La Sardegna nel mondo romano fino a Costantino, di Attilio Mastino, vol. I-III, Cagliari 2023.
Premessa
Questo lavoro vuole ribaltare o almeno tentare di ribaltare la prospettiva di interpretazione della storia della Sardegna nel mondo romano, la sua stessa narrazione, innanzi tutto ispirandosi a un grande maestro, Arnold Toynbee, e al suo capolavoro, Hannibal’s Legacy, pubblicato oltre 50 anni fa: nei giorni nei quali Annibale nasceva a Cartagine (nel 247 a.C.) la grande isola mediterranea da secoli era frequentata dai Cartaginesi. Il padre Amilcare dal santuario di Astarte nella città di Erice (Trapani), sulla punta occidentale della Sicilia, il 10 marzo 241 a.C. aveva osservato con orrore la flotta da guerra romana armata di rostri metallici tendere un agguato a tradimento contro le navi cartaginesi (armate allo stesso modo), nascondendosi dietro le isole Egadi (Levanzo). Ne seguì una disastrosa sconfitta navale che portò alla perdita della Sicilia, e, tre anni dopo, a seguito della rivolta dei mercenari, anche della Sardegna. I Romani sottrassero quest’ultima – almeno stando a Polibio – con l’inganno e con giustificazioni inaccettabili: occuparono un’isola vasta, popolosa e fertile, senza esser stati provocati, molti mesi dopo il trattato che chiudeva la prima guerra punica: questa sarebbe stata la causa principale della guerra annibalica, dopo la proditoria occupazione delle città, delle terre, delle miniere da parte dei mercenari per conto dei Romani. Esasperato e impoverito anche personalmente, Amilcare costrinse il figlio a giurare odio eterno verso Roma, forse nel santuario sul colle di Baal Ammone-Saturno (sul Djebel Bou Kornine) o nel tofet di Cartagine. Privato dell’“Isola dalle vene d’argento”, persi i suoi latifondi e le sue miniere, Amilcare decise di fondare una Nuova Cartagine a bocca di miniera in Spagna (Cartagena). Da qui Annibale sarebbe partito per vendicare il padre e i Cartaginesi: occupata Sagunto, invaso il territorio di Marsiglia, superate le Alpi, egli raggiunse l’Italia centrale e meridionale, destinata a essere travolta da una lunghissima guerra. La sua vera eredità furono le devastazioni e la povertà diffusa dei secoli successivi in Italia che avrebbero provocato la vicenda dei Gracchi e poi le guerre civili.
Lo sfortunato alleato di Annibale nel Bellum Sardum fu Hampsicora: a partire da questo momento le mille eredità culturali, linguistiche, istituzionali, giuridiche, economiche paleosarde e cartaginesi in Sardegna contribuirono a provocare la terribile ostilità dei Romani, le distruzioni, l’abbattimento di intere foreste, le uccisioni, la cattura di tanti Sardi, tra i quali in molti casi erano sopravvissute le strutture della società e della cultura locale, preistorica, nuragica, fenicia, villanoviana, etrusca: una cultura che non era analfabeta e anzi vantava una complessità e una dignità assolutamente non riconosciute, che andava ben al di là della sola esperienza punica.
Gli studiosi sono arrivati a parlare di un generale spopolamento e di una vera e propria “depressione demografica” in alcune aree dell’isola desertificate dagli eserciti decisi a stroncare il legame che continuava a unire i Sardi tra loro e con Cartagine: dunque la riorganizzazione amministrativa (giuridica e dei confini tra città e popoli), l’acculturazione coatta dei principes locali, per passare poi al conseguente sfruttamento delle risorse e alle profonde trasformazioni ambientali e culturali. Lo sguardo degli studiosi è diventato oggi più penetrante e problematico, in rapporto ai tanti scavi archeologici come quelli effettuati in particolare nelle città di Nora, di Sulci, di Olbia e Turris Libisonis, ma anche nelle aree rurali, come a Marrubiu, Mesumundu o Rebeccu, con attenzione per gli edifici pubblici, le strutture per gli spettacoli, il benessere, il tempo libero.
Trasformati in stipendiarii, i Sardi vennero profondamente umiliati e obbligati al pagamento dello stipendium per mantenere loro stessi le truppe romane di occupazione; migliaia furono i Sardi presi prigionieri, venduti come schiavi, addirittura uccisi. Se si esclude l’antica colonia romana di Feronia, alla foce del Rio Posada, che datiamo all’inizio del IV secolo a.C., solo dopo la distruzione della metropoli africana (146 a.C.) molti territori isolani furono colonizzati e occupati da soldati o famiglie arrivati dalla Campania (i Patulcenses), dalla Magna Grecia (gli Euthichiani), dalla Sicilia (i Siculenses), dalla Corsica (i Corsi), dall’Etruria (i Falisci), poi dall’Apulia (i sodales Buduntini), dalla Cirenaica (i Beronicenses) e dall’Africa (i Mauri): gli agri, i praedia, persino i metalla furono allora accatastati e assegnati a coloni giunti dall’esterno, con puntualissime registrazioni archivistiche nei tabularia, nei catasti locali e centrali. Nacquero nuovi centri abitati, come Valentia voluta dal console del 115 a.C. Metello, che dopo Augusto divenne sede di una delle prefetture della colonia di Uselis. Un’ampia parte del territorio diventava ager publicus populi Romani; successivamente conosciamo molti latifondi imperiali, appartenenti allla res privata o al patrimonium; ulteriori rendite andavano all’aerarium del Senato o al fiscus imperiale.
Con la “seconda occupazione romana della Sardegna” (Marc Mayer) avvenuta in seguito alle grandi campagne militari affidate ai consoli e ai proconsoli del II secolo a.C., la Sardegna iniziò lentamente a entrare, anche culturalmente, nella sfera romana: ancora Cicerone escludeva nel 54 a.C. (nella Pro Scauro) che ci fossero nell’isola municipi o colonie romane, città amiche del popolo romano e libere, non soggette al potere militare, e parlava di un’unica natio Sarda, che vedeva insieme riuniti popoli diversi ma ben identificabili sulla base dell’aspetto fisico, dell’abbigliamento, della carnagione, della lingua, dei progetti politici, delle tradizioni culturali dei Sardi Pelliti, dei Fenici e dei Cartaginesi; l’Arpinate volutamente ometteva la colonia fondata dai populares in Corsica (Mariana) e quella avversa voluta da Silla di Aleria “Veneria”, all’interno della stessa provincia.
Eppure proprio Cicerone conferma che era sopravvissuto un nucleo innanzi tutto culturale che era stato capace non solo di assorbire le culture esterne, ma anche di trasformare gli immigrati italici, assimilandoli ai nativi, dando alla cultura sarda in età romana un carattere unico e distinto nel Mediterraneo. Del resto l’isola collocata nel mondo romano non fece mai parte dell’Italia, ma costituì una provincia collocata al di là di un grande mare, amministrata da magistrati, promagistrati o altri tipi di governatori (pretori, consoli, proconsoli e funzionari dotati di comando militare, talora solo alti funzionari civili): mantenne così una sua “specialità” che è possibile leggere in filigrana attraverso i secoli, perché il governo romano non sempre si sovrappose alle autonomie locali precedenti, che in molti casi sopravvissero “a macchia di leopardo”, con ampie aree rurali abbandonate dal potere provinciale.
Furono i populares, in particolare Cesare e poi Augusto, ad avviare un processo di “romanizzazione” che non oscurò mai completamente la cultura locale, ma che divenne inarrestabile, soprattutto attraverso l’assegnazione di terre fertili e la deduzione di colonie e la promozione istituzionale dei municipi; si afferma ora un nuovo immaginario, perché l’isola felice (eudàimon) gode di una mitica eukarpìa ed è abitata dalle Ninfe del mare e della terra (come nel Numphàion limén e nelle sorgenti calde o sui fiumi), priva di serpenti, di lupi e di animali pericolosi, libera dalle erbe velenose, grazie alla protezione di Diana e Silvano, gli dei oscuri della selva montana sui Montes Insani; sulla costa il nome di Olbìa testimonia che già i marinai greci guardavano all’isola come ad una terra felice. I popoli che la abitavano secondo Diodoro Siculo ancora nell’età di Cesare erano liberi, perché la libertà è prerogativa dei popoli isolani. Assistiamo all’estendersi del latifondo di grandi famiglie senatorie (i Domitii ad Olbia, i Bennii e gli Herennii a Carales, molti altri clarissimi che conosciamo dall’instrumentum e dai sarcofagi) e poi del latifondo imperiale; si arriva però a una qualche stabilità nell’età degli Antonini e dei Severi, che portò a un’integrazione dei Sardi nella “romanità”, alla diffusione della cultura scritta, all’accesso alla tradizione letteraria classica come testimoniano molti eleganti carmina o i documenti artistici, al riconoscimento del ruolo della donna, sibi sufficie(n)s, con profondi cambiamenti nel gusto artistico, il che significa innanzi tutto un orizzonte davvero multiculturale e di sviluppo, pur mantenendo i Sardi una loro specifica identità e un’amministrazione autonoma per vasti distretti. L’idealizzazione della fase romana della storia della Sardegna andrebbe però evitata, se non altro per l’esaltazione che in passato, ma ancora ai nostri giorni, si è dedicata a questo periodo, ricco certamente di novità e di luci, aperto su un orizzonte mediterraneo, ma anche caratterizzato da ombre e da gravissime ingiustizie sociali, dalla presenza della schiavitù che sopravvisse in forme diverse per un millennio, dalla ingiusta distribuzione della ricchezza, dall’esaltazione dell’imperialismo, del militarismo, del potere.
Solide ragioni editoriali ci obbligano a fermarci a Costantino: è una scelta da un punto di vista storico non giustificata, perché la lunga fase romana della storia della Sardegna non si interrompe con Costantino e abbraccia quasi otto secoli, estendendosi pienamente in quella che chiamiamo “l’età bizantina”, esito della fondazione Costantiniana della Seconda Roma: un periodo lunghissimo, ricco di avvenimenti, pieno dicontraddizioni e di fermenti culturali promananti dal centro verso la periferia, ma anche dalla periferia verso la capitale. Si tratta di un processo che ha fortemente condizionato le fasi successive della storia sarda, a partire dall’età giudicale, se i Giudici furono davvero «gli ultimi discendenti istituzionali dell’antico governatore romano della provincia imperiale». Del resto il rapporto con Costantinopoli non si interruppe mai e, secoli dopo la caduta dell’impero d’oriente (1453), gli ultimi Romani sarebbero finiti paradossalmente proprio in Sardegna.
Anche l’identità plurale della Sardegna di oggi è in fondo influenzata dalle eredità più antiche, in particolare dalle eredità romane, espressione di una storia lunga che in qualche modo condiziona anche la società contemporanea. La lingua sarda innanzitutto, derivata direttamente dal latino volgare, con questo particolare carattere conservativo nel centro montano: lingua che è oggi una risorsa irrinunciabile e un simbolo della profondità della storia e della capacità di elaborazione anche poetica e musicale delle comunità locali. Oggi diamo per acquisto un radicamento territoriale di una lingua sarda che mantiene una freschezza e una capacità espressiva innanzi tutto in rapporto con un luogo, con una geografia, con un ambiente naturale e umano; abbiamo raggiunto il senso profondo di una ricchezza che deve essere difesa e coltivata nel rispetto di una storia lunga dove la lingua sarda è anche pensiero, riflessione, strumento per intendere la realtà, per entrare in comunicazione profonda con gli altri. E poi la toponomastica, ma anche la geografia, i percorsi della viabilità in rapporto ai corsi d’acqua, il paesaggio agrario trasformato dall’uomo, il forte legame delle popolazioni locali con il territorio e con lo spazio rurale, i confini naturali e quelli delle prime diocesi tardo-antiche, le attuali circoscrizioni provinciali, comunali, le bonifiche delle aree palustri, alcune forme dell’insediamento, le vocazioni stesse del territorio, le colture agricole, l’allevamento con le sue specifiche competenze e le sue tradizioni millenarie, ma anche le attività minerarie, la pesca, la raccolta del corallo, per non parlare di alcune consuetudini giuridiche e di alcune tradizioni popolari che si collocano in una linea di continuità con il passato, la magia, la medicina popolare, la religione, la misura del tempo, che qui scorre più lentamente. Frutto insieme della civiltà dei Sardi nelle sue articolazioni cantonali e dell’incontro con Roma in un ambiente e in un paesaggio dato, che aveva caratteristiche esotiche e una diversità davvero spettacolare. Oggi abbiamo una sensibilità nuova verso l’ambiente naturale, che doveva essere caratterizzato da un equilibrio tra la linea di costa e gli spazi urbanizzati e dalla presenza di vaste zone boschive come il Nemus Sorabense (a Fonni) dove si praticava il culto di Silvano e Diana, si riconoscevano le qualità delle erbe e si sviluppava un’economia del bosco; oppure presso il tempio del Sardus Pater, vero genius loci della vallata di Antas. E cogliamo con immediatezza l’eleganza, la qualità dell’artigianato artistico, la connessione con altri centri di produzione e di commercio. Infine, il paesaggio di ieri e di oggi, che il codice dei beni culturali ha definito come <<il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni>>. Non senza uno sguardo critico verso le nuove forme che accompagnano ai nostri tempi il cambiamento climatico, come i frettolosi investimenti in aree fotovoltaiche e in aereogeneratori di energia, spesso scavalcando tutti gli strumenti di tutela del patrimonio, in passato minacciato dalle servitù militari, dall’urbanizzazione incontrollata anche nella fascia costiera, da processi di tutela dei beni culturali farraginosi e inefficaci: un patrimonio fragile che richiede buone pratiche, attenzione e cautela.
Il nostro sforzo in questa sede sarà quello di seguire anche dal punto di vista materiale le continuità ereditate dal periodo preistorico e protostorico, in particolare dall’età che ha accompagnato e seguito la costruzione dei nuraghi: eredità che attraversano l’età romana (pensiamo all’onomastica che talora riemerge nel medioevo, ma il discorso tocca anche la cultura architettonica sarda che mantiene una sua vitalità legata alla tradizione punica e alla ricezione di modelli italici) e che in qualche modo sono state più volte ri-orientate nel tempo in una terra mari cincta. Diversamente in Corsica, almeno secondo Seneca,risentito per la condanna all’esilio decretata da Caligola, per il quale troppe volte è cambiata la popolazione di questo scoglio arido e tutto sterpi (totiens huius aridi et spinosi saxi mutatus est populus!); non senza attrattive però, visto che era attraversata da ruscelli ricchi di pesci (Corsica piscosis pervia fluminibus).
Siamo convinti che le forme dell’insediamento e dell’economia di età medievale si siano radicate in Sardegna su un sostrato molto più antico, la cui matrice più strutturata appare certamente legata alla tradizione romana del territorio, che aveva portato a maturità stimoli differenti; i riferimenti alle consuetudini e alle antiche leggi del diritto romano in età medioevale appaiono evidenti nell’ambito del sistema agrario e dell’uso delle terre, in particolare delle terre pubbliche: i giudici rendevano giustizia ai genovesi secundum leges romanas et bonos usoscon esplicito riferimento dunque al diritto romano; lo svolgimento del conventus-sinodos in date significative in età giudicale sembra proseguire una pratica giudiziaria di età romana e bizantina attorno al governatore provinciale che si esprimeva pubblicamente in varie sedi del territorio, dopo aver sentito il suo consilium.
L’esperienza romanistica era ancora pienamente vitale nell’isola in età giudicale: del resto già Arrigo Solmi riteneva che si siano mantenute intatte molte forme del diritto romano, una «bella tradizione latina» ereditata da una costituzione sociale meno complessa, rimasta per alcuni secoli quasi isolata, ma fedele alle sue tradizioni e alla sua origine; su questo tema straordinari risultati sono stati raggiunti dai romanisti. Come la lingua sarda è figlia della lingua latina, così anche il diritto giudicale appariva al Solmi una filiazione diretta del diritto romano classico. Colpisce il fatto che il termine republica dessa p(rese)nte citate, per quanto ricorra occasionalmente, mantenga negli Statuti Sassaresi un prezioso riferimento diretto alla cassa cittadina, proprio come nella colonia di Turris Libisonis in età imperiale: la ritroviamo, ad esempio nell’iscrizione del tempio della Fortuna e del rifacimento del tribunale all’interno della basilica giudiziaria (risalente forse ad età repubblicana) per le spese effettuate in occasione delle celebrazioni millenarie di Roma.
Le eredità del diritto romano nella Carta De Logu di Eleonora d’Arborea sono state recentemente studiate da Francesco Sini e dalla sua scuola che hanno indicato alcuni precisi riferimenti testuali nel codice arborense che lasciano intravedere l’evidente derivazione romanistica e ancor più richiamano forme e contenuti del diritto romano, come a proposito della non punibilità dell’omicidio commesso a scopo di legittima difesa. Anche in materia processuale, in relazione ai tempi ed alle modalità dell’appello, la Carta de Logu aderisce strettamente alla legislazione tardo-antica de appellationibus di una novella giustinianea del 536. Altri rinvii impliciti al diritto romano, considerato come vigente a tutti gli effetti, potrebbero essere individuati nelle norme a proposito della successione ereditaria e più precisamente nei 14 modi attraverso i quali può essere ammessa la pratica di diseredare un erede legittimo: elementi che, pur non presenti nella Carta de Logu, sono comunque elencati esattamente negli Statuti sassaresi.
Ciò non significa affatto che la Sardegna sia rimasta sempre uguale a se stessa: periferica da un punto di vista culturale ma collocata geograficamente al centro dell’impero, l’isola fu in età romana il grande ponte attraverso il quale passarono innovazioni e rivoluzioni culturali originatesi sulle diverse rive del Mediterraneo, così come in Corsica, dove Seneca lamenta – esagerando non poco – l’arrivo successivo di Greci, di Marsigliesi, di Celti, di Liguri, di Ispani, tanto da azzerare la popolazione locale. Da questi scambi, più intensi e vivaci di quanto non si pensi, alimentati dagli spostamenti degli isolani in altre province e dai tradizionali legami con l’Africa, anche la Sardegna fu arricchita immensamente, partecipando essa stessa alla costruzione di una nuova cultura unitaria, ma mantenendo anche nei secoli una sua visibile specificità.
Tenteremo allora di esplorare il confine tra “romanizzazione” e continuità culturale (tra Change e Continuity) secondo il modello di Robert Rowland, notevolmente rettificato da Peter van Dommelen che valorizza sul versante opposto alla “romanizzazione” la persistenza punica in alcune realtà della Sardegna repubblicana. Del resto dobbiamo tener conto del recente dibattito sul tema della “romanizzazione” che spesso è apparso eccessivo e fuorviante, arrivando al limite di negare persino l’evidenza: è forse il momento di poter considerare dati acquisiti la complessità degli scambi culturali, dando per scontata <<l’assenza di culture “pure”, la continuità e l’originalità delle culture locali anche dopo la conquista romana, le diverse specificità del mondo provinciale, delle realtà nazionali, etniche, periferiche>>. È arrivato il tempo di superare la facile tentazione di adottare categorie interpretative astratte e di definire impossibili soluzioni unitarie, con modelli ideologici artificiosi che non sempre rendono conto della complessità delle questioni in campo.
Sappiamo bene che i temi della “resistenza alla romanizzazione”, delle “sopravvivenze puniche” e delle “persistenze indigene” erano stati parzialmente corretti da Marcel Benabou (proprio il teorico della “resistenza alla romanizzazione”) già nella presentazione al VII volume de L’Africa romana, perché si tratta di «un sujet qui n’était peut-etre pas sans risques», con il dovere di andare progressivamente verso «l’élargissement et l’approfondissement», sul piano geografico, cronologico, tematico e metodologico; vengono oggi discussi anche gli strumenti interpretativi legati al grado di “romanizzazione” o al rapporto tra “continuità” e “trasformazioni”, tutte categorie che comunque consentono di enucleare specificità nel tempo e nello spazio.
Siamo disposti ad affrontare i rischi legati alla lente deformante dell’interpretazione dell’antico con l’utilizzo di modelli recenti, anche se dovremmo sempre diffidare di alcuni modelli ideologici e di alcune categorie astratte in passato molto di moda e sarebbe necessario usare la massima prudenza per interpretare il mondo romano con gli occhi di oggi: del resto non possiamo fare altrimenti, anche se appare evidente la necessità di evitare semplificazioni che non tengano conto della diversità delle situazioni locali; e la diversità culturale è fonte di valore, senza la quale si privano «le persone e le comunità locali di preziose fonti di significato, identità, conoscenza, benefici economici», che hanno a che fare coi diritti umani e la coesione sociale.
Marco Tangheroni chiedeva più rispetto per la complessità della storia senza rinunciare a stabilire connessioni, a mettere ordine, a proporre linee di riorganizzazione del passato, per comprendere e spiegare: fondamentale è il concetto che l’inquietudine sul proprio mestiere debba accompagnare sempre gli storici che non vogliono travisare quella realtà che è oggetto dei loro studi.
Dunque cosa conosciamo, come conosciamo, quali sono i limiti della nostra conoscenza, quali ne sono le fonti, elementi tutti che danno al mestiere dello storico un carattere artigianale e addirittura artistico e che rendono fondamentale la fase di apprendistato nella quale i maestri debbono seguire i loro allievi. Occorre ancorarsi fortemente a un periodo storico, a una realtà geografica; per capire occorre cercare strade nuove e i tempi appaiono maturi per considerare ora l’archeologia come strumento fondamentale per comprendere l’antico, con la sua autonomia dalle fonti letterarie, dalle iscrizioni che ci hanno conservato le scritture antiche, spesso incatenate sulla roccia come nel terminus rupestre dei Balari tra Monti e Bechidda, oppure dalla numismatica: gli ultimi studi, le nuove metodologie adottate, le ultime grandi imprese scientifiche nelle città romane (soprattutto Nora, Carales, Sulci, Neapolis, Tharros, Cornus, Turris Libisonis, Olbia) e in tante aree interne di pianura e di montagna consentono oggi di ribaltare molti luoghi comuni sul patrimonio e di penetrare e comprendere molti passaggi, di seguire nel tempo vicende storiche che abbracciano almeno otto secoli, anche se in questa sede ci fermiamo alla pace religiosa, quando davvero nulla cambia. Marco Tangheroni suggeriva allora un metodo, quello dei suoi minatori medioevali di Iglesias: quando un filone perdeva un po’ d’interesse, apriva un nuovo scavo. In questi ultimi decenni gli storici si sono incontrati con gli archeologi su un terreno comune, quello dello scavo stratigrafico di aree territoriali, di monumenti, ma anche di fonti, di iscrizioni, di monete, dei prodotti della cultura materiale, partendo dal valore dei beni culturali e della difesa dei beni comuni, con uno sguardo sempre più interdisciplinare che deve confrontarsi con la sostenibilità degli interventi in rapporto alrispetto per l’ambiente. Anche in questo volume si presentano le nuove interpretazioni e le intuizioni di una generazione nuova di archeologi che sono anche storici, epigrafisti, numismatici, giuristi, che vediamo all’opera a Cagliari e a Sassari con grandissima speranza, perfino con qualche sorpresa.
E poi la genetica con lo studio del genoma, che raggiunge anno dopo anno risultati sorprendenti dalla Gallura ai Campidani (soprattutto per l’età preistorica), testimonianza evidente dell’arrivo di nuove componenti etniche, ma anche di una sostanziale omogeneità di fondo della popolazione sarda di oggi (particolarmente evidente in Barbagia e Ogliastra), pesata sulla base del cromosoma Y e del DNA mitocondriale; il che forse dimostra inoltre una qualche irrilevanza delle forme istituzionali, statuali, giuridiche di fronte alla vita di tutti i giorni di Sardi (vecchi e nuovi) resilienti e radicati in periferie lontane, legati alla terra, attenti a mantenere quasi immutabile e sempre uguale una cultura e un modo di essere tradizionale, radicato nella storia locale. Ovviamente con continuità ma anche con mille momenti di rottura dal neolitico all’età dei Vandali, che cogliamo attraverso i nuovi apporti genetici, segnale di mescolanza e di incontro.
Infine le nuove prospettive che, con uno sguardo rigoroso che vuole davvero decolonizzare gli studi classici ma anche evitare ogni forma di vittimismo e ogni enfasi nostalgica, si affermano in molte Università e Istituti di ricerca, partendo dai modelli nord-africani più resilienti e più legati alla fase post-coloniale, con specifica attenzione per nuovi approcci socio-culturali e patrimoniali sull’essere “autoctoni” o “diventare autoctoni” riferiti alla capacità della geografia di assorbire anche i Romani: termini che, nella loro ambizione essenzializzante, potrebbero forse far inorridire gli antropologi.
Se possiamo usare una formula di sintesi, noi riteniamo che la complessità sia un valore perché esistono variabili geografiche e cronologiche nel momento in cui culture diverse entrano in contatto: ciò a maggior ragione in un’isola, caratterizzata da una ambivalenza di base, ‘punto di passaggio’ lungo le rotte mediterranee, ma anche ‘luogo remoto’ e ‘isolato’: esse, in quanto tali, possono trasformarsi in luogo utopico. Occorre allora evitare di perdere la concretezza e di piegare il dato scientifico a schemi ideologici, riconoscendo la complessità e facendone una leva per leggere la realtà, al di là di facili periodizzazioni di comodo, partendo dalle scritture antiche spesso incatenate al paesaggio, dai monumenti, dalle testimonianze materiali, anche superando il pregiudizio di una antistorica continuità in una realtà liquida: la grande dimensione dell’impero esteso progressivamente su tutto il Mediterraneo, l’articolazione territoriale, i processi biologici, l’evoluzione delle culture e della vita religiosa con questi dei perennemente in viaggio, la presenza di aree marginali hanno avuto influenza sui linguaggi artistici, sulle scuole artigianali, sulle varianti linguistiche, addirittura sulla percezione del tempo che non dappertutto si misura allo stesso modo, nel rapporto tra otium e negotium nelle diverse geografie anche interne alla provincia, influenzate meno profondamente dai modelli italici, iberici, celtici, africani; insieme capaci di accoglienza e di protagonismo. Il mondo che viviamo è l’esito di questa complessità, nel senso che la storia ha un valore solo se riesce a costruire strumenti che ci consentano di operare efficacemente nel presente, partendo dal rispetto per tutti, dalla dignità di ciascuno, guardando sempre verso orizzonti più larghi.
Debbo davvero ringraziare i miei colleghi e amici che sono stati molto generosi con me: Piergiorgio Floris che ha riletto il testo fornendomi puntuali indicazioni; Paola Ruggeri che ha seguito il lavoro per il capitolo sui culti; Raimondo Zucca sempre tanto disponibile e creativo, che mi aiutato sulle città; Giovanni Azzena, Massimo Casagrande, Maria Bastiana Cocco, Alberto Gavini, Michele Guirguis, Vanna Meloni, Pier Giorgio Spanu, Luana Toniolo, Francesco Muscolino. Per le fotografie sono debitore a Nicola Castangia e alla Regione Autonoma della Sardegna. Come di consueto molte cose sono diventate più chiare dopo le discussioni col tecnico di sempre Salvatore Ganga. E poi Antonio M. Corda Direttore di Unicapress e Editore della Collana, Paolo Maninchedda, Direttore della Collana, l’intera redazione che mi ha incoraggiato anche nei momenti più difficili, facendomi sentire tra amici. Infine la Fondazione di Sardegna e la Cooperativa Sociale San Camillo de Lellis di Sassari. Ma dietro questo libro c’è però l’appassionato lavoro sul campo di tanti colleghi impegnati coraggiosamente in grandi imprese sempre più internazionali, con uno sguardo largo e un orizzonte finalmente aperto: a loro siamo debitori di tante scoperte, di tante intuizioni, di tanti confronti all’interno dell’ecuméne romana.