ; il a également utilisé Lucius Cornélius Sisenna, qui cependant parum … libero ore locutus videtur (95, 2) ; sans exclure la lecture de l’œuvre de Sylla, citée par Plutarque, et des livres autobiographiques de Scaurus sane utiles quos nemo legit ; enfin, mise à part l’utilisation possible des chroniques contemporaines, il ne faut pas exclure les mesures adoptées par le sénat senatus consulta e decreta (21, 4 ; 27, 3-5 ; 28, 2-3 ; 39, 2-3 ; 55, 2), les lois comitiales déjà citées et des lettres officielles (24, 1). De plus, Salluste connaissait parfaitement la région car, à partir de 46 av. J.-C., il avait été premier proconsul de la province romaine de l’Africa Nova qui venait d’être constituée pour remplacer le royaume de Numidie de Juba.

Les indications géographiques de Salluste sont dans certains cas tout à fait exactes, dans d’autres elles sont lacunaires : il précise que l’Afrique était l’une des trois parties de l’univers, de l’orbis terrae, comme l’Europe et l’Asie ; les limites de l’Afrique allaient de l’océan Atlantique au plateau incliné appelé Catabathmon qui séparait l’Égypte de la Cyrénaïque. La mer y était orageuse, avec peu de ports ; les terres fertiles en moissons, propre à l’élevage mais presque sans arbres : le ciel et la terre manquent d’eau (17, 3 ss.).

La limite orientale du royaume de Numidie avait été étendue par Massinissa jusqu’à la Grande Syrte peu de temps auparavant, entre la seconde et la troisième guerre punique, avec un rappel à de précédents droits de souveraineté de ses ancêtres. L’occupation des Syrtes semble vouloir indiquer une attitude anti-carthaginoise et cachait peut-être l’intention de Massinissa d’occuper également, tôt ou tard, la métropole africaine ; objectif auquel Rome avait opposé un refus catégorique. Certes, le tracé de la Fossa Regia séparait à présent le territoire de Carthage, et ensuite de la province romaine, et le royaume de Numidie, entre le fleuve Thusca et Thaenae ; cependant, l’ancienne limite de l’Etat carthaginois allait jusqu’aux Arae Philaenorum, l’actuelle Ras Ali en Libye : c’est Salluste lui-même qui, en narrant la légende des frères Philènes, précise : quem locum Aegyptum vorsus finem imperii habuere Carthaginienses (19, 3) ; et pour établir quelle est la source utilisée, il suffira de remarquer que Salluste conserve en partie la forme grecque du toponyme Philaenon arae, et qu’il fournit une étymologie inexacte, d’origine grecque, du toponyme Syrtis. Dans un célèbre excursus, Salluste rapporte de façon détaillée la légende sur le sacrifice des deux frères Philènes, partis de Carthage pour participer à une compétition qui se termina de façon tragique ; ils s’étaient fait tuer pour marquer, grâce à leur tombe, une limite à l’expansionnisme grec, assurant ainsi à leur patrie un territoire plus vaste. Pour Salluste, le la tombe des deux héros indiquait réellement une limite (79). La Grande Syrte (aujourd’hui Golfe de Syrte) allait du Cap Cephalae près de Leptis Magna jusqu’au Cap Boreion près de Bérénice. C’est là, dans la partie la plus intérieure du Golfe, le point le plus méridional de la Méditerranée, aux Arae Philaenorum, qu’était indiquée la limite entre la Cyrénaïque et le Royaume de Numidie. Dans l’imaginaire collectif et notamment dans la poésie de la fin de la période républicaine, la région des Syrtes était une région déshabitée et inhospitalière inhospita, adjectif qui était pour Servius synonyme de barbara et de aspera et, en général, associé à l’idée de solitude et de désert. Virgile appelait deserta regio le territoire proche de la Grande Syrte où habitaient les Barcaei, les ancêtres libyens des fondateurs de Barqa en Cyrénaïque, late furentes. Ce n’est qu’après avoir dépassé le Syrticae solitudines, au-delà du désert du Sahara, que l’on atteignait le territoire où paissaient les éléphants africains. Les adjectifs utilisés pour qualifier les Syrtes font allusion à la présence de populations hostiles : barbarae, Gaetulae, Libycae; les Syrtes étaient habitées par les Numides, par les Massyles, par les Barcaei, par les pirates Nasamones. Selon Horace, le littoral était parcouru par la vague maure ; on retrouve donc plusieurs fois les peuples barbares, d’origine libyenne, autrefois adversaires de Carthage et, à l’époque d’Auguste, ennemis des Romains : c’est pourquoi les Syrtes étaient asperae, horrendae, hostiles, saevae et pouvaient inspirer la crainte foberài.

Au cours de premières années de guerre, Jugurtha (comme probablement avant lui Adherbal) finit par perdre ce territoire, occupé quatre-vingts ans auparavant par Massinissa, puisque les habitants de Leptis envoyèrent dès 111 des ambassadeurs auprès du Consul L. Calpurnius Bestia et plus tard à Rome pour demander l’amitié et l’alliance des Romains (77, 2) ; ce n’est que trois ans plus tard que Metellus put envoyer à Leptis quatre cohortes de Ligures accueillant, après la victoire de Thala, la demande des habitants de Leptis contraires à la faction d’Hamilcar (77, 4).

Le pouvoir de Jugurtha s’étendait aux Gétules et aux Numides à l’extrême ouest peut-être même jusqu’au fleuve Moulouya au Maroc usque ad flumen Muluccham, proche du royaume de la Maurétanie Tingitane, administrée par Bocchus (19, 7, cf. 80, 1-2 ; 88, 3 ; 97, 4 ; 99, 2) : ce fleuve très lointain était celui quod Iugurthae Bocchique regnum diiungebat (92, 5). C’est là que Marius était arrivé de Capsa, après une longue marche (de 1200 km !) et après avoir conquis alia oppida, multis locis potitus (92, 3-4) ; grâce à l’habilité d’un centurion ligure qui avait la passion des escargots, le consul réussit à s’emparer d’un château situé près du fleuve sur le mons saxeux, contenant les trésors du roi (93-94). Même si le récit de Salluste contient quelques contradictions, il faut repousser la thèse de Berthier selon laquelle toutes les opérations se seraient déroulées dans la Tunisie actuelle, déplaçant vers l’ouest le fleuve Muluccha (qui serait l’oued Mellègue, traditionnellement le Muthul flumen), identifiant la capitale Cirta avec Sicca et Sicca avec Téboursouk, faisant de Bocchus non le roi des Maures du Maroc actuel, mais celui des populations installées sur les flancs du Mons Aurasius.

Certes, supposer que le royaume de Jugurtha comprenait tout le territoire algérien de ce qui deviendrait la Maurétanie Césarienne semble peut-être excessif et est évidemment difficile ; pourtant la division de la Numidie entre Adherbal et Jugurtha est un élément fondamental : le premier, avec la capitale Cirta, avait occupé la zone orientale du royaume de Micipsa, avec un plus grand nombre de ports et de villes ; le second avait d’abord obtenu la partie de la Numidie la plus proche de la Maurétanie (16, 5), bien entendu à l’ouest de Cirta et probablement du fleuve Ampsaga, donc le territoire correspondant aujourd’hui au moins à la Grande Kabylie dans l’Algérie centrale. La Numidie comprenait certainement les anciennes colonies phéniciennes de Hippo Regius (Hippone) et de Leptis Magna entre les deux Syrtes (19, 3 ; 77, 1 ; 78, 1), mais non pas celle de Hippo Diarrhytus (Bizerte), Leptis Minus et Hadrumète, l’actuelle ville de Sousse, toutes à l’intérieur de la province Africa 19, 1). La Numidie intérieure était constituée surtout par le vaste plateau caractérisé par une steppe semi-désertique, interrompu par les “chotts” (des lacs salés), situé entre deux chaînes montagneuses : l’Atlas tellien le long de la côte de la Méditerranée et l’Atlas saharien vers le sud, dépassant, à plusieurs endroits, 2000 mètres d’altitude. Salluste connaissait parfaitement et personnellement cette réalité géographique. La description en détail des lieux et des circonstances n’intéressait pas directement Salluste puisque le but du Bellum Iugurthinum était avant tout de définir les positions politiques des différents représentants de l’aristocratie romaine ; toutefois, il a gardé toute une série d’éléments géographiques permettant de situer la zone du conflit. Par exemple, Capsa, l’actuelle Gafsa en Tunisie, conquise par Marius à la fin de l’été 107 (92, 3) : si l’on connaît la ville moderne, presque une oasis située dans une zone présaharienne au nord du Chott el Jerid, on sait bien que la seule source que l’on y trouve – et qui existe encore aujourd’hui – jaillit à l’intérieur de deux bassins appelés “piscines romaines”, construits en partie aves des remplois, y compris quelques grandes inscriptions latines. Et Salluste rappelle que Capsa, fondée par l’Hercule libyen, est comme une oasis dans de vastes déserts : praeter oppido propinqua alia omnia vasta, inculta, egentia aquae, infesta serpentibus (89, 5). Les Capsenses ne disposaient que d’une seule source, située à l’intérieur des murs de la ville, et que les assiégeants romains ne pouvaient utiliser : una modo atque ea intra oppidum iugi aqua (89, 6).

 

5. Pourtant, Salluste néglige de nombreux détails géographiques et omet des épisodes intermédiaires, décrivant même les différentes campagne militaires de façon « inégale et capricieuse » : prenons par exemple le problème de la perte probable de Cirta de la part de Metellus en 106 et ensuite de sa reconquête hypothétique par Marius. L’historien omet de citer plusieurs cours d’eau parmi lesquels le Bagrada, avec ses principaux affluents (aujourd’hui la Medjerda), mais aussi l’Ampsaga (l’oued el-Kebir), le Chinalaph (le Chelif) et le Thapsus (l’oued Safsaf) qui traversait Rusicade, ville située au temps de Syphax dans le royaume des Massyles. Salluste ne cite que trois fleuves : le Muluccha flumen, dont nous avons déjà parlé ; le Tanais flumen, au sud de Sicca (probablement l’oued ed Derb), rencontré par Marius sur la route de Capsa (90, 3) ; le Muthul flumen, oriens a meridie, que Salluste situe dans la zone méridionale du petit royaume d’Adherbal sur les rives duquel se déroula la bataille du mois d’août 109 gagnée par Metellus (48, 3) (probablement l’oued Mellègue, affluent de la Medjerda à l’ouest de Sicca, sur le territoire des Musulames, moins probablement l’oued Tessa à l’est de Sicca). Salluste décrit une vallée aride et sans cultures, traversée par des collines couvertes d’oliviers sauvages, de myrtes et d’autres plantes et arbustes qui poussent dans les terrains arides et sablonneux.

Les villes citées sont au nombre de neuf : Cirta, Thirmida, Suthul, Vaga, Zama, Thisiduum, Sicca, Thala, Capsa, Lares. L’ancienne capitale des Numides Massyles, Cirta (qu’il faut nettement distinguer de Sicca), située sur le plateau découpé par l’oued Rummel, le fluvius Cirtensis formosus, l’Ampsaga, apparaît inexpugnable même à Jugurtha, propter loci naturam (23, 1) ; ce fut Adherbal qui se rendit après que son cousin avait tenté plusieurs fois de l’attaquer (21, 3 ; 22, 1 ; 26,1) ; depuis le plateau sur lequel était située la ville, il était possible de sortir à travers un passage secret puisque deux Numides, amis d’Adherbal, purent rejoindre Rome alors que Cirta était assiégée (23, 2) ; les principales batailles eurent lieu aux alentours de la ville ; au nord, pas très loin de la côte, haud longe a mari prope Cirtam oppidum, Adherbal fut vaincu par Jugurtha (21, 2) lequel, après la reddition de son cousin, occupa Cirta, conquise et ensuite probablement perdue par les Romains au cours des derniers mois du commandement de Metellus qui attendait l’arrivée de Marius. La veille de la reconquête de la ville, Marius réussit à vaincre les deux rois alliés du prince maure Volux (101, 1) et posa à Cirta son praetorium, où il reçut les envoyés de Bocchus qui arrivaient peut-être de Thugga, l’autre grande capitale numide (102, 2 ; 104, 1).

Thirmida (peut-être Thimida Bure, Henchir Henchir Gouch-el-Batia près de Souk el Khemis, non loin de Thugga) est citée par Salluste à propos de la mort de Hiempsal : c’est là qu’était probablement établie une des trois capitales après la mort de Micipsa (12, 3).

L’imprudence du légat Aulus Postumius Albinus conduisit en janvier 109 (mais plus probablement dès le mois de décembre précédent) à la défaite romaine à proximité de la forteresse de Suthul, où étaient conservé le trésor du royaume de Numidie ; forteresse bien défendue par des remparts construits au bord d’une paroi abrupte, protégeant une plaine qui en hiver était inondée et devenait presque un marécage (37, 3). D’après Orose, la défaite eut lieu à proximité de Calama (l’actuelle Guelma en Algérie de l’ouest et conduisit à une foedus et à une paix que Rome ne reconnut pas (38, 9).

Zama Regia (peut-être Jâma, à une trentaine de kilomètres au nord-est de Assuras) est mentionnée parce que Metellus essaya en vain de la conquérir en 109 av. J.-C: urbem magnam et in ea parte qua sita erat arcem regni (56, 1) ; c’était une forteresse située dans une plaine mais très bien protégée : id oppidum in campo situm opere quam natura munitum erat, nullius idoneae rei egens, armis virisque opulentum.

C’est à Tisidium (Thisiduum ou Chisiduum, aujourd’hui Krich el Oued, près de Medjez el Bab sur la rive droite de la Medjerda) que se déroula la difficile médiation de Bomilcar entre Jugurtha et Metellus, après Zama (62, 8).

Et aussi Vaga, urbs maxima (48, 1), civitas magna et opulens (69, 3), aujourd’hui Béjà, occupée par Jugurtha ; c’est là, qu’à l’occasion d’une trêve, le questeur P. Sextius, envoyé par L. Calpurnius Bestia, alla prendre du blé (29, 4) ; cette ville fut conquise par les Romains et ensuite perdue à cause de la trahison présumée de Titus Turpilius Silanus à l’occasion d’une fête, peut-être celle des Sérères célébrée le 13 décembre 109 av. J.-C., dies … festus celebratusque per omnem Africam (66, 2) ; elle est rappelée comme un grand marché ouvert aux negotiatores italiens même pendant la guerre : forum rerum venalium totius regni maxume celebratum (47, 1).

Sicca (aujourd’hui Le Kef) fut l’une des premières villes à tomber aux mains des Romains après la bataille de Muthul où il s’approvisionna en blé risquant d’être attaqué par les Siccenses à l’instigation de Jugurtha (56, 4-6).

Les trésors du royaume étaient accumulés à Thala, une ville riche en sources situées près des murs (89, 6), protégée par l’âpreté du paysage locorum asperitate (75, 10), oppidum et operibus et loco munitum (76, 2), oppidum magnum atque opulentum (75, 1) ; les fils du roi y avait été élevés et c’est là qu’eut lieu la grande bataille gagnée par Metellus en 108 et qui, après un siège de 40 jours, se termina par la conquête de la ville.

Et Larès, ville au sud de Sicca, sur la route de Capsa (l’actuelle Henchir Lorbeus), où Marius envoya Aulus Manlius avec les cohortes de velites pour protéger l’argent des salaires et les vivres (90, 2).

Enfin Utique, la capitale de la province romaine, est citée plusieurs fois : c’est là que se déroula l’épisode de l’haruspice qui, avant le massacre de Vaga, prédisit à Marius un avenir extraordinaire (63, 1) ; voir aussi 25, 5 ; 64, 5 ; 86, 4 ; 104, 1).

Steidle soutient que Salluste n’a pas voulu décrire la guerre dans tous ses détails mais qu’il a préféré ne sélectionner qu’un nombre limité d’événements significatifs ; cependant, les omissions sont si importantes que l’on peut suspecter qu’il trompe le lecteur pour parti pris  : en effet, le territoire occupé par les Numides et par le roi Jugurtha semble caractérisé de façon plutôt superficielle précisément par rapport au but de l’ouvrage.

 

6. Lorsqu’on reconstruit ces événements, on peut avoir le doute qu’en réalité les causes de la guerre civile en Numidie (qui précède l’intervention romaine), même si nous ne les connaissons pas complètement, étaient bien plus complexes que celles que Salluste a indiquées et internes à la réalité économique et sociale du royaume : dès les premières années de son règne, Micipsa avait craint une rébellion ne qua seditio aut bellum oriretur (6, 3). Plusieurs couches de la population, divisées au moins en deux factions, avait participé à la lutte pour la succession ; la faction conservatrice, guidée par Miscipsa et ensuite par Hiempsale et par Adeherbal paraît minoritaire ou tout au moins plus faible et moins aguerrie à cause aussi des ingérences romaines ; l’opposition au contraire, avec à sa tête Jugurtha, auquel s’appuyaient, semble-t-il les tribus Gétules dissidentes, prit peu à peu un caractère de masse (rappelons l’homo tam acceptus popularibus, 7, 1).

Dans son travail de réforme, Massinissa avait essayé d’habituer les nomades à l’agriculture, de créer en Numidie une propriété foncière forte, de centraliser l’administration, de limiter le pouvoir et l’autonomie des chefs de tribus nomades et, enfin, de diffuser la culture hellénique au sein de l’aristocratie locale dans le but de transformer son royaume en une véritable monarchie hellénique. Élisabeth Smadja a souligné que le roi avait constitué un patrimoine foncier géré sans aucun doute par les notables des villages et par une aristocratie urbaine en pleine croissance ; il avait organisé en outre un prélèvement périodique au détriment de ses sujets, il avait battu monnaie et il avait entretenu à ses frais une armée professionnelle. Il avait réussi à fonder son pouvoir sur la valorisation du culte dynastique et sur une hiérarchie pyramidale de fonctionnaires. Les résultats de cette politique se font ressentir dès les première années du II siècle av. J.-C., quand Massinissa put ravitailler en blé les armées des alliés romains. En 180 av. J.-C., le roi envoya à Délos une énorme quantité de blé, 2800 médimnes, équivalant à environ 140.000 litres. Il avait – selon Polybe – rendu fertile un territoire, la Numidie, que l’on avait cru jusque là complètement improductif. Plus tard, Micipsa donnera des quantités importantes de blé produit en Numidie pour l’armée romaine engagée en Lusitanie contre Viriate, à Numance et enfin en Sardaigne, à la demande de Scipion Émilien et Caius Gracchus. Au cours du II siècle av. J.-C., un vaste processus de promotion des installations agricoles s’était donc développé en Numidie, surtout dans la zone des Campi Magni, avec la sédentarisation progressive de groupes sociaux auparavant nomades ou semi-nomades pratiquant l’élevage transhumant. Selon Strabon, insatisfait des résultats obtenus, Micipsa avait encouragé l’arrivée de colons grecs ; l’entrée de capitaux romains avait été favorisée par l’arrivée, surtout à Cirta, de negotiatores italiens qui avaient été ensuite tragiquement impliqués dans la fin d’Adherbal (26, 1). Les tendances centralisatrices de Massinissa et de Micipsa s’étaient heurtées à la violente opposition des tribus nomades, qui jouissaient en fait d’une indépendance séculaire, surtout grâce à une organisation militaire autonome. Salluste ne considère pas la guerre civile qui avait précédé l’intervention romaine comme un simple affrontement entre des prétendants au trône, mais il y voit aussi une certaine ressemblance avec la lutte entre les optimates et les populares ; en Numidie les masses populaires, après une période de passivité, tendaient vers l’opposition nationaliste, alors que le parti au gouvernement avait de plus en plus besoin de l’appui Rome pour obtenir un minimum de légitimité. D’ailleurs, les intérêts des négotiatores romano-italiens, auxquels était due une grande partie de l’hostilité de Rome à l’égard de Jugurtha, étaient solidement liés à ceux du parti au pouvoir ; leur sort était étroitement lié à celui d’Adherbal. L’opposition guidée par Jugurtha prit donc peu à peu un caractère national, patriotique et anti-romain. D’ailleurs le Bellum Iugurthinum de Salluste garda de nombreuses traces de ce rôle positif de Jugurtha, de ce lien solide avec le territoire : les habitants de Capsa, les Capsenses, semblaient totalement dévoués au roi et gouvernés avec bienveillance parce qu’ils étaient immunes, levi imperio et ob ea fidelissumi (89, 4) ; les habitants de Sicca n’hésitèrent pas à trahir leurs accords avec Marius et à se ranger à nouveau aux côtés de Jugurtha (56, 5) ; les Gétules du Sud aidèrent Jugurtha en difficulté et se firent exercer à la guerre contre Rome (80, 1-2) ; le roi numide Aspar épia même Bocchus pour le compte du roi (108, 1) ; environ quinze ans après la fin de la guerre, le souvenir de Jugurtha suscita encore beaucoup d’enthousiasme, lorsque le prince Oxyntas réapparut à Venusia  aux côtés des Samnites ; la longueur de la guerre est d’ailleurs un signe du consentement et du soutien sur lesquels le roi pouvait compter contre les Romains du moment que, même parmi les Maures de Bocchus, Iugurtha carus et Romani invisi erant (111, 2) ; pourtant certains princes numides prenaient plus ou moins officiellement parti pour les Romains : rappelons Dabar, fils de Massugrada, petit-fils de Massinissa, que nous voyons opérer à la cour du roi Bocchus contre Jugurtha (108, 1-2).

Gianni Brizzi a observé avec finesse que même l’épisode de Calama, qui s’était conclu par la paix infamante subie sub iugum par Aulus Postumius Albinus, homonyme de son ancêtre vaincu aux Fourches Caudines, présente dans le récit de Salluste d’irrémédiables contradictions et est volontairement obscur : ce qui confirme un peu à la fois le rôle équivoque de certains personnages et l’ambigüité de Salluste ; nous pouvons affirmer que l’historien a, à plusieurs reprises, adapté les données dont il disposait aux intérêts politiques des populares. Le jugement sur la corruption et sur la trahison de la nobilitas, préoccupée des conséquences de la guerre qu’elle considérait presque comme une aventure dangereuse et peu productive, semble excessif et dénigrant : il paraît tout à fait improbable que le sénat dans son ensemble se soit laissé corrompre par Jugurtha, même si à Rome il était d’usage commun d’accepter les dons d’un roi étranger à la recherche de légitimation, dans un rapport de patronat et de clientèle.

Il existe d’ailleurs un élément que les historiens de Salluste connaissent peu et qui conseille de lire avec plus de prudence le compte-rendu officiel de la guerre : quelques doutes sur les rapports du roi avec le peuple romain surgissent en relisant le texte de la loi agraire votée par les comices au printemps 111 av. J.-C. Bien qu’imposant l’interdiction de colonies sur le territoire de Carthage et confirmant la révocation de la colonia Iunonia voulue une dizaine d’années auparavant par les populares avec la lex Rubria de 123, cette loi confirmait pleinement les attributions de terres en faveur des fils de Massinissa à l’intérieur de la province romaine et réaffirmait donc que le seul roi de Numidie survivant, Jugurtha, en guerre contre Rome, pouvait détenir légalement les terres qui lui avaient été attribuées. En somme, même les comices n’avaient pas manifesté durant cette phase le moindre intérêts pour l’abolition du royaume de Numidie. Mommsen avait déjà relevé que la présence d’agri publici regibus civitatisque sociis amicis permissi à l’intérieur de la province romaine était singulière. Le texte de la loi indiquait de façon explicite que le duumvir chargé de réorganiser l’ager publicus africain ne pouvait disposer des territoires qui avaient été attribués aux fils de Massinissa et considérés comme l’ager privatus vectigalisque et donc peut-être sujets à vectigal : [extraque eum agrum, quem agrum … P. Cornelius imperator ? lib]ereis regis Masinissae dedit habereve fruive iussit. Au printemps 111 av. J.-C. (la veille du départ de L. Calpurnius Bestia pour l’Afrique), Jugurtha semble donc être encore légalement un rex socius et amicus à part entière et non pas seulement formellement, puisqu’il était le seul héritier des biens de Massinissa ; et ce précisément par la volonté des comices populaires qui avaient pourtant décrété ou allaient décréter l‘indictio belli. Ce n’est qu’à la fin de la guerre que Marius put disposer d’une partie de ces terres et qu’il installa aussi ses vétérans dans le royaume de Numidie confié à Gauda, en deçà de la Fossa Regia, dans la zone de Thibaris, d’Uchi Maius, de Thuburnica et de Mustis, en vertu de la lex Appuleia de colonis in Africam deducendis de 103, grâce à laquelle jusqu’à 100 jugères de terre (équivalant à 25 hectares) pouvaient être distribués aux milites mariani. À cette occasion, des groupes de Gétules favorables à Rome purent obtenir des terres et la citoyenneté romaine.

Au-delà du récit de Salluste, Jugurtha peut donc nous apparaître aujourd’hui comme une victime de l’impérialisme romain, et de toute façon un souverain essayant désespérément d’assurer l’autonomie de son royaume et la dignité de son peuple ; et même si la province romaine de l’Afrique ne subit pour le moment aucun élargissement, les positions agressives des populares et surtout des equites se manifestèrent très vite avec la tentative de Curion de publicare le royaume de Juba et enfin, après la bataille de Thapsus, avec l’institution de l’Africa Nova et la suppression définitive du royaume. César se manifesta, même dans ce cas, comme le véritable continuateur de la politique du grand Marius.




Ricordando Marco Tangheroni.

Ricordando Marco Tangheroni
Discorso pronunciato durante il XII Congresso della
Mediterranean Studies Association (Cagliari 27 maggio 2009)

Attilio Mastino

Sono felice di essere a Cagliari a questo Congresso della Mediterranean Studies Association, chiamato a presentare il volume postumo di Marco Tangheroni, Della Storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila, un’opera inconsueta edita da Sugarco Edizioni di Milano, curata da Cecilia Iannella, con la presentazione di David Abulafia.

Debbo a Patrizia Paoletti, la moglie di Marco, l’onore di poter presentare un volume che mi ha emozionato davvero, ritrovando pagina per pagina il pensiero di uno studioso e di un amico scomparso, riscoprendo il filo rosso che ha legato tante opere di Marco, che pensavo espressione di una cura filologica minutissima per il dato storico, per il documento, per gli archivi e che ora rivedo incasellate all’interno di uno schema mentale, di un ragionamento, perfino di una scelta politica militante. Il silenzio di una perdita restituisce gli echi delle parole che pensavamo irrimediabilmente perdute.

Qualche settimana fa ho ricordato con Manlio Brigaglia i giorni in cui si decise la nomina di Marco Tangheroni a Preside della Facoltà di Magistero dell’Università di Sassari; era il lontano 1981, era appena uscito il volume sul commercio dei cereali nella Sardegna aragonese, e, nella casa di Nicola Tanda, si ritrovarono un gruppo di docenti di sinistra che scelsero Tangheroni come loro candidato per sostituire Ercole Contu che si era dimesso con molto anticipo. Marco era riuscito a conquistare tutti i colleghi locali, soprattutto quelli politicamente più lontani, ad entrare in sintonia con un mondo che del resto conosceva e frequentava da tempo. Io ero appena arrivato da Cagliari come assistente e ricordo l’aria fresca che entrava in una Facoltà troppo chiusa su se stessa, troppo divisa, troppo lontana da biblioteche ed archivi, diciamo pure la parola, troppo provinciale. Marco restò a Sassari solo per poco tempo, fino al 1983, quando fu chiamato a Pisa come professore di storia del commercio e della navigazione, ma intanto era riuscito a pubblicare il volume Sardegna mediterranea ed aveva seguito l’applicazione del DPR 382 del 1980 con l’arrivo di nuovi professori associati me compreso e con i tanti concorsi banditi. In quegli anni Marco accompagnò la trasformazione dell’Istituto di Scienze storiche di cui era stato l’ultimo direttore e la nascita del nuovo Dipartimento di Storia che metteva insieme il diavolo con l’acqua santa, i colleghi della Facoltà di Magistero con quelli del corso di laurea in Scienze Politiche della Facoltà di Giurisprudenza; soprattutto riuscì concretamente ad aprire la Facoltà verso il mondo esterno, innanzi tutto con Barcellona, con la penisola iberica, con il Maghreb. Lui che amava il mare, organizzò a Castelsardo, nell’estate 1982, un incontro inconsueto con tutti gli studiosi stranieri impegnati in ricerche storiche e archeologiche in Sardegna: fu in quell’occasione che rividi il mio amico Robert Rowland della Loyola University di New Orleans, impegnato nella preparazione del volume sulla Sardegna antica nel Mediterraneo. Ho ancora vivissima l’immagine di quell’incontro che si svolse d’estate, sulle verande di un hotel di Castelsardo che si affacciavano sul mare. Più tardi nel 1983 organizzò assieme ad Antonello Mattone il Convegno sugli Statuti Sassaresi, Economia società istituzioni a Sassari nel Medioevo e nell’età moderna, che storicamente è stato il primo dei convegni promossi dal Dipartimento di Storia.

Marco aveva tanti contatti, tante idee, tanti interessi: era generoso e largo di consigli con noi tutti, penso a Giuseppe Meloni, ad Angelo Castellaccio, a me stesso, interessandosi alle nostre passioni, indicando nuovi modi di vedere i problemi storici ed opportunità di nuovi studi, soprattutto raccomandando l’esigenza di inserire la microstoria alla quale qualcuno di noi allora si dedicava in un quadro più ampio, non tanto sul piano geografico quanto sul piano del metodo, delle idee, della capacità di analisi con continui richiami a maestri e teorici della filosofia della storia.

Sempre sorridente, garbato, capace di affrontare pazientemente le sofferenze fisiche di una malattia che scandiva le ore delle sue giornate ma che egli tentava di ignorare, in Consiglio di Facoltà ci sorprendeva per la determinazione e per la durezza con la quale si scontrava ad esempio con Padre Egidio Guidubaldi.

Eppure la cosa che ricordo di più è il suo sorriso, il suo forte spirito etico cristiano, il suo rigore quasi ascetico. Vennero poi gli anni pisani ma Marco non interruppe i contatti, accompagnò Laura Galoppini, seguì i nostri dottorandi, fu in Sardegna a casa di Padre Turtas anche pochi mesi prima di morire, sempre prendendo accordi preventivi con gli ospedali per avere la sicurezza della dialisi. Angelo Castellaccio ha scritto da poco del dolore che ha accompagnato la vita di Marco, la sofferenza che era come un’ombra, a guisa di un angelo negativamente protettore, che sembrava continuamente accompagnarlo e cadenzarne i movimenti e di cui in verità non lo abbiamo mai sentito lamentarsi. Allora ci parlava della moglie e della nuova famiglia, delle tre figlie adottate all’epoca del genocidio ruandese, le tre ragazze tutsi che amava davvero, era orgoglioso di loro, dei loro straordinari progressi.

Cecilia Iannella racconta delle carte lasciate da Marco Tangheroni nella sua casa di Pisa, l’11 febbraio 2004, rimaste incompiute al momento della morte: tra esse compariva l’ultima versione di questo volumetto su alcuni aforismi del boliviano Nicolàs Gomez Davila Nicolás Gómez Dávila, un’opera completa anche degli indici, già corretta in bozze, con la dedica a Giovanni Cantoni, fondatore di Alleanza Cattolica, direttore della rivista Cristianità, profondo conoscitore di scrittori ibero-americani e specialista proprio di Gomez Davila Gómez Dávila. L’opera era stata preparata a margine del seminario universitario Epistemologia della storia che Marco aveva tenuto per un gruppo ristretto di allievi nel febbraio 2003 nel Dipartimento di medievistica di Pisa, senza la pretesa di un trattato scientifico, ma con una riflessione fresca, spontanea, talvolta non ordinata, arruffata e troppo schematica: dice lui stesso di non voler rinunciare ad un certo tono colloquiale, aperto talora ai ricordi personali, perché questo era nel bene o nel male lo stile del suo modo di insegnare, il gusto del colloquio con i suoi studenti. Del resto, anche nelle sue opere più importanti, Marco ammetteva di aver fatto come i suoi minatori medioevali di Iglesias, quando un filone perdeva un po’ d’interesse, apriva un nuovo scavo. E racconta nell’introduzione delle sue condizioni di salute che lo avevano costretto a lavorare a casa, in una biblioteca costantemente alimentata dalla generosità di Patrizia. Mi ha impressionato la conclusione del capitolo 7 dedicato alla verità della storia, che mi sembra lasci intendere con lucidità l’avvicinarsi della morte, la consapevolezza di avere sempre meno tempo a disposizione: «in ogni caso – scriveva – e vale per i giovani come per i vecchi, per i sani come per i malati – non manca molto tempo». E ancora, nell’ultimo capitolo dedicato all’utilità della storia ed al rapporto tra passato e presente con le parole di Thullier e Tulard: «la relazione dello storico con la morte è cosa essenziale. Il mestiere dello storico deforma, crea dei riflessi dominati da un sentimento della fuga irreversibile del tempo: lo storico ha il senso dello scacco finale, ordina cose morte, fallimenti, un mondo già finito, già votato all’assenza, alla rovina. Il passato che egli studia rinvia alla sua morte, è in certo senso anticipazione della propria morte.» Eppure, Marco ripeteva costantemente con Marc Bloch e prima di lui con Henri Pirenne, che il primo dovere dello storico è proprio quello di interessarsi alla vita.

C’è stato a Sassari qualche settimana fa nell’aprile 2009 un congresso di sociologi su Saperi mediterranei e sviluppo tra memoria e trasmissione: avevo in quell’occasione parlato degli arguti commenti di Tangheroni e particolarmente originale e assolutamente fondato mi era apparso il giudizio sui gravi limiti della sociologia e delle altre scienze sociali, che si occupano prevalentemente della contemporaneità e tendono a perdere la ricchezza della profondità della storia, che al più considerano come scienza ausiliaria. La sociologia contemporanea sembra appiattita sul presente – sono parole di Tangheroni – e non ha molta voglia di fidanzarsi con la storia. Forse allora è utile che gli storici incoraggino i sociologi a misurarsi ancora sulle tracce di Max Weber con la dimensione del tempo trascorso, perché tentino di estendere il loro metodo scientifico anche al passato ed all’immagine del passato che si è andata affermando nel mondo contemporaneo. In più il rischio è che nelle scienze umane i modelli interpretativi si trasformino in maniera surrettizia e con somma disinvoltura da strumenti analitici in risultati stessi delle analisi.

La collega Antonietta Mazzette era intervenuta nel dibattito osservando che in realtà la sociologia è nata proprio facendo i conti con la storia (da Weber a Simmel a Durkheim), così pure l’antropologia. Per venire ai tempi nostri, Saskia Sassen (una delle più grandi sociologhe a livello internazionale) nel suo ultimo libro Territory, Authority, Rights, per parlare di classi globali e di nuovi diritti individua due grandi fratture: la prima nel Medioevo e la seconda nel Novecento. Ciò ha significato ripercorrerne la storia, ovviamente dal punto di vista socio-economico. Se poi veniamo ancora più vicino a noi, Franco Cassano nel suo libro Approsssimazione parte dal ‘500 e in modo particolare da Montaigne per trattare dell’individualismo. Ci sarebbero altri esempi, ma il punto non è questo, bensì il fatto che la conoscenza del passato per un buon sociologo sarebbe necessaria ma strumentale per comprendere il presente e, soprattutto, per individuare la direzione del mutamento. Cioè il futuro. Altrimenti i sociologi sarebbero dei giornalisti che descrivono la superficie delle cose. L’ultimo appunto della Mazzette è che forse sono proprio gli storici ad essere arrivati in ritardo a cogliere la necessità della commistione tra diversi approcci disciplinari e ad avere scoperto la storia sociale per ultimi.

E’ solo un esempio di quello che è questo volume di filosofia della storia scritto da uno che dichiara di non avere attitudini filosofiche, una miniera di riflessioni che pongono domande preziose sull’uomo e tendono a superare la storia economica praticata dalle Annales, per rendere conto della complessità della storia nella quale i protagonisti non sono solo i mercanti, ma anche i re, le grandi famiglie, gli altri agenti politici; una storia che metta l’uomo al centro del dibattito, che superi interpretazioni schematiche e superficiali, dominate dalle forze materialistiche così come proposto dalla storiografia marxista, che tende a concentrarsi su una sola causa, mentre la storia è frutto di più cause concomitanti e diverse. Perché – questo è il fulminante aforisma di Gomez Davila Gómez Dávila – «quello che non è complicato è falso.» Gli storici marxisti ormai obsoleti e stanchi sono costantemente oggetto di ironia e di polemica, perché rischiano di trasformare la storia in una disputa teologica, dimenticando l’oggetto stesso della ricerca, proponendo generalizzazioni che appaiono agli studiosi di un’ingenuità che intenerisce, come a proposito dei rapporti tra struttura e sovrastruttura, i concetti di rifeudalizzazione o di crisi della borghesia, il tema meccanicistico del determinismo e della necessità causale. Del resto Gomez Davila Gómez Dávila aveva osservato che un lessico di dieci parole è sufficiente al marxismo per spiegare la storia. Eppure, Marco non ignora i grandi maestri come Chris Wickham o Jacques Le Goff, o Lucien Febbre, Marc Leopold Bolch, oppure altri protagonisti della scuola delle Annales Annales, che a suo tempo hanno saputo fornire schemi interpretativi della storia del mondo che non possono essere dimenticati, come la storia totale della seconda fase, braudeliana, delle Annales Annales, oppure la storia globale che è il termine magico della nuova storia di Jacques Le Goff. La loro polemica contro l’histoire évenémentielle l’histoire évenémentielle era fondata, ma oggi appare chiaro che non si può leggere il passato in funzione del presente né si può costringere la storia entro la gabbia dottrinale del materialismo scientifico, che considera la verità dei fatti sempre clandestina. Eppure anche il Gramsci dei Quaderni dal carcere Quaderni dal carcere gli appare diverso, fortemente influenzato dall’idealismo italiano.

Marco valorizza viceversa il ruolo centrale degli individui nella storia, perché il generale è fortemente condizionato dalla decisione degli uomini e occorre giocare simultaneamente sulla scacchiera della massima generalizzazione e della massima particolarità.

Marco Tangheroni chiede rispetto per la complessità della storia senza rinunciare a stabilire connessioni, a mettere ordine, a proporre linee di riorganizazione del passato, per comprendere e spiegare: fondamentale è il concetto che l’inquietudine sul proprio mestiere debba accompagnare sempre gli storici che non vogliono travisare quella realtà che è oggetto dei loro studi. Dunque cosa conosciamo, come conosciamo, quali sono i limiti della nostra conoscenza, quali ne sono le fonti, elementi tutti che danno al mestiere dello storico un carattere artigianale e addirittura artistico e che rendono fondamentale la fase di apprendistato nella quale i maestri debbono seguire i loro allievi, come nel Seminario pisano. Occorre ancorarsi fortemente ad un periodo storico, ad una realtà geografica; riferimento costante in queste pagine è ai due poli fondamentali degli interessi storiografici di Marco, Pisa, a partire dal libro sugli Alliata del 1969, e la Sardegna, fino ad arrivare a La città dell’argento del 1985, per ancorarci al versante sardo. Per capire occorre cercare strade nuove e i tempi appaiono maturi per considerare ora l’archeologia medioevale come strumento fondamentale per comprendere la complessità della prima espansione marittima di Pisa nel Mediterraneo, così come per conoscere il rapporto tra città e campagna nella Sardegna giudicale.

Marco si richiama spesso a Paul Valery Valéry ed a Paul Veyne (Come si scrive la storia), anche se osserva con un poco di aristocratico distacco che ci sono troppi storici in giro, troppa gente che si dedica all’esercizio abusivo della professione di storico. E’ un poco l’osservazione di Luciano di Samosata nella sua operetta su come scrivere la storia, a proposito del numero di storici che si cimentavano a raccontare la guerra partica di Lucio Vero: è un poco come il morbo abderitico, sangue dal naso, febbre, sudore, che ha colpito per 7 giorni tutti i cittadini di Abdera fino a quando non è cambiato il vento; oppure come la vicenda di Diogene in occasione dell’assedio macedone alle mura di Corinto, quando tiratasi su la veste si affaccendava a fingere di fare qualcosa di utile rotolando la giara nella quale abitava su e giù per il colle del Craneo. <<«Rotolo anch’io la giara – aveva risposto Diogene ai suoi allievi incuriositi – per non sembrare l’unico che se ne sta inoperoso in mezzo a tanta gente che si da fare per proteggere Corinto di fronte all’attacco di Filippo V, preparando le armi, ammassando pietre, costruendo sostegni per le mura, puntellando il parapetto»>>.

Dunque non tutti possono rotolare la giara, che rischia di frantumarsi se solo si inciampasse in un sassolino. E questo a causa della dignità del mestiere di storico, la complessità, i limiti, il mistero di una disciplina, il pericolo delle mode, la pretesa originalità nella ricerca storica ed i critici rapporti con le scienze umane, la sociologia, l’antropologia, la geografia antropica, l’etnologia, la psicologia, la psicanalisi, la linguistica, la semiologia. Il rischio incombente per lo storico dilettante è la verosimiglianza che alcune discipline possono suggerire, come per quell’articolo di una studiosa barcellonese intitolato, utilizzando le arti della psicologia, Cosa pensava Pietro il Cerimonioso davanti alle mura di Alghero assediata?

C’è in questo libro anche la l’onesta diffidenza verso il progresso, verso l’assoluta bontà del nuovo, il rifiuto della rerum novarum cupiditas, le preoccupazioni per i danni causati dall’uso degli strumenti informatici e dalle analisi quantitative, l’integralismo, dirò la parola, di chi rifiuta l’erudizione fine a se stessa e ritiene che lo storico debba avere innanzi tutto l’esprit de finesse l’esprit de finesse, fondato sulla formazione della personalità, del gusto, delle capacità di discernimento dello storico. Soprattutto le perplessità per le strade prese dalle scienze della natura, per le teorie neo-darwinistiche, per quanti ignorano una forza immanente, provvidenziale e razionale nella storia dell’uomo. Marco riprende l’osservazione di Erwin Schroedinger Schrödinger, che condanna l’uso di limitare l’antico nome universale di scientia alla sola scienza della natura, escludendo lo studio del linguaggio, della storia ecc., come se in questo caso non si trattasse affatto di scire. Chi fa storia riesce a fare scienza se pone domande nuove anche a documenti già noti, se maneggia con prudenza concetti astratti spesso avulsi dalla realtà storica, talvolta anacronistici: occorre una forte ripulitura linguistica per rimettere in discussione concetti come capitalismo, imperialismo, classe, borghesia, nazione, stato, società, ma anche declino, rinascita, ricostruzione. Più utile gli sembra parlare di transizione, cambiamento, change change, rispetto a continuità. E’ il linguaggio di nuovo degli archeologi medievisti.

E poi la critica al relativismo, che è la soluzione banale di chi è incapace di mettere le cose in ordine, il tema della soggettività dell’interpretazione storica, la sottile preoccupazione per i pregiudizi, ma anche la convinzione che occorre procedere alla riabilitazione dell’autorità e della tradizione, perché il progresso è spesso effimero se si imboccano sentieri fuorvianti. Occorre tornare alla realtà e il passato non è la meta apparente dello storico, bensì quella reale perché non è vero che lo storico si installa nel passato per intendere meglio il presente.

Eppure per Marco la storia ha una sua utilità, se abitua all’incontro con l’altro da noi, con civiltà e culture lontane nel tempo, senza appiattimenti nel Novecento. Il pensiero è ancora alle figlie adottive.

Uno degli aforismi recita argutamente: «Il primo passo del sapere consiste nell’ammettere con buon umore che le nostre idee non hanno niente per cui debbano interessare a qualcuno».

Beh, credo che le idee di Marco Tangheroni possano interessare a tutti noi, anche a chi, come me, si occupa di quella storia antica che Marco non ha voluto escludere dal proprio campo di osservazione, ponendosi anzi a tutti gli effetti in una linea di continuità con la visione tucididea della storia.

Lo ricordo oggi a voi tutti con il suo bastone, con il suo cappello, con il suo sorriso, con il suo umorismo bizzarro ed amaro, con la sua serenità profonda.




Tonino Oppes, La memoria ha il sapore di menta, Storie di Pozzomaggiore, da via Amsicora a Nova Giolka.

Tonino Oppes, La memoria ha il sapore di menta, Storie di Pozzomaggiore, da via Amsicora a Nova Giolka, Cagliari 2008, Edizioni domus de janas

Questa nuova fatica di Tonino Oppes è un omaggio al suo dolce paese, un luogo tanto amato e presente nel ricordo e nella mente anche quando l’autore si trova a chilometri di distanza, guardandolo con rimpianto dalla città lontana: un luogo di cui Tonino porta sempre con se nel cuore le immagini, i suoni, i profumi, i sapori forti, come l’orecchio abbrustolito del maiale con le setole carbonizzate oppure la caramella dal sapore di menta avvolta in una carta trasparente e sottilissima che gustava con gioia quand’era bambino.

Sfogliando queste pagine ho pensato anch’io alla mia infanzia lontana, ai tempi in cui a Bosa all’asilo ci azzuffavamo bambini per raccogliere le caramelle che il vescovo mons. Nicolò Frazioli gettava dalla finestra più alta che si affacciava sul salone e poi di sera andavamo a comprare per una lira le liquirizie esposte nelle vetrine del negozio dei Mascagnina al Corso Vittorio Emanuele; oppure a pranzo d’estate in spiaggia quando mangiavamo i maccheroni con il sapore della sabbia.

Tempi in cui si legavano i cani con la salsiccia, direbbe mio padre, tempi che Tonino Oppes ci fa rivivere con immediatezza in un viaggio a ritroso nel tempo, sorvolando d’un colpo su oltre 50 anni, con semplicità e con una prodigiosa capacità di ricordare i nomi, le figure caratteristiche, le situazioni, attraverso le fotografie, attraverso i documenti o anche attraverso le lapidi del cimitero come in una nuova Spoon River di Edgard Lee Masters: dubito che io potrei mai riuscire a ricostruire con tanta ricchezza di dettagli e con tanti particolari l’ambiente in cui si è svolta la mia infanzia a Bosa, dubito che chiunque potrebbe riuscire a restituirci un affresco tanto delicato e positivo, ricordando il mondo brulicante di vita sulla via Amsicora, ad iniziare dai giochi, la trottola, la luna monta, le palline a garici e boccia, nel salone parrocchiale il ping pong, il calcio balilla; e poi la scuola con i tanti maestri che si sono alternati, i bidelli e gli alunni; i campeggi a Tramariglio, i momenti di gioia e di lutto che scandiscono la vita di un paese vivace e allegro. Un libro che descrive l’epopea di Pozzomaggiore, l’ha definito ieri delicatamente su L’Unione Sarda Giuseppe Marci, mentre su La Nuova Sardegna Emidio Muroni parlava di un viaggio nel passato alla ricerca di senso per la vita di tutti.

Nella scrittura tradizionale sarda, non manca la letteratura del ricordo, come lo stesso Padre Padrone per Gavino Ledda, con un paese, Siligo, immaginato come abitato da disperati, lo spazio di tante tragedie quotidiane, il luogo del freddo e del caldo torrido: il paese letterario conosce insieme la lotta per la sopravvivenza, la tragedia del vivere quotidiano, la sofferenza di una società che sembra immobile e fuori dalla storia, afflitta dal gelo e dalla pioggia, dalle cavallette e dalle malattie.

Il paese di Pozzomaggiore descritto da Tonino Oppes è un paese diverso, un paese solare, un paese più complesso e più positivo, un paese nel quale in realtà ci sono tante cose da amare, che si ricordano con la dolcezza di chi è stato accolto senza riserve e che ancora ritorna per ritrovare il clima di accoglienza, l’amicizia, l’affetto profondo di chi l’ha conosciuto davvero. C’è in queste pagine il piacere dello stare insieme e dell’incontrarsi, per combattere la solitudine ed il silenzio, c’è il rapporto con la campagna e l’amore per i cavalli; c’è più ancora il senso di una comunità forte della quale si continua a far parte anche quando fisicamente si è lontani.

E allora il difficile dopoguerra in una comunità povera ma solidale e non disperata, l’arrivo dell’acqua nelle case, della corrente elettrica, poi della radio e della televisione; i momenti di divertimento dopo i disagi della guerra, i balli, il gioco a carte, il bere in compagnia. Già Vittorio Angius nel Dizionario del Casalis all’inizio dell’Ottocento considerava una delle caratteristiche principali di Pozzomaggiore le ricreazioni tradizionali – così le chiamava – della danza e del canto; <<molti però aman meglio le carte – aggiungeva – e fanno allora gran consumo di vino>>. E ancora le tradizioni popolari, i matrimoni, i battesimi, i momenti di lutto; la cucina tradizionale, le superstizioni, il malocchio, l’assistenza sanitaria ancora primitiva ma spesso efficace. E poi il lavoro dei campi, l’aratro a buoi, la trebbiatura, la tosatura, la marchiatura del bestiame, con il marchio incandescente o con le forbici, una pratica un poco barbarica che io stesso ho osservato con qualche dispiacere come delegato del sindaco di Bosa ancora negli anni 70. Qualche anno fa a Tresnuraghes non capivo da dove venisse la competenza di Tonino nella pratica dell’uccisione del maiale per la preparazione dei salami e delle salsicce ed ora scopro che il nonno era uno dei più celebri occhidores de porcu del paese. E poi le vendemmie, i giochi, il circo Zanfretta, lo sport, il calcio in particolare in FIGC e nel CSI. I gruppi musicali, i balli, gli spuntini a Bonuighinu di Mara oppure a sa Sea di Padria, a Nadduzzu, a Planu ‘e Murtas, le terre contese al confine col comune di Padria. La corsa degli asinelli, vinta sempre da Listrone, l’asino che correva come un cavallo, e le tante occasioni per competizioni e per scherzi che nel ricordo perdono la crudeltà originaria.

Ho trovato straordinaria la descrizione della misteriosa buttega de tia Bainza, con i sacchi di fagioli, ceci e fave, la bilancia, i ganci con appeso il baccalà salato, la pasta nei cassetti, le giare per le olive, immagini che ritrovo anche nella mia infanzia, nella bottega di Flavio Chelo a Bosa.

Infine la poesia popolare, esito di una sapienza secolare e vitale elemento di critica sociale e di incontro.

Tonino Oppes ha raccontato spesso le paristorias, le tante leggende che hanno animato la vita dei bambini di Pozzomaggiore, con quell’incredibile senso della meraviglia e del mistero, dell’incanto che supera la paura o il terrore, che nutre l’immaginario collettivo e fa sviluppare intelligenza e sensibilità: la curiosità, il senso della famiglia e del gruppo affiatato, la ricerca di nuovi amici, la voglia di confrontarsi con gli altri, le delizie dell’infanzia di fronte all’ignoto ed al mondo della magia.

Tutti sanno che i pascoli di Pozzomaggiore come quelli del Marghine sono tra i più grassi della Sardegna, come testimonia la produzione del formaggio ed il numero dei capi di bestiame, in particolare bovini, pecore, più ancora – una cosa che mi ha sempre incuriosito – i cavalli, con le tradizioni equestri che culminano nella festa del santo guerriero, l’imperatore Costantino Magno, che attraverso l’ardia di Sedilo ci conduce all’organizzazione militare bizantina in Sardegna tra Romania e Barbaria. Scorrono in queste pagine le immagini di pastori, contadini, muratori, fabbricanti di coltelli, operai, barbieri, calzolai, ambulanti, persone tutte con una propria esperienza riconosciuta ed apprezzata, con una specializzazione che ne faceva tanti cardini e fondamenti della comunità.

E infine i monumenti, le chiese, la parrocchiale di S. Giorgio e S. Antonio Abate con il convento degli Agostiniani, con il campanile e la croce davanti alla quale i condannati a morte si inginocchiavano poco prima dell’esecuzione, luoghi che fanno da scenario alle tante feste popolari, alle rappresentazioni di teatro popolare con la partecipazione delle confraternite o del coro sardo. Tonino Oppes è convinto che molte delle storie di Pozzomaggiore passano attraverso l’impegno della chiesa, don Castagna, don Cuccuru, don Pischedda, don Fadda, i sacerdoti che hanno testimoniato un’attenzione per i poveri, per i bambini, per gli anziani. E poi la piazza maggiore per il carnevale, vero e proprio momento di teatro popolare, così intenso partecipato e vivace, che ha tanto in comune con altri carnevali sardi.

Anche la partenza degli emigranti per la Francia, financo per gli Stati Uniti e per l’Australia ha un sapore diverso, il senso di una vita che ricomincia, mantenendo sempre legami e rapporti anche al di là degli oceani. Ci sono parenti che raggiungono i loro cari per matrimoni o nascite, ci sono musicisti ed artisti che uniscono idealmente Annemasse a Pozzomaggiore, ci sono gruppi di compaesani che mantengono una propria forte identità anche in terra straniera. Anche in questo caso, c’è un’incredibile distanza dalla disperazione di Siligo. Il libro di Gavino Ledda termina con le drammatiche pagine dedicate agli emigranti che partono per l’Australia: la miseria, il dolore, ma anche la rabbia di chi parte e di chi resta, in quello che l’autore descrive come un funerale doppio, dove i morti sono ancora vivi e dove gli abitanti di Siligo che rimangono accompagnano all’autobus, come al camposanto, i parenti che partono per sempre; e dove gli emigranti pensano di partecipare al funerale di quelli che restano, condannati ad una miseria senza scampo.

Il viaggio verso il posto di lavoro con la valigia di cartone perde nelle pagine di Tonino Oppes il suo aspetto più tragico; c’è certo il dolore, la nostalgia, la sofferenza profonda di chi vede sgretolarsi una comunità di fronte alle ondate dell’emigrazione, ma c’è anche apprezzamento per la capacità dei giovani di Pozzomaggiore di costruirsi una vita nuova, di farsi conoscere all’estero, di ricreare fuori dalla Sardegna un ambiente, un paesaggio, una comunità in una dimensione parallela al microscopico paese d’origine, come presso il bar di Madame Depres ad Annemasse. Possiamo seguire i successi dei compaesani lontani, fino alla competizione olimpica a Pechino della nipote degli Ezzis Mélanie Noel. E allora le migliaia di aneddoti sulle tante storie degli emigranti, la loro ingenuità, la loro semplicità, i loro sogni ambiziosi, la voglia forte di crescere e di affermarsi per tutti, la simpatia con la quale si seguono successi e delusioni, il senso di una comunità che continua a proteggere chi è lontano e che in qualche modo la rappresenta ancora.

Scorrono in queste straordinarie immagini situazioni e momenti diversi di una comunità ricca, piena di sentimenti, di passioni, di sogni, di devozione popolare, di interessi politici: all’Università il povero Don Bellu, storico della DC, ci ha insegnato il ruolo critico e positivo che il Gruppo di Pozzomaggiore ha svolto nell’ACI prima e poi nella nascita della Democrazia Cristiana in Sardegna, già durante l’ultima fase della guerra fascista: in particolare Don Angelico Fadda, parroco dal 1927, fu l’animatore di un movimento spesso di dissenso, fortemente impegnato in iniziative di carattere sociale, nel campo dell’assistenza all’infanzia, alla vecchiaia, ai lavoratori bisognosi. Le colonie marine e montane, i monti frumentari, le conferenze di carità, i medicinali per i poveri, una prodigiosa azione di promozione sociale. E poi gli incontri politici delle notti pozzomaggioresi fin dal maggio 43, come si esprime don Salvatore Fiori, con Pietrino Fadda, fratello del parroco e futuro parlamentare, Giuseppe Masia, che sarebbe diventato consigliere e assessore regionale, Salvatore Dettori, Don Pasquale Cuccuru. Questo, per riconoscimento degli storici, fu il gruppo più precoce e intelligente dei politici antifascisti, fondatori in Sardegna di una DC fortemente aperta alle istanze sociali, tanto da essere accusati talora di comunismo, separatismo, esasperato antifascismo. Un partito grande e sensibile alle istanze sociali, capace di interpretare il senso del mondo nuovo che arriva.

Qualche breve nota è dedicata in questo volume al pozzomaggiorese più illustre a quel generale dell’aeronautica fondata da Italo Balbo, Pietro Pinna Parpaglia alto commissario per la Sardegna dal 1944 al 1949, alle origini della Regione Autonoma: un personaggio che proveniva da una famiglia di antica nobiltà, prigioniero in Etiopia, in India e negli Stati Uniti. Subito dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 egli si adoperò per la costituzione di reparti combattenti al fianco degli Alleati, proponendone contemporaneamente il progetto allo stesso Presidente Franklin Delano Roosevelt. Rimandato in Italia fu nominato dal governo militare alleato Alto Commissario per la Sardegna, incarico che tenne con grande equilibrio fino al 1949, promuovendo la nascita dell’autonomia regionale.

Compaiono in questo volume anche i sindaci, come Luisa Meloni, Peppe Pinna Parpaglia, Angelino Cossu, ora Tonino Pischedda e tantissimi altri protagonisti della vita del paese.

Tonino Oppes testimonia ogni giorno nel suo lavoro di giornalista RAI, nella sua passione di studioso e di intellettuale, l’interesse per i piccoli comuni, l’impegno per combattere la polarizzazione della Sardegna, per salvare il patrimonio di valori della campagna, per continuare a seguire dall’interno le tante piccole storie delle comunità minori, che hanno una loro dignità profonda e che lo spopolamento rischia di compromettere. Dunque il ruolo della memoria è decisivo e può svolgere una feconda azione di aggregazione e di lievito: questo volume è un modo appassionato per dire che questo paese disteso sulla collina come un vecchio addormentato ha una sua precisa fisionomia ed una sua identità, non può essere condannato ad una perpetua malattia, alla noia, all’abbandono, al niente. I cittadini di Pozzomaggiore non possono essere votati alla disgregazione, alla fuga ed alla nostalgia. Ben vengano dunque le idee, i progetti, le novità, per costruire un paese più moderno, ma sempre consapevoli della ricchezza che abbiamo alle spalle e nel rispetto di una identità, di una realtà nobile e delicata, di un’eredità che non è fatta solo di pietre e che non si può disperdere al vento in vista di un’utilità immediata. Nel paese che cambia, la miniera dei ricordi rappresenta lo scrigno che conserva un patrimonio di affetti e di emozioni che ora possono veramente diventare il punto di partenza per costruire una comunità solidale.