Il poeta delle Nazionalità, in L. Deriu, Antonio Simon Mossa, L’architetto delle Libertà, Carlo Delfino editore, Sassari 2024, pp. 13-22.
Questa biografia di Antonio Simon Mossa (Padova 1916 – Sassari 1971), scritta da Luciano Deriu sarà una meravigliosa sorpresa per i lettori: rappresenta un passo in avanti decisivo nella conoscenza di una delle figure centrali della Sardegna del secondo dopoguerra, indaga su tanti versanti l’azione di un democratico visionario, che è stato capace di guardare la nostra terra con uno sguardo non convenzionale, aperto, originale, creativo: ora emerge la coerenza di una vita intera spesa con obiettivi alti e positivi, con l’utilizzo dei linguaggi più diversi, perfino della musica. Finalmente ci accorgiamo quante siano le cose che gli dobbiamo, quanto la Sardegna di oggi sia stata cambiata in profondità, più di quanto pensassimo. Del resto lo avevamo iniziato a dimostrare con gli studi, le mostre e i volumi voluti dall’Isre, dalla Società Umanitaria Cineteca Sarda (con l’Archivio Simon Mossa) e dagli Architetti di Mastros negli ultimi anni, col sostegno della famiglia. Ma sempre con un angolo visuale parziale, che ora diventa globale e davvero lineare e coerente.
La scrittura serrata e la narrativa veloce contribuiscono a creare una tensione, a suscitare un interesse, a preannunciare mille piccole scoperte, innanzi tutto sugli esordi e la passione per il cinema, in parallelo con la grande storia e l’entrata in guerra dell’Italia (10 giugno 1940): la collaborazione a Firenze con il più giovane Fiorenzo Serra (Porto Torres 1921-Sassari 2005) per il documentario “L’Armata grigia” o per “La barca sul fiume”, per il volume di teoria del cinema Praxis und kino prodigiosamente riemerso negli ultimi anni dagli archivi di famiglia e ora ripubblicato da Rubettino a cura di Andrea Mariani. Infine la sceneggiatura per il film vincitore dei Littoriali nazionali di Bologna del 1940, “Vento di terra”, una storia di pesca, di tradimenti e d’amore, ambienta in un porto di una città che assomiglia molto ad Alghero, con le sue fortificazioni spagnole, con le sue tradizioni marinare, col suo corallo, con il suo scoglio all’ingresso della rada; il documentario di guerra in Corsica. Infine l’aiuto alla regia del film “Bengasi”, girato a Roma da Augusto Genina nel 1942, proprio al termine dell’esperienza coloniale italiana in Libia; o del film “La donna del peccato” di Harry Hasso. Un osservatore superficiale potrebbe collocare questa ricca esperienza nel solco della morente cinematografia fascista, ma le cose sono ben più complesse come testimonia la partenza per Holliwood di Viveca Lindfors, moglie del regista tedesco Hasso e la nascita della società di produzione Sardinia Pictures che anche nel titolo avrebbe voluto segnare la svolta verso una cultura nuova, quella statunitense, che ben presto però rischiava di diventare quasi una forma inaccettabile e deteriore di colonialismo imperiale: del resto non ci sarà un seguito, perché questo capitolo cinematografico fu ben presto accantonato; fu la laurea in architettura conseguita a Firenze nel 1941 con una tesi su “Un progetto di villaggio rurale nella zona di Ottava in Sardegna” (sempre pensando a Fertilia e alla storia della pertica della colonia di Cesare Turris Libisonis) ad allontanare definitivamente Simon Mossa dalle sue passioni giovanili e ad aprirgli un mondo nuovo, al fianco – lo scopriamo con questo libro – di un personaggio carismatico come Vico Mossa, che ora ritroviamo a tutto tondo, soprattutto come indagatore della ruralità architettonica della Sardegna, il tema cardine per capire Simon Mossa come Architetto.
Ad ereditare parte di quelle scelte iniziali per il cinema fu l’amico Fiorenzo Serra, che ci ha commosso con il suo capolavoro recentemente riscoperto, il lungometraggio L’ultimo pugno di terra (vincitore ancora a Firenze del Festival dei popoli nel 1966), col tentativo di raccontare la Sardegna con la sua transumanza degli uomini, in parallelo con la transumanza delle pecore: la miseria, il dolore, ma anche la rabbia di chi parte e di chi resta. La cinepresa di Fiorenzo coglie il pianto dei parenti, la sofferenza profonda, il segno di una sconfitta di un popolo intero di fronte alla miseria del dopoguerra. Il corpo del pastore ucciso nelle campagne di Sedilo, vestito d’orbace, con il portafoglio vuoto, le mosche che si accaniscono sul viso, il trasporto della salma dall’ovile, il funerale, la fossa per la bara nera, s’attittidu e il silenzio dei parenti e insieme il pianto della vedova che invita alla vendetta, eco evidente del volume di Antonio Pigliaru del 1959 La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico.
Simon Mossa sognava una Sardegna diversa, esito di eredità lontane come avevano insegnato Emilio Lussu e Camillo Bellieni, ma anche fatta di eleganza, di gusto, di linguaggi plurali, di incontri: quando si ricompone la famiglia Simon ad Alghero inizia una storia nuova che oggi ci consente di dire che egli è stato anche un politico, un poeta, uno scrittore, un ideologo e nei suoi ultimi decenni esponente dell’indipendentismo sardo, all’interno di una visione internazionale, pluralista, aperta a nuovi orizzonti mediterranei, consapevole del valore della diversità di una cultura – quella sarda – che rappresenta una risorsa per il futuro. La collaborazione con “La riscossa”, con “Il solco”, con “La gazzetta sassarese”, con “La Nuova Sardegna”, con Radio Sardegna libera al fianco di Amerigo Gomez, segna l’ingresso su un versante, quello sardista, che però poggia su una scelta ben più ampia: quella a favore di tutti i popoli, in particolare delle minoranze perseguitate del Mediterraneo, da Andorra alla Barcellona antifranchista, dai Baschi spagnoli o francesi ai Bretoni, agli Irlandesi, ai Gallesi, agli Scozzesi, ai Ladini, ai Corsi, ai Sardi, ai Catalani. Sono i popoli giovani, destinati a federarsi e a scrivere il futuro comune, che si ribellano al genocidio culturale, alla distruzione etnica; da qui i contatti con l’ETA, l’Euskadi, il Partito Nazionalista Basco.
Già per Giovanni Lilliu Simon Mossa arrivò ad essere il poeta della nazionalità, uno dei padri dell’autonomia, in un quadro multiculturale, anche se oggi colpisce la totale assenza di contati con la riva sud del Mediterraneo, dove si annidava – secondo Lilliu – quel “Terzo Mondo” che si era lasciato incantare dal <<verbalismo rivoluzionario di Gheddafi in Libia>>, un modo per nascondere <<il volto feudale-petrolifero del paese>>. Ma questa assenza di attenzione per il Magreb arabo è forse solo una bizzarria: il mio Maestro era orgoglioso delle sue origini contadine e leggeva la sua esperienza in continuità ideale con la storia della sua famiglia originaria di Barumini, con generazioni e generazioni di antenati che lo riportavano sempre più indietro, fino agli eroici costruttori del nuraghe: continuità che era innanzi tutto un persistente legame affettivo con gli spazi, con i monumenti, con il territorio, con l’ambiente fisico che contribuiva a costruire un’identità. Il tema dell’identità del resto era centrale, un’identità non fossile, ma aperta al nuovo, non digiuna del moderno, culturalmente e storicamente dinamica. Un tema oggi discusso e frainteso con pedanteria, ma che continua ad avere una sua prepotente vitalità per interpretare il mondo che viviamo.
Simon Mossa politicamente era strettamente legato a quel Pietrino Mastino che con Emilio Lussu e Camillo Bellieni fu il fondatore del Partito Sardo (eppure avrebbe contribuito alla sua espulsione dal partito nel 1967, a Cagliari, al momento della vittoria dell’eresia simoniana e in qualche modo della corrente indipendentista): egli era interessato a riscoprire le origini rivoluzionarie del PSd’Az, il suo carattere di massa, in una prospettiva di stato repubblicano italiano federalista, tendenzialmente proteso verso l’autonomia dell’Isola. Infine la denuncia – davvero incredibilmente precoce – contro l’<<imbroglio della chimica>> a Ottana e nella altre <<case del petrolio>>, nei poli chimici osannati da tutte le altre forze politiche asservite all’industria pesante, in particolare sul Tirso.
Simon Mossa fin dal 1961 era stato premiato al Premio Città di Ozieri e poi era diventato anche in questo campo un protagonista, aveva fatto parte della Giuria del Premio, anticipando la scelta – davvero significativa – che ha determinato la nuova dimensione per il Premio, quella di considerare il catalano (con il turritano, il gallurese, il tabarchino) come una delle lingue della Sardegna. Ma innanzi tutto la lingua sarda, che come aveva scritto Antonio Gramsci a Teresina nel 1927 è una risorsa in più, uno strumento per capire il mondo: << Spero che [Franco] lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispiaceri a questo proposito. È stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente il sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino più lingue, se è possibile. Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti raccomando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro […]>>.
Dunque il sardismo di Simon Mossa, l’amicizia con Michele Columbu, con Giovanni Battista Columbu (ricordo nel 1965 a Bosa il Primo convegno sulla lingua e la cultura della Sardegna), Giovanni Battista Melis (per le elezioni a Porto Torres), Mario Melis, la nascita del Movimento Indipendentista Rivoluzionario Sardo, la visione collettivista e il socialismo progressista nei commenti di Fidel, con un richiamo sorprendente alle politiche antiamericane di Fidel Castro. La consapevolezza del ritardo storico della Sardegna, della sopravvivenza del feudalesimo nelle campagne. L’attenzione delle Questure e dei Servizi Segreti, fino all’incontro con Giangiacomo Feltrinelli sull’Ortobene, per un accordo coi Gruppi d’Azione Partigiana, senza però concessioni alla violenza. Eppure la totale chiusura sulla prospettiva della nascita del Parco Nazionale del Gennargentu, all’indomani di Pratobello, considerata <<una provocazione colonialista>>, denunciata sui murales di Orgosolo, in particolare da Francesco Del Casino.
Giovanni Lilliu ammetteva di aver ricevuto molte suggestioni dall’architetto algherese, come testimoniano gli articoli su La Nuova Sardegna pubblicati nel 1973 sotto il titolo “Su Antonio Simon Mossa, Un ricordo lontano”: due anni dopo la morte dell’architetto, Lilliu presentava un solo ricordo personale, un incontro fugace in Sassari, come “per un incantesimo”, <<nella umbertina piazza d’Italia, allora “salotto” della città “contadina”>>. I due discussero di archeologia nuragica e di colonialismo romano; Simon Mossa sembrò all’archeologo davvero distante dalle passioni fredde e disincantate <<della vecchiaia dei nostri partiti politici>>. Dunque un eroe romantico di un partito giovane; nella concezione che Simon Mossa aveva del suo Partito Sardo c’era una carica di utopia commovente e trascinatrice, una tensione intellettuale di apostolo, che ne faceva una sorta di “nuovo profeta”, verso la nuova “terra promessa” per il Popolo Sardo. Dunque la teoria di un Partito Sardo volontaristico, disinteressato, intransigente. Negli ultimi scritti su Sardegna libera del 1971 Simon Mossa precisa meglio l’intuizione lussiana del carattere universale dell’autonomismo sardista, coinvolgendo idealmente il movimento di riscatto dei Sardi in quello mondiale della liberazione dei popoli oppressi dal colonialismo. In questo modo la rivoluzione sarda per l’indipendenza e l’autodeterminazione avrebbe significato non tanto l’emancipazione economica e sociale di una classe (il proletariato): l’obiettivo era quello di rendere l’intero popolo sardo – pastori e contadini soprattutto – il lievito e lo strumento, oltre che il fine della lotta contro l’oppressione statale. Del resto la tesi di Simon Mossa legava la comunità etnica sarda alle comunità etniche del c.d. terzo mondo europeo. Lilliu comprendeva la collera di Simon Mossa, la sua disperata risoluzione che non restasse altra via che quella della “rivoluzione” e dell’insurrezione armata. Opzione quest’ultima che riteneva pericolosa in un momento come quello che l’Italia stava vivendo negli anni 70, mentre forze politiche di destra <<amoreggiavano per restituire alla Nazione governi forti di blocco d’ordine>>. Da qui l’esigenza di un’azione della Regione verso una modifica della Costituzione per via democratica, con più potere e sovranità alle periferie. In realtà prima di morire Simon Mossa voleva denunciare la morte del popolo sardo, della sua cultura, della sua lingua, del suo patrimonio morale, delle sue stesse caratteristiche fisiche. In questo contrasto finale fondato sulla sincerità, Lilliu proponeva un manifesto di tutti i Sardi per un’alleanza che li portasse ad operare insieme per il rifiorimento della loro piccola nazione.
Simon Mossa coltivava il mito di una Sardegna un tempo bellissima, ricca di prodotti, abitata dalle ninfe e dagli dei del mare come a Capo Caccia e nella Grotta di Nettuno, il finis terrae dell’Occidente sardo: qui l’architetto progettò e realizzò l’Escala del Cabirol coi suoi 654 gradini, proprio in faccia alla grande Barcellona. La compagnia di Simon Mossa era quanto meno composita: la famiglia, la sposa Rina Altea, i figli Italo, Pepita, Annamaria, Juliana, Pietro; la politica, con i difficili rapporti con il Partito Sardo d’Azione del gruppo “Sardegna libera”, il giovane Giampiero Marras; lo studio con gli ingegneri Cordella e Grixoni e Pinuccio Bertolu, col ceramista Giuseppe Silecchia, con Filippo Figari, ripensando L’Alguer, “la città a brandelli” da ricucire prima che esplodesse il turismo di massa, salvando la lingua e la cultura catalana: temi approfonditi con Rafael Catardi, Rafael Sari, Antonella e Mario Salvietti del Centre d’Estudis Algueresos (analogo all’Institut d’Estudis Catalans), un luogo di incontro anche per tanti perseguitati dal Franchismo, fuoriusciti che si vedevano abitualmente a Prada sui Pirenei francesi.
Il viaggio della nave Virginia de Charruca (25 agosto 1960) carica di cittadini catalani provenienti da Valencia, da Barcellona, dalle Baleari, dai Pirenei, dai paesi valenzani, da Perpignan non è stata solo un’opportunità turistica, ma la tappa di una strategia politica che viene esplicitata nella rivista ispirata a quella degli esiliati catalani, “Reinaxença Nova”. E poi i Jocs Florals, la gara poetica di origini trecentesche vietata dal Franchismo, che fu trionfalmente celebrata il 10 settembre 1961 al Teatro Selva di Alghero. Soprattutto l’amicizia con Jordi Pujol i Soley, il sovversivo che Simon Mossa avrebbe tentato di visitare nel carcere del Torrero e poi a Girona (io stesso anni dopo l’avrei conosciuto per un’onorificenza a lui concessa dalla rete dei Rettori delle Università Catalane della quale ho fatto parte).
Da queste premesse si sarebbero sviluppate tante occasioni successive, fino all’adesione dell’Università di Sassari alla Xarxa Vives d’Universitats, alla partecipazione a Prada dell’Universitat Catalana d’Estiu (Vice Rettore Carlo Sechi), all’istituzione di una cattedra di Lingua catalana nella Facoltà di Lettere e Filosofia e alla nascita della Facoltà di Architettura Mediterranea di Alghero orientata al Progetto e voluta da Giovanni Maciocco, Giovanni Lobrano, Silvano Tagliagambe, Raimondo Zucca, Alessandro Maida, oggi Dipartimento di Architettura, Design e Urbanistica, decentrato nella splendida cornice delle fortificazioni medioevali della città catalana di L’Alguer: una città che aderisce alla rete delle città storiche del Mediterraneo. Mi ha sorpreso la controversa conferenza svolta da Simon Mossa a Valencia su “Arquitectos y Arquitectura en Cerdena” nel dicembre 1962: è come se il maestro algherese avesse anticipato di trent’anni i nostri urbanisti della Provincia di Nuoro rispetto al volume su Archeologie e ambiente naturale. Prospettive di cooperazione tra le autonomie locali nel Sud d’Europa, a cura di A. Mastino, Ilisso, Nuoro 1993, con gli articoli sull’urbanistica tradizionale e l’ambiente di Valencia firmati da Gianni Bacchetta e Manuel Costa per la Provincia di Nuoro.
Ci sono dunque tante linee che si incontrano in modo coerente, ma sorprendono i tempi, le anticipazioni, la maturità dello studioso e del politico: tornare a Simon Mossa significa riprendere le battaglie per le lingue minoritarie, per il catalano, una lingua tagliata nel buio della dittatura; ritrovare il desiderio di un rapporto forte col vasto mondo catalano. Come non pensare al nonno di Pasqual Maragall i Mira (laureato ad honorem a Sassari il 5 dicembre 2011), il sensibile poeta Joan Maragall (amico di Jordi Pujol per aver scritto Il canto della bandiera catalana), nell’Oda nova a Barcelona, coi versi che a me sembrano un simbolo dei suoi rapporti con la Sardegna e testimoniano un legame profondo tra le due sponde, Alghero e Barcellona veicolato forse dalle onde del mare:
Oh! detura’t d’un punt! Mira el mar, Barcelona,
com té faixa de blau fins al baix horitzó,
els poblets blanquejant tot al llarg de la costa,
que s’en van plens de sol vorejant la blavor.
Ora occorre fermarsi e guadare il mare, come una cintura d’azzurro all’orizzonte basso, i villaggi imbiancati lungo tutta la costa, in quella parte piena di sole che confina con l’azzurro. Pasqual Maragall avrebbe trasformato in realtà il sogno di suo nonno, avrebbe aperto Barcellona al mare in occasione del nuovo disegno urbanistico per la grande Olimpiade del 1992 nel suo mandato di alcalde. Così vorremmo che sempre più diventasse Alghero e la sua straordinaria passeggiata lungo il porto, una nuova Rambla, là dove la terra finisce e il mare comincia, con il sole che offre incredibili tramonti sul Mare Sardum. Alghero, la Piccola Barcellona, ha anticipato di qualche decennio quello che sarebbe stato il percorso della capitale del mondo catalano: soprattutto grazie all’architettura di Simon Mossa, l’aeroporto di Fertilia, le nuove strutture ricettive, il ristorante La Lepanto l’Ospedale Ortopedico sul mare con Giuseppe Mastrandrea, il castello dei Sant’Elia a Las Tronas e il Palau de Valencia, l’Hotel Calabona ultimo avamposto verso la litoranea per Bosa. E poi il contestato piano urbanistico del 1959, in attesa del Piano Regolatore generale, soprattutto il profetico Piano territoriale Paesistico di Alghero-Fertilia, che ci fa ricordare le coraggiose passeggiate di un altro architetto che l’ha conosciuto, il nostro amico Giovanni Oliva, considerate pericolose da chi dovrebbe difendere il patrimonio ambientale di oggi.
Ma a mio avviso è soprattutto a Nuoro, nel cuore della Barbagia, che Simon Mossa poté sviluppare il suo disegno urbanistico non più modernista ma radicato su una tradizione che l’architetto ha avuto la pazienza di riscoprire: le nostre ricerche nell’archivio del Comune di Nuoro hanno consentito di recuperare la delibera del 1951 e le altre con le quali si indicava poi definitivamente l’area sulla quale sarebbe stato edificato nel 1957 il Museo del Costume, sul colle di Sant’Onofrio, per il quale Simon Mossa esplicitamente dichiara di ispirarsi al Museu de Arts, Industrias y Tradicciones Popular di Barcellona ne “El Poble Espanyol” inaugurato nel 1929 in occasione dell’ Exposición Internacional, con l’intento esplicito di documentare la ricchezza architettonica della Spagna: oltre cento esempi di architettura locale, con un sapore di autenticità ben diverso dal fastoso Museu Nacional d’Art de Catalunya, sul colle di Montjuïc.
A Nuoro la chiesa, le case, le officine, le sale espositive, dovevano essere animate, nelle intenzioni del progettista, dalla presenza di fabbri, artigiani, contadini, tessitrici, vasai: un’utopia, che però ha dato tanti frutti, fino ad arrivare alla legge del 1972 proposta un anno prima da Giovanni Lilliu, Pietrino e Mario Melis, Angelino Rojch, Gonario Gianoglio e Nino Carrus, che istituiva l’Istituto Regionale Superiore Etnografico, durante l’assessorato di Paolo Dettori. Giovanni Lilliu presiedette l’Isre dal 1985. Scrivendone su Il Popolo Sardo di Ariuccio Carta, egli immaginava l’Isre e il nuovo “Museo della vita e delle tradizioni popolari sarde” come il motore della vita sociale e culturale dell’isola, con la missione creare reti e collegamenti tra gli studiosi di scienze umane, per rifare la Sardegna nel segno delle antiche suggestioni e della sua lunga tradizione resistenziale.
Infine i tanti altri luoghi della Sardegna: Sassari (l’Automobil Club, la chiesa San Giovanni Bosco delle Celestine, il Brefotrofio), l’Hotel “Gallura Mirage” a Santa Teresa, l’Abi d’Oru a Porto Rotondo.
I temi recentemente approfonditi nella mostra su Antoni Simon Mossa architetto ”Tra modernità e tradizione” nel centenario della nascita dall’ Associazione Mastros, Segni e progetti per la città mediterranea, con il bellissimo intervento di Andrea Faedda, ci consente di riassumere questi aspetti, pur avendo ormai un’idea chiara degli obiettivi dell’Archittetto in tutta l’isola, dei suoi propositi, dell’avvio tormentato del progetto in Costa Smeralda, ai Monti di Mola, dei rapporti con l’Aga Khan e con il Consorzio Costa Smeralda, delle preoccupazioni per un’architettura importata dall’esterno, sempre alla ricerca di un equilibrio tra arte coloniale e localismo esasperato, appunto tra modernità e tradizione nella nascita di quello che doveva essere a Porto Cervo il progetto di un Borgo Marinaro misurato con le pertiche antiche usate dai fondatori di una città nuova: dunque le dimensioni, le altezze, la vegetazione, ancora la chiesa di Maria Stella Maris, dove avrebbe operato il nostro rimpianto don Raimondo Satta. Già Giovanni Lilliu aveva un poco ironizzato sulle <<favolose architetture “orientali” nella Costa Smeralda volute dal conquistatore ismaelitico>>: lo stesso Vico Mossa guardava con un poco di rincrescimento alla “architettura smeraldina”, col rischio che l’alluvione delle nuove forme rischiasse di far <<risultare stucchevole quanto originariamente è stato originale e gentile>>. Forse Simon Mossa si lasciò convincere dall’amico (autore del bellissimo volume Architettura domestica in Sardegna: contributo per una storia della casa mediterranea. Cagliari, La Zattera, 1957), se è vero che abbandonò l’impresa che l’aveva visto inizialmente protagonista e non si fece pagare il suo lungo lavoro iniziale.
Trent’anni dopo Lilliu avrebbe riconosciuto il ruolo profetico che l’architetto aveva avuto nel cammino dell’autonomia, per l’intelligenza del disegno politico orientato verso l’autogoverno, per la denuncia del fallimento del regionalismo, contro il qualunquismo e la nostalgia centralistica; temi attuali al momento della Riforma della Costituzione del 2001 in senso federale. La Regione, creata come antitesi allo Stato centralistico, si era sdraiata sulla tesi che mirava teoricamente a negare, tanto che si poteva parlare di una “Regione ministeriale”. Era orribile che lo statuto zoppo, moderato, piccolo borghese, fondasse la specialità della Sardegna quasi esclusivamente sul fattore economico, orientandosi verso l’integrazione e non verso la diversità, non riconoscendo la peculiarità etnica, culturale, storica, politica e territoriale di un popolo distinto, risorto a nazione. Lilliu a posteriori poteva constatare che <<non se ne fece nulla>> della proposta di una Assemblea costituente che approvasse un nuovo statuto, anzi la questione entrò in un lungo sonno dal quale ancora non è riemersa. Oggi anche il pessimismo di Lilliu è superato e possiamo davvero raccogliere le riflessioni svolte a Nuoro al Museo del Costume tra maggio e ottobre 2017 (ora negli Atti curati da Antonello Nasone) con gli interventi di Giuseppe Pirisi, Andrea Soddu, Paolo Serra, Antonio Giua, Riccardo Campanelli, Alessandro Doneddu, Simone Ligas, Joseph Pintus, Andrea Mariani, Eugenio Berretta, Andrea Fadda, Rosa Manca, Federica Pau, Pisana Posocco, Battista Giordano, Pepita Simon. Uno sguardo incrociato e davvero sorprendente, che ora con questo volume viene presentato splendidamente e che dovrà esser tenuto presente da chi intende capire la Sardegna di oggi, senza la fretta e la superficialità ai quali siamo ormai abitati.